venerdì 1 Dicembre 2023

L’Intelligenza Artificiale ci ruberà il lavoro? Sì, e dovrebbe essere una buona notizia 

Era il 1779 quando, secondo la tradizione, Ned Ludd distrusse un telaio meccanico presente nella fabbrica in cui lavorava. Dal suo esempio nacque un vero e proprio movimento, il luddismo, che per anni in Inghilterra (e non solo) si prodigò a sabotare e distruggere i nuovi macchinari che arrivavano sui posti di lavoro, considerandoli sostituti del lavoro umano e quindi fonte di disoccupazione. Sull’impatto che i macchinari avrebbero avuto i luddisti ci avevano visto lungo: per via delle nuove tecnologie portate dalla rivoluzione industriale, qualcosa in quel momento stava cambiando. A distanza di secoli, il copione sembra riproporsi, seppur con protagonisti diversi. Il telaio di Ludd, oggi, è quell’intelligenza artificiale che, unita all’Internet of Things (il cosiddetto internet delle cose), sta portando un’altra rivoluzione nel mondo del lavoro, annunciando che molte cose cambieranno e molti lavori smetteranno di esistere o impiegheranno molte meno persone. Ai tempi di Ludd, la filatrice multipla permise ad un solo operaio di compiere il lavoro che avrebbero dovuto svolgere otto persone e la macchina a vapore consentì la trasformazione di energia termica in energia meccanica – utilizzata specialmente in ambito agricolo per aumentare la produzione e ampliare il commercio su larga scala. Nonostante i luddisti, (come prevedibile) la ricerca tecnologica non ha mai smesso di avanzare fino a portarci i computer di precisione e poi l’automazione robotica di alcuni processi e attività che fino a qualche anno fa potevano solo essere svolte da dipendenti in carne ed ossa. Una pratica che, secondo il World Economic Forum, entro il 2025 porterà a livello globale alla perdita di 85 milioni di posti di lavoro.

Il valore del tempo

In un mondo ideale, dove il beneficio per la collettività è posto al centro degli obiettivi, la scoperta di macchine in grado di rubare il lavoro all’uomo dovrebbe essere accolta con entusiasmo. Può sembrare un paradosso, ma è così. Se in una azienda dove lavorano cento operai arriva una macchina che da sola può sostituirne cinquanta, dovrebbe significare che tutti gli operai potrebbero lavorare la metà del tempo allo stesso stipendio, mentre l’imprenditore manterrebbe invariato il proprio margine di profitto. La pensava così, ad esempio, quello che è stato l’economista più influente del secolo scorso, John Keynes, che nel 1930 scriveva che nell’arco di cento anni, conseguentemente alla meccanicizzazione del lavoro, la ricchezza disponibile sarebbe quadruplicata e allo stesso tempo la settimana lavorativa si sarebbe progressivamente ridotta fino ad arrivare a 15 ore, consentendo così alle persone di avere tempo per le passioni, gli affetti e la salute. Ma, visto che il 2030 non è poi così lontano, possiamo già fare un primo bilancio: se da una parte le previsioni keynesiane si sono ampiamente avverate per quanto riguarda la ricchezza complessiva degli Stati occidentali, già oggi di cinque volte superiore rispetto al 1930, lo stesso non si può dire riguardo al lavoro e al tempo che gli dedichiamo. Visto che, di fatto, lavoriamo più o meno quanto i nostri nonni, ma con livelli di stress spesso maggiori dovuti alla diffusione dei lavori cognitivi.

Eppure per un certo periodo il mondo sembrava effettivamente andare nella direzione immaginata da Keynes. Nel 1932 il Senato Usa approvò una legge che riduceva l’orario di lavoro a 30 ore settimanali, una norma che venne giudicata sostenibile economicamente alla luce della maggiore produttività garantita dalla macchinazione del lavoro e pensata insieme per ridurre la disoccupazione e aumentare i consumi. La norma ebbe però vita breve sotto la pressione delle lobbies industriali e il nuovo presidente Roosevelt la annullò l’anno seguente.

