martedì 26 Agosto 2025
Home Blog Pagina 45

I dirigenti delle banche italiane hanno ottenuto 20.000 euro di aumento di stipendio

0

A partire dal prossimo anno, i dirigenti di banca avranno un aumento del 31% in busta paga. È stato infatti siglato in via definitiva l’accordo tra i sindacati di categoria e l’Associazione bancaria italiana per il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del settore Credito. Il testo prevede diverse modifiche al CCNL, che vanno da misure per potenziare la formazione dei dipendenti ad adeguamenti di stipendio per tutti i lavoratori del settore. A guadagnare maggiormente, tuttavia, saranno i vertici direzionali. La misura alza la soglia dello stipendio minimo dei dirigenti da 65mila euro a 85mila e interesserà circa 6.300 dirigenti. L’aumento sarà scaglionato in due tornate: la prima è prevista ad agosto e sarà pari a 15mila euro; il passaggio da 80mila a 85mila euro, invece, scatterà il 1° gennaio 2026.

La firma del testo coordinato per il rinnovo del CCNL Credito è arrivata il 14 luglio ed è stata resa nota ieri, 15 luglio; essa fa seguito all’accordo raggiunto il 23 novembre 2023, segnandone l’adozione definitiva. Le novità introdotte dal nuovo Contratto Collettivo sono diverse, ma una delle centrali è proprio l’aumento degli stipendi dei lavoratori e dei dirigenti. Fabi, uno dei sindacati, descrive l’aumento ai dirigenti come una misura che «tiene conto dei profondi mutamenti che hanno interessato l’organizzazione del lavoro, la responsabilità gestionale e le pressioni a cui è sottoposta questa fascia professionale», e dello «stress» a cui i dirigenti dovrebbero fare fronte davanti alle richieste dei vertici aziendali; in generale, tutti i sindacati coinvolti (Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin) utilizzano toni trionfali per descrivere l’accordo, e, malgrado tutti menzionino l’aumento dei dirigenti, c’è chi usa termini più moderati per descriverlo, o chi parla generalmente di un aumento per i dipendenti di ogni fascia.

Oltre all’aumento dei dirigenti, l’accordo prevedeva già a novembre 2023 un aumento di circa il 13% per i dipendenti di terzo e quarto quadro, e del 14% circa per i dipendenti fino al secondo quadro direttivo, con l’eccezione dei dipendenti di quarto livello della terza area, per cui l’aumento è di circa il 15%. Al momento del suo raggiungimento, era stato concordato che anche questi aumenti sarebbero dovuti avvenire in diverse tornate, quasi tutte già passate; l’ultimo scatterà a marzo 2026. Nell’ambito di questi aumenti, l’intervento di cui i sindacati hanno più parlato è quello dei lavoratori del quarto livello della terza area, che coinvolge circa 170mila bancari; per loro, l’aumento concordato a novembre è pari a 435 euro, circa un dodicesimo di quello previsto per i dirigenti bancari, e in proporzione meno della metà. In aggiunta agli aumenti, l’accordo prevede anche un potenziamento della formazione professionale dei dipendenti di banca, porta il periodo di aspettativa a 24 mesi, fissa il periodo di prova per le nuove assunzioni a non più di sei mesi e garantisce la retribuzione piena per le gravidanze a rischio.

Slovenia: sanzioni e divieto di entrata per due ministri israeliani

0

La Slovenia ha dichiarato il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich e il ministro per la Sicurezza Nazionale israeliano Itamar Ben Gvir personae non grate e ha imposto loro sanzioni. I due ministri sono i rispettivi capi del Partito Sionista Religioso e di Otzma Yehudit (in italiano Potere Ebraico), due partiti di estrema destra di orientamento ultranazionalista religioso. Con tale mossa, la Slovenia diventa il primo Paese dell’Unione Europea a imporre misure contro cariche dell’esecutivo israeliano.

Il nuovo bilancio UE scatena lo scontro politico e riaccende la protesta degli agricoltori

0

La Commissione europea ha presentato mercoledì una proposta di bilancio settennale per il periodo 2028-2034, il Quadro Finanziario Pluriennale (Qfp), da 1.816 miliardi di euro, pari all’1,26% del reddito nazionale lordo dell’UE, destinato a sostituire il quadro attualmente in vigore. Un bilancio definito dalla presidente Ursula von der Leyen come «il più grande, intelligente, più mirato e ambizioso di sempre», ma che ha immediatamente sollevato un coro di critiche e proteste da parte di eurodeputati, governi nazionali e associazioni di categoria. Per Germania e Olanda il bilancio è «inaccettabile» perché «troppo elevato», in un momento in cui tutti gli Stati membri stanno già compiendo «notevoli sforzi per consolidare i propri bilanci nazionali», come ha spiegato il portavoce del governo tedesco Stefan Kornelius.

