Lo scoppio delle recenti guerre, la circolazione di informazioni e la messa in onda di immagini cruente che le riguardano hanno riportato a galla nel nostro Paese un vecchio problema, mai risolto ma poco discusso (se non quando in uno stesso scenario convivono insieme bambini e violenza): quello della farraginosità delle adozioni. Il 31 ottobre l’agenzia delle Nazioni Unite UNRWA ha dichiarato che in appena 23 giorni le bombe israeliane hanno ucciso a Gaza 3.457 tra bambini e bambine. Significa che in tre settimane i minori palestinesi ammazzati dal conflitto sono stati più di quelli che muoiono in un anno intero in tutti i conflitti militari attivi nel resto del mondo – nel 2022 sono stati in totale 2.985. Dall’inizio della guerra in Ucraina sono 545 i minori spazzati via dalle armi (dati agosto 2023) e in Sudan, dove la guerriglia continua incessante dal 2020, sono almeno 2.850 i bambini (numeri parziali) che hanno perso la vita per le conseguenze dirette e indirette del conflitto. Catastrofi che spingono molte persone a chiedersi in che modo – e se – si possa contribuire alla fine del massacro. Alcune di loro pensano all’accoglienza, manifestano il desiderio di adottare nell’immediato bambine e bambini in difficoltà, privati dei diritti che la Convenzione ONU sull’infanzia gli riconosce: la vita, l’istruzione, lo sviluppo in tutte le sue forme e la protezione.
Va chiarita subito una cosa: in situazioni in cui il conflitto o altri gravi avvenimenti (calamità naturali) sono nel pieno del loro svolgimento – come nel caso di Gaza -, accade piuttosto spesso che le procedure di adozione vengano sospese – e di conseguenza non se ne aprano di nuove. In certi contesti e in condizioni decisamente complicate, nonostante gli orfani siano migliaia, è difficile espletare a dovere tutte le procedure, e accertare per esempio che un bambino sia effettivamente adottabile – cioè che sia stato appurato il suo stato di abbandono, che sia fallito il tentativo di trovare una famiglia adottiva nel suo stesso paese e che lui e i ‘nuovi’ parenti siano stati preparati psicologicamente. Inoltre le associazioni locali che operano in collaborazione con quelle internazionali potrebbero trovarsi in zone di lotta, senza la possibilità di consultare registri e documenti (magari distrutti dai bombardamenti).
La guerra però a volte è solo la punta di una montagna nascosta: scoppia in zone già ‘calde’ e in crisi, in cui la vita di un minore è martoriata dalla mancanza di acqua e cibo, malattie, catastrofi naturali, povertà, disuguaglianza, faide interne, impossibilità di studiare o potersi lavare con acqua non infetta, e la presenza asfissiante (e costante nel tempo) sul proprio territorio di un Paese oppressore. Territori dunque senza bombe né conflitti in corso ma da cui alcuni bambini e bambine avrebbero comunque bisogno di scappare: neppure in questi casi, però, le famiglie riescono sempre ad esaudire il desiderio di accoglienza.
Accade anche agli italiani, a lungo fra i più disponibili ad adottare: chi vorrebbe prendersi cura di minori in difficoltà rimane infatti spesso incastrato in requisiti di legge stringenti, costi esorbitanti e un lungo iter burocratico (che dura in media 4 anni). Tutti elementi che scoraggiano le coppie ancor prima dell’avvio delle pratiche.

L’iter di adozione
Esistono due tipi di procedure, che differiscono nella modalità: quella per l’adozione nazionale e quella per la pratica internazionale.
La prima prende il via quando una coppia avanza una dichiarazione di disponibilità all’adozione al Tribunale per i Minorenni presso cui intende procedere. La domanda, corredata dei documenti che consentono di confermare il possesso dei requisiti richiesti – ne parleremo a breve – ai possibili futuri genitori, ha validità tre anni (e allo scadere del termine può essere rinnovata ripresentando la documentazione). Una volta ricevute le pratiche, il Tribunale dispone l’esecuzione di indagini volte a esaminare la famiglia richiedente, così da valutare la sua capacità di educare il minore, la situazione personale ed economica, la salute, l’ambiente in casa e i motivi della domanda. Tali accertamenti – che dovranno essere avviati e conclusi entro 120 giorni, prorogabili per non più di una volta – possono essere effettuati in diversi modi (l’ordinamento dà libertà di organizzazione ai singoli tribunali): ricorrendo ai servizi socio-assistenziali degli enti locali o alle competenti professionalità delle aziende sanitarie locali e ospedaliere. Se giudicati idonei, i possibili futuri genitori saranno inseriti in una graduatoria di attesa – dopo cui, se pescati, prima di arrivare all’adozione vera e propria dovranno affrontare ancora un anno (revocabile in qualsiasi momento) di affidamento preadottivo, con possibilità di proroga di altri 12 mesi.
