La Camera dei Deputati ha bocciato una mozione per la sospensione del memorandum di intesa tra Italia Israele. La mozione, presentata da PD, AvS e M5S ha ricevuto 142 voti contrari, 105 voti favorevoli e 14 astensioni. Essa proponeva di «avviare immediatamente il procedimento di denuncia formale dell’accordo», e, in attesa dell’avvio della revisione formale, di sospendere temporaneamente gli accordi in essere legati a esso. La mozione prevedeva anche la sospensione «di qualsiasi forma di cooperazione militare con Israele».
Il Pentagono si lega alle principali aziende di intelligenza artificiale
La Difesa statunitense ha annunciato l’avvio di una partnership con le principali aziende specializzate nel settore dell’intelligenza artificiale. Con contratti da 200 milioni di dollari l’uno, la Chief Digital and Artificial Intelligence Office (CDAO) si è aggiudicata per un anno servizi di IA volti ad affrontare “sfide critiche per la sicurezza nazionale”, con applicazioni che spazieranno in “molteplici ambiti operativi”, inclusa la sfera del combattimento.
A beneficiare dell’investimento governativo saranno Anthropic, Google, OpenAI e xAI, i principali protagonisti statunitensi del settore, i quali metteranno a disposizione i loro modelli di IA generativa per rispondere alle esigenze del Paese. Non essendo stati divulgati dettagli concreti sul modus operandi della collaborazione, non resta che formulare ipotesi sul come questa possa prendere forma concretamente. Qualche indizio può altresì essere ricavato prendendo in considerazione gli obiettivi ufficiali della CDAO: accelerare l’adozione di strumenti capaci di incidere su ogni settore del Pentagono, dagli uffici al campo di battaglia.
“L’adozione dell’intelligenza artificiale sta trasformando la capacità del Dipartimento di supportare i nostri combattenti e mantenere un vantaggio strategico sui nostri avversari”, ha dichiarato il Dr. Doug Matty, responsabile del CDAO. “Sfruttare soluzioni commerciali in un approccio integrato accelererà l’uso dell’IA avanzata nei nostri compiti essenziali, sia nell’ambito congiunto della sfera del combattimento sia nei sistemi informativi di intelligence, business e amministrazione”.
La notizia era nell’aria: il 16 giugno OpenAI aveva già pubblicato sul proprio blog la firma di un contratto con il Pentagono per il lancio di “OpenAI for Government”, progetto pensato per “servire il bene pubblico” agevolando i dipendenti federali nella riduzione della burocrazia e migliorando il servizio alle “persone americane”. Pur presentando il rapporto in termini manageriali e pacifici, OpenAI stessa ha ammesso che svilupperà “modelli personalizzati per la sicurezza nazionale”.
È ormai storicamente comprovato che, nel tempo, le Big Tech abbiano instaurato relazioni con le agenzie d’intelligence; tuttavia, il settore informatico mostra oggi un interesse sempre più marcato verso l’industria militare, rivelandosi apparentemente pronto a mettere da parte ogni riserva etica in cambio di contratti milionari. Amazon, Microsoft e Google, per esempio, hanno intensificato la fornitura di servizi cloud a Israele contestualmente all’invasione della Palestina: un rapporto ufficialmente “non bellico”, ma che i vertici israeliani hanno apertamente ammesso di utilizzare sul campo di battaglia.
L’apertura dei contratti da parte del Pentagono coincide, peraltro, con un momento mediaticamente molto critico nei confronti di come siano gestiti e sviluppati i chatbot. Solo una settimana fa Grok, il chatbot di xAI, ha fatto emergere i toni esplicitamente nazisti dei suoi materiali di riferimento, denunciando presunte cabale ebraiche e promuovendo le politiche di Adolf Hitler come soluzione all’odio nei confronti dei cittadini caucasici. Considerando che xAI è una delle aziende selezionate dalla Difesa, desta non poco scalpore l’idea che l’esercito possa integrare nelle sue operazioni uno strumento che si è autodefinito “Mecha Hitler”.
