martedì 23 Aprile 2024

12 anni fa il ‘cablegate’: le rivelazioni per le quali Assange è ancora nel mirino USA

Accadde oggi, dodici anni fa: il sito di WikiLeaks pubblicava oltre 250 mila documenti segreti, che le ambasciate americane avevano inviato al governo centrale, contenenti informazioni “sensibili” sulle operazioni statunitensi e sui rapporti con i governi esteri. È l’inizio del cablegate, che causerà non poco imbarazzo all’amministrazione statunitense, allora guidata da Barak Obama e già messa a dura prova nei mesi precedenti dalla diffusione, sempre da parte di WikiLeaks, di decine di migliaia di documenti (incluso un video di 17 minuti divenuto celebre col nome di Collateral Murder) che dimostrano come la lotta al terrorismo condotta dagli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan fosse per lo più portata avanti con uccisioni indiscriminate, torture e crimini di guerra di vario genere. La maggior parte dei documenti è allora piuttosto recente (2008-2010) e contiene informazioni riguardo i rapporti dei diplomatici americani con i leader nel mondo, non esenti da opinioni personali anche piuttosto taglienti, e commenti su eventuali minacce nucleari e terroristiche. Le rivelazioni di Julian Assange gli costeranno anni di persecuzioni da parte del governo statunitense, che lo accusa di spionaggio e intrusione informatica. Attualmente, il giornalista australiano è in attesa di essere estradato negli Stati Uniti, dove rischia fino a 175 anni di carcere duro.

Principali contenuti dei cablogrammi diffusi

Il numero di documenti è enorme e le questioni che ne emergono sono molteplici. Tra le principali, si può citare lo stallo tra Pakistan e Stati Uniti per il combustibile nucleare: da quanto emerge, infatti, risulta che sin dal 2007 gli USA avevano messo in atto un tentativo segretissimo (e fallimentare) di rimuovere l’uranio arricchito da un reattore di ricerca pakistano, che secondo gli americani avrebbe potuto essere usato per creare un ordigno illecito. Nel maggio 2009 l’ambasciatrice statunitense in Pakistan ha riferito che il Paese rifiutava l’ingerenza americana, che stava tentando di programmare una visita di esperti tecnici, perché “se i media locali venissero a conoscenza della rimozione del combustibile, ‘lo dipingerebbero come gli Stati Uniti che si impossessano delle armi nucleari pakistane'”.

Nel 2009 il presidente Obama aveva firmato un ordine esecutivo che stabiliva la chiusura della prigione di Guantanamo entro 12 mesi, cosa tuttavia mai effettivamente avvenuta. Tra i documenti resi pubblici da WikiLeaks nel novembre dell’anno successivo ve ne erano diversi che dimostravano come gli Stati Uniti avessero esercitato pressioni sui governi esteri affinché si facessero carico del reinsediamento di alcuni detenuti. Alla Slovenia, per esempio, venne detto che avrebbe dovuto farsi carico di un detenuto se le autorità avessero voluto incontrare il presidente americano. Allo Stato del Kiribati, poi, vennero offerti incentivi di milioni di dollari per accogliere i i detenuti musulmani cinesi, mentre al Belgio venne riferito che accettare un buon numero di prigionieri sarebbe stato un “modo a basso costo” per “raggiungere una posizione di rilievo in Europa”.

Tra i documenti diffusi compare anche l’Italia: nel 2009, i diplomatici americani a Roma riferirono di una relazione “straordinariamente stretta” tra l’allora primo ministro russo Vladimir Putin e il premier italiano dell’epoca, Silvio Berlusconi (“incapace, vanitoso e inefficace come moderno leader europeo”), tra i quali intercorreva uno scambio di “doni sontuosi” e contratti lucrativi per l’energia. Berlusconi venne addirittura definito “il principale portavoce di Putin in Europa”.

Rimanendo in Europa, i documenti rivelarono anche delle tensioni tra Stati Uniti e Germania per via delle pressioni esercitate dai funzionari americani sul governo tedesco nel 2007, dopo che la CIA aveva rapito un cittadino tedesco con lo stesso nome di un sospetto militante e lo aveva erroneamente trattenuto per mesi in Afghanistan. I funzionari americani chiesero quindi alla Germania di non eseguire i mandati di arresto contro gli agenti della CIA che avevano commesso l’errore: al riguardo, un alto diplomatico statunitense riferì a un funzionario tedesco che “la nostra intenzione non era quella di minacciare la Germania, ma piuttosto di sollecitare il governo tedesco a valutare attentamente, in ogni fase del processo, le implicazioni per le relazioni con gli Stati Uniti”.

