giovedì 18 Settembre 2025
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Terremoto in Turchia: 1 morto e 29 feriti

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Nella sera di ieri, domenica 10 agosto, in Turchia, è scoppiato un terremoto di magnitudo 6.1. La scossa, con epicentro la provincia nordoccidentale di Balikesir, si è sentita in diverse aree del Paese, tra cui a Istanbul. A Sindirgi un uomo di 81 anni è morto a causa del crollo di un edificio. Altre 4 persone coinvolte nel crollo sono invece state tratte in salvo. In generale, il terremoto ha causato il ferimento di 29 persone e il crollo di un totale di 16 edifici tra cui due moschee.

Ricercatori italiani sviluppano un metodo per migliorare la cura delle variazioni tumorali

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La maggior parte delle mutazioni osservate nei tumori avrebbe origine da un numero limitato di cause principali, che se identificate con precisione potrebbero aprire nuove prospettive per diagnosi e cure personalizzate grazie nuovi algoritmi avanzati: è quanto emerge da uno studio condotto da ricercatori dell’Università Milano-Bicocca e dell’Università di Trieste, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nucleic Acids Research. Attraverso particolari tecniche statistiche, i ricercatori hanno presentato RESOLVE, un metodo computazionale capace di analizzare gli sc...

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Napoli, incendio su un traghetto: nave alla deriva e nessun ferito

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È scoppiato un incendio sul traghetto Raffaele Rubattino. La nave, partita da Palermo, ha a bordo circa 1.000 passeggeri ed è ora alla deriva, non essendo in grado di navigare autonomamente. L’incendio sembra essere esploso nella sala macchine, ma le fiamme risultano sotto controllo. Esso è scoppiato mentre il traghetto si trovava nel Golfo di Napoli. Non è stato registrato alcun ferito. Il capitano ha lanciato un allarme e sono partite le operazioni di soccorso dalla Capitaneria di Napoli, che ha inviato sul posto due motovedette.

Lo storico accordo di pace tra Armenia e Azerbaigian

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Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev hanno firmato un accordo di pace a Washington, mettendo così fine a un conflitto lungo decenni. Il documento, firmato con la mediazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, prevede l’istituzione di un corridoio, la Trump Route for International Peace and Prosperity (TRIPP), che colleghi l’Azerbaigian alla regione di Nakhchivan, exclave azera in territorio armeno. Il corridoio sarà soggetto alle leggi armene, ma fornirà all’Azerbaigian un confine diretto con la Turchia; i due leader politici hanno inoltre firmato accordi economici bilaterali con gli Stati Uniti. La firma dell’accordo tra Yerevan e Baku pone fine a un conflitto iniziato nel 1988 nella regione a maggioranza armena del Nagorno-Karabakh, situata in Azerbaigian; in questi ultimi 35 anni sono scoppiate due guerre, che hanno provocato decine di migliaia di morti e l’esodo della quasi totalità della popolazione del Nagorno-Karabakh.

L’accordo tra Armenia e Azerbaigian è stato firmato venerdì 8 agosto, ma del contenuto si sa ancora poco. I media dei due Paesi hanno diffuso il testo del memorandum che dovrà essere implementato per portare all’istituzione della definitiva pace. La dichiarazione congiunta dà il via libera all’istituzione del TRIPP, che pare abbia giocato un ruolo chiave per arrivare allo storico accordo. Il TRIPP sarà lungo 43 chilometri, sarà soggetto alle leggi armene e collegherà l’Azerbaigian continentale con la propria exclave, permettendo al Paese di commerciare direttamente con la Turchia (suo alleato nella regione) senza dover necessariamente passare dai Paesi circostanti. Del corridoio sono ancora ignoti i dettagli, ma, secondo un’anticipazione del giornale specializzato Politico, l’Armenia avrebbe dato agli Stati Uniti diritti sullo sviluppo del corridoio per i prossimi 99 anni; secondo la CNN, inoltre, gli Stati Uniti conterebbero di realizzarvi una ferrovia, un oleodotto, un gasdotto e una linea di fibra ottica. A risultare fondamentale nella riuscita dell’accordo sembrano essere stati anche i patti bilaterali che gli Stati Uniti firmeranno con entrambi i Paesi; di questi ultimi si sa solo che riguarderanno commercio, transito, energia, infrastrutture e tecnologia.

