Non sarebbe stato un drone russo, ma un missile polacco difettoso, sparato da un caccia F-16 durante un’operazione di difesa aerea contro droni russi penetrati nello spazio aereo nazionale, a colpire a colpire il tetto e a sfondare il soffitto di un’abitazione nel villaggio Wyryki-Wola, nella regione di Lublino, lo scorso 10 settembre. È quanto rivela Rzeczpospolita, che cita fonti vicine ai servizi di sicurezza polacchi. Secondo la ricostruzione del quotidiano, il missile aria-aria AIM-120 AMRAAM non avrebbe attivato la testata, limitandosi a danneggiare la struttura della casa. Il viceministro della Difesa nazionale Cezary Tomczyk ha ammesso la scorsa settimana l’abbattimento di tre droni, senza però fornire la posizione. La procura di Lublino, incaricata delle indagini, non ha confermato né smentito la tesi del missile polacco, limitandosi a parlare di un oggetto che «non è stato identificato né come drone né come suoi frammenti» e dichiarando per mezzo del procuratore Agnieszka Kępka, che «tutte le versioni devono essere prese in considerazione». Restano dunque aperti scenari diversi: errore tecnico, residuo di un drone, frammento di un ordigno difensivo o altro. L’episodio aveva fatto salire la tensione internazionale in seguito all’accusa del governo polacco nei confronti di Mosca di sconfinamento.
La ricostruzione di Rzeczpospolitaha suscitato numerose tensioni interne con l’opposizione che ha chiesto trasparenza e chiarimenti al governo. L’Ufficio per la Sicurezza Nazionale, il BBN e il presidente Karol Nawrocki, hanno chiesto al governo «chiarezza immediata» sull’accaduto. A quanto si apprende, né il presidente polacco né l’Ufficio per la Sicurezza Nazionale erano mai stati informati dal governo guidato da Donald Tusk che al vaglio ci fosse anche la possibilità di un errore dell’aeronautica polacca. Il presidente Nawrocki, pur sostenendo la necessità di difendere il Paese da intrusioni esterne, ha richiesto una relazione dettagliata sull’incidente e sulla gestione della catena di comando quella notte. Il premier Tusk ha provato a contenere le polemiche e ha ribadito che l’evento rientrerebbe in una strategia di Mosca per testare le difese polacche e seminare insicurezza lungo il fianco orientale della NATO: «Tutta la responsabilità per i danni alla casa di Wyryki ricade sui responsabili della provocazione dei droni, ovvero la Russia», ha scritto su X. Il premier ha comunque assicurato che i risultati dell’indagine saranno resi pubblici appena terminata, ma ha sottolineato l’urgenza di investimenti supplementari nella difesa aerea e di un coordinamento ancora più stretto con gli alleati occidentali. Il caso si inserisce così anche in uno scontro politico interno: da un lato l’esecutivo, intenzionato a mantenere la responsabilità sulla Russia, dall’altro chi teme che un’ammissione di errore tecnico indebolisca la credibilità delle istituzioni e dell’esercito. Il dibattito riguarda anche la comunicazione pubblica. L’accusa immediata contro Mosca, lanciata in assenza di prove definitive, ha attirato l’attenzione dei media internazionali e ha alimentato letture contrastanti. Non è la prima volta che un evento di confine genera tensioni: basti ricordare l’episodio del novembre 2022 a Przewodów, quando un missile cadde in territorio polacco causando due morti. In un primo momento l’accusa fu rivolta a Mosca, salvo poi scoprire che si trattava di un ordigno antiaereo ucraino.
L’episodio di Wyryki-Wola non è un fatto isolato, ma il sintomo di un contesto più ampio. Negli ultimi due anni, la Polonia si è trasformata nel bastione orientale della NATO, moltiplicando il proprio impegno a sostegno di Kiev e assumendo un ruolo di avamposto strategico. Con un accordo miliardario firmato il 1° agosto a Gliwice, nel cuore industriale della Slesia, la Polonia ha ufficialmente imboccato la strada per diventare, entro il 2030, la prima potenza corazzata d’Europa. La pressione al confine con Ucraina e Bielorussia, le continue incursioni nello spazio aereo e il rischio di incidenti hanno reso Varsavia il punto più fragile e al tempo stesso più esposto della regione. Parallelamente, in un clima da assedio permanente, la retorica antirussa pervade il dibattito pubblico e il giornalismo mainstream, mentre il volontariato territoriale e le esercitazioni delle forze di difesa locali vengono incentivate e normalizzate. In questo scenario, la gestione della comunicazione diventa parte integrante della strategia: attribuire subito la colpa a Mosca non è solo una reazione politica, ma un atto che rafforza l’idea di una minaccia costante e legittima l’accelerazione della militarizzazione dell’Est Europa. L’accelerazione del riarmo, le missioni come la “Sentinella dell’Est”, il dispiegamento di truppe lungo i confini con Russia e Bielorussia trovano così una giustificazione immediata. L’incidente di Wyryki-Wola dimostra anche quanto sia sottile la linea di confine tra un errore tecnico, un incidente militare e un attacco deliberato, e quanto sia alto il rischio che la narrazione politica preceda, e sostituisca, l’accertamento dei fatti, piegandosi a interessi geopolitici.