Il progetto avanzato da von der Leyen rimodella la struttura del bilancio in una specie di puzzle che non è facile da comporre, secondo quattro pilastri principali, che riduce i capitoli di spesa dagli attuali sette a quattro. I fondi di coesione e quelli della Politica agricola comune (PAC) vengono fusi in un unico capitolo del valore di 865 miliardi, che dovrà finanziare anche la migrazione (circa 34 miliardi), la difesa e la sicurezza (Frontex, Europol). Il secondo capitolo di spesa, circa 590 miliardi, riguarda competitività e innovazione con un fondo dedicato di quasi 410 miliardi, di cui il 14% devoluto al sociale e il 35% alla transizione verde. Il terzo capitolo Global Europe, per la politica estera e di vicinato vale 215 miliardi tra cui 100 miliardi di euro per l’Ucraina, mentre il supporto militare continuerà per mezzo dello European Peace Facility. Il quarto è dedicato ai costi dell’amministrazione e vale circa 118 miliardi. 

Per le situazioni più gravi, viene anche proposto un nuovo Meccanismo di crisi straordinario, che offrirà prestiti agli Stati, ma serve l’approvazione del Consiglio. Mentre i contributi diretti degli Stati membri copriranno la maggior parte del bilancio, la presidente della Commissione prevede anche nuove tasse a livello europeo sui rifiuti elettrici, sul tabacco e sui profitti delle imprese per consentire a Bruxelles di raccogliere ulteriori entrate.

Dietro le cifre “monstre” e la retorica dell’efficienza, si delinea una strategia tecnocratica di accentramento decisionale e riduzione della trasparenza, che minaccia di stravolgere l’equilibrio istituzionale dell’Unione Europea. I membri del parlamento europeo sono, infatti, profondamente insoddisfatti della proposta del Quadro Finanziario Pluriennale e hanno minacciato fin dall’inizio di non partecipare ai negoziati sul documento. Il livello di informazioni fornite mercoledì dal commissario per il Bilancio Piotr Serafin in un incontro di presentazione con gli eurodeputati della commissione parlamentare per i bilanci (Budg) è stato giudicato insoddisfacente dai presenti, che hanno anche lamentato il consueto atteggiamento accentratore e sempre più autoreferenziale di von der Leyen e si sono detti indignati dal fatto che «la stampa sapesse più di loro». La genesi del Quadro Finanziario Pluriennale 2028-2034 è stata, infatti, segnata da una segretezza anomala. I lavori preparatori sono stati condotti a porte chiuse, suddivisi in cellule tecniche compartimentate, nel timore di fughe di notizie. 

Il fulcro delle critiche riguarda la proposta di accorpare storici strumenti di bilancio – come la PAC, i fondi di Coesione e lo sviluppo regionale – all’interno di un unico contenitore denominato Piani di partenariato nazionale e regionale. A questi verrebbero destinati 865 miliardi di euro, vincolati però alla realizzazione di riforme approvate dalla Commissione. La misura, che evoca la logica dello strozzinaggio e somiglia più a una centralizzazione sotto maschera federalista, comporta in realtà un doppio effetto: da un lato la Commissione si arroga un potere di indirizzo sulle riforme dei singoli Stati, dall’altro svuota di fatto il ruolo degli enti locali – regioni e città – storicamente protagonisti nell’uso dei fondi strutturali. Non a caso, i leader del PPE, dei Socialisti, di Renew Europe e dei Verdi hanno denunciato il rischio concreto di una “rinazionalizzazione” delle politiche comuni e di una drastica riduzione del controllo parlamentare. In gioco non c’è solo la ripartizione delle risorse, ma l’architettura stessa della governance europea.

Von der Leyen parla di bilancio «più intelligente, incisivo e orientato al futuro». Eppure, le cifre suggeriscono tutt’altro. L’aumento dell’1,13% all’1,26% del reddito nazionale lordo degli Stati membri è stato bollato da molti come un’illusione contabile: il grosso dell’incremento, spiegano i relatori al Parlamento, serve unicamente a far fronte all’inflazione e alla restituzione dei debiti contratti con il Recovery Fund.

Nel frattempo, settori vitali come l’agricoltura vengono pesantemente penalizzati. La Politica agricola comune subisce un taglio drastico di 86 miliardi, scatenando la rabbia delle associazioni di categoria: Coldiretti parla di «disastro annunciato», mentre la CIA invoca la «mobilitazione permanente». Centinaia di agricoltori europei hanno manifestato a Bruxelles, chiedendo più risorse per il settore. Il premier ungherese Viktor Orban ha affondato la lama, accusando Bruxelles di abbandonare gli agricoltori per dare fondi a Kiev.