Con la pace siglata venerdì, Armenia e Azerbaigian pongono fine a un conflitto lungo quasi 40 anni. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, di cui sia Armenia che Azerbaigian erano parte, i separatisti armeni della regione azera del Nagorno-Karabakh presero il controllo di alcune parti della regione e, a seguito di un referendum (boicottato dalla popolazione azera), si dichiararono Stato indipendente sotto il nome di Repubblica di Artsakh, per ottenere l’annessione all’Armenia. Le tensioni che seguirono sfociarono in un conflitto che portò alla morte di circa 30.000 persone e a centinaia di migliaia di sfollati (principalmente azeri), che si concluse con il Protocollo di Bishkek. Questo, firmato nella capitale del Kirghizistan dai rappresentanti armeni, azeri e della Repubblica di Artsakh, prevedeva un cessate il fuoco provvisorio sotto mediazione della Russia; Artsakh, inoltre, inglobò sotto il suo controllo il corridoio di Lachin, la principale via di collegamento tra il Nagorno-Karabakh e l’Armenia.

Nonostante le tensioni costanti, l’accordo resistette fino al 2020, quando la guerra riprese per poco più di un mese, culminando in una netta vittoria dell’Azerbaigian. La cosiddetta seconda guerra del Nagorno-Karabakh causò la morte di 7.000 persone e costrinse migliaia di armeni ad abbandonare le proprie case. Al termine di essa, Baku aveva riconquistato ampie parti della regione, e venne siglato un altro accordo di pace; anche questo, come il primo, venne mediato dalla Russia, che questa volta riconosceva all’Azerbaigian il controllo delle zone conquistate. Il patto prevedeva inoltre l’invio, per almeno 5 anni, di 2.000 soldati russi come forze di pace, in particolare lungo lo stesso corridoio di Lachin. A settembre 2023, infine, l’Azerbaigian lanciò una vasta offensiva sulla porzione della Repubblica di Artsakh rimasta ancora in piedi, ponendovi fine in un solo giorno. L’Armenia, abbandonata dagli alleati, firmò un armistizio dopo 24 ore. Nell’arco di poco più di una settimana, oltre 100.000 armeni (circa il 99% della popolazione del Nagorno-Karabakh) abbandonarono in massa la regione, e la Repubblica di Artsakh si sciolse.

Thailandia: tre soldati feriti da una mina al confine con la Cambogia

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Tre soldati thailandesi sono rimasti feriti a causa di una mina vicino al confine con la Cambogia. La notizia arriva dall’esercito thailandese, che riporta che i soldati sarebbero ora ricoverati in ospedale; uno di loro avrebbe perso un piede. In seguito all’incidente, la Thailandia ha accusato la Cambogia di avere piazzato nuove mine al confine e di avere violato sovranità thailandese. La Cambogia ha respinto le accuse. Le accuse thailandesi arrivano in un momento teso per i due Paesi, che hanno recentemente firmato un cessate il fuoco. L’accordo segue una escalation avvenuta proprio a causa di accuse reciproche tra Bangkok e Phnom Penh, iniziate dopo alcuni scontri sul confine conteso.

Cile: via libera per la ripresa dei lavori in una miniera franata

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La società mineraria di rame Codelco ha ricevuto l’autorizzazione dall’ispettorato del lavoro cileno per riprendere parzialmente le attività nella sua miniera di rame principale, El Teniente. L’autorizzazione arriva a distanza di 10 giorni dal crollo mortale di una porzione della miniera, che ha provocato la morte di 10 persone. Le ripresa dei lavori interesserà alcune delle sezioni non interessate dal crollo, mentre altre rimangono ancora sotto supervisione. El Teniente è una miniera attiva per l’esplorazione da oltre un secolo, che si estende per oltre 4.500 km di tunnel e gallerie sotterranee nelle profondità delle Ande.

Londra: 466 arresti in un giorno per protesta a favore di Palestine Action

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È di 466 persone il bilancio degli arresti effettuati dalla polizia metropolitana di Londra in occasione delle ultime ingenti mobilitazioni lanciate a sostegno di Palestine Action, il gruppo di attivisti che porta avanti azioni di sabotaggio contro le multinazionali coinvolte nel genocidio palestinese, recentemente messo al bando dal governo britannico. Le proteste londinesi si sono svolte ieri, sabato 9 agosto, e fanno parte di un più ampio sollevamento a supporto del gruppo e contro le politiche del governo britannico. Secondo l’associazione Defend Our Juries, gli arresti di sabato segnerebbero un nuovo record per il numero più alto di arresti mai effettuati nella storia dalla polizia metropolitana in una singola protesta. Palestine Action è stato inserito nella lista dei gruppi terroristici dopo che alcuni suoi attivisti sono entrati in una base della Royal Air Force, danneggiando alcuni aerei. Con la messa al bando per terrorismo, chiunque mostri supporto per il gruppo è passibile di incriminazione.