In Francia è partita la giornata di mobilitazione indetta dai sindacati contro le misure di austerità della Finanziaria 2026, con forti ripercussioni su scuole e trasporti. Nel primo pomeriggio sono previsti grandi cortei in molte città, mentre il bilancio dei fermi supera quota 50: sette nell’area di Parigi e 44 nel resto del Paese. Registrati 170 tentativi di corteo e 63 blocchi stradali. A Parigi, studenti hanno bloccato il liceo Maurice-Ravel, mentre a Marsiglia la polizia ha disperso manifestanti con lacrimogeni. Attesi fino a 900.000 partecipanti, riportando la protesta ai livelli del 2023.
Il Ministero della Salute ha ufficialmente segnalato il ritiro in via precauzionale di diverse conserve vegetali sott’olio, comprendenti diversi lotti di friarielli alla napoletana, melanzane alla brace e scarole in olio tutti a marchio Vittoria. La decisione riguarda il rischio di una sospetta contaminazione biologica, spiega la nota, e segue altri provvedimenti che hanno già interessato lo stesso produttore. Già in passato, infatti, l’azienda che confeziona per il distributore dei prodotti era stata coinvolta in richiami legati a un focolaio di botulino in Calabria. Le raccomandazioni ai consumatori restano tuttavia quelle di non utilizzare i prodotti e restituirli al punto vendita. Ecco la lista dei lotti degli alimenti segnalati:
Melanzane alla brace (vaso da 1 kg) – Lotti: 130325 (TMC 13/03/2028), 150525 (TMC 13/05/2028);
Scarole in olio (vaso da 1 kg) – Lotto: 140225 (TMC 14/02/2028);
I vasetti richiamati sono stati prodotti da Terra Mia di Amura Stefano per il distributore del marco Vittoria Ciro Velleca Srl, nello stabilimento di Scafati (provincia di Salerno).
Tali prodotti e lotti si aggiungono a quelli già segnalati per contaminazione biologica e botulino negli scorsi mesi sempre dal Ministero della Salute, i quali hanno portato anche a intossicazioni alimentari e due vittime in Sardegna e Calabria:
Avocado Metro Chef, confezione surgelata venduta in confezione da 1 kg
Spicchi di carciofi grigliati in olio, in vasi di vetro da 500 grammi, con il numero di lotto 051224 e il termine minimo di conservazione (TMC) 05/12/2027;
Scarole in olio, in vasi di vetro da 500 grammi, con il numero di lotto 220224 e il TMC 22/02/2027;
Funghi grigliati in olio, in vasi di vetro da 500 grammi, con il numero di lotto 061224 e il TMC 06/12/2027;
Carciofi grigliati in olio, in vasi di vetro da 500 grammi, con il numero di lotto 270924 e il TMC 27/09/2028.
Mozzarella Valbontà Penny Market, in confezioni da 4×125 grammi con il numero di lotto N5205E e la data di scadenza 17/08/2025;
Mozzarella Latbri, in confezioni da 125 grammi, con il numero di lotto N5205D e la data di scadenza 22/08/2025;
Mozzarella Conad, in confezioni da 3×125 grammi e da 125 grammi, con il numero di lotto N5205D e la data di scadenza 15/08/2025;
Mozzarella maxi pack Carrefour Classic, in confezioni da 3×125 grammi, con il numero di lotto N5205E e la data di scadenza 18/08/2025;
Friarielli alla napoletana Vittoria, lotti 290425 e il 280325 con scadenza rispettivamente il 29/04/2028 e il 28/03/2028
Friarielli alla napoletana Bel Sapore, lotti 280325 e 060325 con scadenza rispettivamente il 20/03/2028 e il 06/03/2028
Nonostante la sospetta contaminazione biologica recente non sia ancora ben specificata, è utile fornire un quadro chiaro riguardo al botulino, visti i precedenti tutt’altro che rassicuranti a riguardo. Il botulino è una tossina prodotta dal batterio Clostridium botulinum, capace di provocare il botulismo, una grave forma di intossicazione alimentare. Questo microrganismo si sviluppa soprattutto in ambienti privi di ossigeno, come appunto i prodotti sott’olio, dove può proliferare se le conserve non sono state preparate e conservate in maniera corretta. L’ingestione della tossina può causare sintomi come nausea, vomito e difficoltà respiratorie, fino a compromettere seriamente le funzioni neurologiche. Pur trattandosi di casi rari, il botulismo è considerato un’emergenza medica che richiede cure immediate. Per questo motivo, i richiami precauzionali rappresentano uno strumento fondamentale per ridurre il rischio: anche solo il sospetto di contaminazione porta le autorità sanitarie a intervenire con il ritiro dal mercato, a tutela dei consumatori.
