martedì 19 Marzo 2024

Trattativa Stato-Mafia: tutti assolti, per i giudici operarono per il bene dello Stato

La trattativa Stato-mafia ci fu, ma venne intavolata al fine di fermare le stragi, con l’obiettivo di “tutelare l’interesse generale”. È questo il fulcro delle motivazioni della sentenza d’Appello al processo “Trattativa Stato-mafia”, uscite in seguito alla pubblicazione del dispositivo con cui i giudici, nel settembre dello scorso anno, hanno assolto i carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, allora ai vertici del Ros, nonché l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, dal reato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato (i carabinieri “perché il fatto non costituisce reato”, Dell’Utri “per non aver commesso il fatto”). In primo grado, gli uomini dello Stato e i mafiosi, imputati per il medesimo reato, erano stati condannati a pene esemplari; in Appello, invece, le condanne sono state confermate solo per gli uomini di Cosa Nostra.

[Marcello Dell’Utri, ex politico italiano con Il Popolo della Libertà e con Forza Italia. Già condannato per concorso esterno in associazione, nell’aprile 2018 ha ricevuto una nuova condanna in primo grado a 12 anni di reclusione a conclusione del processo sulla trattativa Stato-mafia, per poi essere assolto nel settembre 2021]
“Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei Carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico – scrivono i giudici a pagina 2074 -, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”. L’invito al dialogo pervenne ai mafiosi nel 1992, precisamente nel periodo compreso tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, quando i Carabinieri del Ros “agganciarono” l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, corleonese e mafioso, per cercare di “instaurare un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci”. L’iniziativa, definita “improvvida” dai giudici, fu subito accolta dall’allora Capo di Cosa Nostra Totò Riina.

Secondo la Corte d’Assise di Palermo, i carabinieri “si insinuarono” nella “spaccatura” tra la componente stragista di Cosa Nostra, capitanata proprio da Riina, che aveva la sua bussola strategica nella perpetuazione delle stragi, e quella “moderata”, il cui leader era Bernardo Provenzano, più propensa al compromesso e alla ‘sommersione’. Il Ros “fece leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista”. Gli interlocutori del “possibile negoziato” non erano “già i vertici mafiosi genericamente intesi, o addirittura Salvatore Riina, bensì i capi di quella componente dell’organizzazione mafiosa che fosse disponibile e interessata a defenestrarlo, per insediare al suo posto una leadership per sua vocazione e convinzione propensa a cercare il dialogo per potersi dedicare proficuamente allo sviluppo dei propri affari, piuttosto che attaccare frontalmente lo Stato in tutte le sue articolazioni”.

[Bernardo Provenzano è stato un mafioso italiano, membro e capo di Cosa Nostra a partire dal 1995 fino al suo arresto avvenuto nel 2006]
La Corte collega poi la questione della trattativa a due vicende significative: la mancata perquisizione del covo di Totò Riina dopo il suo arresto del 15 gennaio ’93 e la mancata cattura di Bernardo Provenzano, il quale, dopo essere subentrato a Riina come nuovo capo di Cosa Nostra, riuscì a protrarre la sua latitanza fino al 2006, anno in cui fu arrestato. I giudici inquadrano la mancata perquisizione tra le “sconcertanti omissioni” inserite nel contesto delle condotte di Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti”. Attraverso la mancata perquisizione, si intese infatti “lanciare un segnale di buona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino per giungere al superamento di quella contrapposizione di Cosa Nostra con lo Stato che era già culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio”. Il significato di tale gesto “era soprattutto simbolico, dovendo esso servire a lanciare il segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo”. Su questa scia, il Ros decise dunque di “proteggere” Bernardo Provenzano, favorendone “in modo soft” la latitanza, “limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo”, dal momento che “la caduta di Provenzano che avrebbe inevitabilmente fatto seguito ad un suo arresto, avrebbe favorito il riemergere delle pulsioni stragiste mai del tutto sopite in Cosa Nostra”. Insomma, secondo la Corta d’Assise, “un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”.

Una sentenza destinata a fare discutere e che ha già attirato le critiche di esponenti di spicco dell’anti-mafia: «Siamo alla giustificazione della collusione con i criminali» ha scritto su Facebook Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo.

[di Stefano Baudino]

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8 Commenti

  1. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”.
    Non so come avrei agito al loro posto, perché é facile scrivere da dietro una tastiera e giudicare con l’occhio moderno i fatti . Cosa avrei fatto? Come avrei agito. Dammi tempu nuci che ti perciu , é stato un agire d’astuzia per non andare allo scontro diretto con la mafia,o una boutade per cercare di allearsi. Il filo é sottile . Dico al giornalista ,ho faticato a leggerla , a volte ho dovuto rileggere alcuni passaggi , sarà il troppo sole preso ieri?

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