Il dibattito si è riacceso di recente, probabilmente per via delle riflessioni sul tempo e sulle nuove modalità di lavoro scaturite durante e dopo il periodo pandemico. È infatti dopo questi anni di chiusura che il Regno Unito ha condotto il più ampio studio sulla settimana corta mai realizzato, coinvolgendo 61 aziende di settori diversi (tra i quali anche uffici e un locale di vendita di fish and chips) e quasi 3 mila dipendenti. A questi ultimi è stato chiesto, a parità di stipendio, di lavorare per circa 34 ore alla settimana anziché 40 per un periodo di circa sei mesi – da giugno a dicembre 2022. Dai risultati è emerso più o meno quello che ci si aspettava: la riduzione dell’orario di lavoro aumenta il benessere di chi lavora, riduce stress e malattie, non intacca la produttività delle aziende (che durante il periodo hanno registrato un aumento medio del fatturato dell’1,4%), migliora l’equilibrio tra lavoro e vita privata e per questo riduce il numero di dimissioni dei dipendenti. Il dato più eclatante fra quelli raccolti dal centro studi Autonomy e dall’organizzazione non profit 4 Day Week Global, che hanno sviluppato il progetto insieme a università europee e americane (fra cui l’Università di Cambridge e il Boston College) è che sette dipendenti su dieci hanno dichiarato di sentirsi molto meno sotto pressione lavorando un giorno in meno. Di conseguenza, come hanno riscontrato i ricercatori, i giorni di malattia si sono ridotti del 65% e il numero di licenziamenti si è più che dimezzato rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Certo, in linea generale il grosso delle aziende non si muove certo in questa direzione, e senza una normativa vincolante da parte del potere pubblico sono assai pochi gli imprenditori illuminati che scelgono di utilizzare la maggiore produttività offerta dalla robotizzazione per far stare meglio i propri dipendenti, piuttosto che per effettuare licenziamenti e garantirsi in questo modo maggiori profitti. Ma è certo che, in generale, ripensare i tempi del lavoro asservendo il progresso tecnologico ai nostri bisogni sarebbe un passo importante nell’ottica del benessere lavorativo e personale. Soprattutto del nostro.

Per quanto riguarda l’equilibrio tra vita privata e lavoro, l’Italia è infatti, secondo lo studio Work-life balance, a systematic review, uno dei peggiori Paesi in Europa, con 55.71 punti su 100. «Si è sempre pensato che la quantità di tempo che il personale trascorre alla scrivania fosse una misura della produttività. Tuttavia misurare lo sforzo non è uguale a misurare la produttività, bisogna cambiare», ha commentato Kevin Albertson, economista presso il Centre for Decent Work and Productivity della Manchester Metropolitan University.

Produttività e progresso

L’impiego di nuove tecnologie, quindi, se utilizzato nel modo giusto e con scopi ben definiti (tralasciando tutti gli altri aspetti, positivi e non, che non riguardano il tema trattato) può avere degli effetti vantaggiosi. Per l’economia, per esempio. Le imprese, sfruttandole, possono ottenere maggior efficienza in tempi più rapidi (facendo risparmiare ai dipendenti tempo ed energia), mentre la complessità delle macchine potrebbe essere in grado di creare nuovi prodotti e servizi che prima, per nascere, avrebbero necessitato di molte più ore di lavoro e potrebbero essere in grado, servendosi delle IA, di prevedere con anticipo situazioni di potenziale pericolo. Secondo McKinsey & Company, una multinazionale di consulenza strategica, l’automazione – che potrebbe essere impiegata per migliorare l’efficienza della ricerca e delle sperimentazioni cliniche, per creare nuovi strumenti per medici e consumatori, per potenziare la cura dei pazienti e ampliare la diffusione di informazioni mediche – potrebbe far risparmiare al sistema sanitario statunitense 100 miliardi di dollari all’anno.

Ma guardiamo oltre. Se la tecnologia è in grado di fare al posto nostro i compiti più noiosi e meno gratificanti, nel frattempo milioni di persone non potrebbero forse dedicarsi a professioni che reputano più interessanti e soddisfacenti e che valorizzano il lato umano dell’individuo che li compie? E, spettando ai computer svolgere tutte quelle mansioni ripetitive, i giovani professionisti – a cui spesso sono affibbiate le pratiche più monotone – non potrebbero quindi ambire a carriere più interessanti e remunerative? Una simile rivoluzione, in sintesi, potrebbe cambiare definitivamente molti concetti cardine della nostra società, tra cui quello di lavoro e capitalismo. Un’evoluzione che una società giusta accoglierebbe come una buona notizia. Ma non è il nostro caso.