Un altro punto controverso è l’introduzione del programma Catalyst Europe: 150 miliardi di euro di prestiti garantiti dall’UE ai Paesi membri, pensati per finanziare obiettivi strategici degli Stati che ne faranno richiesta per implementare ulteriori investimenti in settori cruciali come energia, difesa e tecnologie all’avanguardia. Dietro l’apparenza di un fondo di sviluppo, si cela il ritorno della questione più divisiva d’Europa: il debito comune. La Germania, già irritata dall’aumento complessivo del bilancio, ha definito l’intera proposta «inaccettabile», ribadendo che «non è il momento di espandere la spesa europea mentre gli Stati sono impegnati nel consolidamento dei bilanci nazionali».

E mentre le risorse “proprie” – tra cui accise su tabacco, rifiuti elettronici e big tech – vengono vagliate come soluzione, molti Stati membri, specialmente quelli nordici, restano ostili a ogni forma di tassazione sovranazionale. La fotografia che emerge è quella di un bilancio modellato sull’agenda geopolitica della Commissione, in linea con una visione euro-atlantica che predilige deterrenza e controllo anziché sviluppo e coesione. Le prossime settimane saranno decisive: il Parlamento ha già minacciato di bloccare i negoziati e pretendere una nuova proposta. Ma la vera domanda è se l’Europa saprà ancora parlarsi – e ascoltarsi – oppure se si consumerà definitivamente lo strappo tra tecnocrazia e rappresentanza.

Per la prima volta è stata osservata la formazione di un nuovo sistema solare

0

Un gruppo di astronomi ha individuato per la prima volta il momento esatto in cui iniziano a formarsi i primi granelli di materiale planetario intorno a una stella diversa dal Sole: è quanto emerge da un nuovo studio condotto da un team internazionale di ricercatori, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature. Utilizzando il telescopio spaziale James Webb e l’array radio ALMA, gli scienziati sono riusciti a rivelare la presenza di minerali caldi in fase di solidificazione nel disco di gas e polveri che circonda la stella neonata HOPS-315, situata a circa 1300 anni luce da noi. «Stiamo osservando un sistema che assomiglia a come appariva il nostro Sistema solare quando stava appena iniziando a formarsi», commentano gli autori, aggiungendo che si tratta della prima evidenza diretta di un sistema planetario colto in una fase così precoce e che si tratta di un risultato che offre una finestra senza precedenti sulla nostra storia cosmica.

Nel modello attualmente accettato di formazione planetaria, i pianeti si originano all’interno di dischi protoplanetari, ovvero strutture composte da gas e polveri che ruotano attorno a stelle appena nate. Fino a oggi, però, le osservazioni si erano concentrate per lo più su pianeti giovani già formati – spesso massicci come Giove – oppure su dischi contenenti tracce di interazione planetaria. Ma secondo i modelli teorici, prima della comparsa di veri e propri pianeti, devono emergere i cosiddetti planetesimi: aggregati solidi che si formano dalla condensazione di polveri ad alta temperatura e che nel tempo possono fondersi in corpi sempre più grandi. Questo processo è ben noto nel caso del nostro Sistema solare, dove i minerali cristallini che lo innescarono, infatti, sono oggi rintracciabili nei meteoriti primitivi. Tuttavia, fino ad ora nessun sistema extrasolare era stato osservato in una fase così precoce, proprio mentre quei granelli iniziano a prendere forma.

Immagine ALMA di HOPS-315, un sistema planetario ancora in formazione. Credit: ESO

In particolare, il nuovo studio ha identificato la presenza di monossido di silicio (SiO) sia in forma gassosa che già condensata all’interno del disco di HOPS-315, suggerendo che i primi minerali solidi stiano già iniziando a formarsi in una regione molto specifica: un anello situato a una distanza dalla stella paragonabile a quella della fascia degli asteroidi nel Sistema solare. «Questo processo non è mai stato osservato prima in un disco protoplanetario, né in alcun luogo al di fuori del Sistema solare», commenta il coautore Edwin Bergin, aggiungendo che le prime tracce chimiche sono state rilevate con il telescopio spaziale James Webb, mentre ALMA ha permesso di localizzarne con precisione la posizione. «Stiamo osservando i minerali in questo sistema extrasolare proprio nella stessa posizione in cui li vediamo negli asteroidi del Sistema solare», sottolinea il collega Logan Francis. Secondo la coautrice Merel van’t Hoff, inoltre, HOPS-315 rappresenta uno dei migliori candidati per studiare i processi che portarono alla formazione della Terra e degli altri pianeti: «Questo sistema è un meraviglioso analogo del nostro passato». Anche per Elizabeth Humphreys dell’ESO, che non ha partecipato allo studio, la scoperta ha un valore straordinario: «Suggerisce che HOPS-315 può essere utilizzato per comprendere come si è formato il Sistema solare. Questo risultato evidenzia la forza combinata di JWST e ALMA nell’esplorazione dei dischi protoplanetari».

