venerdì 9 Maggio 2025
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L’Estonia ha approvato una legge per limitare il diritto di voto alla minoranza russa

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Il Parlamento estone ha approvato un disegno di legge per vietare ai residenti provenienti da Paesi extra-UE di votare alle elezioni locali. Attualmente, la Costituzione prevede il diritto di voto alle elezioni locali – ma non a quelle nazionali – per tutti i residenti permanenti, senza distinzione di cittadinanza. La modifica, che adesso attende la firma del Capo di Stato Alar Karis, intende colpire le minoranze russe e bielorusse presenti nel Paese. Il primo ministro estone Kristen Michal non ha usato mezzi termini quando ha descritto l’esito parlamentare come «una vittoria per tutti», aggiungendo che «le decisioni nella nostra vita locale non saranno prese dai cittadini degli Stati aggressori ma decideremo da soli». La mossa del legislatore estone si inserisce in un filone coerente intrapreso sin dall’invasione russa dell’Ucraina e volto a recidere qualsiasi legame con Mosca e il suo alleato bielorusso.

Sono circa 83mila i cittadini russi e bielorussi con un regolare permesso di soggiorno in Estonia, la cui popolazione complessiva ammonta a 1,3 milioni di persone. La modifica costituzionale, sostenuta da 92 deputati su 101, li riguarda da vicino. Tallin ha deciso di agire adducendo preoccupazioni in materia di sicurezza, con una doppia finalità: sanzionare Russia e Bielorussia per la guerra in Ucraina e limitare l’influenza che il Cremlino potrebbe esercitare sul Paese attraverso i propri residenti, parte di una più ampia comunità russofona che conta circa 330mila persone, un quarto della popolazione estone. La decisione del Parlamento, come denunciato da diversi sindaci di confine, rischia di generare attriti e discriminazioni etniche verso minoranze considerate storicamente alla stregua di occupanti all’interno delle società baltiche. La limitazione del diritto al voto non è l’unica misura contro i cittadini russi e bielorussi, che dall’anno scorso non possono più detenere legalmente armi all’interno del Paese.

Il tutto si inserisce in una più ampia guerra culturale intrapresa dagli Stati baltici contro la Russia. Soltanto poche settimane fa il governo estone ha deciso, attraverso una riforma del sistema scolastico, di abolire la lingua russa dalle scuole entro il 2030, sostituendola con l’uso esclusivo dell’estone. Una decisione simile è stata presa nel 2018 dalla Lettonia, che ha vietato l’insegnamento di materie in lingue non ufficiali dell’UE, incluso il russo. Nel 2022, dopo l’invasione dell’Ucraina, il governo estone si è impegnato a smantellare i monumenti di epoca sovietica in tutto il Paese, a partire dalle zone russofone. «In quanto simboli della repressione e dell’occupazione sovietica, questi monumenti sono diventati una fonte di crescenti tensioni sociali», aveva scritto l’ex premier Kaja Kallas (oggi Alta rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE) su X.

[di Salvatore Toscano]

Cina, la rivoluzione silenziosa degli Sdraiati

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Una Fender Telecaster sdraiata sul suolo e collegata a un amplificatore, vari dischi sparsi sul tavolo e un leggero odore d’incenso lascia spazio alla cenere in un vasetto. Questo è ciò che appare davanti ai miei occhi, aperta la porta di un appartamento situato al ventesimo piano di un palazzo nel quartiere di Hongshang, a Wuhan. «Domani ho un esame all’università» mi dice Chen, dopo aver fatto gli onori di casa. Finita la frase, si siede sul divano e dopo aver imbracciato la sua Fender, inizia a strimpellare.
Chen, un ragazzo di diciannove anni proveniente da una cittadina non lontana da Wuh...

