lunedì 29 Aprile 2024

Il 7 ottobre molti israeliani sono stati uccisi dal “fuoco amico”: le prove

Le prove, composte da immagini e testimonianze affidabili si sono moltiplicate in queste settimane, al punto che una verità – ipotizzata fin dall’inizio, ma indicibile sui mezzi di comunicazione dominanti – appare ormai del tutto chiara: molti dei circa 1.400 israeliani, sia militari che civili, rimasti uccisi durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso sono stati causati dal “fuoco amico”, ovvero da colpi sparati dall’esercito israeliano e non da miliziani palestinesi. Questo risulta evidente dalle varie testimonianze di soldati e di sopravvissuti all’attacco delle brigate Al-Qassam, come riportato da molte testate internazionali, comprese quelle israeliane. Il “sacrificio” di cittadini e soldati israeliani nel contrasto ad azioni di guerra è d’altra parte accettato anche da uno dei principi di azione della dottrina militare israeliana, messo nero su bianco nella “direttiva Annibale”. Si tratta di una procedura in vigore dagli anni ’80 che prescrive i comportamenti da tenere per reagire ai tentativi di sequestro, specie ai danni di soldati: i commilitoni devono sparare sul commando in fuga, considerando il contrasto all’azione prioritario rispetto alla vita dell’ostaggio.

Le finalità dell’attacco di Hamas

Sembra ormai acclarato da varie testimonianze che l’obiettivo dell’attacco di terra di Hamas fosse il rapimento del più alto numero possibile di civili e militari israeliani da riportare all’interno di Gaza per poter trattare uno scambio di prigionieri con Israele. Lo scambio del 2011 con Gilad Shalit, soldato israeliano catturato cinque anni prima e rilasciato in cambio di 1027 prigionieri, ha fornito una chiara ispirazione per le gesta dei guerriglieri palestinesi. Hamas e la Jihad islamica palestinese (PIJ) hanno lanciato l’operazione “Al-Aqsa Flood” con obiettivo principale la cattura di prigionieri da poter scambiare con le migliaia di palestinesi attualmente detenuti senza accuse e/o i 700 minori trattenuti da Israele. Se per un soldato israeliano i palestinesi avevano ottenuto il rilascio di più di un migliaio di persone, cosa avrebbero potuto ottenere con decine, centinaia, di ostaggi tra civili e militari? Il successo del piano di Hamas sarebbe senz’altro stato un colpo politico doloroso per Israele, molto di più di quello subito con il caso di Shalit.

Cos’è la “direttiva Annibale”

Dal 1982 al 2014 sono stati scambiati 7.000 prigionieri palestinesi in cambio di 19 israeliani. Nel 1986, in seguito all’accordo di Jibril con cui Israele ha scambiato 1.150 prigionieri palestinesi con tre soldati israeliani, e al pesante contraccolpo emotivo e politico di tale evento, l’esercito israeliano ha redatto un ordine segreto per prevenire futuri rapimenti e/o la possibilità che vi siano trattative per lo scambio di prigionieri. La “direttiva Annibale” è la procedura da seguire quando un militare viene catturato e prevede di usare tutti i mezzi necessari perché non venga portato via: i commilitoni devono sparare sul commando in fuga, senza preoccuparsi per la vita dell’ostaggio.

L’ultima volta che la direttiva Annibale è stata ordinata era il primo giorno di agosto del 2014 a Rafah, Gaza, in cui i combattenti di Hamas hanno catturato un ufficiale israeliano, il tenente Hadar Goldin. Questo è stato il giorno in cui l’esercito israeliano ha bombardato la città di Rafah, nella striscia di Gaza, con quasi tutti i mezzi di distruzione a sua disposizione, dai missili degli aerei F-16 ai razzi degli elicotteri Apache, ai bombardamenti condotti dal mare così come attacchi con droni e mortai, in quella che è stata chiamata Operazione Margine Protettivo. I bulldozer abbattevano le case mentre i carri armati sfrecciavano attraverso i quartieri, bombardando tutto ciò che capitava a tiro. Nel giro di poche ore, almeno 500 proiettili di artiglieria e centinaia di missili sono stati scaricati sulla città, quasi interamente in aree civili. L’obiettivo dell’operazione non era necessariamente la popolazione civile di Rafah quanto invece non permettere che il soldato israeliano fosse utilizzato come pedina politica, anche a costo della sua stessa vita. E così fu. Alla fine, il tenente Goldin fu ucciso insieme a circa 190 palestinesi.

