sabato 27 Aprile 2024

Sovranità alimentare: lo scippo governativo di una lotta dei contadini del mondo

Qual è la distanza che intercorre tra i concetti di sovranità alimentare, strumentalizzazione e sovranismo? A guardare il nuovo governo italiano verrebbe da dire zero: un termine copre ma non avvolge del tutto l’altro, che così viene alla luce tra una dichiarazione ministeriale e un nuovo decreto-legge. Il governo Meloni ha usato, e soprattutto snaturato, il reale significato di sovranità alimentare perché il Ministero dell’Alimentazione sovranista avrebbe dato troppo nell’occhio. Tutelare la sovranità alimentare non vuol dire ritornare a bere esclusivamente il caffè di cicoria scegliendo una politica protezionista, visione a cui spesso tende l’ideologia del sovranismo. Non vuol dire nemmeno elogiare le proprie eccellenze a prescindere dal processo produttivo sottostante. Ancora, non significa varare misure che in fondo si rivelano vuote, come nel caso della carne coltivata, dove il divieto imposto dal governo Meloni si rivelerebbe praticamente nullo con un’eventuale approvazione a livello comunitario da parte dell’Unione europea. Tutelare la sovranità alimentare vuol dire premiare e assecondare un modello produttivo realmente sostenibile.

Cos’è la sovranità alimentare?

È il 1986: a Palermo ha inizio il maxiprocesso contro la mafia, un incidente nel reattore n. 4 provoca il disastro di Chernobyl, l’Argentina vince il suo secondo mondiale di calcio. Poco dopo, in Uruguay iniziano i negoziati che il 15 aprile 1994 porteranno alla firma degli accordi di Marrakech e la creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Qui i grandi della Terra decidono di inserire anche la produzione primaria nell’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e sul Commercio. Dunque, la produzione e il commercio del cibo, l’ambiente, l’accesso alla terra e la cultura legata alla vita nei campi vengono assoggettate alle nascenti regole neoliberiste del mercato internazionale. In tutto il mondo iniziano a costituirsi movimenti all’interno del mondo contadino con l’obiettivo di difendere il vero valore del cibo, inteso come bene e non come merce, come diritto da tutelare e non mero strumento di profitto.

Nel 1993, il movimento internazionale Via Campesina conia l’espressione “sovranità alimentare”. L’organizzazione di agricoltori fondata in Belgio nel 1993 si autodefinisce “un movimento internazionale che coordina le organizzazioni contadine dei piccoli e medi produttori, dei lavoratori agricoli, delle donne rurali e delle comunità indigene dell’Asia, dell’Africa, dell’America e dell’Europa”. L’obiettivo è tutelare il legame tra cibo e sostenibilità della produzione, intesa in termini di rispetto nei confronti dell’ambiente e delle comunità, presenti e future, circostanti. Non a caso, la definizione più diffusa di sovranità alimentare la qualifica come “il diritto dei popoli ad un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto attraverso metodi ecologici e sostenibili, nonché il diritto a definire i propri sistemi alimentari e modelli di agricoltura. La sovranità alimentare dà priorità all’economia e ai mercati locali e nazionali, privilegia l’agricoltura familiare, la pesca e l’allevamento tradizionali, così come la produzione, la distribuzione e il consumo di alimenti basati sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica”. Alla base di tale presa di posizione vi è il rispetto della sovranità dei popoli nella scelta delle proprie politiche alimentari (produzione e consumo) senza costrizioni esterne legate a interessi privati e specifici, affinché siano in sintonia con il tessuto ecologico, economico e sociale e garantiscano l’accesso a un cibo sano, nutriente e culturalmente appropriato: un diritto sancito per la prima volta nel 1948 all’interno dell’Articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Tra retorica e realtà

Tutelare la sovranità alimentare vuol dire, dunque, opporsi a un insieme di pratiche condotte dall’agroindustria e dalla grande distribuzione organizzata, con il beneplacito dei governi nazionali e delle organizzazioni sovranazionali: dalla monocoltura all’uso massiccio di prodotti chimici, passando per il ricorso agli allevamenti intensivi e alla produzione di cibi ultra processati. Il cambio di paradigma dal locale al globale, che ha intensificato tali pratiche, è stato venduto come la panacea all’esplosione demografica del secondo dopoguerra nei Paesi occidentali, capace di rispondere ai bisogni alimentari di base, almeno in teoria. La macchina industriale si è messa in moto, aumentando le superfici destinate alla coltivazione e all’allevamento, producendo più cibo e perfezionando le tecniche in grado di allungarne il più possibile la scadenza. Quotidianamente, viene veicolata la falsa verità che vede l’industria agroalimentare mobilitare centinaia di gigantesche navi porta-container, migliaia di aerei e milioni di camion per sfamare l’umanità, che di recente ha superato la quota degli 8 miliardi di persone. Peccato che la copertura alimentare abbondi in alcuni continenti (Europa e America del Nord), con milioni di tonnellate di cibo sprecate l’anno, e non raggiunga gran parte del continente africano oltre che diverse zone dell’Asia e del Sudamerica.

