giovedì 18 Aprile 2024

Chi sono i veri responsabili dello spreco alimentare?

Di recente nei supermercati britannici è nata un’iniziativa contro lo spreco alimentare, che mira a contenere e ridurre lo sperpero di cibo domestico delle famiglie inglesi. L’iniziativa è stata sposata da diverse catene di supermercati. A partire da settembre 500 prodotti freschi ma confezionati, tra cui frutta, insalate e verdure, non avranno più sulla confezione la dicitura “da consumarsi preferibilmente entro”. L’eliminazione della data di consumo consigliata punta a ridurre gli sprechi alimentari domestici delle famiglie britanniche, invitando i clienti a utilizzare i propri sensi e il proprio giudizio per scegliere autonomamente se mangiarli o buttarli nella spazzatura. Una notizia trattata come una rivoluzione contro lo spreco su molti media, ma è davvero così? O forse sono altri i punti della filiera produttiva sui quali concentrare l’attenzione anziché, come al solito, sul solo passaggio finale? 

È importante constatare subito che saranno coinvolti da questa politica solo alimenti che ad oggi riportano la dicitura “da consumare preferibilmente entro”. Ovvero quelli le cui proprietà organolettiche possono variare, dopo la data indicata, per quel che riguarda gusto, colore o consistenza, ma senza rappresentare una minaccia per la salute da un punto di vista batteriologico. Nulla cambierà invece in merito ai prodotti su cui è apposta la più perentoria scritta da consumarsi entro il”. Questi prodotti, al contrario, trascorso un certo lasso di tempo, possono alterarsi al punto di causare problemi e devono essere consumati obbligatoriamente (e non “preferibilmente”) entro la data precisa indicata sulla confezione. A questa seconda categoria di prodotti appartengono ad esempio latte, yogurt, mozzarelle e tutti i latticini in genere, ma anche altri alimenti come albume, salumi confezionati, carni in vaschetta ecc.

L’iniziativa è partita perché le statistiche indicherebbero che le famiglie inglesi gettano via ogni anno tonnellate di alimenti confezionati freschi (come le insalate in busta) perché non capaci di gestire l’utilizzo di alimenti confezionati prossimi alla data di consumo consigliata. Se la data sulla confezione è troppo vicina, la tendenza pare sia quella di gettare il prodotto nel bidone dei rifiuti, producendo così molto spreco e un costo elevato per l’ambiente. Il cibo scartato nell’umido, infatti, va poi lavorato e trasformato in altri prodotti come fertilizzanti, compost ecc, con costi di energia (corrente elettrica, gas, carburante ecc.) che comportano elevate emissioni di gas serra, nocive per l’ambiente e la salute di tutti. 

Il legame tra spreco di cibo e ambiente

I cittadini devono essere consapevoli che lo spreco alimentare ha degli effetti negativi sull’ambiente e sull’economia, perché gran parte del cibo buttato nella spazzatura dovrà essere bruciato nell’inceneritore o trattato in discarica per il riutilizzo e la trasformazione in compost che servirà in parte per usi agronomici o florovivaistici. Sia l’inceneritore che l’impianto di compostaggio comportano emissione nell’aria di sostanze inquinanti come la CO2, ed elevato consumo di energia elettrica, gas o carburante per il funzionamento degli impianti. E come sappiamo, anche per produrre e trasportare energia elettrica, gas e carburanti si inquina l’ambiente e si producono CO2, diossine e altre sostanze altamente tossiche, pertanto sprecare cibo è una pratica che contribuisce a deteriorare l’Ambiente e impiega un forte consumo di risorse energetiche. Si stima che il peso economico dello spreco alimentare si aggiri intorno a 1 trilione di dollari, che potrebbe arrivare anche a 1 trilione e mezzo entro il 2030 (FAO, 2014).

Sprecare cibo significa anche sprecare soldi: soldi investiti nella coltivazione, nella raccolta, nel trasporto, nel confezionamento, nel raffreddamento e nell’acquisto di alimenti che finiscono nella spazzatura. Gli Stati Uniti spendono 218 miliardi di dollari nella produzione, nel trasporto e nello smaltimento di cibo che non viene consumato (FAO, 2016). Il paradosso è che noi spendiamo soldi ed energia per produrre cibo, li spendiamo per comprarlo e poi li spendiamo anche per smaltirlo.

Chi sono i veri responsabili?