Dopo due anni di genocidio in Palestina, 65 mila morti accertati (che potrebbero diventare centinaia di migliaia, una volta rimosse le macerie di Gaza), oltre 420 persone morte di fame, milioni di sfollati e infiniti appelli della società civile, la Commissione Europea mette sul tavolo il primo pacchetto di sanzioni contro lo Stato di Israele. Lo fa probabilmente più per accontentare la popolazione civile, stanca dell’inazione dei governi di fronte al più grande massacro in diretta streaming della storia, che per imporre effettive ritorsioni contro Tel Aviv. Nel pacchetto non vi è infatti nulla che possa effettivamente fermare il genocidio o l’occupazione illegale dei territori in Cisgiordania: nessuna misura contro il commercio di armi, né contro la collaborazione di aziende e università europee nei progetti di ricerca a scopi finti civili (ma in realtà usati per sorvegliare e colpire i palestinesi) da parte dello Stato sionista.
Tra le misure proposte dalla Commissione vi è innanzitutto la sospensione del trattamento di favore concesso a Israele nelle relazioni commerciali e definito nel quadro dell’Association Agreement tra UE e Israele. Se la proposta verrà approvata, saranno dunque applicati dazi doganali pari a quelli applicati a qualsiasi altro Paese terzo con il quale l’UE non abbia accordi di libero scambio. Ciò, scrive la Commissione, inciderà sulle dotazioni annuali tra il 2025 e il 2027, oltre che sui progetti di cooperazione istituzionale in corso e sui progetti finanziati nell’ambito della cooperazione regionale. Nel 2024 le importazioni dell’UE da Israele sono ammontate a 15,9 miliardi le esportazioni a 26,7 miliardi, rendendo l’UE il principale partner commerciale di Tel Aviv. Secondo quanto riferito da membri della commissione a Reuters, Israele vedrà l’imposizione di dazi su circa 5,8 miliardi di euro di merci, pari ad appena 227 milioni all’anno di tasse.
L’imposizione deriva dal fatto che l’UE ha rilevato violazioni, da parte di Israele, dell’art. 2 dell’Accordo, che lo vincola al rispetto dei diritti umani e dei principi democratici. «In particolare, tale violazione si riferisce al rapido deterioramento della situazione umanitaria a Gaza a seguito dell’intervento militare di Israele, al blocco degli aiuti umanitari, all’intensificarsi delle operazioni militari e alla decisione delle autorità israeliane di portare avanti il piano di insediamento nella cosiddetta zona E1 della Cisgiordania, che compromette ulteriormente la soluzione dei due Stati», riporta il documento della Commissione. La decisione, per essere resa effettiva, dovrà superare la votazione degli Stati con una maggioranza qualificata. Ad ogni modo, della sospensione del commercio di armi o di materiale militare nemmeno l’ombra.
La Commissione propone poi sanzioni contro Hamas, «coloni violenti» e «ministri estremisti» del governo israeliano, ovvero Itamar Ben-Gvir (ministro della Sicurezza nazionale) e Bezalel Smotrich (ministro delle Finanze). La decisione, che per diventare effettiva dovrà essere approvata dal Consiglio all’unanimità, segue la decisione di Israele di bloccare gli aiuti umanitari (ormai in vigore da sei mesi) e «dei continui bombardamenti, delle operazioni militari, degli sfollamenti di massa e del collasso dei servizi di base» (iniziati l’8 ottobre 2023). Vi sono infatti indicazioni dell’Alto Rappresentante degli Affari Esteri UE, infatti, secondo le quali così facendo Israele violerebbe «diritti umani e principi democratici». Una «grave violazione», sottolinea la Commissione.