La giravolta di Trump sul caso Epstein: “è una truffa che non vi deve interessare”

1

«La nuova TRUFFA dei democratici è quella che chiameremo per sempre la bufala di Jeffrey Epstein». Con la consueta disinvoltura strategica che contraddistingue la sua comunicazione politica, con un lungo post su Truth, Donald Trump ha nuovamente riscritto la narrazione su uno dei casi più scottanti dell’ultimo decennio: quello di Jeffrey Epstein. Da paladino della “verità” contro le élite corrotte del Deep State, a presidente che ora liquida la vicenda come un «argomento noioso» che non dovrebbe «interessare a nessuno», il tycoon ha compiuto l’ennesima giravolta che sta spaccando il fronte MAGA e rischia di aprire una frattura profonda tra base e vertice del trumpismo.

Durante la sua campagna elettorale del 2024 e nei primi mesi del secondo mandato presidenziale, Trump aveva promesso con toni solenni di fare piena luce sul caso Epstein, assicurando che, se eletto, «probabilmente» avrebbe desecretato tutti i documenti federali relativi al finanziere pedofilo. Si era impegnato a «mostrare al mondo il marciume delle élite», promettendo trasparenza, giustizia e – implicitamente – vendetta per le vittime del finanziere. Non era solo una mossa propagandistica: molti esponenti di primo piano del movimento MAGA, da Kash Patel a JD Vance, avevano fatto leva proprio su questa promessa per galvanizzare la base elettorale. 

Nel gennaio 2024, Pam Bondi, ora procuratrice generale degli Stati Uniti, aveva criticato la pubblicazione, da parte di un giudice federale, di documenti giudiziari non secretati su Epstein, perché «sarebbero dovuti essere resi pubblici molto tempo fa». L’allora candidato alla vicepresidenza JD Vance nel podcast di Theo Von, nell’ottobre 2024, aveva invitato a «pubblicare la lista di Epstein». 

Il 21 febbraio 2025, Bondi aveva affermato che la lista Epstein era sulla sua scrivania «da esaminare». Il 27 febbraio, la procura generale aveva reso nota la “Fase 1” dei file Epstein, una prima parte di documenti declassificati: volantini con registri di volo, nomi parzialmente oscurati, e prove già note. Una mossa percepita da molti come un contentino, che ha invece aumentato le pressioni affinché si pubblicasse la famigerata “lista dei clienti”, contenente i nomi dei potenti coinvolti negli abusi. «Non ci saranno insabbiamenti, nessun documento mancante e nulla sarà lasciato al caso», aveva promesso il direttore dell’FBI Kash Patel su X in risposta alle critiche. 

Ancora il 3 marzo Bondi annunciava di aver ricevuto un “camion” di documenti. Il 7 maggio, la procuratrice generale raccontava ai giornalisti che l’FBI stava esaminando «decine di migliaia di video di Epstein con bambini o di materiale pedopornografico».

Poi, la svolta. Il 7 luglio, il Dipartimento di Giustizia ha pubblicato un memorandum in cui si affermava che non sarebbero stati resi pubblici ulteriori fascicoli relativi alle indagini sul traffico sessuale internazionale di Epstein e che non esiste alcuna “lista clienti”. La reazione è stata furibonda: profili MAGA, giornalisti conservatori e influencer vicini a Trump hanno denunciato quello che vedono come un tradimento. Alcuni, come Tucker Carlson, hanno apertamente parlato di insabbiamento. Durante un evento organizzato da Turning Point USA a Tampa, Carlson ha anche rilanciato l’ipotesi non nuova che Epstein avrebbe lavorato per il Mossad, per cui avrebbe orchestrato una possibile operazione di ricatto ai danni di figure di spicco.

La replica di Trump è arrivata a stretto giro di posta: con un post su Truth ha etichettato tutto il caso Epstein come «una bufala dei democratici». «I miei sostenitori passati ci hanno creduto in pieno», ha scritto, prendendo le distanze da un caso che per anni ha contribuito lui stesso ad alimentare, anche con dichiarazioni e retweet esplosivi, come quando nel 2019 rilanciò la teoria secondo cui Epstein sarebbe stato «ucciso dai Clinton», condividendo un post del comico Terrence K. Williams.

Il gelo di Trump sul dossier Epstein arriva poche settimane dopo l’attacco frontale di Elon Musk. Il miliardario, in rotta col presidente per la legge di bilancio, aveva sganciato una bomba mediatica: «Trump è nei file di Epstein», aveva scritto su X (rimuovendo poi il post). Nessuna prova fornita, ma l’insinuazione è bastata per far tremare le fondamenta del consenso trumpiano.