In Colombia il Sud Globale annuncia misure concrete contro il genocidio a Gaza
Dodici Paesi del cosiddetto “Sud Globale” hanno deciso di adottare immediatamente misure concrete per fermare il genocidio a Gaza. L’annuncio è arrivato nell’ambito della conferenza di Bogotá, organizzata dal Gruppo dell’Aia, una coalizione di Paesi nata all’inizio dell’anno per rendere efficaci le decisioni delle istituzioni internazionali. Tra le misure concordate, l’embargo di armi a Israele, la chiusura dei porti alle navi dotate di simili carichi da destinare a Tel Aviv, e l’avvio di una «revisione urgente» di tutti i contratti pubblici; i Paesi hanno fissato una data di scadenza per permettere ad altri Stati di aggiungersi all’iniziativa, individuandola nel prossimo 20 settembre, quando avrà inizio l’80º ciclo dell’Assemblea Generale dell’ONU. Alla conferenza hanno partecipato altri 18 Paesi, tra cui Cina, Irlanda e Spagna, che hanno dichiarato all’unanimità «che l’era dell’impunità deve finire». «Un passo avanti epocale», ha dichiarato la Relatrice ONU per i territori palestinesi occupati Francesca Albanese, presente alla conferenza. «Il tempo stringe perché altri Stati – dall’Europa al mondo arabo e oltre – si uniscano a loro».
La conferenza di Bogotá è iniziata martedì 15 luglio e terminata ieri, 16 luglio. Al termine delle discussioni, 12 Stati (Bolivia, Cuba, Colombia, Indonesia, Iraq, Libia, Malesia, Namibia, Nicaragua, Oman, Saint Vincent e Grenadine, Sudafrica) hanno approvato misure da adottare immediatamente, dividendole in più punti: impedire la fornitura o il trasferimento di armi, munizioni, carburante militare, equipaggiamento militare correlato e articoli a duplice uso civile e militare a Israele; impedire il transito, l’attracco e la prestazione di servizi alle navi in tutti i casi in cui vi sia un chiaro rischio che trasportino tali carichi; impedire il trasporto dei medesimi materiali in navi che battono la loro bandiera; avviare un’immediata revisione dei contratti pubblici per impedire alle istituzioni di finanziare la presenza illegale di Israele nei territori palestinesi occupati; rispettare gli obblighi internazionali e collaborare a renderli efficaci. La conferenza ha concordato una scadenza per permettere a tutti gli Stati di prendere misure contro Israele. La data coincide con i termini della risoluzione ONU del 18 settembre, con la quale l’Assemblea Generale chiede la fine dell’occupazione in Palestina e dà un anno a tutti gli Stati per prendere misure contro di essa.
Agli incontri erano presenti un totale di 30 Stati, tra cui quattro europei: Irlanda, Norvegia, Slovenia e Spagna. Nelle deliberazioni della conferenza di Bogotá, i partecipanti hanno concordato all’unanimità «che il diritto internazionale deve essere applicato senza timore o favoritismi attraverso politiche e legislazioni interne immediate», lanciando un appello per un cessate il fuoco immediato. La conferenza è stata presidiata da Colombia e Sudafrica ed è stata organizzata dagli otto Paesi del Gruppo dell’Aia, che include, oltre ai presidianti, Bolivia, Cuba, Honduras, Malesia, Namibia e Senegal. Il Gruppo dell’Aia è stato formato il 31 gennaio 2025, con l’obiettivo di perseguire «un’azione collettiva attraverso misure legali e diplomatiche coordinate a livello nazionale e internazionale» per garantire il rispetto delle decisioni della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale Internazionale, con particolare riguardo proprio alla questione palestinese.
La Corte Penale conferma il mandato di cattura contro Netanyahu
I giudici della Corte Penale Internazionale hanno respinto la richiesta di Israele di ritirare i mandati di arresto contro Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant; i giudici hanno anche respinto la richiesta israeliana di sospendere l’indagine più ampia della CPI sui crimini nei Territori Palestinesi. Israele sostiene l’assenza di una valida base giurisdizionale per i mandati di arresto, per la quale ha presentato ricorso; per tale motivo, lo Stato ebraico ha chiesto la decadenza dei mandati d’arresto. I giudici hanno stabilito che il ricorso risulta ancora pendente, ma che non per questo i mandati hanno perso la efficacia.