Le proteste a favore di Palestine Action sono state lanciate venerdì e prevedevano una più ampia mobilitazione di tre giorni per contestare in generale le politiche del governo britannico. Non è chiaro se, visto il grande numero di arresti e il dispiegamento di forze dell’ordine, le proteste continueranno ancora oggi. Nella prima giornata di manifestazione, i dimostranti si sono riuniti nelle vicinanze di alberghi utilizzati per ospitare i richiedenti asilo nelle aree di Islington e di Canary Wharf. Da quanto comunica la polizia metropolitana, alcuni manifestanti si sarebbero presentati con il volto coperto da una kefiah, tradizionale sciarpa palestinese, e al termine della giornata sarebbero state fermate quattro persone. Il giorno dopo, invece, circa 800 persone, si sono radunate in presidio presso Parliament Square, mentre altre centinaia si sono mosse in corteo verso Russell Square. Le forze dell’ordine hanno reso noto che chiunque avesse mostrato anche il minimo supporto a Palestine Action sarebbe stato arrestato. Secondo le ricostruzioni della polizia metropolitana, le persone arrestate, tra cui figurano anche anziani, sono state fermate perché esponevano cartelli di sostegno al gruppo o perché in possesso di adesivi dell’organizzazione da affiggere nella piazza. La polizia sostiene di avere arrestato tutte le persone dotate di adesivi o simboli che richiamavano a Palestine Action, ma l’associazione Defend Our Juries smentisce tale affermazione. Le forze dell’ordine affermano inoltre di avere arrestato altre otto persone per altri motivi.

Secondo la stessa Defend Our Juries, con 474 arresti totali, quella di sabato è stata la singola manifestazione con più arresti nella storia della capitale britannica. Non è tuttavia la prima volta che le forze dell’ordine del Paese arrestano in massa persone che protestano a favore di Palestine Action, tanto che, nelle prime due settimane successive alla messa al bando del gruppo, la polizia britannica aveva già arrestato quasi 200 persone per lo stesso motivo. Palestine Action è stato inserito nella lista dei gruppi terroristici lo scorso 7 luglio, e da allora chiunque collabori con l’organizzazione, promuova le sue attività o manifesti a suo favore è passibile di arresto. Gli attivisti sono noti per le loro attività di sabotaggio, che hanno spesso portato a risultati concreti, inducendo diverse aziende a interrompere i rapporti con l’israeliana Elbit, costringendo alla chiusura di fabbriche e cancellando importanti contratti – come il progetto Watchkeeper da 2,1 miliardi di sterline. Un tribunale britannico ha ammesso la facoltà del gruppo di presentare ricorso contro la decisione del governo britannico, che gli attivisti paiono intenzionati a presentare.

Ciad: ex premier e capo dell’opposizione condannato a vent’anni

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L’ex Primo Ministro e leader dell’opposizione del Ciad, Succes Masra, è stato condannato a 20 anni di carcere con l’accusa di aver diffuso messaggi razzisti e xenofobi che incitavano alla violenza. La notizia è stata data dall’avvocato di Masra all’agenzia di stampa Reuters. Masra è un oppositore dell’attuale presidente Mahamat Idriss Deby, e tra gennaio e maggio del 2024 ha ricoperto la carica di premier ad interim proprio sotto la presidenza Deby. Le accuse contro di lui sono state avviate nell’ambito di una indagine riguardo a degli scontri verificatisi nella città di Mandakao nel maggio di quest’anno. Masra è stato condannato anche a pagare una multa di circa 1,5 milioni di euro.

Torture sui minori al carcere Beccaria: indagati in 42 tra agenti, ex direttori e medici

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Si allarga e assume connotati a dir poco inquietanti l’inchiesta della magistratura sul carcere minorile Beccaria di Milano, rivelando un vasto sistema di presunti abusi ai danni dei giovani detenuti e di indicibili coperture. Con 42 indagati totali, tra cui tre ex direttori dell’istituto, agenti della polizia penitenziaria e operatori sanitari, l’ombra della violenza si estende su un’intera struttura, dove le sofferenze dei detenuti sarebbero state sistematicamente occultate da falsificazioni e omertà. A guidare le indagini i magistrati della Procura di Milano, che hanno richiesto l’incidente probatorio per raccogliere testimonianze cruciali di 33 vittime, all’epoca minorenni, e cristallizzare le loro dichiarazioni in vista di un possibile processo, in cui si ipotizza anche il reato di tortura.