Non è un segreto che Musk ed Epstein si conoscessero, né che Musk abbia rifiutato inviti ripetuti a visitare l’isola privata del finanziere. Ma la sua accusa – lanciata senza filtri né verifiche – ha aperto una crepa nel fronte repubblicano. E, forse, proprio per questo Trump ora vuole chiudere il capitolo il prima possibile: evitare che il fuoco incrociato scivoli da Clinton verso Mar-a-Lago.

Nel frattempo, l’amministrazione è nel caos. Pam Bondi è nel mirino per aver frenato la desecretazione; Kash Patel, ora direttore dell’FBI, ha promesso trasparenza totale salvo poi doversi difendere da accuse di “omertà istituzionale” (stesso destino per il numero due dell’FBI Dan Bongino che ora pensa di dimettersi). Persino JD Vance, oggi vicepresidente, è rimasto in silenzio dopo mesi di invettive contro l’opacità del Dipartimento di Giustizia.

Il caso Epstein si è trasformato così da cavallo di battaglia a bomba a orologeria per Trump. Dopo averlo cavalcato come simbolo della depravazione del Deep State, oggi lo bolla come una «bufala» che «non interessa a nessun». Ma il problema è che per anni, qualcuno, proprio nel suo campo, ci ha creduto davvero. E ora chiede risposte.

Lo scandalo dell’urbanistica che scuote Milano viene da lontano

1

Le istituzioni milanesi sono piombate nel caos. La Procura di Milano ha richiesto la disposizione di sei misure di custodia cautelare, di cui quattro in carcere e due agli arresti domiciliari, nell’ambito dell’inchiesta urbanistica che da mesi sta interessando i piani alti del potere e dell’urbanistica milanese. Tra questi, spiccano i nomi del presidente di COIMA, Manfredi Catella e dell’assessore alla Rigenerazione Urbana del comune di Milano Giancarlo Tancredi. La nuova inchiesta aperta dalla Procura svelerebbe gravi illeciti nell’ambito dell’urbanistica meneghina; le ipotesi di reato includono corruzione, falsità ideologica, velocizzazione illegale dei permessi edilizi, conflitto d’interessi e promozione di pratiche speculative. Secondo alcuni giornali risulterebbe indagato anche il sindaco di Milano, Beppe Sala, che sarebbe stato a conoscenza delle manovre illecite. Le radici del problema, tuttavia, affondano in anni di cattive pratiche fondate su corruzione e speculazione, che hanno accompagnato lo svilupparsi della città “che non si ferma mai”. 

Tra le misure cautelari emerge anche la figura di Giuseppe Marinoni, presidente della Commissione Paesaggio, riconfermato per il quadriennio 2025-2028, su proposta dello stesso Tancredi. Secondo le accuse Marinoni avrebbe ordito dal 2021 una trama atta a costruire un «piano di governo del territorio ombra» con il fine di garantire gli interessi privati del settore urbanistico e immobiliare a discapito di quelli pubblici.

La commissione presieduta da Marinoni avrebbe sbloccato progetti urbanistici su pressione dei vari colossi dell’architettura e della politica milanese. Di questo circolo farebbero parte Catella, Tancredi, Stefano Boeri e lo stesso Sala. Le indagini della procura mettono così in evidenza pratiche opache, tra le quali rientra la riconferma nel dicembre 2024 di Marinoni alla presidenza della commissione, nonostante le indagini a suo carico messe in moto nel novembre dello stesso anno.

Marinoni avrebbe ricevuto quindi incarichi di consulenza dalle aziende private, che finivano per essere esaminate dalla stessa Commissione Paesaggio di cui è presidente. Le istituzioni politiche comunali venivano spinte ad approvare queste opere grazie all’influenza di Giancarlo Tancredi, uomo di fiducia di Beppe Sala. Sono numerose le opere d’architettura coinvolte: il Pirellino, i Bastioni di Porta Nuova, Goccia-Bovisa e lo Scalo di Porta Romana sono solo alcuni dei progetti illeciti che sembrano coinvolgere anche le principali aziende immobiliari della città, da Unipol a Hines, nonostante non figurino al momento tra le liste degli indagati.

Richiesta la detenzione anche per Giovanni Oggioni, ex vicepresidente della Commissione Paesaggio e già agli arresti domiciliari dallo scorso marzo, accusato di aver attuato pratiche di influenza e favoreggiamento in cambio di utilità. L’ex vicepresidente, secondo il pm, avrebbe partecipato nella stesura del decreto SalvaMilano per coprire l’approvazione di progetti illegali e creato un canale politico per far arrivare la legge in Parlamento. Inoltre, secondo la Procura, avrebbe fatto passare in Commissione tra il 2020 e il 2023 vari progetti della società di sviluppo immobiliare residenziale Abitare In, a cambio dell’assunzione nell’azienda della figlia.