Il sindaco di Bologna risponde a L’Indipendente, ma la toppa è peggiore del buco
Dopo l’articolo de L’Indipendente, il sindaco di Bologna Matteo Lepore ha risposto nei commenti, smentendo alcuni dati che erano stati diffusi dal Comune stesso, nel tentativo di giustificare l’acquisto di un centinaio di alberelli per contrastare il caldo in città. Tuttavia, l’intervento di Lepore – così come tutta la comunicazione da parte del Comune – si astiene dal chiarire i punti più controversi della vicenda, che la fanno sembrare una grande manovra di greenwashing e propaganda politica.
Il primo tra tutti riguarda l’utilità che questi alberelli hanno nel contrastare il caldo e creare zone d’ombra. Sembrerebbe infatti evidente che tanto gli alberi quanto gli arbusti collocati nelle varie parti della città non filtrino la luce solare e non facciano ombra, proprio in ragione della loro misura ridotta. Tuttavia, non risultano disponibili informazioni aggiuntive del Comune in tal senso. Non è nemmeno chiaro l’effettivo bilancio arboreo attuale della città, ovvero la quantità di alberi presenti nel Comune. Secondo i dati del 2021 (che stilavano un bilancio dell’amministrazione precedente), Bologna contava un totale di 85.270 alberi, 6447 in più in cinque anni. Non è specificato, tuttavia, quanti di questi siano alberelli giovani e quanti grandi alberi, dal momento che il loro impatto su ambiente ed ecosistema è estremamente diverso. Non è nemmeno specificato, al momento, quale sia il bilancio arboreo della corrente amministrazione.
A quanto risulta, inoltre, non esiste alcun dato ufficiale sul numero di alberi abbattuti per far posto alle grandi opere, come nel caso del Passante di Mezzo o della nuova linea tramviaria (nonostante siano puntuali le smentite del Comune su quelli che non vengono abbattuti). A mancare è anche il numero degli alberelli che effettivamente sopravvive dopo i primi anni: secondo quanto denuncia a L’Indipendente il Comitato Tutela Alberi di Bologna, infatti, molti di questi hanno vita breve proprio a causa della mancanza di cure da parte delle ditte appaltatrici.
«In piazza Maggiore, nel chiostro interno di Palazzo d’Accursio, sede del Consiglio Comunale, ci sono quattro alberelli in vaso che sono sopravvissuti perchè sono leggermente in ombra. Dei sei che si trovano nel piazzale interno, completamente esposti al sole, quattro sono già secchi» ci spiega il Comitato. «È stato detto che è stato sabotato l’impianto di manutenzione, in realtà questa non viene proprio fatta». Il problema riguarda anche quelli recentemente installati. «Già sabato gli arbusti che sono stati collocati tra Palazzo Re Enzo e via Rizzoli erano già in sofferenza. Sono stati travasati in vasi di plastica rivestiti di iuta e tra i due è stata messa della sabbia per evitare che si ribaltino col vento. Vengono bagnati solo tre volte a settimana, è troppo poco con queste temperature».
Turchia: ex sindaco di Istanbul condannato a un 1 anno e 8 mesi
L’ex sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu è stato condannato a un anno e otto mesi per oltraggio a pubblico ufficiale. Imamoglu è il principale politico dell’opposizione turca, ed è stato arrestato lo scorso marzo con l’accusa di corruzione. I fatti per cui è stato condannato sono scollegati all’accusa per cui è stato arrestato. Essi riguardano dei commenti rilasciati lo scorso 20 gennaio, in cui Imamoglu criticava il procuratore capo di Istanbul Akin Gurlek, accusandolo di aver preso di mira esponenti dell’opposizione attraverso presunte indagini politicamente motivate.
Israele attacca la Siria: bombardato il palazzo del ministero della difesa
Israele ha bombardato la capitale siriana Damasco, prendendo di mira l’edificio del ministero della Difesa e un’altra struttura situata vicino al palazzo presidenziale. L’attacco è avvenuto nel pomeriggio di oggi, mercoledì 16 luglio, in un momento di grande tensione per il Paese. L’escalation che ha portato ai bombardamenti di oggi risale allo scorso venerdì, quando nel governatorato di Suwayda, nel sud della Siria, sono scoppiati violenti scontri settari tra la popolazione drusa, vicina a Tel Aviv, e quella beduina. Dopo gli scontri, il ministero della Difesa siriano ha inviato le proprie forze a Suwayda, e Israele ha iniziato a bombardare il sud del Paese, giustificando gli attacchi come una difesa dei propri alleati. La situazione è attualmente in rapida evoluzione: l’agenzia di stampa statale siriana SANA riporta che sarebbe già stato raggiunto un accordo di cessate il fuoco con alcuni capitribù drusi di Suwayda, ma i leader dei gruppi separatisti avrebbero dichiarato la loro intenzione di continuare a combattere.
