Stamane si sono verificati spari davanti al parlamento di Belgrado, capitale della Serbia, dove da mesi alcuni studenti protestano accampati in tende: un uomo ha aperto il fuoco ferendo gravemente una persona, poi ha appiccato un incendio nell’area prima di essere arrestato. Lo ha reso noto il ministro della Sanità Zlatibor Loncar, precisando che solo per caso non si contano altre vittime, dato che l’aggressore ha esploso diversi colpi. Il presidente serbo Aleksandar Vucic ha definito l’attacco un «grave atto terroristico» e ha annunciato un intervento pubblico sull’accaduto, lasciando una cerimonia ufficiale al Palazzo Serbia.
Su 135 salme di palestinesi restituite da Israele ci sono evidenti segni di tortura
Mani legate, piedi serrati da fascette, corde al collo, occhi bendati. All’ospedale Nasser di Khan Younis le sacche bianche arrivano una dopo l’altra. Dentro ci sono corpi gonfi, anneriti, rigidi per il gelo delle celle israeliane. 135 salme di palestinesi restituite da Israele, parte dello scambio con i resti degli ostaggi israeliani. Molte sono irriconoscibili. I medici cercano di identificare i corpi dai denti, da un tatuaggio, da un pezzo di stoffa rimasto addosso. Su quasi tutti ci sono segni di violenza. La maggior parte proviene da Sde Teiman, la base militare nel deserto del Negev trasformata in campo di prigionia. È lì che, secondo i funzionari di Gaza, molti detenuti sarebbero stati torturati e uccisi prima di essere consegnati come corpi senza nome.
Le immagini diffuse da Gaza mostrano ciò che resta dei prigionieri palestinesi: volti sfigurati, arti fratturati, corpi legati. I medici legali dell’ospedale Nasser parlano di “segni compatibili con torture e soffocamento”. Le sigle “S.T.” sui cartellini di molte salme indicano la provenienza da Sde Teiman, la base israeliana riconvertita nel 2023 in un centro di detenzione per “combattenti illegali”. L’“Abu Ghraib israeliana”, come l’hanno ribattezzata gli attivisti dei diritti umani. In quella struttura, gestita sotto legge marziale, non servono accuse né processo per essere rinchiusi. Le inchieste descrivono Sde Teiman come un luogo dove i detenuti vengono bendati, incatenati e picchiati regolarmente, persino trattenuti in gabbie. Alcuni raccontano di scosse elettriche e privazioni di cibo e sonno. La struttura è circondata dal silenzio dell’esercito israeliano, che la gestisce come una zona militare interdetta.
A Khan Younis le famiglie arrivano con le foto dei loro cari scomparsi. Camminano fra i sacchi bianchi, cercano un segno, un anello, un dente riconoscibile. I camion frigoriferi che trasportano le salme sono gli stessi usati per il ghiaccio. Israele parla di scambi umanitari, ma le immagini raccontano altro: corpi torturati, informazioni cancellate, famiglie condannate a non conoscere il destino dei propri cari, senza un corpo da piangere. Tel Aviv ha consegnato 153 spoglie, ma solo 135 appartengono a detenuti palestinesi. Di questi, appena sei avevano un nome. Due risultavano sbagliati. Gli altri restano anonimi. Alcuni corpi sono stati trovati in stato di decomposizione, coperti di sabbia, come se fossero stati riesumati da poco. Altri sembrano conservati a lungo nei frigoriferi militari. Tel Aviv li definisce “terroristi gazawi”, ma molte famiglie palestinesi dicono di aver riconosciuto civili arrestati mesi prima, spesso senza accuse. Nei giorni scorsi era circolata la notizia dell’esistenza di salme con del cotone al posto degli organi. L’indiscrezione non è stata confermata, ma la voce, nei reparti del Nasser, continua a circolare. Sde Teiman non è un’eccezione: è il volto più estremo di un sistema costruito sull’impunità. A dimostrazione che, oltre all’immane massacro a Gaza, il teatro delle violenze, soprattutto quelle non visibili, abbia ampiezza e portata ancora più tragica.