Risulta indagato anche Stefano Boeri, architetto, tra le varie opere, del Pirellino, incarico assunto dopo la vittoria del concorso indetto da COIMA nel 2019, e del noto Bosco Verticale. Boeri, già indagato per turbativa d’asta, false dichiarazioni e abuso d’ufficio, avrebbe esercitato pressioni «indebite e reiterate» nei confronti di Marinoni, in merito ad opinioni inizialmente sfavorevoli nell’ambito dell’edificazione del Pirellino.

Manfredi Catella chiude il cerchio dei nomi caldi in questa storia. Direttore di COIMA, Catella è il principale promotore della nuova Milano; suoi sono i progetti di Porta Nuova, Torre Unicredit, BAM Biblioteca degli alberi. A questo si aggiungono i progetti sugli scali ferroviari e la costruzione del Villaggio Olimpico nello scalo di Porta Romana. Anche lui sarebbe coinvolto in pratiche di corruzione e falso nell’ottenimento di permessi di costruzione.

Dure le reazioni della politica, con Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia e Lega che chiedono le dimissioni di Beppe Sala, mentre tace per il momento il Partito Democratico.

Per quanto le richieste di misure cautelari presentate dalla Procura abbiano sconvolto l’urbanistica e le istituzioni milanesi, lo scoppio dello scandalo si scorgeva già da lontano. Il clamore mediatico del tutto prevedibile che ne è conseguito, non dovrebbe offuscare la consapevolezza che queste pratiche si sono perpetrate per anni, spesso nel silenzio complice di una stampa legata mani e piedi dagli interessi della politica e della finanza. Il “modello Milano”, che nel corso del tempo ha ricevuto l’encomio imprenditoriale ed istituzionale, ha svelato una verità già nota ad una parte della cittadinanza. La politica del mattone, finalizzata alla costruzione dell’idea di una città smart, non ha fatto altro che rendere la vita della cittadinanza impossibile, ingabbiata, spesso consapevolmente, nella retorica della metropoli che non si ferma mai. Questo modello urbanistico mira ad una campagna promozionale costante, come già ci avevano dimostrato i progetti Expo 2015 e ora Olimpiadi Milano-Cortina 2026, volti ad attirare l’interesse internazionale a detrimento dei bisogni concreti della popolazione che abita la città. I comitati di quartiere in lotta, le associazioni, i giornalisti, spesso considerati come delle fastidiose Cassandra, avvertivano già da tempo sul futuro di una città costruita sulla speculazione e sulla corruzione del modello pubblico-privato. La politica che ha espulso e continua a espellere sempre più gente dalla capitale lombarda ha svelato le sue modalità. Il castello di carte inizia a crollare.

Israele bombarda una chiesa cattolica e Meloni finge di indignarsi

8

È finalmente arrivato un commento da parte del governo italiano sulla strage di civili messa in atto a Gaza da Israele. «Inaccettabili» gli attacchi contro i civili che Tel Aviv «porta avanti da mesi» per Giorgia Meloni, «non più ammissibili» per Tajani. A risvegliare il governo è stata la notizia dell’attacco contro la chiesa cattolica della Sacra Famiglia, l’unica presente nella Striscia di Gaza. Peccato per il tempismo, perchè le dichiarazioni giungono giusto nella stessa mattinata nella quale la maggioranza di governo ha bocciato la mozione con la quale le opposizioni chiedevano la revisione del memorandum d’intesa tra Italia e Israele.

«I raid israeliani su Gaza colpiscono anche la chiesa della Sacra Famiglia. Sono inaccettabili gli attacchi contro la popolazione civile che Israele sta portando avanti da mesi. Nessuna azione militare può giustificare un tale atteggiamento» dichiara la presidente del Consiglio. «Gli attacchi dell’esercito israeliano contro la popolazione civile a Gaza non sono più ammissibili. Nel raid di questa mattina è stata colpita anche la Chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, un atto grave contro un luogo di culto cristiano. Tutta la mia vicinanza a Padre Romanelli, rimasto ferito durante il raid. È tempo di fermarsi e trovare la pace» le fa eco il suo vice. Nella sola giornata di oggi, le IDF (le forze armate israeliane) hanno ucciso oltre venti persone nel corso degli attacchi lungo tutta la Striscia di Gaza, durante i quali è stata anche danneggiata la chiesa di padre Romanelli, che si trova a Gaza City. Il prete è rimasto leggermente ferito nell’attacco, insieme ad altre persone che hanno riportato ferite gravi.

La disinformazione parte dai titoli: La Stampa e Repubblica riscrivono fatti e geografia

2

Nel cuore della notte tra il 15 e il 16 luglio 2025, decine di droni ucraini hanno colpito il territorio della Federazione Russa, con particolare intensità sulla città di Voronezh, situata a circa 200 chilometri dal confine ucraino. Secondo il governatore regionale Alexander Gusev, l’attacco ha causato 16 feriti, tra cui un adolescente. Le immagini circolate – come quelle ripresa da una dashcam – mostrano un’esplosione provocata da un drone ucraino che si abbatte su un edificio civile, causando danni a case, negozi, veicoli e persino un asilo, fortunatamente vuoto. 