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Myanmar, scossa di magnitudo 7.7 scuote il Paese

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In Myanmar, alle 14:20 locali (7:20 italiane), la terra ha tremato a causa di un terremoto di magnitudo 7.7. Il sisma, che ha avuto origine a 10km di profondità, è stato avvertito anche nella confinante Thailandia e nella provincia sud-occidentale cinese dello Yunnan. Pochi minuti dopo, vi è stata una seconda scossa, di magnitudo 6.4. Si registrano diversi danni, tra edifici e ponti crollati. Al momento non si hanno notizie su feriti e vittime.

Tanzania: la protezione delle riserve marine garantisce il benessere delle comunità

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Nell’arco di un ventennio, la protezione delle aree marine in Tanzania ha sensibilmente migliorato la qualità della vita delle comunità che si trovano nelle loro immediate vicinanze. Si tratta di un dato di una certa rilevanza, in quanto costituisce una vittoria del modello di conservazione e tutela dell’ambiente e in quanto il 20% circa della popolazione tanzanese dipende dalle risorse marine per la propria sussistenza. Inaspettatamente, tale miglioramento dipende in larga parte dalla diversificazione dei settori economici come conseguenza delle attività di conservazione.

Le aree marine protette sono un elemento chiave per garantire la conservazione dell’ambiente marino, dal momento che garantiscono la tutela della biodiversità e forniscono benefici socio-economici. Le cinque aree marine oggetto dello studio, i cui esiti sono stati pubblicati recentemente su Conservation Letters, sono state istituite negli anni ’90. In queste zone, la pesca non è stata vietata, ma consentita solamente con modalità orientate alla sostenibilità. In base ai positivi risultati raggiunti, gli scienziati ritengono che questo possa costituire un modo per aiutare la Tanzania, ma anche altre nazioni nel mondo, a raggiungere l’obiettivo di proteggere il 30% dei propri oceani entro il 2030, senza dover chiedere ai pescatori di rinunciare ai propri mezzi di sostentamento.

Per verificare l’impatto delle aree tutelate sullo sviluppo locale, il gruppo di ricerca ha intervistato 840 famiglie in 24 villaggi, confrontando poi i dati con i risultati di un’indagine simile condotta nel 2003. Tutti i villaggi esaminati hanno visto migliorare le proprie condizioni di vita, misurate in base a 18 variabili tra le quali la proprietà della casa, la sicurezza alimentare e l’accesso alla refrigerazione. Tali benefici sono stati osservati in maniera estremamente più accentuata tra chi vive entro i 5 chilometri dalla costa, rispetto a chi vive a 10 o più chilometri di distanza da essa.

Le misure di conservazione sono state orientate soprattutto al controllo della pesca indiscriminata, dal momento che, secondo quanto spiegato dagli studiosi, gli ecosistemi dell’Oceano Indiano sono sottoposti a forti pressioni, a causa dell’eccessivo sfruttamento delle risorse e del cambiamento climatico. Inaspettatamente, tuttavia, il miglioramento della qualità della vita registrato è dipeso da una maggiore diversificazione dei settori economici come conseguenza dei progetti di conservazione, che hanno portato alla crescita di industrie diverse rispetto alla pesca o all’agricoltura. Al momento non si hanno dati certi, ma gli scienziati ipotizzano che a far da trainante principale sia il settore turistico, con un aumento di attività che vanno dallo snorkeling alla vendita di prodotti tipici locali.

[di Valeria Casolaro]

Amsterdam, uomo accoltella 5 persone in centro: arrestato

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Un uomo ha accoltellato cinque persone nel centro di Amsterdam prima di essere successivamente arrestato, ha riferito la polizia olandese, aggiungendo che sono in corso le indagini sulla vicenda. L’aggressione è avvenuta questo pomeriggio, con gli agenti di polizia che sono giunti rapidamente sulla scena, fermando il sospettato. Le persone colpite – una coppia americana, un polacco, una donna belga e un’altra di Amsterdam -, sono state portate in ospedale da ambulanze ed elisoccorso e risultano in condizioni gravi. L’inchiesta sta cercando in queste ore di ricostruire il movente dietro all’aggressione.