Haim Avraham, padre del soldato Benny che nel 2000 fu rapito al confine con il Libano, in occasione degli eventi del 2014, ha detto in merito alle ragioni dietro alla “dottrina Annibale”: “Se fossero venuti a dirmi che mio figlio era stato ucciso dal fuoco amico, mi avrebbe ferito, mi avrebbe fatto infuriare. Ma lo avrei accettato: lo Stato non può agire inseguendo i sentimenti di un genitore, deve tenere in considerazione la sicurezza di tutti i suoi cittadini. Il dovere di un soldato è proteggere la nazione e può succedere che cada in battaglia”. In quell’occasione, gli aerei da guerra di Israele bombardarono 26 auto che tentavano di passare la frontiera con il Libano per impedire il successo del rapimento. Successivamente fu dichiarato che il soldato era già stato ucciso dai rapitori.

La risposta israeliana all’attacco di Hamas: caos o “direttiva Annibale”?

Venerdì 20 ottobre, Haaretz ha pubblicato un lungo articolo del suo analista militare, Amos Harel, che descrive il fallimento di Israele nel prepararsi agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, parlando con paradossale entusiasmo del comandante della Divisione di Gaza, il generale di brigata Avi Rosenfeld, tra i maggiori responsabili della debacle israeliana. Nel racconto del 7 ottobre riferisce qualcosa di interessante: «Una grande forza di Hamas si è impadronita dell’adiacente valico di Erez, che è stato chiuso per la festa di Simhat Torah. Da lì, in pochi minuti e senza opporre resistenza, avanzarono nella base militare, uccidendo e sequestrando i soldati dell’Amministrazione Civile, anche se alcuni di loro riuscirono a rispondere al fuoco prima di essere colpiti. Il generale di brigata Rosenfeld si trincerò nella sala di guerra sotterranea della divisione insieme a una manciata di soldati cercando disperatamente di salvare e organizzare il settore sotto attacco. Molti dei soldati, la maggior parte dei quali non erano membri del personale di combattimento, sono stati uccisi o feriti all’esterno. La divisione è stata costretta a richiedere un attacco aereo contro la base stessa per respingere i terroristi».

In altre parole, mentre il comandate e un manipolo di altri uomini erano nascosti nei bunker sotto la base e tutto il resto era fuori che cercava di respingere l’attacco di Hamas, è stato ordinato il bombardamento della base stessa – con i propri uomini – pur di respingere l’assalto e non far cadere la struttura militare in mano del nemico. Proprio la mentalità che sta alla base della “direttiva Annibale”.

Electronic Intifada ha pubblicato una lunga intervista a Yasmin Porat, sopravvissuta all’attacco di Hamas nel Kibbutz Be’eri, dopo che era stata presa in ostaggio. Secondo il suo racconto, i rapitori hanno trattato lei e gli altri ostaggi «umanamente», spiegando come fossero convinti che lo scudo fornito dai prigionieri israeliani avrebbe permesso loro di rientrare tranquillamente a Gaza. Tuttavia, quando i soldati israeliani sono arrivati, «hanno eliminato tutti, compresi gli ostaggi. C’è stato un fuoco incrociato molto, molto pesante». La sua testimonianza è completata da testimonianze di soldati israeliani. L’11 ottobre, Quique Kierszenbaum ha riferito sul Guardian del suo tour del Kibbutz Be’eri, un tour organizzato dall’unità di propaganda dell’esercito israeliano. Kierszenbaum scrive: «Un edificio dopo l’altro è stato distrutto, sia nell’assalto di Hamas che nei combattimenti che ne sono seguiti, gli alberi vicini si sono scheggiati e i muri sono stati ridotti a macerie di cemento da dove i carri armati israeliani hanno fatto saltare in aria i militanti di Hamas dove si nascondevano. I pavimenti sono crollati sui pavimenti. Le travi del tetto erano aggrovigliate ed esposte come gabbie toraciche». Richard Hecht, un portavoce dell’esercito, ha riferito: «Quando sono arrivato ho visto i soldati che combattevano qui solo per entrare nel kibbutz. Andavamo da un appartamento all’altro. Avremo domande difficili da porci. Per ora dobbiamo guardare avanti: alla difesa delle persone e all’uscita dei sopravvissuti».