La procedura internazionale – che prevede l’adozione di un bambino straniero fatta nel suo paese, davanti alle autorità e alle leggi che vi operano – è invece più complessa e prevede l’intermediazione di alcune agenzie autorizzate, che si mettono in contatto con i Paesi di provenienza del minore straniero.
Le persone residenti in Italia, in possesso dei requisiti richiesti e intenzionate all’adozione di un bambino di diversa nazionalità, residente all’estero, devono presentare, come nel caso precedente, una dichiarazione di disponibilità all’adozione internazionale al tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza, che deve riconoscere la loro idoneità. Anche in questo caso, l’iter vero e proprio inizia con un’indagine condotta dai servizi degli Enti locali sulle famiglie che fanno richiesta. I primi, al termine delle ricerche, scrivono una relazione da inviare al tribunale che, a sua volta, convoca i coniugi comunicando loro l’idoneità o l’insussistenza dei requisiti all’adozione (e può, se lo ritiene opportuno, disporre ulteriori approfondimenti).
La coppia in possesso del decreto di idoneità deve iniziare entro un anno dal suo rilascio la procedura di adozione internazionale, rivolgendosi (obbligatoriamente) ad uno degli enti autorizzati dalla Commissione per le adozioni internazionali – consultabili sul suo sito – incaricato di seguire tutte le fasi e le pratiche necessarie.
L’ente autorizzato trasmette tutta la documentazione del bambino, insieme al provvedimento del giudice straniero, alla Commissione per le adozioni internazionali in Italia. È quest’ultima che autorizza l’ingresso del minore adottato in Italia e la sua permanenza, dopo aver certificato che l’adozione sia conforme alle disposizioni della Convenzione de L’Aja. Dopo che il bambino è entrato in Italia, e sia trascorso l’eventuale periodo di affidamento preadottivo, la procedura si conclude con l’ordine, da parte del tribunale per i minorenni, di trascrizione del provvedimento di adozione nei registri dello stato civile.
Chi può adottare? E chi può essere adottato?
I requisiti necessari per l’adozione sono uguali in entrambe le procedure, e sono previsti dall’art. 6 della legge 184/83 (come modificata dalla legge 149/2001), che prima di tutto dice: “L’adozione è permessa ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni, o che raggiungano tale periodo sommando alla durata del matrimonio il periodo di convivenza prematrimoniale, e tra i quali non sussista separazione personale neppure di fatto e che siano idonei ad educare, istruire ed in grado di mantenere i minori che intendono adottare”.
Oltre a quelli sul legame affettivo, ci sono dei vincoli anche sull’età (che la legge italiana ritiene necessari affinché all’adottato spettino dei genitori idonei ad allevarlo e seguirlo fino all’età adulta). Infatti la differenza minima tra adottante e adottato deve essere di almeno 18 anni, e non deve superare la massima di 45 per uno dei coniugi e di 55 per l’altro. Un limite che viene meno se la coppia adotta due o più fratelli e se ha un figlio minorenne naturale o adottivo – ma l’abbinamento con il bambino adottabile è deciso dall’Autorità straniera, motivo per cui i limiti della legislazione italiana hanno poca influenza nella realtà internazionale.
Non tutti i bambini sono adottabili, o meglio, non tutti lo sono in automatico. Un minore può essere inserito nel processo solo una volta che sia stato accertato il suo stato di abbandono e che siano stati espletati tutti i tentativi di sostenere economicamente e socialmente la sua famiglia di origine, e quelli di trovare una famiglia adottiva nel suo stesso paese. Inoltre i genitori biologici, se presenti, devono essere stati informati in maniera chiara delle conseguenze dell’adozione – così come il bambino, a seconda della sua età e del livello di maturità, le cui opinioni e i cui desideri vanno presi in seria considerazione – e devono aver dato il loro assenso all’adozione solo dopo la nascita del figlio. Il consenso (sia delle persone in causa che degli istituti o delle autorità responsabili del bambino) deve essere accordato spontaneamente e senza pagamenti o compensi di qualsiasi tipo.
Quali sono gli intoppi
Nonostante lo scorso anno la natalità italiana abbia raggiunto il suo minimo storico – per la prima volta dall’unità d’Italia le nascite sono state al di sotto della soglia dei 400mila – nel nostro Paese le famiglie intenzionate alla maternità o alle adozioni si ritrovano a dover fronteggiare moltissimi ostacoli – e per questo, a volte, mollano la presa. Lo dimostrano anche i numeri, riportati da Graziella Teti, esperta di adozioni e membro del Consiglio Direttivo della onlus Centro Italiano Aiuti All’Infanzia (CIAI): «Negli ultimi 12 anni abbiamo assistito, a livello mondiale, ad una progressiva riduzione del numero delle adozioni internazionali. Guardando all’Italia, nel 2022 le adozioni portate a termine sono state 565, ma nel 2010 furono 4130».