Le denunce di abusi nelle carceri israeliane non sono nuove. Le condizioni di detenzione dei palestinesi nelle prigioni israeliane sono note: pestaggi, torture, isolamento, umiliazioni quotidiane, privazione di cure mediche e visite. Il rapporto 2024 di Physicians for Human Rights Israel denunciava un aumento massiccio delle detenzioni palestinesi dopo il 7 ottobre e la trasformazione delle carceri israeliane in luoghi di abuso sistematico. Il reportage del Public Committee Against Torture in Israel segnalato dal New Yorker mostra che migliaia di palestinesi arrestati dopo il 7 ottobre sono detenuti in carceri israeliane con sovraffollamento estremo, isolamento, restrizioni legali e “abusi sistematici” da parte del personale penitenziario. Un rapporto dell’ONG israeliana B’Tselem ha confermato le violenze: prigionieri senza processo, aggressioni sessuali, torture fisiche e psicologiche. Il report ha preso forma dando voce alle testimonianze di 55 persone palestinesi che hanno vissuto un’esperienza detentiva all’interno delle carceri dello Stato Ebraico – la stragrande maggioranza senza accuse a carico e senza aver subito alcun processo – per poi essere rilasciati. La maggior parte dei palestinesi incarcerati, infatti, non ha accesso a un avvocato né a cure mediche adeguate. E mentre da Gaza arrivano nuove prove di violazioni dei diritti umani, le cancellerie occidentali tacciono. La morte, in questa guerra, non è solo sui fronti o sotto le macerie. È anche nei sotterranei del Negev, nelle celle dove i detenuti spariscono senza nome. Le salme restituite sono il referto di una violenza che il mondo continua a non voler vedere. Gaza, ancora una volta, paga con i corpi dei suoi figli il prezzo dell’impunità.
L’elezione di Sanae Takaichi proietta il Giappone in una nuova fase storica
Con 237 voti su 465 nella Camera Bassa del Parlamento, solo quattro in più per raggiungere la maggioranza assoluta, la leader del Partito Liberal Democratico (PLD) Sanae Takaichi è la nuova prima ministra del Giappone. Il suo nome, già noto tra l’élite del partito e della politica giapponese, è tornato a catturare l’attenzione mediatica in seguito alle dimissioni presentate dall’ex premier Shigeru Ishiba nel settembre del 2025. La sconfitta alle elezioni per il Senato, la successiva perdita della maggioranza nella Camera alta e il malcontento espresso dalla società dovuto al rialzo dell’inflazione e del costo della vita hanno portato l’ex premier a rinunciare al suo incarico di presidente del partito e premier del Giappone. L’elezione di Takaichi segna un momento storico per l’arcipelago nipponico: non solo perché si tratta della prima donna a ricoprire il ruolo, ma soprattutto perché la sua elezione rompe lo status quo della politica giapponese e fa tornare in auge il militarismo nipponico, in un Paese che dovette rinunciare ad avere un esercito militarmente forte dopo la II Guerra mondiale e che ora vuole partecipare alla corsa globale al riarmo.
I sondaggi hanno rapidamente visto come favorita Takaichi, rivale di Ishiba e figura molto vicina allo storico leader del PLD, Shinzō Abe, ucciso da un attentatore durante un comizio del 2022. Oltre a rappresentare un momento inedito all’interno del partito, l’elezione della neoleader ha prodotto una scossa straordinaria negli equilibri di potere della politica giapponese. Il Partito Liberal Democratico, al governo quasi ininterrottamente dal 1955 e che attualmente vive una fase calante della sua storia politica, con Takaichi alla guida ha infatti visto l’immediata rottura delle sue relazioni politiche con l’altra storica parte della coalizione di governo, il partito di ispirazione buddista Kōmeitō.