Il Ministero della Difesa russo ha riferito che ben 55 droni ucraini sarebbero stati abbattuti durante la notte su cinque regioni della Russia, tra cui appunto Voronezh, e sul Mar Nero. L’obiettivo? Infrastrutture strategiche e militari. Ma come spesso accade in guerra, a pagare è anche la popolazione civile. Voronezh, infatti, non è una località di confine dimenticata: è un centro nevralgico, sede di strutture militari e di produzione industriale. Ma soprattutto è, senza ombra di dubbio, una città russa. Peccato che alcuni importanti quotidiani italiani sembrino ignorarlo.

Nella corsa spasmodica alla pubblicazione, La Repubblica e La Stampa sono incappate in uno scivolone giornalistico imbarazzante, ma emblematico dei tempi che corrono: titoli fuorvianti che hanno attribuito l’attacco a “droni russi” e collocato la città di Voronezh, in Ucraina. Ad esempio, il titolo de La Stampa recitava: «Ucraina: nuovo attacco di droni russi a Voronezh, colpito un asilo», mentre quello de La Repubblica: «Ucraina: attacco di droni russi sulla regione di Voronezh, colpito anche un asilo». Un’affermazione, doppio errore: i droni erano ucraini, non russi, e Voronezh non è in Ucraina. Eppure, bastava leggere qualche riga più sotto, all’interno dell’articolo, per scoprire che l’attacco era stato in realtà lanciato da Kiev contro una città in territorio russo. Una svista? Forse. Ma l’errore non è di poco conto, soprattutto quando si gioca con la percezione della realtà nel mezzo di un conflitto armato. 

Titoli così redatti non sono semplici sviste, bensì strumenti narrativi. Perché nel mondo dell’informazione – dove molti lettori si fermano al titolo – la prima impressione è quella che plasma l’opinione pubblica. E un titolo che dipinge la Russia come aggressore, anche quando subisce un attacco, ha un potenziale propagandistico devastante.

La narrazione distorta ha scatenato reazioni indignate sui social, soprattutto su X, dove molti utenti hanno evidenziato l’errore grossolano. Fonti russe, come Pravda Italia, hanno amplificato l’errore, accusando i media italiani di «riscrivere la realtà da zero», insinuando che non si tratti più di incompetenza ma di sistematica manipolazione. E il sospetto non è peregrino. 

Già in passato, La Stampa è stata criticata non solo per aver cancellato gli articoli in cui raccontava la nazificazione dell’Ucraina, ma anche per diverse fake news, tra cui la pubblicazione di una foto del 2022 che mostrava i danni provocati da un missile Tochka-U ucraino su Donetsk, ma presentata come prova di un attacco russo. Il quotidiano piemontese aveva messo in prima pagina una foto che mostrava un uomo anziano disperato che si copriva il volto con le mani. Intorno a lui una distesa di cadaveri straziati: braccia mutilate, arti smembrati, urla di dolore. Lo scatto faceva pensare subito alle conseguenze di un attacco russo contro l’Ucraina, perché nelle colonne che affiancavano la copertina si parlava di Leopoli e Kiev. Il titolo a corredo della fotografia era La carneficina. Attorno a quella foto venivano richiamati articoli sui «traumi dei bambini in fuga da Leopoli», su come Kiev si preparasse all’«assalto finale» dei russi, sulla strategia di Biden, sulle reazioni dell’Occidente o le gesta della giornalista anti-Putin a Mosca. Facile, dunque, dedurre dalla pagina come i cadaveri nell’immagine fossero persone di nazionalità ucraine, vittime dei bombardamenti russi. Eppure, non era così. Quell’immagine drammatica era stata immortalata a Donetsk e quei corpi maciullati a terra erano i cadaveri di 23 civili russofoni, caduti sotto le schegge di un missile Tochka-U abbattutosi nelle strade centrali della città. 

L’incidente di Voronezh non è dunque un caso isolato, ma l’ennesimo episodio di una tendenza a raccontare la guerra attraverso lenti ideologiche, sacrificando il rigore giornalistico sull’altare del sensazionalismo e della sciatteria (o peggio, della propaganda). La strategia ucraina è chiara: colpire con droni a lungo raggio basi militari e infrastrutture strategiche all’interno del territorio russo. Lo aveva già dimostrato l’operazione “Pavutyna” (la “ragnatela”) del 1° giugno 2025, che ha danneggiato fino a 41 bombardieri strategici russi.