Il bombardamento israeliano su Damasco è stato lanciato attorno alle 14 di oggi, e circa mezz’ora dopo SANA ha confermato che si trattava di un attacco di Tel Aviv. Da quanto riporta l’agenzia di stampa, le bombe israeliane hanno ucciso una persona e ne hanno ferite almeno altre 18. Poco dopo l’attacco, il primo ministro israeliano Netanyahu ha pubblicato un videomessaggio rivolto alla popolazione drusa della Siria, dichiarando la comunità «cittadina di Israele» e chiedendole di non attraversare il confine, per lasciare che le IDF continuino le proprie operazioni. Le stesse IDF, invece, hanno annunciato «un ulteriore rafforzamento dei mezzi di raccolta e attacco e il dirottamento delle forze verso il Comando Settentrionale, al fine di aumentare il ritmo degli attacchi e fermare gli attacchi contro i drusi in Siria», rilanciando le operazioni nel Governatorato di Suwayda.
A Suwayda, effettivamente, la situazione sembra ancora tesa, e gli scontri tra le milizie druse e quelle affiliate al governo centrale paiono continuare. Questi erano scoppiati lo scorso venerdì, quando si sono verificati episodi di violenza tra la popolazione drusa e quella beduina. Secondo una delle varie ricostruzioni, gli scontri sarebbero scoppiati a causa di una ondata di rapimenti, tra cui quello di un noto mercante druso del posto. I combattimenti tra i gruppi armati drusi e quelli beduini sono continuati tutto il fine settimana, causando almeno 248 morti; lunedì il governo centrale ha dunque deciso di inviare l’esercito nella regione. In risposta, tuttavia, Israele ha bombardato aree del sud della Siria, con l’obiettivo dichiarato di impedire all’esercito di Damasco di raggiungere la zona, «per difendere i fratelli drusi». Ieri, il governo siriano ha annunciato un cessate il fuoco, che tuttavia è stato smentito dai leader dei gruppi drusi separatisti. Dopo i bombardamenti di oggi su Damasco si è ripetuto lo schema: attorno alle 17 è arrivato un ulteriore annuncio di un accordo, che tuttavia non è stato confermato dalle fonti ufficiali del Paese, e che è stato smentito dal Consiglio Militare di Suwayda, una delle milizie druse del Governatorato.
La sonda Parker ha prodotto le immagini più ravvicinate del Sole mai realizzate
È la visione più vicina che l’umanità abbia mai avuto del Sole, ed è stata resa possibile dal veicolo che ha sfrecciato alla più alta velocità mai registrata per un oggetto costruito dall’uomo: a soli 6,2 milioni di chilometri dalla sua superficie, la sonda Parker ha catturato immagini record e notevolmente più dettagliate di ogni osservazione precedente dell’atmosfera solare. Lo rivelano direttamente gli esperti della NASA, aggiungendo che le nuove riprese mostrano con straordinaria nitidezza il vento solare – il flusso di particelle cariche che si propaga in tutto il Sistema solare – e la collisione di multiple espulsioni di massa coronale, eventi chiave nella genesi del cosiddetto meteo spaziale. «Stiamo assistendo all’insorgere delle minacce del meteo spaziale per la Terra, con i nostri occhi, non solo con i modelli», commenta l’esperta e dirigente NASA Nicky Fox, aggiungendo che, secondo gli scienziati, i dati ottenuti potranno migliorare le previsioni sui fenomeni che influenzano la nostra tecnologia e la sicurezza degli astronauti, ma anche risolvere alcuni enigmi decennali sulle origini del vento solare.