Per poter diventare effettive le due misure dovranno ottenere rispettivamente la maggioranza qualificata e la maggioranza assoluta tra gli Stati membri. Un traguardo che pare difficile, se non impossibile da raggiungere, considerato che difficilmente Paesi come l’Italia, la Germania e l’Ungheria daranno il proprio via libera. Ad ogni modo, si tratta di misure che hanno più un valore politico che altro, dal momento che non si traducono in un effettivo ostacolo per l’economia di occupazione e di genocidio dello Stato. Ma a due anni dall’inizio del massacro della popolazione civile, è comunque, finalmente, qualcosa di concreto.
Un giudice della Louisiana ha ordinato l’espulsione dagli Stati Uniti di Mahmoud Khalil, noto leader delle proteste filopalestinesi nei campus universitari a livello nazionale, verso l’Algeria o la Siria, sostenendo che nella sua domanda per la green card avrebbe intenzionalmente nascosto informazioni sostanziali. Khalil, residente permanente legale, sposato con una cittadina americana e padre di un figlio negli USA, in una dichiarazione all’ong American Civil Liberties Union (Aclu) ha risposto accusando l’amministrazione Trump di “vendicarsi” per il suo impegno politico.
Negli ultimi dieci anni, il numero di bambini che vivono in povertà estrema nel mondo è diminuito. I dati più recenti raccolti dalla Banca Mondiale e dall’UNICEF mostrano che nel 2024 sono circa 412 milioni i minori che sopravvivono con meno di 3 dollari al giorno, pari al 19% della popolazione infantile globale. Dieci anni fa erano 507 milioni, ovvero il 24%. Una riduzione che coinvolge quasi 100 milioni di bambini, nonostante il periodo di forte incertezza causata dalla pandemia di Covid-19, iniziato nel 2020.
Lo studio si basa su soglie di povertà aggiornate, calcolate in base al potere d’a...
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Con il recente annuncio di Madrid, sono cinque i Paesi europei che hanno dichiarato di rifiutare di partecipare all’Eurovision 2026 se vi prenderà parte anche Israele. La Spagna diventa così il primo Paese dei “Big Five” (che comprende Italia, Germania, Francia e Regno Unito) che annuncia l’operazione di boicottaggio di Israele. Le motivazioni non sono solo di natura etica: se da un lato i Paesi hanno mostrato preoccupazione per quanto sta avvenendo a Gaza, dall’altro hanno manifestato timori per «l’impatto negativo» derivante dall’eccessiva politicizzazione dell’evento, come conseguenza della presenza di Israele.
In Spagna, la proposta è giunta dal direttore dell’emittente RTVE, José Pablo López, ed è stata approvata con maggioranza assoluta (10 voti a favore, 4 contrari e una astensione) da parte del Consiglio di Amministrazione dell’azienda. Ad aprire il dibattito sulla partecipazione di Israele all’Eurovision era stata proprio RTVE, quando, nel corso dell’Assemblea Generale della UER (Unione Europea di Radiodiffusione, organizzazione internazionale che comprende operatori pubblici e privati del settore della teleradiodiffusione) aveva chiesto di aprire un dibattito «serio e profondo» sul tema. Il segretario generale di RTVE, Alfonso Morales, aveva sottolineato anche la necessità di tenere in conto l’impatto negativo della presenza di Israele alla manifestazione canora, dal momento che, nelle ultime edizioni, l’attenzione si è spostata più sulle questioni politiche che su quelle culturali e artistiche.
Un annuncio simile è arrivato lo scorso 9 settembre dall’emittente islandese RÚV, la quale ha riferito che «è possibile» che il Paese non prenda parte al contest se la UER autorizzerà la partecipazione di Israele. «Abbiamo seri dubbi sulla condotta sia dell’emittente pubblica israeliana che del governo israeliano per quanto riguarda l’Eurovision, e abbiamo espresso queste preoccupazioni all’interno dell’UER, sostenendo che le regole del concorso vengono violate» ha riferito Stefán Eiríksson, direttore generale – anche se la RÚV non ha presentato richiesta formale di esclusione di Israele dal concorso. Pochi giorni prima era stato il turno della Slovenia, che aveva fatto una dichiarazione simile. Il 12 settembre era poi stata la volta dell’Irlanda: «la posizione della RTÉ è che l’Irlanda non parteciperà all’Eurovision Song Contest 2026 se Israele sarà ammesso al concorso. La decisione finale sulla partecipazione dell’Irlanda sarà presa una volta che l’UER avrà comunicato la propria decisione», ha fatto sapere l’emittente. A questi si è aggiunta l’Olanda, la cui emittente AVROSTOS ha dichiarato che «la sofferenza umana, la soppressione della libertà di stampa e l’ingerenza politica sono in contrasto con i valori dell’emittenza pubblica» e che «non può più giustificare la partecipazione di Israele alla luce dell’attuale situazione, considerando le gravi sofferenze umane che continuano a verificarsi a Gaza». AVROSTOS ha inoltre espresso «profonda preoccupazione per la grave erosione della libertà di stampa» e per il numerosi giornalisti uccisi nell’enclave, oltre a ricordare che esistono «prove comprovate dell’interferenza del governo israeliano durante l’ultima edizione dell’Eurovision Song Contest, in cui l’evento è stato utilizzato come strumento politico».