La paradossale crisi delle uova negli Stati Uniti

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Da settimane, una nuova crisi sta mettendo in ginocchio la società statunitense: quella delle uova. A causa di una influenza aviaria, che ha costretto gli allevatori a uccidere milioni di pulcini, polli e galline, il prodotto alimentare simbolo del Paese a stelle e strisce sta infatti scomparendo dagli scaffali di tutti i supermercati, costringendo le persone a prendere misure alternative. C’è chi, dal Texas, è partito alla volta del Messico per acquistare scorte del prezioso alimento dai vicini di casa. Altri, invece, hanno preferito un approccio meno ortodosso, acquistando prodotti contrabbandati dallo stesso Messico o rapinando camion e grossisti di carichi dal valore di decine di migliaia di dollari. A finire in mezzo a questa psicosi collettiva è stata anche la stessa amministrazione statunitense, che è arrivata a lanciare appelli al resto del mondo, tra cui al nostro Veneto, per riportare le uova nelle case dei cittadini americani.

La carenza di uova negli Stati Uniti sta andando avanti almeno dall’inizio dell’anno, tanto che c’è chi ormai parla esplicitamente di una vera e propriacrisi”. A causarla è stato lo scoppio di una grave epidemia di aviaria. L’influenza aviaria ha infatti effetti disastrosi per i produttori: se viene scoperto anche un solo caso di contaminazione, le norme sanitarie degli Stati Uniti prevedono l’uccisione di tutto il pollame che potrebbe essere entrato in contatto con l’animale infetto. L’agenzia di stampa Associated Press, citando fonti governative, scrive che, per limitare la diffusione dell’aviaria, a gennaio erano stati macellati più di 23 milioni di uccelli, mentre a dicembre ne erano stati abbattuti più di 18 milioni. In totale, dall’inizio dell’epidemia, sarebbero stati uccisi più di 166 milioni di animali.

L’assenza di uova nel mercato ha portato a un’impennata nei prezzi senza precedenti. Secondo le statistiche dell’Ufficio Statistico statunitense, il prezzo delle uova è in aumento da giugno dell’anno scorso. Nei primi due mesi del 2025, il prezzo delle uova ha già superato due record storici, attestandosi a 4,953 dollari a gennaio e a 5,897 dollari a febbraio, con un picco giornaliero di 8,03 dollari registrato il 24 febbraio. Da allora, il prezzo è tornato a calare e, secondo i primi dati, sarebbe sceso sotto i 3 dollari, ma secondo gli analisti è destinato ad aumentare di nuovo. Il consumo di uova negli Stati Uniti, infatti, è particolarmente elevato. Secondo i più recenti dati, gli statunitensi consumano in media circa 284,4 uova a testa ogni anno. Questo dato comprende tutti gli abitanti residenti negli Stati Uniti, e dunque anche chi non mangia le uova per ragioni di età, dieta o motivi di salute. Intervistata dall’emittente Fox News, inoltre, la segretaria all’Agricoltura, Brooke Rollins, ha rimarcato che generalmente durante la Pasqua la domanda di uova aumenta e che probabilmente, vista la scarsità di uova nel mercato, aumenterà anche il prezzo del prodotto.

Davanti alla crisi, i cittadini statunitensi hanno fatto ricorso alle misure più fantasiose per procacciarsi le uova. A inizio febbraio, la BBC raccontava di un furto avvenuto in Pennsylvania, dove i ladri hanno preso di mira un camion di un grossista, sottraendo oltre 100.000 uova per un valore complessivo di 40.000 dollari. In generale, sembra siano aumentati anche i furti nelle fattorie locali. Oltre ai furti, è aumentato notevolmente anche il contrabbando. Da ottobre dello scorso anno, i tentativi di introdurre uova illegalmente sono aumentati del 36%. Nello stesso periodo, i sequestri di uova e prodotti legati al pollame sono stati dieci volte superiori rispetto a quelli di fentanyl.