Tutti i report ufficiali che si leggono nei media, e che vengono emessi da vari enti ed autorità come FAO, Coldiretti, o la Commissione europea, sostengono che circa il 70% dello spreco alimentare sia dovuto alle famiglie e al consumo domestico, cioè all’ultimo anello della filiera alimentare, mentre soltanto il 30% circa sia calcolabile come pre-consumer waste cioè spreco che si attua lungo la filiera di produzione alimentare prima che il cibo arrivi nelle mani dei cittadini. In Italia si stima che ogni abitante sprechi 67 Kg di cibo all’anno, il che porta a numeri esorbitanti in tonnellate di cibo gettato nella spazzatura a fine anno (fonte Coldiretti). Nel mondo invece, si stima che si sprechi un terzo di tutto il cibo che viene prodotto.

Ma è davvero il consumatore finale a produrre tutto questo spreco?

A mio avviso non è così, e come spesso accade ciò che viene presentato sui media è una sorta di mistificazione della realtà che è utile al sistema, al fine di mostrare al pubblico da una parte il “lato buono” dell’azione degli enti preposti alla gestione del problema, e dall’altra il “lato cattivo” e l’anello debole del sistema, cioè l’addebito di responsabilità in maniera quasi esclusiva al cittadino. Se il sistema ha dimostrato di mentire ripetute volte su tanti temi come la salute, la medicina, l’andamento dell’economia, perché dovremmo ora credere ad occhi chiusi che in un mondo in cui il cibo è prodotto e gestito in maniera industriale dalle multinazionali l’elemento più peccaminoso della catena sia il consumatore? E infatti non bisogna crederlo, perché ad un esame più attento del problema ci si rende conto che non è affatto così e che anzi gran parte dello spreco alimentare è addebitabile ad altri attori di questa filiera, come il settore della ristorazione (mense aziendali, ristoranti) e quello della vendita al dettaglio (supermercati, grossisti e confezionatori).

La differenza tra food loss e food waste

Un aspetto importante che non viene quasi mai sottolineato nei media mainstream, è la differenza tra il concetto di “cibo perduto e scartato” e “cibo sprecato”. Secondo l’Organizzazione mondiale per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO), nel 2016 sul totale degli alimenti prodotti sul nostro pianeta, escludendo la fase della vendita al dettaglio (supermercati) e del consumo, ne veniva perso il 13,8%. Questo fenomeno è classificato dalla FAO come food loss (perdita di cibo), e si differenzia da quello definito come vero e proprio food waste (spreco), che riguarda invece gli ultimi anelli della filiera, ovvero proprio la vendita al dettaglio, l’uso domestico e la ristorazione. Già da questi dati si intuisce che quando si parla di spreco alimentare (food waste) e si forniscono statistiche annuali in milioni di tonnellate sprecate, si sta in realtà agglomerando sia lo spreco domestico addebitabile al cittadino che quello prodotto dalla ristorazione e dalla vendita al dettaglio (supermercati e altri attori della filiera produttiva a loro collegati come i confezionatori e i grossisti). Pertanto non è di certo il consumatore l’unico responsabile del problema e direi nemmeno il principale responsabile. Vediamo infatti alcuni fatti concreti e incontestabili emersi proprio in Italia da alcune inchieste relative allo spreco alimentare, che confermano come il grosso dello spreco alimentare è prodotto dal settore della ristorazione e da quello dei produttori industriali della Grande Distribuzione Organizzata (supermercati e altri attori collegati ad essi). 

Nella puntata di Presadiretta su RAI3 dal titolo La rivoluzione agricola (2018), si parla di spreco alimentare e al minuto 1:01:00 di trasmissione arriva un servizio sulla mensa aziendale della RAI in via Teulada a Roma, che documenta l’enorme spreco di cibo che ogni giorno viene perpetrato su circa mille pasti giornalieri per dipendenti e collaboratori RAI. In pratica soltanto la frutta fresca che avanza nei vassoi può essere usata nei giorni successivi, mentre tutto il resto che è stato cucinato, servito e non consumato, come spinaci, spinacine, mozzarelle, prosciutto, riso, ecc. viene buttato nel bidone dell’umido. Questo è solo ciò che succede in una delle tantissime mense aziendali, comunali o scolastiche del nostro Paese, e lo stesso avviene sugli avanzi al ristorante, bar, tavole calde che ogni giorno forniscono pasti a milioni di lavoratori o viaggiatori. 