I documenti rivelavano anche come la lotta al terrorismo strenuamente portata avanti dagli Stati Uniti non stesse dando il risultato sperato: l’Arabia Saudita costituiva infatti uno dei principali finanziatori di al-Qaeda, mentre lo Stato del Qatar, il quale per anni aveva ospitato le truppe statunitensi, non stava compiendo alcuno sforzo nella lotta ai gruppi terroristici “per timore di apparire allineato con gli Stati Uniti e provocare rappresaglie”. Era fallita anche la lotta degli americani per impedire alla Siria di fornire armi a Hezbollah in Libano: ad appena una settimana di distanza dalle promesse del presidente siriano Bashar al-Assad ad un alto funzionario del Dipartimento di Stato USA di non inviare ulteriori armi a Hezbollah, gli Stati Uniti riferivano di avere informazioni sul fatto che stesse accadendo esattamente il contrario.

Nel nome della lotta al terrorismo tutto è lecito

Il mondo si trovava allora nel pieno della lotta al terrorismo post 11 settembre, dove la condizione di “guerra permanente” funzionale al contenimento della minaccia terroristica di al-Qaeda legittima interventi bellicosi, seppur circoscritti, in contesti quali l’Afghanistan e l’Iraq, con la conseguenza di causare un altissimo numero di vittime anche tra la popolazione civile. Il presidente Obama, che l’anno precedente alle rivelazioni di WikiLeaks era stato insignito del premio Nobel per la pace, sarà infatti il primo presidente a formalizzare la “guerra al terrorismo” come nessuno dei suoi precedessori aveva fatto.

Dei 251.287 cablogrammi resi noti (inizialmente ne vennero pubblicati qualche centinaio, il resto fu diffuso nei mesi seguenti), 11 mila erano classificati come “segreti”, 9 mila come “noforn” (una dicitura che indica documenti troppo delicati per essere condivisi con i governi stranieri) e 4 mila erano identificati con entrambe le diciture. Nessuno era “top secret” o classificato. Quotidiani del calibro New York Times (tra i primi a rendere nota la vicenda) decidono perciò di adottare un atteggiamento alquanto prudente nel trattare la vicenda: la stessa prestigiosa testata riferisce infatti di pubblicare il materiale diffuso previa consultazione con il Dipartimento di Stato statunitense e omettendo passaggi delicati, la cui diffusione potrebbe “compromettere gli sforzi dell’intelligence americana”.

Nei mesi precedenti WikiLeaks aveva già messo parecchio in difficoltà l’amministrazione americana con la diffusione, a luglio, di oltre 90 mila file militari riguardanti il completo fallimento della guerra in Afghanistan e della strategia del presidente Obama. I documenti avevano rivelato anche come alcune forze speciali fossero incaricate di stanare i leader talebani per ucciderli senza processo e come si contasse tra le vittime un altissimo numero di civili. Nell’aprile dello stesso anno, inoltre, grazie ai file trafugati da Chelsea Manning e consegnati a WikiLeaks, il sito aveva diffuso il video di 17 minuti divenuto noto col titolo di Collateral Murder il quale aveva profondamente scosso l’opinione pubblica. Il video, che risaliva al 2007, era stato registrato a bordo di uno dei due elicotteri Apache americani che sorvolavano Baghdad in cerca di ribelli. Dopo aver individuato un gruppo di una dozzina di individui, grossolanamente scambiati per un gruppo armato di combattenti, i militari aprirono il fuoco, uccidendo gli uomini e ferendo gravemente due bambini. Nell’attacco moriranno anche un fotografo di Reuters, Namir Noor-Eldeen, di 22 anni, e il suo autista, Saeed Chmagh. Le risate dei militari fanno da sottofondo alla crudezza delle immagini, mentre il tutto si svolge in un’inquietante atmosfera da videogame. A causare ulteriore imbarazzo all’amministrazione americana vi era il fatto che il video era stato diffuso poco dopo che l’esercito USA aveva ammesso il tentativo di insabbiamento dell’omicidio, da parte delle proprie forze speciali, di tre donne afghane, avvenuto nel febbraio 2010, dopo che erano stati estratti i proiettili dai loro corpi.

“Democrazia senza trasparenza è una parola vuota” aveva dichiarato nel 2010 Kristin Hrafnsson, oggi caporedattore di WikiLeaks. Ma dell’immenso sforzo di mettere in atto questo principio oggi non rimane che la vita fatta a pezzi dell’uomo che ha agito in nome di questo scopo. Julian Assange, infatti, dopo anni trascorsi nel tentativo di sfuggire all’arresto degli Stati Uniti e ai tentativi dei servizi segreti di porre fine alla sua vita, si trova ora nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, nel Regno Unito, in attesa di essere estradato negli USA. Qui, il suo sforzo per la trasparenza gli varrà, con tutta probabilità, 175 anni di carcere.

[di Valeria Casolaro]

 

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1 commento

  1. Ho sempre avuto una pessima opinione dello stato Americano, si credono onnipotenti, pensano di poter fare tutto quello che vogliono. Dovrebbero fare un monumento a Assange. Sono uno di quelli che ha firmato per la liberazione tramite Amnesty International ( giusto per confermare il mio pensiero).
    Ancora adesso quasi alla luce del sole stanno imponendo decisioni a molti stati europei per quanto riguarda la guerra in Ucraina, Italia compresa.

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