L’amministrazione USA, dal canto suo, ha svelato un piano di 1,5 miliardi di dollari per combattere l’aumento dei prezzi delle uova, di cui 500 milioni destinati a misure di biosicurezza, 400 milioni agli agricoltori colpiti dall’aviaria e 100 milioni alla ricerca medica e sui vaccini contro la malattia. Nella stessa intervista a Fox News, Rollins ha anche affermato che l’amministrazione stava negoziando per importare tra 70 e 100 milioni di uova dall’estero. La prima richiesta è arrivata alla Danish Egg Association, e si è poi estesa ad altri Paesi europei. A metà marzo, dalla Turchia, sono partite circa 15.000 tonnellate di uova. Tra i Paesi a cui Washington ha spedito una richiesta di aiuto c’è anche l’Italia. «Sono arrivate molte richieste agli imprenditori agricoli veneti, da Verona a Padova» ha detto Michele Barbetta, presidente del settore avicolo di Confagricoltura Veneto, «ma anche noi siamo al limite con la produzione e non possiamo garantire un approvvigionamento».

[di Dario Lucisano]

Nel porto di Ravenna è stato sequestrato un carico di materiale militare diretto a Israele

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Un carico di oltre 13 tonnellate di componenti metallici destinati a Israele è stato sequestrato nel porto di Ravenna dall’Agenzia delle Dogane. Il sequestro, risalente al 4 febbraio scorso e convalidato dal Gip del Tribunale di Ravenna, riguarda centinaia di pezzi metallici grezzi, tra cui cilindri, lamiere e manovelle, per un valore complessivo di oltre 250mila euro. Questi materiali, secondo gli inquirenti, erano destinati alla società israeliana IMI Systems Ltd, specializzata nella produzione di armamenti per le forze armate. Nei prossimi giorni, il Tribunale del Riesame si pronuncerà sulla richiesta di dissequestro avanzata dall’azienda lecchese, mentre la rete antisionista e anticolonialista per la Palestina ha convocato per sabato prossimo un presidio a Piazza del Popolo, a Ravenna, per protestare contro i «traffici di morte» nei porti italiani e «ogni complicità» con Israele.

L’indagine ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di un imprenditore 57enne di Lecco, amministratore unico della Valforge srl, accusato di esportazione non autorizzata di materiale bellico. L’azienda lecchese, infatti, non risulta iscritta al Registro nazionale delle imprese autorizzate dal Ministero della Difesa e non dispone delle necessarie autorizzazioni per operare nel settore degli armamenti. Secondo la ricostruzione della Procura, la Valforge avrebbe agito come intermediaria, commissionando la produzione dei componenti a due aziende della provincia di Varese e inviandoli poi a Ravenna per l’imbarco. La difesa dell’imprenditore contesta l’accusa, sostenendo che i materiali sequestrati fossero semplici componenti metallici grezzi, privi di una chiara identificazione come parti di armamenti. Secondo l’avvocato dell’azienda, Luca Perego, la Valforge si sarebbe limitata a certificare la qualità dei materiali senza avere conoscenza della loro destinazione finale. Tuttavia, il fatto che il carico fosse diretto a IMI Systems, azienda esclusivamente impegnata nella produzione di armamenti, ha fatto emergere dubbi su tale ricostruzione.

