giovedì 2 Maggio 2024

È morto Matteo Messina Denaro, insieme a tutti i suoi segreti

È morto anche “l’ultimo degli stragisti”. All’età di 61 anni, se n’è andato Matteo Messina Denaro, mafioso irriducibile di Cosa Nostra e fedelissimo di Salvatore Riina. “U Siccu” – arrestato lo scorso 16 gennaio dopo 30 anni di latitanza – è spirato nella notte dopo due giorni di agonia nel reparto detenuti dell’ospedale de L’Aquila, dove era ricoverato dal mese scorso a causa di un cancro al colon. Portandosi nella tomba i più grandi misteri sulle stragi degli anni Novanta e sui legami politici di Cosa Nostra.

La biografia di Matteo Messina Denaro è intrisa di mafiosità sin dagli albori. Il boss, infatti, crebbe sotto l’ala di suo padre, Francesco Messina Denaro, capomandamento di Castelvetrano. Don “Ciccio” lavorava come campiere presso le tenute agricole della famiglia D’Alì, che possedeva la Banca Sicula di Trapani, allora il più importante istituto bancario dell’isola. Matteo Messina Denaro cominciò a delinquere da giovanissimo e già alla fine degli anni Ottanta venne accusato di associazione mafiosa, essendo considerato uno dei protagonisti della terribile faida che, in quella fase, coinvolse i clan Accardo e Ingoglia di Partanna. A causa della salute cagionevole in cui versava il padre, toccò proprio a Messina Denaro prendere le redini del mandamento. Il 23 gennaio 1990, l’allora Procuratore della Repubblica di Marsala, Paolo Borsellino, chiese la sorveglianza speciale, il divieto di dimora e il sequestro di tutti i beni di Francesco Messina Denaro in quanto “esponente di primo piano della mafia del Belice”. La richiesta fu respinta dal Tribunale, ma pochi mesi dopo il magistrato emise un mandato di cattura nei suoi confronti per associazione mafiosa. Don “Ciccio”, però, si diede alla latitanza. Morirà a Castelvetrano nel novembre del 1998 e la sua salma verrà fatta ritrovare in un casolare di campagna, già pronta per il funerale.

All’inizio degli anni Novanta, Cosa Nostra era divisa in due schieramenti. Da un lato c’era quello a cui apparteneva Matteo Messina Denaro, capitanato da Salvatore Riina, che puntava tutto sulla strategia stragista e vedeva tra i suoi componenti i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (legatissimi a Matteo), Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. Dall’altra c’era la fazione guidata da Bernardo Provenzano, favorevole allo stop alle bombe e alla strategia della “sommersione”, cui appartenevano, tra gli altri, Pietro Aglieri e Nino Giuffré. Dal febbraio 1992, Messina Denaro fece parte del gruppo di fuoco che avrebbe dovuto provvedere all’omicidio di Giovanni Falcone, inizialmente pianificato a Roma, dove il giudice ricopriva la carica di direttore generale degli affari penali al Ministero della Giustizia. Riina, però, poco tempo dopo ordinò ai suoi uomini la ritirata: all’orizzonte c’era, infatti, l’organizzazione della strage di Capaci in Sicilia. Per l’“attentatuni” del 23 maggio 1992, in cui Falcone venne ucciso insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della sua scorta, Messina Denaro è stato condannato all’ergastolo. Lo stesso è accaduto per la strage di Via D’Amelio, in cui a trovare la morte furono Paolo Borsellino e i suoi agenti di scorta, e centinaia di altri omicidi.

Ma è in particolare nel 1993 che l’azione di Matteo Messina Denaro in Cosa Nostra acquisì un ruolo di primo piano. Da un lato, sul piano delle strategie politiche: dopo lo scandalo di Tangentopoli, che “azzerò” i referenti partitici tradizionali di Cosa Nostra, il boss, insieme a Leoluca Bagarella, fu infatti investito del compito di mettere mano alla costituzione di un “partito della mafia”, denominato “Sicilia Libera”, che avrebbe dovuto federare sotto un’unica sigla tutte quelle “Leghe meridionali” che erano diventate il punto di incontro tra massoneria deviata e illustri personaggi dell’eversione nera. Il progetto, però, venne archiviato quando Silvio Berlusconi – che negli anni Settanta, in veste di imprenditore, aveva stretto un patto di “protezione” con la mafia, finanziandola almeno fino al 1992, come ribadito nella sentenza con cui il suo braccio destro Marcello Dell’Utri è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa – rese nota la sua volontà di scendere in campo per le elezioni del 1994. Anche Antonino D’Alì, uno dei fondatori di Forza Italia, di cui sarà senatore, arrivando persino a ricoprire il ruolo di Sottosegretario al Ministero dell’Interno nel decennio successivo, proprio a causa della sua vicinanza a Matteo Messina Denaro nel dicembre 2022 ha subito una condanna definitiva per concorso esterno.

Ma il compito principale di Matteo Messina Denaro, in quel contesto così problematico, fu quello di gestire, a braccetto con i fratelli Graviano, la “seconda stagione” della campagna stragista di Cosa Nostra. Quella che, nel 1993, vide una catena di attentati nelle città di Roma, Milano e Firenze, in cui morirono dieci persone e ne restarono ferite a centinaia. Il fine ultimo era quello di veicolare il “grande ricatto” contro lo Stato italiano, che era apparso disponibile a lavorare a un accordo quando il Ros dei Carabinieri, tra la morte di Falcone e quella di Borsellino, partorì un invito al dialogo che passerà alla storia come  “Trattativa Stato-mafia”. E che, come hanno stabilito diverse sentenze, ebbe l’effetto di convincere i vertici di Cosa Nostra che la strategia del terrore fosse funzionale a portare vantaggi all’associazione. I magistrati stanno tuttora indagando sulle entità che, dall’esterno, avrebbero coadiuvato Cosa Nostra nel compimento di quei delitti. Nel novembre dello stesso anno, “U Siccu” autorizzò il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio tredicenne del pentito Santino Di Matteo. Il piccolo sarebbe stato strangolato e sciolto nell’acido dai mafiosi l’11 gennaio 1996.

Matteo Messina Denaro è stato catturato dal Ros dei Carabinieri lo scorso 16 gennaio all’interno della clinica privata La Maddalena, in cui era in cura da un anno per un tumore sotto il falso nome di “Andrea Bonafede”. Due mesi prima dell’arresto, nella trasmissione Non è l’Arena su La7, era andata in onda un’intervista resa da Salvatore Baiardo – considerato il prestanome dei fratelli Graviano, di cui curò la latitanza negli anni Novanta – al giornalista Massimo Giletti, in cui il discusso personaggio aveva previsto l’arresto del boss: «Che arrivi un regalino? Che magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato e faccia una trattativa lui stesso per consegnarsi e fare un arresto clamoroso? E così arrestando lui esce qualcuno che ha l’ergastolo ostativo senza che ci sia clamore?», ha detto Baiardo a Giletti, aggiungendo che «ci sono delle date che parlano». Matteo Messina Denaro è stato preso esattamente trent’anni e un giorno dopo l’arresto dell’ex capo di Cosa Nostra Totò Riina, che porta la data del 15 gennaio 1993.

Sin dal primo interrogatorio dopo la cattura, in cui non ha nemmeno ammesso di far parte di Cosa Nostra, il boss ha precisato che non avrebbe mai collaborato con la giustizia. E infatti, fino alla fine dei suoi giorni, ha tenuto la bocca chiusa.

[di Stefano Baudino]

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