Già la scorsa edizione dell’Eurovision, svoltosi dal 13 al 17 maggio a Basilea, era stata oggetto di pressioni al fine di escludere Israele dalla competizione, ma le azioni si erano fermate alle proteste e petizioni. Queste avevano già visto protagoniste Spagna, Islanda e Slovenia, le quali, in una lettera all’UER, chiedevano che Israele fosse escluso dalla competizione. Questo non era avvenuto, e l’evento era stato accompagnato da forti proteste contro il governo israeliano e il protrarsi del genocidio in Palestina. La decisione dell’UER sarà nota entro dicembre, dopo un processo di consultazione. Nel frattempo, proprio a causa delle controversie in corso, le scadenze per la presentazione degli artisti e il ritiro volontario sono state prorogate. In tutto ciò, Israele non ha ceduto di un passo alle pressioni, confermando la propria presenza al prossimo evento.
L’Amministrazione Trump ha nuovamente annunciato di essere vicina a un accordo sulla gestione del social cinese TikTok. Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, le trattative ruoterebbero correntemente attorno a un consorzio di investitori americani composto da Oracle, Silver Lake e Andreessen Horowitz. Questo triumvirato imprenditoriale acquisirebbe l’80% di una nuova società creata ad hoc, lasciando agli azionisti cinesi la quota restante del 20%. Facendo riferimento a ragioni di sicurezza nazionale, tuttavia, la gestione dei dati verrebbe affidata interamente a Oracle, questo nonostante l’azienda sia già stata accusata in passato di utilizzare tecnologie invasive per tracciare e profilare illecitamente i cittadini.
Le negoziazioni si sarebbero intensificate in occasione degli incontri commerciali svoltisi nei giorni scorsi a Madrid tra diplomatici statunitensi e cinesi, un’accelerazione che sarebbe giustificata anche all’approssimarsi della scadenza del 17 settembre, data entro la quale TikTok rischiava altrimenti la chiusura. Trovare un’intesa, però, resta complesso: il destino della piattaforma è ormai uno dei temi più delicati nelle relazioni politiche e contrattuali tra Washington e Pechino. Per rispondere alle preoccupazioni bipartisan legate alla sicurezza nazionale, TikTok avrebbe messo a punto una nuova app dedicata al mercato americano, con algoritmi di raccomandazione sviluppati da ingegneri locali e tecnologia concessa in licenza dalla casa madre cinese, ByteDance. Sempre secondo il WSJ, il nuovo assetto prevederebbe anche un consiglio di amministrazione a maggioranza statunitense, con un membro designato direttamente dal governo americano.
Sebbene i termini dell’accordo non siano stati ancora ufficializzati, è evidente che restino molti, moltissimi, nodi da sciogliere. Ciò nonostante, il Presidente Donald Trump ha deciso di estendere attraverso un ordine esecutivo la scadenza dei termini precedentemente prevista, rinviandola al 16 dicembre. In ogni caso, si prospetta uno scenario in cui sarà chiesto agli utenti di trasferirsi su una nuova applicazione, attualmente in fase di test. Se le indiscrezioni della testata fossero confermate dai fatti, il flusso di dati della piattaforma verrebbe convogliato interamente nei server texani di Oracle, che da tempo si sta avvicinando a TikTok, con l’intenzione di gestirne il traffico.
La presenza di Oracle nel consorzio era quasi scontata, tuttavia non manca comunque di sollevare parecchie perplessità. Pur essendo oggi nota soprattutto per le sue soluzioni cloud dedicate alla gestione dei database, l’azienda affonda le sue origini in un progetto della CIA e ha mantenuto a lungo rapporti privilegiati con l’intelligence e le polizie statunitensi. A pesare ulteriormente sul quadro ci sono i recenti coinvolgimenti in una class-action per una massiccia fuga di dati e le accuse di profilazione illecita, sedate in passato attraverso risarcimenti milionari. Negli ultimi giorni Oracle è tornata sotto i riflettori anche per un accordo da 300 miliardi di dollari con la società di intelligenza artificiale OpenAI: un’intesa dal sapore più visionario che concreto, che non ha comunque impedito ai mercati di reagire con entusiasmo e al CEO Larry Ellison di diventare – seppur per breve tempo – l’uomo più ricco del mondo.