Nir Hasson ha intervistato un residente locale di nome Tuval Escapa, che era fuori dal kibbutz al momento dell’attacco, la cui compagna è invece rimasta uccisa. Nell’articolo di Hasson del 20 ottobre su Haaretz, egli riferisce: «La sua voce si spezza quando ricorda il suo compagno, che in quel momento era assediato nella stanza sicura. Secondo lui, solo lunedì notte e solo dopo che i comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili – tra cui bombardare le case con i loro abitanti per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi – l’IDF ha completato la presa del kibbutz. Il prezzo fu terribile: almeno 112 abitanti rimasero uccisi. Altri sono stati rapiti. L’altro ieri, 11 giorni dopo la strage, i corpi di una madre e di un figlio sono stati scoperti in una delle case distrutte. Si ritiene che altri corpi siano ancora sepolti tra le macerie». Risulta inoltre chiaro da una semplice osservazione dei danni provocati a strutture e veicoli, impossibili da ottenere con l’utilizzo di Kalasnikov, RPG e bombe a mano, ovvero le armi che abbiamo visto utilizzare dei guerriglieri nei numerosi video girati in rete sull’assalto del 7 ottobre; compresi quelli di casi in cui vengono commessi omicidi su civili inermi o disarmati.

In un intervista con l’agenzia di stampa israeliana Mako, un pilota Apache ha riflettuto sul tortuoso dilemma che lo ha afflitto sul dover sparare o meno alle persone e alle auto che tornavano a Gaza. Sapeva che molti di quei veicoli potevano contenere prigionieri israeliani ma scelse comunque di aprire il fuoco. Il tenente colonnello A., un pilota di riserva dell’unità, ricorda: «Mi trovo in un dilemma su cosa sto sparando, perché ce ne sono così tanti». Un rapporto sugli squadroni Apache da parte dell’organo di stampa israeliano Yedioth Aharanoth ha osservato che «i piloti si sono resi conto che c’era un’enorme difficoltà nel distinguere all’interno degli avamposti e degli insediamenti occupati chi era un terrorista e chi era un soldato o un civile».

In un altro passaggio dell’articolo viene detto: «In meno di 20 minuti era di nuovo in volo e, utilizzando le informazioni prodotte, ordinò agli altri caccia aerei di sparare a tutto ciò che vedevano nell’area della recinzione, e a un certo punto attaccò anche una postazione dell’IDF con soldati assediati per di aiutare i caccia di Shayetet 13 a prenderla d’assalto e liberarla». Secondo l’aviazione israeliana, nelle prime quattro ore dopo l’inizio dei combattimenti, elicotteri e aerei da combattimento hanno attaccato circa 300 obiettivi, la maggior parte dei quali in territorio israeliano.

Quale fine per i prigionieri a Gaza?

E che dire delle decine, centinaia di ostaggi, soldati e civili, trattenuti a Gaza? Già il 26 ottobre scorso le Brigate Al-Qassam di Hamas stimavano che circa 50 prigionieri fossero rimasti uccisi dai bombardamenti di Israele sulla Striscia. Secondo Yehuda Shaul, ex militare, co-fondatore dell’ONG israeliana Breaking the Silence, la prima organizzazione di veterani militari israeliani che chiede la fine dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza, l’enorme numero di prigionieri catturati renderebbe addirittura la direttiva ridondante: «Diciamo che Hamas ha un soldato e diciamo che l’accordo dice di liberare un migliaio di prigionieri [palestinesi]. Ci sono 5.000 prigionieri in carcere. Ora, diciamo che Hamas ne ha sei e decide di liberarne 3.000. Ma ora Hamas ne ha 200!». Secondo Annyssa Bellal, giurista internazionale specializzata in conflitti armati e diritto internazionale e ricercatrice senior presso il Geneva Graduate Institute, la direttiva non è mai stata una politica ufficiale e quindi non è mai stata pubblicata nella sua interezza. Bellal ha detto che, nella pratica, la direttiva è già stata messa in atto nella guerra attuale a Gaza. Israele ha in gran parte rifiutato di negoziare con Hamas per il rilascio dei suoi prigionieri, scegliendo invece di impiegare l’uso della forza contro la Striscia, e questo «rispecchia ciò di cui parlava la direttiva». L’attuale assalto israeliano a Gaza supera già i precedenti attacchi più letali del 2008 e del 2014. Nel 2008, 1.385 palestinesi sono stati uccisi in 22 giorni, mentre nel 2014 Israele ha ucciso 2.251 palestinesi, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA). Oggi, quando scriviamo, sono più di 11.000 i morti civili palestinesi.

In definitiva, che sia stato mandato di applicare la direttiva Annibale o meno, è del tutto evidente che la potenza di fuoco che Israele ha scatenato sui miliziani di Hamas ha finito per uccidere decine, centinaia, di cittadini israeliani.

[di Michele Manfrin]

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