Le cause sono molteplici. Oltre alla pandemia, il tempo è una delle condizioni che maggiormente scoraggia i futuri genitori. Mediamente, il percorso delle coppie che hanno adottato nel 2022 – dalla dichiarazione di disponibilità all’adozione all’autorizzazione all’ingresso in Italia dei minorenni – è durato poco più di 52 mesi, quasi 4 anni e mezzo – 6 mesi in più rispetto alla media del 2021.


Premessa: affinché vengano garantiti i diritti fondamentali del bambino e l’accertamento del suo effettivo stato di adottabilità è giusto che gli enti interessati impieghino del tempo per effettuare le dovute verifiche. Ma il problema è che spesso tali soglie temporali non vengono rispettate. Per dimezzare i tempi, spiega Paola Crestani, presidente del Ciai, «bisognerebbe rendere perentori i termini per ricevere la dichiarazione di idoneità». Invece, riferisce l’associazione Ai.Bi., attiva in tutto il mondo per combattere l’abbandono minorile con l’adozione, «i servizi prendono appuntamenti molto scaglionati, i colloqui al tribunale hanno tempi dilatatissimi, e per ottenere l’idoneità si aspetta anche tre anni» anziché sei mesi. Per questo motivo, il gruppo suggerisce di snellire le procedure eliminando il passaggio in tribunale, che avviene solo in Italia e giudicato «inutile e costoso, visto che la famiglia non va selezionata da un giudice ma accompagnata al percorso adottivo dai servizi sociali e dagli enti autorizzati».
C’entra anche il fatto, sollevato dalla Teti, che a fronte di un sempre più ridotto numero di bambini (ma non pochi) per i quali viene seguita la strada dell’adozione internazionale, «gli Enti autorizzati italiani sono ancora quasi cinquanta». Una sproporzione che non può funzionare – e che per questo molti Paesi in tutto il mondo hanno già ridotto. «Meno enti significherebbe più controlli, maggiore efficienza, e stimolerebbe una proficua collaborazione tra enti, servizi, istituzioni italiane e straniere. Così i costi per le famiglie diminuirebbero senza intaccare la qualità dell’intervento». Anzi, come consiglia Adriano Bordignon, presidente del Forum delle Associazioni Familiari, «sarebbe più opportuno attivare presso le ambasciate un funzionario esperto che possa seguire con efficacia gli iter adottivi» anche in Paesi molto lontani dal nostro.

A proposito di costi. Se per le procedure nazionali le spese sono a carico dello Stato – a parte i costi relativi ai certificati da presentare in tribunale – per quelle internazionali la coppia richiedente può arrivare a spendere diverse decine di migliaia di euro. Nonostante, dice Marco Griffini, presidente di Ai.Bi., «le tariffe per le pratiche interne dovrebbero avere un tetto di poche migliaia di euro».
Invece la scarsa attività di vigilanza – soprattutto perché gli enti sono moltissimi – le tasse adottive, l’intervento dei professionisti locali e la (possibile) corruzione dei funzionari portano le cifre a lievitare. Spese a cui si aggiungono i costi di viaggio e di soggiorno nel Paese di nascita del bambino – in alcuni Stati la legge locale prevede che i neo genitori rimangano sul territorio anche per due mesi o che si rechino nel Paese per almeno tre volte. Tuttavia seppur gratuite, non va meglio neppure per le adozioni nazionali, che mancano di dati aggiornati. Infatti a distanza di 21 anni dalla data entro cui avrebbe dovuto essere attivata, la Banca Dati nazionale dei minorenni dichiarati adottabili e non adottati, e dei coniugi “aspiranti all’adozione nazionale e internazionale” non è ancora del tutto operativa.
Un quadro piuttosto disastroso che si arricchisce se si considera la selezione dei candidati. Nonostante negli anni la nostra società si sia evoluta, la legge sulle adozioni, ormai quarantenne, non ha seguito le sue stesse orme. L’adozione, ora come allora, è infatti concessa solo a coppie sposate: va da sé che ne restano fuori coniugi omosessuali, anche se uniti civilmente (per loro in Italia non esiste il matrimonio) e persone single (se non in casi estremamente particolari). Centinaia di migliaia di potenziali famiglie che non possono neppure pensare di candidarsi.
La questione di fondo, dunque, è che in realtà non mancano i bambini da adottare (italiani e non) e neppure i genitori pronti a farlo: a frenare l’accoglienza di minori in difficoltà sono invece le politiche nazionali ed estere che regolamentano il processo, ingarbugliate, complicate e troppo, troppo lunghe. Soprattutto se si tiene conto che in gioco c’è la vita e il dolore dei più piccoli.
[di Gloria Ferrari]