È azzurro l’oro per il salto in lungo ai mondiali di atletica in corso a Tokyo: a guadagnarsi la medaglia è Mattia Furlani, 20 anni, il più giovane della categoria maschile che abbia mai conquistato un oro in questa disciplina. Furlani ha saltato per ben 8 metri e 39 centimetri, superando di 5 centimetri il giamaicano Gayle e di 6 centimetri il cinese Shi. L’Italia conquista così la 14ma medaglia d’oro di sempre ai mondiali di atletica. «Ancora non ci credo, quello che è successo stasera è qualcosa di magico» ha commentato Furlani subito dopo il risultato.
Mentre Israele sta occupando militarmente la Striscia di Gaza, realizzando una deportazione de facto della popolazione palestinese, un attentato terrorista a Gerusalemme, rivendicato da Hamas, ha provocato sei vittime. Se dovessimo stilare una lista delle parole che suscitano un brivido di terrore in noi occidentali, la parola terrorista sarebbe in cima alla lista. Perché questa follia? Da dove nasce, perché nasce e come cresce questo male? Ma per capire davvero questo fenomeno, è necessario fare un passo indietro. Per capire non soltanto la genesi del terrorismo, ma perché il conflitto tra Israele e Palestina è durato per decenni fino a raggiungere il culmine con il genocidio in corso a Gaza.
Nel 1987 una donna israeliana di nome Arna Mer-Khamis fonda nel campo profughi di Jenin il Freedom Theatre, un teatro nato con lo scopo di dare ai bambini palestinesi un luogo dove poter immaginare qualcosa di diverso dalla guerra. I filmati registrati in quegli anni sono stati poi raccolti in un film-documentario I bambini di Arna. La prima volta che lo vidi rimasi scioccata. Fu anche la prima volta che vidi Jenin. Non ricordo di aver mai visto un posto simile prima, né la favelas, né le baraccopoli indiane, né i più sperduti e miseri villaggi africani hanno la bruttezza di Jenin. Una «città», distrutta e ricostruita più volte, che quando vennero effettuate le riprese era un cumulo di macerie. Letteralmente. E fu su un cumulo di macerie che venne trovato uno dei «bambini di Arna», il piccolo Ala che sedeva sullo scheletro della propria casa distrutta dai bombardamenti.
A poco a poco le riprese vanno avanti e facciamo la conoscenza degli altri bambini che Arna prende sotto la sua ala. Ashraf, Yuossef, Zakaria, Nidal, i loro nomi… Ma a restarti impressi sono soprattutto gli occhi tristi e rassegnati di Ala, la determinazione di Ashraf che diceva di voler diventare il «Romeo Palestinese», e il sorriso contagioso di Youssef.
Nel frattempo passano gli anni, il teatro viene chiuso e i bambini crescono. Quindici anni dopo il figlio di Arna, Juliano, nel bel mezzo della seconda intifada, torna a Jenin per scoprire che fine abbiano fatto.
L’insegna del Freedom Theatre, il teatro fondato dall’attivista pro palestinese israeliana Arna Mer-Khamis. Un luogo nato con lo scopo di dare ai bambini palestinesi un luogo dove poter immaginare qualcosa di diverso dalla guerra
Ashraf, che recitava la parte del principe che voleva catturare il sole, è stato ucciso durante la battaglia di Jenin. Ala invece è a capo della resistenza armata. Durante questa «battaglia» si vede gente in pantaloncini e maglietta che spara contro i carri armati. Chi non ha un fucile, lancia pietre. Un gesto che ad alcuni potrebbe sembrare un simbolo di resistenza, ma che visto in quei filmati che sono cronache in diretta di una guerra senza via d’uscita, trasmette un senso di disperazione.
Juliano intervista Ala, e quando gli domanda: ti arrenderesti? Ala gli risponde: «arrendermi mai». Libertà o morte, dice con un sorriso triste, ma in realtà sembra dire: la libertà è la morte. Da questo inferno. Muore poco dopo, poco prima della resa di Jenin. Infine ci viene mostrato Youssef, il bambino dal sorriso irresistibile.
Indossa una divisa mimetica, ha la barba e una bandana nera sulla testa, gli occhi vuoti come quelli di un morto che cammina. Del bambino sorridente che era prima non è rimasta traccia. Alle sue spalle c’è la foto di Reham Wared, la bambina di Jenin morta dissanguata dopo che una bomba aveva colpito la sua scuola. A restarti impressa è la sua voce mentre dice addio alla sua famiglia. Non c’è odio, né rabbia, né rimpianto, né disperazione, né tristezza o paura nella sua voce. Nulla.