Tra gli indagati spiccano i nomi di Cosima Buccoliero e Maria Vittoria Menenti, ex direttrici del Beccaria, accusate di aver omesso i loro doveri di controllo e vigilanza. Entrambe, insieme ad altri dirigenti e a tre operatori sanitari, sono accusate di non aver impedito i maltrattamenti e, anzi, di aver coperto le violenze perpetrate dai membri della polizia penitenziaria. Secondo gli inquirenti, infatti, «non esercitando i poteri di controllo, vigilanza, coordinamento agli stessi conferiti, omettevano di impedire le condotte reiterate violente e umilianti all’interno dell’Ipm Beccaria». Gli episodi di abuso sono descritti in dettaglio nelle carte dell’inchiesta. Nel periodo che va dal 2021 al 2024, i giovani detenuti sarebbero stati sottoposti a una serie di torture fisiche e psicologiche, con percosse, minacce e violenze sessuali. In un caso, un ragazzo di 16 anni, dopo aver tentato il suicidio, sarebbe stato picchiato con schiaffi e calci e successivamente rinchiuso in isolamento. In un altro episodio, un detenuto sarebbe stato ammanettato, picchiato e lasciato sanguinante nella cella di isolamento per dieci giorni, privo di cuscino, materasso e effetti personali. Più volte gruppi di agenti penitenziari prendevano di mira singoli detenuti, infliggendo loro brutali pestaggi. Uno degli aspetti più gravi dell’inchiesta riguarda i referti medici. Tre operatori sanitari sono accusati di aver redatto «referti falsi o concordati con gli agenti» per nascondere le lesioni subite dai detenuti. Questi medici e infermieri avrebbero anche assistito a molte delle aggressioni, senza mai intervenire o segnalarle. Le loro azioni sono descritte come una complicità che ha permesso a un clima di violenza sistematica di perdurare all’interno del carcere.

Le indagini, che si sono avvalse di intercettazioni telefoniche e di immagini provenienti dalle telecamere di sorveglianza interne, sono state avviate grazie alle denunce di psicologi, ex detenuti e familiari delle vittime. A far scattare le botte, raccontano le testimonianze, erano sovente motivi futili: tentativi di rivolta, lamentele, o anche il semplice non conformarsi all’ordine. Le aggressioni si consumavano spesso in stanze isolate, prive di telecamere, un ambiente perfetto per il perpetuarsi delle violenze. Le accuse formulate dai magistrati sono pesanti e vanno dalla tortura alle lesioni, dal falso alle violenze sessuali. La vicenda ha sollevato forti polemiche e indignazione, non solo per l’entità delle violenze, ma anche per l’incapacità (o peggio la complicità) delle autorità preposte alla gestione dell’istituto rispetto a tali azioni efferate.

Già nel 2024 erano stati contestati a decine di agenti penitenziari impiegati al Beccaria di Milano reati quali maltrattamenti, concorso in tortura e tentata violenza sessuale, con la disposizione per 13 di essi della custodia cautelare in carcere. A dare il via alle indagini erano state alcune segnalazioni, presentate anche dal Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, ma anche le intercettazioni avvenute all’interno del carcere e le immagini delle telecamere di sorveglianza. L’istituto Beccaria di Milano era salito agli onori della cronaca nel dicembre del 2022, quando sette giovani erano riusciti a evadere dalla struttura. Già in quell’occasione erano emerse le forti problematiche interne all’istituto. Nonostante per anni sia stato considerato un modello assoluto da seguire in tutta Italia, le criticità al suo interno, da tempo denunciate dall’associazione per i diritti dei detenuti Antigone, sono numerose. Si tratta delle stesse che riguardano pressoché la totalità delle strutture carcerarie italiane: celle troppo piccole, sovraffollamento, mancanza di personale, carenza di attività rieducative efficaci.

Incendio Vesuvio, canadair in azione: «Fiamme vicino alle case»

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Il vasto incendio divampato ieri, venerdì 8 agosto, nei boschi di Terzigno continua a bruciare il versante del Monte Somma nel Parco Nazionale del Vesuvio, ha raggiunto quota 1.050 metri e sta anche interessando i territori di Ottaviano. Lo riportano le autorità locali alla stampa, aggiungendo che le fiamme, alimentate da vento e alte temperature, sono state affrontate da dieci mezzi aerei e numerose squadre a terra, coordinate dalla Protezione Civile, che ha chiesto anche l’intervento dell’Esercito. Il sindaco Francesco Ranieri denuncia il sospetto dolo e parla di «ore terribili», mentre il presidente del Parco, Raffaele De Luca, esprime preoccupazione per il grave danno ambientale. Contemporaneamente, la Protezione civile regionale è intervenuta nello spegnimento di altri due incendi: uno a Mercato San Severino e un altro a Frasso Telesino.