Attivisti e associazioni pacifiste, tra cui il Coordinamento lecchese Stop al Genocidio e la campagna BDS, denunciano da tempo il coinvolgimento di aziende italiane nella fornitura di armamenti a Israele. Secondo queste organizzazioni, oltre alle esportazioni autorizzate e tracciate, vi sarebbero traffici paralleli di materiali che sfuggono ai controlli ufficiali, rendendo ancora più preoccupante il quadro complessivo. Evidenziando come, ormai da tempo, il Porto di Ravenna sia «un luogo dove la scarsissima trasparenza dei traffici rende possibile farlo diventare un Hub per il trasporto di armi, come gli altri scali portuali dell’Alto Adriatico, in particolare verso i teatri di guerra in Medio Oriente», i membri della Rete antisionista ed anticolonialista per la Palestina hanno indetto un presidio che si terrà in Piazza del Popolo, a Ravenna, alle ore 16 di sabato 29 marzo, con l’obiettivo di «denunciare con forza ogni complicità, a qualsiasi livello, del nostro Paese con Tel Aviv, e mettere in luce la pericolosa riconversione a fini bellici dell’apparato produttivo».

Il recente sequestro ha riportato l’attenzione sul porto di Ravenna come possibile snodo per il transito di forniture militari dirette in zone di conflitto. Non è la prima volta che il traffico di armi attraverso lo scalo romagnolo suscita polemiche. Già nel 2021, infatti, i sindacati del porto di Ravenna avevano proclamato uno sciopero per impedire il carico di armi dirette in Israele. Scene simili si erano viste anche a Livorno e Napoli, dove i dipendenti del porto avevano rifiutato di caricare navi che erano sospettate di trasportare armamenti verso Israele, per esprimere «vicinanza ai palestinesi, che da anni subiscono una spietata repressione». A Genova, invece, nel novembre del 2023 oltre 400 persone avevano risposto all’appello dei portuali contro l’invio di armi in Israele che transitano dal porto, presentandosi al blocco del varco di San Benigno e provocando disagi e deviazioni del traffico. Principale bersaglio della protesta è stato il trasporto di materiale bellico verso Tel Aviv da parte della compagnia marittima israeliana Zim Integrated Shipping Services (Zim). Poi, nel giugno del 2024, circa 800 persone erano tornate in presidio per bloccare i varchi portuali del capoluogo ligure in sostegno alla Palestina.

[di Stefano Baudino]

*Errata corrige: a differenza di quanto riportato in una precedente versione dell’articolo, il carico non era di armi ma di materiale militare.

La Polonia sospende le richieste di diritto d’asilo

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La Polonia ha sospeso temporaneamente il diritto dei migranti che arrivano in Polonia attraverso il confine con la Bielorussia di presentare richiesta di asilo. La nuova legge è stata annunciata dal primo ministro Donald Tusk e approvata dal presidente Andrzej Duda, e consente alle autorità di sospendere il diritto di asilo delle persone che rappresenterebbero una «minaccia seria e reale» per il Paese per 60 giorni alla volta. Essa prevede inoltre esenzioni per minori, donne incinte, individui con particolari esigenze sanitarie e rifugiati politici. La legge è stata promossa dal premier polacco, che accusa la Russia e la Bielorussia di usare i migranti come strumenti di una «guerra ibrida».

Dall’Egitto al Kuwait: il sogno imperialista della Grande Israele

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In Israele è diffusa l’idea che i confini attuali non siano accettabili come definitivi: l’ideologia sionista, insieme a una lettura radicale della Bibbia, alimentano la convinzione che la Grande Israele debba estendersi non solo contro ogni ipotesi di Stato palestinese, ma anche togliendo terre a Siria, Libano, Egitto e Giordania. E un nuovo rapporto dell’esercito rafforza questa ipotesi.
La commissione governativa guidata dall’ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale, Jacob Nagel, ha infatti reso pubblico il suo rapporto riguardo al futuro dell’IDF, l’esercito israeliano. Una delle princ...