Il vento solare è una corrente invisibile ma cruciale: fatto di particelle subatomiche elettricamente cariche, si diffonde nello spazio a velocità che superano 1,6 milioni di chilometri l’ora, influenzando le comunicazioni sulla Terra, causando aurore e danneggiando satelliti. Il fenomeno era già stato ipotizzato nel 1958 dall’astrofisico Eugene Parker – a cui è intitolata la sonda – ma per oltre mezzo secolo lo studio è stato limitato a osservazioni indirette o da grandi distanze. Con il lancio della Parker Solar Probe nel 2018, la NASA ha iniziato un’osservazione diretta e ravvicinata: equipaggiata con lo strumento Wispr (Wide-Field Imager for Solar Probe), la sonda ha attraversato più volte la corona, l’atmosfera esterna del Sole, raccogliendo dati ad altissima risoluzione che permettono oggi di analizzare fenomeni finora sfuggenti: dalla collisione delle espulsioni di massa coronale (CME) alla struttura dei campi magnetici solari. I ricercatori, inoltre, stanno anche studiando le origini delle diverse tipologie di vento solare, sia per quanto riguarda quello veloce, più stabile, sia per quello lento, più denso e variabile, che si pensa possa derivare da zone diverse della superficie solare.
Era noto che durante il suo passaggio record del 24 dicembre 2024, la Parker Solar Probe ha volato a soli 6 milioni di chilometri dal Sole. Mancavano però solo le straordinarie immagini raccolte in quella occasione, le quali mostrano, per la prima volta in alta risoluzione, la collisione tra diverse CME che si «accumulano praticamente una sull’altra», come spiega Angelos Vourlidas del Johns Hopkins Applied Physics Laboratory. La fusione di questi eventi, continua, può modificare la traiettoria delle particelle e rafforzarne l’intensità, rendendo quindi più difficili le previsioni e più gravi gli effetti sulla Terra. Le nuove immagini, inoltre, mostrano anche lo strato di corrente eliosferica, ovvero un confine magnetico dove la polarità del campo solare si inverte. Secondo Nour Rawafi, responsabile scientifico del progetto, i dati sono fondamentali per capire «come viene generato il vento solare e come riesce a sfuggire all’immensa attrazione gravitazionale del Sole». Per quanto riguarda i primi risultati preliminari, la sonda ha già confermato l’esistenza di due forme di vento solare lento – che differiscono nella struttura del campo magnetico – e sta ora aiutando gli scienziati a identificarne con precisione l’origine: si ipotizza che il vento alfvénico provenga da buchi coronali – regioni fredde e scure – mentre quello non-alfvénico potrebbe formarsi in strutture ad anello chiamate “casual streamer”. La prossima finestra di osservazione – prevista per il 15 settembre 2025 – offrirà ulteriori dati per verificare queste ipotesi. «Non abbiamo ancora raggiunto un consenso definitivo ma abbiamo un sacco di nuovi dati interessanti», conclude Adam Szabo della NASA, aggiungendo che d’altra parte, però, l’esplorazione del Sole sta portando la ricerca a livelli mai raggiunti prima.
La Francia introduce misure per contrastare il fast fashion
Il fenomeno del fast fashion (letteralmente, la “moda veloce”) è in gran parte responsabile dell’aumento del consumo di capi di abbigliamento usa e getta. Una crescita costante, diffusa in tutto il mondo, che desta sospetti e preoccupazioni, ma per la quale nessuno sembra prendere misure concrete per contrastarla. A parte la Francia, che recentemente ha messo in atto iniziative più severe per contrastare questo fenomeno, dopo che già lo scorso anno aveva introdotto misure per incentivare la riparazione e disincentivare gli acquisti compulsivi. Tra il 2010 e il 2023, infatti, i capi immessi sul mercato in territorio francese sono aumentati da 2,3 a 3,2 miliardi (+39%), pari a oltre 48 articoli a testa in più all’anno (di cui 35 vengono buttati, secondo l’agenzia ambientale Ademe).