Si è fatto saltare in aria una settimana dopo aver girato quel filmato, uccidendo quattro persone in un attacco suicida. E allora non puoi fare a meno di domandarti: cos’è successo a quel bambino che rideva sempre? Forse la risposta è lì, in quello sguardo vuoto, in quello sguardo piatto.
Il 29 novembre 2001 quattro israeliani sono stati uccisi da un attacco suicida a nord di Tel Aviv. Il primo dicembre, stavolta a Gerusalemme, due kamikaze hanno ucciso dodici persone e ne hanno ferite centottanta. Il giorno dopo un attentatore ha fatto saltare in aria un autobus a Haifa. Il 5 dicembre un altro terrorista si è fatto esplodere proprio nel centro di Gerusalemme.
Vi ho parlato di Jenin per farvi sentire cosa significhi essere un palestinese. Perché sentire è il primo passo per capire. Ma se volete davvero capire il conflitto tra Israele e Palestina, provate adesso a mettervi nei panni di un israeliano e a immaginare cosa si prova a vivere a Tel Aviv, a Gerusalemme o in qualche altre distretto d’Israele.
Impari innanzitutto a non frequentare certe strade. Ad evitare i luoghi affollati. Quando porti i tuoi figli a scuola, ti domandi: li rivedrò ancora?
«Il dito compone freneticamente i numeri degli ospedali dove sono ricoverati i feriti. È arrivata da voi la signorina…? Il centralinista scorre gli elenchi in suo possesso. Secondi lunghi come l’eternità. Pensiamo a lei. Pensiamo a come sarà senza di lei. Alla radio trasmettono le urla di giubilo registrate da radio Hamas a Nablus: «Vendicheremo la tua morte, Abu Hanud».
Allora dove sta il bene e dove sta il male? Chi dobbiamo condannare? Per chi dobbiamo parteggiare?
Il figlio di Arna Mer-Khamis, Juliano. Egli era noto per il suo attivismo politico nel conflitto israelo-palestinese, con dure prese di posizione nei confronti della occupazione dei territori in Palestina e della politica dello stato di Israele in materia di insediamenti nelle zone occupate. È stato assassinato a Jenin il 4 aprile 2011, colpito alla testa da colpi di arma da fuoco sparatigli da un uomo mascherato.
La politica giudica, il tribunale condanna, la Storia spiega, sviscera ed esamina le ragioni, i perché e i percome, e con il senno di poi assegna meriti e colpe. L’arte invece no, fa qualcosa di più: ti fa sentire. Ogni cosa. Ma torniamo a Youssef, il bambino che recitava in un teatro di Jenin e che da grande è diventato un terrorista. La domanda che non puoi fare a meno di porti è: perché? Da cosa nasce e perché nasce questo male?
La cattiveria che tu mi insegni io la metterò in pratica, dice Shylock nel Mercante di Venezia mentre pretende una libbra di carne di Antonio, suo rivale in affari e suo debitore, e in pratica chiede e pretende il diritto di ucciderlo. E una delle pagine più belle e drammatiche di tutta la letteratura è il momento in cui Shylock pronuncia queste parole: «Ha deriso delle mie perdite, ha schernito i miei guadagni, ha denigrato la mia nazione, ha intralciato i miei affari, mi ha gelato gli amici, mi ha acceso contro i nemici; e tutto questo perché? Perché sono un ebreo».
Nel XVI secolo, l’epoca di Shakespeare, quando compariva in scena l’ebreo era sempre descritto come un essere meschino, avido e inferiore, ma invece Shakespeare, essendo Shakespeare, rivoluziona questo stereotipo e ci costringe a sentire tutto il dolore di Shylock. E poi Shylock incalza: «Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate un torto, non ci dobbiamo vendicare? »
Ecco il «manifesto» della vendetta. La vittima diventa Carnefice. E alle volte lo supera perfino in crudeltà, astuzia e perfidia, come ci mostra Shylock nel Mercante di Venezia. Tu hai ucciso me, ed io uccido te. Io ho sofferto, e tu soffrirai. Io ho sanguinato e tu sanguinerai. Quando David Grossman riporta le grida di giubilo di radio Hamas, il cerchio si è chiuso.
Violenza, condanna e rappresaglia e al termine della rappresaglia, una nuova spirale di violenza. Questa, volendo essere sintetici, è stata la storia degli israeliani e dei palestinesi negli ultimi settant’anni. Ma perché nessuno ha mai interrotto questo ciclo?