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Milano amplia le zone rosse interdette a chi ha precedenti penali

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Il Comitato per l’ordine e la sicurezza di Milano ha deciso di introdurre tre nuove “zone rosse”, le aree interdette a chi ha precedenti penali o procedimenti pendenti. Le nuove aree designate sono, nel Comune di Milano, via Padova e Colonne di San Lorenzo, e, in quello di Rozzano, il quartiere dei Fiori. Esse vanno così ad aggiungersi alle stazioni ferroviarie di Centrale, Garibaldi e Rogoredo, e alle aree di Piazza Duomo e dei Navigli. Il Comitato ha inoltre stabilito una proroga della misura, che scadrà ora il 30 settembre. Essa prevede il divieto di stazionamento e l’allontanamento forzato dalle aree individuate a persone giudicate «pericolose», lasciando ampio margine di discrezionalità alle forze dell’ordine nell’identificazione dei soggetti da allontanare.

Dopo i primi tre mesi di applicazione, che hanno portato all’identificazione di oltre 132mila persone e all’emissione di 1.313 ordini di allontanamento, il Comitato ha stabilito di ampliare il perimetro delle zone rosse rispetto alle cinque aree già presidiate, tra cui la Stazione Centrale, i Navigli e il Duomo. Secondo i dati forniti dalla Prefettura, gli allontanamenti emessi nei primi mesi di applicazione si suddividono in 480 per reati contro il patrimonio, 377 per reati legati alla droga, 308 per reati contro la persona e 148 per altre fattispecie. Il prefetto Sgargaglia ha dichiarato che si è proceduto a individuare «ulteriori aree cittadine in cui svolgere analoghi servizi», dati i «risultati positivi ottenuti». L’ordinanza, tuttavia, resta al centro di un acceso dibattito. Se da un lato le istituzioni evidenziano la necessità di proteggere il tessuto urbano, dall’altro molte associazioni per i diritti civili e la Camera Penale di Milano hanno sollevato dubbi sulla compatibilità del provvedimento con le garanzie costituzionali, temendo discriminazioni nei confronti di determinate categorie di cittadini. La Costituzione italiana sancisce il principio della presunzione di innocenza, secondo cui ogni individuo è considerato innocente fino a prova contraria: l’ordinanza prefettizia è accusata di contravvenire a questo principio, applicando restrizioni basate su precedenti penali o semplici segnalazioni, senza una condanna attuale o una valutazione individuale del pericolo concreto. L’ordinanza utilizza termini generici come «soggetti molesti» o «atteggiamenti aggressivi»: una vaghezza che può facilmente condurre a interpretazioni arbitrarie e discriminazioni, compromettendo ulteriormente i diritti individuali.

A Milano, le “zone rosse” – che avevano già visto una loro prima applicazione a Firenze e Bologna, dove in 3 mesi erano stati 105 i soggetti destinatari di provvedimenti di allontanamento su 14mila persone controllate – sono state introdotte a partire dallo scorso capodanno. Inizialmente, esse erano state previste per un periodo di tre mesi. Contestualmente, il Viminale ha chiesto alle amministrazioni locali di tutta Italia di varare analoghe misure, con il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che ha inviato una direttiva ai prefetti per spingerli ad adottare apposite ordinanze. Le “zone rosse” sono così nate anche a Roma, coprendo le aree di Termini, Tuscolano ed Esquilino, particolarmente interessate dal flusso di turisti per il Giubileo. Nella nota di Piantedosi si comunicava che i destinatari della misura sarebbero stati «soggetti pericolosi o con precedenti penali»: la possibilità di allontanare individui con precedenti figura però all’interno del DDL Sicurezzaprovvedimento che non ha ancora ottenuto il definitivo via libera dal Parlamento – che, come la stessa direttiva evidenzia, «reca un’ulteriore estensione del divieto di accesso a coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per delitti contro la persona o contro il patrimonio commessi nelle aree interne e nelle pertinenze di infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano». La fumosità della direttiva si coglie ancora meglio nel passaggio successivo, ove si legge che «la misura del divieto di accesso dovrà essere disposta ogni qual volta il comportamento del soggetto risulti concretamente indicativo del pericolo che la sua presenza può ingenerare per i fruitori della struttura».

[di Stefano Baudino]