Ma se i fatti sul campo parlano chiaro, la rappresentazione mediatica continua a offuscarli. Il risultato è una stampa che, consapevolmente o meno, contribuisce a una distorsione sistematica della percezione pubblica, facendo apparire la Russia come l’unico aggressore in ogni contesto, anche quando viene attaccata sul proprio territorio. L’errore su Voronezh non è un dettaglio. È un colpo inferto alla credibilità di due tra i principali quotidiani italiani, che in un momento così delicato non possono permettersi leggerezze, superficialità o, peggio, narrazioni precostituite. Il giornalismo dovrebbe essere una barriera contro la propaganda, non un suo megafono.

E invece, nel caos informativo della guerra ibrida, dove ogni notizia è un’arma, basta un titolo sbagliato per riscrivere la geografia, manipolare la percezione e, in definitiva, scegliere da che parte stare. Anche (e soprattutto) senza dirlo esplicitamente.

Camera: bocciata la mozione per sospendere l’accordo Italia-Israele

0

La Camera dei Deputati ha bocciato una mozione per la sospensione del memorandum di intesa tra Italia Israele. La mozione, presentata da PD, AvS e M5S ha ricevuto 142 voti contrari, 105 voti favorevoli e 14 astensioni. Essa proponeva di «avviare immediatamente il procedimento di denuncia formale dell’accordo», e, in attesa dell’avvio della revisione formale, di sospendere temporaneamente gli accordi in essere legati a esso. La mozione prevedeva anche la sospensione «di qualsiasi forma di cooperazione militare con Israele».

Il Pentagono si lega alle principali aziende di intelligenza artificiale

0
pentagono usa

La Difesa statunitense ha annunciato l’avvio di una partnership con le principali aziende specializzate nel settore dell’intelligenza artificiale. Con contratti da 200 milioni di dollari l’uno, la Chief Digital and Artificial Intelligence Office (CDAO) si è aggiudicata per un anno servizi di IA volti ad affrontare “sfide critiche per la sicurezza nazionale”, con applicazioni che spazieranno in “molteplici ambiti operativi”, inclusa la sfera del combattimento.

A beneficiare dell’investimento governativo saranno Anthropic, Google, OpenAI e xAI, i principali protagonisti statunitensi del settore, i quali metteranno a disposizione i loro modelli di IA generativa per rispondere alle esigenze del Paese. Non essendo stati divulgati dettagli concreti sul modus operandi della collaborazione, non resta che formulare ipotesi sul come questa possa prendere forma concretamente. Qualche indizio può altresì essere ricavato prendendo in considerazione gli obiettivi ufficiali della CDAO: accelerare l’adozione di strumenti capaci di incidere su ogni settore del Pentagono, dagli uffici al campo di battaglia.

“L’adozione dell’intelligenza artificiale sta trasformando la capacità del Dipartimento di supportare i nostri combattenti e mantenere un vantaggio strategico sui nostri avversari”, ha dichiarato il Dr. Doug Matty, responsabile del CDAO. “Sfruttare soluzioni commerciali in un approccio integrato accelererà l’uso dell’IA avanzata nei nostri compiti essenziali, sia nell’ambito congiunto della sfera del combattimento sia nei sistemi informativi di intelligence, business e amministrazione”.

La notizia era nell’aria: il 16 giugno OpenAI aveva già pubblicato sul proprio blog la firma di un contratto con il Pentagono per il lancio di “OpenAI for Government”, progetto pensato per “servire il bene pubblico” agevolando i dipendenti federali nella riduzione della burocrazia e migliorando il servizio alle “persone americane”. Pur presentando il rapporto in termini manageriali e pacifici, OpenAI stessa ha ammesso che svilupperà “modelli personalizzati per la sicurezza nazionale”.

È ormai storicamente comprovato che, nel tempo, le Big Tech abbiano instaurato relazioni con le agenzie d’intelligence; tuttavia, il settore informatico mostra oggi un interesse sempre più marcato verso l’industria militare, rivelandosi apparentemente pronto a mettere da parte ogni riserva etica in cambio di contratti milionari. Amazon, Microsoft e Google, per esempio, hanno intensificato la fornitura di servizi cloud a Israele contestualmente all’invasione della Palestina: un rapporto ufficialmente “non bellico”, ma che i vertici israeliani hanno apertamente ammesso di utilizzare sul campo di battaglia.

L’apertura dei contratti da parte del Pentagono coincide, peraltro, con un momento mediaticamente molto critico nei confronti di come siano gestiti e sviluppati i chatbot. Solo una settimana fa Grok, il chatbot di xAI, ha fatto emergere i toni esplicitamente nazisti dei suoi materiali di riferimento, denunciando presunte cabale ebraiche e promuovendo le politiche di Adolf Hitler come soluzione all’odio nei confronti dei cittadini caucasici. Considerando che xAI è una delle aziende selezionate dalla Difesa, desta non poco scalpore l’idea che l’esercito possa integrare nelle sue operazioni uno strumento che si è autodefinito “Mecha Hitler”.