Un altro servizio-inchiesta, del 2020, sempre a cura di Presadiretta su RAI3 e dal titolo Il prezzo ingiusto ha messo in luce l’enorme spreco alimentare prodotto dalla Grande Distribuzione Organizzata in Italia nella produzione di frutta e verdura. Solo per ciò che concerne la produzione di ciliegie nello stabilimento industriale di Giuliano Puglia Fruit, uno dei più grossi stabilimenti della frutta in Italia, la GDO impone di fatto uno scarto del prodotto integro e perfettamente commestibile pari al 20-30%, perché nella lavorazione sono richiesti degli standard molto rigidi su calibro, colore, e maturazione dei frutti. Le ciliegie che escono da questo stabilimento sono acquistate poi da tutti i più grandi supermercati italiani. Anche in questo caso quindi registriamo un food waste che avviene a carico del sistema industriale della produzione, ben prima di quello che produrrà eventualmente il consumatore finale. Un caso che può essere esteso benissimo anche alla produzione di altri tipi di frutta come pesche, mele, pere, kiwi o altro.

E dove finisce questo 20-30% di scarto?

Una piccola parte (pari a circa il 10%) viene inviata per la produzione di succhi di frutta, la stragrande maggioranza va invece in discarica per essere incenerita, con l’attivazione di costi su Ambiente e risorse energetiche di cui abbiamo detto sopra.

Soluzioni pratiche e virtuose per abbattere gli sprechi

Ben venga quindi anche la strategia di eliminare dalle confezioni la dicitura “preferibilmente entro il” per gli alimenti su cui ancora si possa valutarne il consumo, ma occorre riconoscere il problema dello spreco in un’ottica più di sistema, perché spesso si tende a puntare il dito solo su uno degli aspetti marginali del fenomeno, ma la verità è che il cibo si spreca purtroppo lungo tutta la filiera, dalla produzione fino alla distribuzione. Quello che serve per il futuro sono dunque strategie su più fronti, che coinvolgano e rivedano i metodi di produzione stessa del cibo, i metodi di selezione e confezionamento, la distribuzione e il riuso nella ristorazione, e infine le buone pratiche di consumo domestico.

Esistono già per esempio delle onlus e delle associazioni come la Caritas che si occupano di raccogliere e recuperare cibo ancora commestibile che viene scartato dal circuito della GDO o della ristorazione collettiva, ma sono ancora pochissimi i supermercati e ristoranti che aderiscono al sistema del recupero e riciclo. Significa che andrebbero incentivate con leggi apposite tali pratiche di economia circolare e riutilizzo. Anche iniziative private come Last Minute Market sono da incentivare e possono dare una grossa mano per abbattere lo spreco di cibo. Si tratta di un’iniziativa sociale nata da uno studio condotto nel 1998 dalla Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna. Il progetto ha come obiettivo la quantificazione degli sprechi commestibili legati alla grande distribuzione del settore alimentare per promuoverne un “riutilizzo” all’interno dei circuiti della solidarietà. Gli addetti al progetto stimano che il 95% dei prodotti alimentari ritirati dagli scaffali dai negozianti sia perfettamente consumabile. Ogni anno vengono smaltite 1,5 milioni di tonnellate di prodotti alimentari consumabili. La tesi di Last Minute Market è quella di trasformare lo spreco in risorsa. Il nome dato all’iniziativa deriva dal fatto che il progetto crea un mercato parallelo “dell’ultimo minuto”, perché i beni sono prossimi alla scadenza o perché in via di dismissione. Il progetto, che coinvolge circa quaranta città italiane, promuove lo sviluppo del consumo sostenibile tramite l’organizzazione della raccolta, presso supermercati, bar e altri centri commerciali, di tutti quei beni che, in quanto vicini alla scadenza o per imperfezioni estetiche, risultano invendibili e vengono dunque smaltiti dai rivenditori. Questo surplus inutilizzato può dunque essere prelevato e messo a servizio della comunità dei cittadini indigenti, dei senza tetto, delle Onlus e delle associazioni di beneficenza.

Un’altra iniziativa lodevole è quella che avviene nella mensa della scuola primaria Ricci Muratori di Ravenna, dove si insegna ai bambini a ridurre gli sprechi e a non buttare il cibo, con l’uso della No spreco bag, un astuccio termico presente a tavola per ogni bambino, con il quale almeno il pane e la frutta possono essere salvati dal bidone della spazzatura e portati a casa per essere mangiati successivamente. Banalmente, ma farebbe una grande differenza in termini di numeri, anche la cosiddetta Doggy Bag, con cui si richiede al ristorante di portare a casa il cibo avanzato dalla serata, costituisce una pratica di valore e di riduzione dello spreco. Molti italiani si vergognano a richiedere il cibo non consumato al ristorante, per una questione di mancata educazione e scarsa valorizzazione del problema. La parola d’ordine quindi è: educazione e cultura del rispetto a tutti i livelli della società, dai bambini fino al direttore generale dei grandi gruppi industriali. Prevenzione dunque, perché il miglior spreco è quello che non si fa. 

[di Gianpaolo Usai]

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