Approvata il 10 giugno con una quasi totalità di voti (337 favorevoli e solo 1 contrario), la legge contro il fast fashion prende di mira i produttori di moda veloce, ovvero coloro che mettono in atto pratiche industriali e commerciali caratterizzate dalla riduzione del ciclo di vita dei capi di abbigliamento (obsolescenza programmata e scarsa qualità), da una produzione di massa (tantissimi modelli in colori e taglie differenti) e dallo scarso o nullo incentivo alla riparazione dei prodotti. Praticamente il 90% delle aziende di moda rientra in questa definizione, ma in questo caso l’attenzione dei legislatori francesi si è concentrata soprattutto sui giganti dell’ultra fast fashion, Shein e Temu, lasciando volutamente fuori aziende europee come Zara, H&M e Kiabi – una mossa che ha indignato diversi gruppi ambientalisti, tra cui Friends of the Earth.
Le aziende che rientreranno nei parametri definiti dalla legge – che saranno ulteriormente dettagliati in un apposito decreto – saranno obbligate a sensibilizzare i clienti sull’impatto ambientale dei prodotti venduti, promuovendo al contempo pratiche di riparazione e riciclo. A questi obblighi si aggiunge una tassa per i prodotti ritenuti “meno sostenibili”: si parte da un massimo di 5 euro ad articolo, che potrà salire a 10 euro entro il 2030, ma non potrà mai superare il 50% del prezzo di vendita. Considerando che moltissimi articoli vengono venduti tra i 2 e i 5 euro, l’efficacia di questa tassa resta dubbia: dissuasiva, sì, ma con un impatto economico potenzialmente minimo per le aziende coinvolte.
Un’altra novità riguarda l’introduzione di un eco-punteggio, assegnato in base a parametri ambientali come il consumo di acqua, le emissioni di CO₂, gli effetti sulla biodiversità, ecc. Anche se non ancora obbligatorio, è già disponibile uno strumento chiamato Ecobalyse, in grado di calcolare l’impatto ambientale in forma numerica, da 1 a infinito. Il sistema, entrato in vigore questo mese, è per ora volontario, ma i brand sono caldamente invitati a utilizzarlo: in caso contrario, potranno essere valutati da enti esterni.
Il punto più controverso della legge riguarda però la comunicazione. Rivenditori come Shein e Temu, privi di una presenza fisica capillare, hanno costruito il loro successo principalmente grazie alla pubblicità sui media e, soprattutto, alla promozione da parte di influencer sui social media. Ma il fast fashion, al pari di alcol e sigarette, nuoce all’ambiente (e quindi anche alla salute), e per questo motivo non potrà più essere pubblicizzato. Per ogni infrazione è prevista una multa fino a 100.000 euro.
Tempi duri, quindi, per quegli influencer che si sono arricchiti promuovendo la moda ultra veloce attraverso contenuti su Instagram, TikTok e altre piattaforme. Mostrare quotidianamente acquisti, normalizzare il cambio d’abito giornaliero, spingere a comprare compulsivamente non sono semplici contenuti, ma atti che hanno conseguenze ambientali e sociali significative. Anche gli influencer finiscono dunque nel mirino della legge, perché non sono solo “persone”, ma veri e propri generatori di tendenze. Promuovere abiti venduti a 5 euro, prodotti in condizioni di lavoro discutibili e con materiali scadenti, è una forma di manipolazione della domanda che alimenta la cultura dell’usa e getta. La visibilità non è neutra: è responsabilità. Chi crea contenuti è responsabile dei messaggi che trasmette al proprio pubblico, grande o piccolo che sia.
Per questo, la legge vieta pubblicità e post sponsorizzati per marchi di ultra fast fashion, campagne di influencer marketing o link di affiliazione verso i marchi vietati, e qualsiasi sponsorizzazione rivolta a minori o bambini. Anche contenuti non sponsorizzati potranno essere oscurati o penalizzati se ritenuti idonei ad aumentare la visibilità dei marchi incriminati. Limitando pubblicità e contenuti social, la Francia spera di rallentare il sovraconsumo.
La legge rappresenta un passo avanti nella lotta contro l’impatto ambientale ed economico del fast fashion, ed è un chiaro monito per aziende e consumatori. Tuttavia, il fatto che la normativa si concentri quasi esclusivamente su due marchi, escludendo numerose aziende europee con responsabilità simili, è un’occasione persa. Il protezionismo sembra aver prevalso sull’ambizione di guidare l’intero settore verso pratiche più sostenibili. Chissà che questa legge non serva comunque da stimolo per iniziative più ampie, coerenti e condivise in tutta Europa, e non solo.