La soluzione non è la lotta contro i mulini a vento

C’entrano competizione globale, delocalizzazioni e tendenza senza freni all’allargamento delle diseguaglianze tra élite e cittadini, i principali
demoni del nuovo millennio, che impediscono alle cose di cambiare in meglio. E così che, anziché rivedere e ripensare al valore del tempo e del lavoro, si fanno leggi che deregolamentano le ore di straordinario e chi parla di ridurre l’orario lavorativo è considerato un pazzo. Anzi, ad oggi in molti Stati europei si lavora ben oltre il limite stabilito di 48 ore settimanali. In Italia, per esempio, tenendo conto solo degli impieghi regolari – ed escludendo quindi gli straordinari o il lavoro in nero – il 9,4% degli occupati ha dichiarato di lavorare più di quanto previsto dalla legge, con gravi conseguenze sulla salute psico-fisica. Persone che, probabilmente, cederebbero volentieri parte dell’impegno a una macchina in grado di svolgerlo al posto loro. Ma se da una parte, come spiegato da Luciano Floridi, professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford, «l’IA è in grado di aumentare enormemente la produttività e la ricchezza» di chi la usa e di chi la produce, dall’altra «la distribuzione di quest’ultima è iniqua, e l’impatto su ambiente e società deleterio». Basti pensare che Meta, la società statunitense che controlla, tra le altre cose, Facebook, Instagram e WhatsApp, ha chiuso il 2021 con 117,9 miliardi di dollari di ricavi. Cifre registrate più o meno in egual misura anche dalle altre big tech come Google, Apple, Amazon e Microsoft. Imprese che macinano profitti da capogiro sulle spalle dei propri lavoratori, privati di molti diritti essenziali, calpestando la privacy degli utenti che ne utilizzano i servizi e pagando pochissime tasse.

La nostra società, orientata al profitto e allo sfruttamento, vede infatti la tecnologia come strumento di dominio. E, alla fine, del progresso economico si ritrovano a beneficiare ben poche persone, mentre il plusvalore (ovvero la differenza tra il valore economico creato dai lavoratori dell’azienda e la loro retribuzione) cresce a dismisura garantendo profitti da record alle grandi aziende.

La soluzione, però, non è demonizzare l’IA e battersi contro di lei. Sarebbe una lotta che, anche volessimo intraprendere, non riusciremmo a vincere – così come Ludd non è riuscito a impedire che il suo telaio si meccanizzasse. Sarebbe una lotta contro i mulini a vento, destinata ad ovvia e fragorosa sconfitta. Il male non è insito negli strumenti, ma nel modo in cui questi si utilizzano o non si utilizzano. E l’unica soluzione sensata sarebbe quella di battersi affinché gli extraprofitti garantiti dalle innovazioni siano tassati in modo da garantire una redistribuzione oltreché diminuire le ore di lavoro a parità di salario per legge. Un obiettivo che, ad esempio, è al centro del programma del partito La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, in Francia (che alle scorse elezioni sfiorò la maggioranza), e che in Italia reclamano piccoli partiti come Potere al Popolo e i sindacati di base come la Usb, nel silenzio di quelli confederali e dominanti Cgil, Cisl e Uil.

In una società ideale si discuterebbe dell’idea di lavoro, del valore del tempo e del senso della vita e soprattutto del modo in cui il prodotto e la ricchezza si distribuiscono – e andrebbero distribuite – nel mondo. Il filosofo greco Plutarco diceva che «lo squilibrio tra ricchi e poveri è la malattia più antica e più fatale di tutte le repubbliche»: un concetto che solo l’intelligenza umana – e non quella artificiale – può capire e adoperare in maniera giusta o sbagliata.

[di Gloria Ferrari]

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4 Commenti

  1. Sono felice di ritrovare in questo articolo le idee che sostengo da tempo: il progresso non si può fermare (menomale!), ma va necessariamente gestito in modo che vada a vantaggio dell’intera società e non dei “soliti noti” e questa è una questione squisitamente politica.
    “Lavorare tutti, lavorare MENO!”

  2. Grazie G.F.
    La liberazione dal lav-oro è un concetto già discusso fin dagli anni ’60 e che oggi sarebbe oggettivamente realizzabile.
    Come ci fa giustamente notare, questa è una consapevolezza che per ora è coltivata da partiti piccolissimi, che non hanno nemmeno un seggio. Ma sta crescendo (la consapevolezza). Questo articolo lo dimostra.

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