Secondo i dati forniti dall’UNICEF, sono circa 2 miliardi, nel mondo, le persone che affrontano livelli moderati o gravi di insicurezza alimentare. Il cibo prodotto dal sopracitato modello industriale che arriva sulle tavole dei più fortunati è arricchito da fertilizzanti chimici e pesticidi, per produrre in tempi brevi e in qualsiasi periodo dell’anno una merce perfetta esteticamente che nasconde però iinsidie per la salute. Tra i prodotti chimici meno conosciuti vi sono i cosiddetti “regolatori della crescita” (o fitofarmaci), che modificano gli equilibri ormonali della pianta per influenzarne lo sviluppo e ottenere così dei frutti più abbondanti, più colorati, con fusti più o meno robusti e lunghi. Ad esempio, per evitare che il grano si alletti (si pieghi verso il suolo) diminuendo così la resa, è possibile rafforzare il suo gambo e usare il Medax Top, uno dei prodotti di punta della BASF, azienda chimica leader al mondo. Lo stesso colosso tedesco ha indicato sulla sua scheda tecnica che il prodotto è “nocivo in caso di ingestione, nocivo per gli organismi acquatici, e che determina effetti nefasti a lungo termine”.

«L’allevamento nell’Unione europea e in Italia si attua nel rispetto di una rigorosa normativa sulla protezione del pollo da carne, che non ha eguali nel panorama internazionale», ha dichiarato il governo Meloni in risposta all’interrogazione parlamentare sull’attuale situazione dei polli a rapido accrescimento negli allevamenti italiani. Nessuna preoccupazione, dunque, per la selezione genetica che ha condannato i polli Broiler a rapido accrescimento a un’esistenza breve e intrisa di sofferenza. Gli animali crescono troppo e troppo in fretta: in appena sette settimane la razza di polli più consumata al mondo passa da pochi grammi di peso a quasi 3 kg. Questa crescita rapida ed eccessiva causa problemi alle loro ossa, con uno scheletro incapace di svilupparsi alla stessa velocità con cui prendono peso. A causa della crescita innaturale, dei problemi ai muscoli e alle ossa i polli finiscono per passare gran parte della loro vita senza alzarsi da terra, costantemente a contatto con la lettiera dove si depositano le feci e le urine degli stessi animali. Un sacrificio calcolato, per quello che agli occhi dell’esecutivo italiano sembra più una risorsa che un problema. Relativamente alla selezione genetica a cui sono stati sottoposti i polli, il governo si è limitato a dire che ha «incrementato le produzioni e la loro qualità».

Animal Equality ha così lanciato una petizione, rivolta al Ministro per le Politiche Agricole e al Ministro per la Salute, per chiedere di supportare a livello europeo la messa al bando delle razze a rapido accrescimento nonché di disporre l’abbandono totale delle stesse in Italia. Dal canto suo, il governo Meloni, quello del ministero della “sovranità alimentare”, non ha osteggiato in nessun modo gli allevamenti intensivi, al cui interno l’uso degli antibiotici sugli animali aumenterà dell’8% entro il 2030.

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha più volte affermato che la resistenza antimicrobica, cioè la diminuzione dell’efficacia dei farmaci per il trattamento delle infezioni batteriche, è una delle maggiori minacce alla salute globale, allo sviluppo e alla sicurezza alimentare. Secondo i dati dell’EMA (l’Agenzia Europea del Farmaco), la carne venduta in Italia conterrebbe una quantità di antibiotici pari a 2,5 volte la media europea. Meritevoli di attenzione sono, infine, gli alimenti ultra processati, dunque i cibi che passano per diverse fasi di lavorazione e raffinazione, risultando alla fine relativamente economici, altamente appetibili e pronti da mangiare. Uno studio condotto da ricercatori inglesi dell’Imperial College di Londra ha mostrato che un maggiore consumo di alimenti ultra-elaborati è associato a un maggior rischio di cancro in generale e in particolare di cancro alle ovaie e al cervello, nonché a un aumento del rischio di mortalità complessiva, mortalità per tumore ovarico e del seno.

La sovranità alimentare, al di là della retorica, non indica la chiusura serrata nei confronti dell’esterno, piuttosto la revisione di un sistema che spreca risorse per produrre una merce non pienamente accessibile e pericolosa per la salute. La lotta dei contadini iniziata negli anni ‘90 rappresenta la resistenza a questo modello, privilegiando la costruzione di una rete nazionale e internazionale di produttori e consumatori coscienziosi che con le loro attività tutelano il suolo, la biodiversità e le risorse a disposizione.

Una questione storica, identitaria, legata alle economie, ai territori e alle comunità: una questione di diritti umani che riguarda, in definitiva, il diritto delle stesse comunità a esistere. Tutele che, per il loro pieno sostegno, necessitano di un impegno serio a livello nazionale, europeo e mondiale, che non si pieghi allo strapotere delle lobby in materia di semi, fertilizzanti e distribuzione, ma lo contrasti. Un’utopia, considerata la realtà. Ma a cosa serve l’utopia? Per continuare a camminare, sosteneva Eduardo Galeano.

[di Salvatore Toscano]

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