C’è un altro romanzo, I robot e l’Impero, di Isaac Asimov, che ci può aiutare a comprendere meglio quello che sta accadendo in Palestina. Una delle invenzioni più affascinanti di Asimov furono le sue tre famose leggi della robotica.
La Prima Legge recita: «Un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno». Un robot che permetta, anche in modo involontario, che a un essere umano venga fatto del male si auto-distrugge. A un certo punto però accade che alcuni esseri umani, atterrati su un pianeta di nome Solaria, s’imbattano in un robot-supervisore. Il robot all’inizio li osserva con attenzione, senza fare nulla, li ascolta e poi di colpo esclama: «Tu non sei un essere umano». E li attacca.
Come può un robot, programmato e vincolato dalla Prima Legge, tentare di uccidere un essere umano? È un comportamento che altera le fondamenta stessa del mondo di Asimov. Ma ecco quel guizzo di genialità che irrompe in quest’opera di fantascienza e che ci fa capire tanto non sul mondo creato da Asimov ma sul nostro.
Un robot può uccidere tranquillamente un essere umano, senza violare la Prima Legge. «a patto di modificare la definizione di essere umano. Per il robot supervisore la proprietà basilare di un essere umano era il linguaggio. (…) qualsiasi cosa di sembianze umane era definibile come essere umano solo se parlava il Solariano. Mentre, a quanto pare, qualunque cosa di aspetto umano che non parlasse con accento solariano doveva essere distrutto senza esitare».
Geniale, no? Come può un soldato sparare a un uomo disarmato? Perché il fucile non esita? Perché la mano non gli trema? Come può un uomo farsi saltare in aria per uccidere, volontariamente e consapevolmente, altre persone? Perché la sua mano non esita? Perché i suoi occhi non tremano? Come possono delle persone che sono padri e madri, fratelli e sorelle, figli, mogli, compagni abituarsi a una carneficina di cui sono complici o artefici? Alterando la definizione di essere umano.
E c’è una parola perfetta per farlo: Nemico. Il Nemico non è umano, non quanto lo sono io. I suoi cari non valgono quanto i miei. Lui non soffre quello che soffro io, non ha amato come ho amato io, non sogna quello che sogno io e certamente non piange con l’intensità con cui piango io.
«Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, quindi Caio è mortale», così pensa Ivan Ilijc in quel libro straordinario che si chiama La morte di Ivan Ilijc. Quel semplice sillogismo: Caio è un uomo, tutti gli uomini sono mortali, dunque Caio è mortale, era parso a Ivan Ilijc, «giusto soltanto nei riguardi di Caio. (…) Forse che Caio era stato innamorato come lui? Forse che Caio poteva condurre a termine l’istruzione d’un processo? Caio, sì, è mortale, ed è giusto che muoia, ma non io». Il Nemico è come Caio. La sua vita non vale quanto la mia; se non ha sentimenti profondi come lo sono i miei, posso ucciderlo. O vederlo morire, senza sentirmi in colpa. «Quando il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant» scrive Omar El Akkad, «dice che Israele sta lottando contro degli “animali”, non si tratta soltanto di una dichiarazione convinta, ma di un via libera».
In ogni guerra, in ogni conflitto c’è sempre un «noi» e un «loro». Non solo per chi la guerra la vive, la soffre e la patisce da vicino, ma anche per chi la guerra la osserva e la commenta da molto lontano.
Oggi Israele per molti ha il volto di Netanyahu. Ha il volto del Colono che con ardore fanatico vuole riportare Israele alla sua antica grandezza. Ha il volto del soldato che spara alla folla indifesa in attesa di ricevere aiuti. Per altri invece, per coloro che hanno preso le parti di Israele, la Palestina ha il volto di Hamas. Arabo, musulmano, terrorista: queste parole sono funzionali alla completa disumanizzazione del popolo palestinese che tiene in piedi la propaganda sionista. Ed è anche il motivo per cui in Occidente molti esitano, o più precisamente si sentono meno coinvolti emotivamente parlando, nel condannare Israele.
Il genocidio dei palestinesi viene ridimensionato nel tessuto collettivo ed emotivo per il semplice fatto che il palestinese non viene percepito come un essere umano a tutti gli effetti. La Storia è intessuta di categorie di persone, gli indios, i neri, gli ebrei, che furono percepiti come esseri inferiori, e dunque soggetti sui quali era possibile esercitare una violenza inaccettabile per la società civile. L’unico modo per far perdere terreno alla propaganda israeliana è nel riumanizzare il popolo palestinese, restituendogli quella complessità che la Storia gli ha sottratto. Peccato, che quando ciò avverrà, sarà comunque troppo tardi.
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