La spaccatura di una delle alleanze di partito più longeve della storia giapponese è chiaramente motivata dall’elezione di Sanae Takaichi; figura conservatrice fortemente legata al revisionismo nazionalista e militare del Giappone durante la Seconda Guerra mondiale, la nuova premier promette di riprendere uno dei progetti simbolo delle politiche di Abe, ovvero la modifica dell’articolo 9 della Costituzione giapponese. Secondo quest’articolo, imposto dagli Stati Uniti d’America nel 1946, il Paese rinuncia al diritto di belligeranza oltre che al mantenimento di un esercito militare. Seppur nel 1954 il Giappone si sia dotato di forze armate terrestri di «autodifesa», la tematica all’interno della società giapponese resta controversa, specialmente tra le fazioni revisioniste dei crimini di guerra commessi dai giapponesi in Asia e nel Pacifico. La reiterata visita di Takaichi al santuario Yasukuni (il luogo dove sono sepolti molti militari dell’Impero giapponese, tra cui alcuni condannati per crimini di guerra) e il piano di investire più del 2% del PIL in spese militari, ha fatto sì che il Kōmeitō, partito autodefinitosi più volte come “pacifista”, decidesse di sfilarsi dalla coalizione di governo nel caso in cui Takaichi fosse stata presentata come nuova premier.
A salvare l’accordo per la costituzione di un nuovo governo a guida PLD è stato l’Ishin, il Partito dell’Innovazione (JIP), che ha ottenuto da Takaichi, tra le altre cose, la promessa di ridurre i seggi della Dieta nazionale (il parlamento giapponese) del 10%, l’azzeramento delle tasse su alcuni prodotti alimentari e l’elevazione della città di Osaka a “vice-capitale” del Paese. La nuova alleanza non può che tenere conto dei risultati ottenuti negli ultimi mesi dal nuovo partito populista e di estrema destra Sanseitō: l’accordo può apparire anche come una mossa di contenimento nei confronti di una forza politica in grande ascesa, specialmente tra i giovani.
Nel programma politico della nuova premier spicca l’intenzione di attuare misure che possano da un lato tamponare rapidamente la crescita dell’inflazione, ma che dall’altro riescano a mantenere l’equilibrio con la pretesa degli aumenti nelle spese militari. A questo si aggiunge un netto interesse nel contrastare l’immigrazione irregolare, come si può osservare dalla creazione del “ministero incaricato per la Politica estera” responsabile della supervisione del sistema di immigrazione giapponese. Anche in questo caso, questa misura può essere vista come una strategia per rubare voti a Sanseitō su tematiche anti-immigrazione.
Seppure abbia espresso la volontà che il suo governo sia costituito almeno al 50% da donne, Takaichi ha manifestato più volte il suo rifiuto per l’utilizzo di quote rosa nel sistema lavorativo giapponese, oltre che dimostrarsi contraria al mantenimento del cognome femminile nelle coppie sposate, all’applicazione della legge salica, ovvero la possibilità per le donne di accedere al trono imperiale e al matrimonio ugualitario.
Se sul piano della politica interna la nuova premier avrà l’ostile compito di risanare un’economia in calo, anche in politica estera la missione risulta delicata. Takaichi ha già affermato l’intenzione di stringere alleanze con Taiwan e con gli Stati Uniti d’America in ottica anticinese, ma è proprio con i dazi di Donald Trump che il nuovo governo dovrà scendere a patti, specialmente dopo l’approvazione da parte dell’ex premier Ishiba di un accordo che prevede investimenti giapponesi pari a 550 miliardi di dollari negli Stati Uniti e l’applicazione di dazi al 15%.
Appare evidente che la figura di Sanae Takaichi, ammiratrice di Margareth Thatcher ed ex batterista in una band metal, sembra poter rompere con il vicino passato del Partito Liberal Democratico. Nonostante il fermento politico scaturito da questa nuova elezione, è bene osservare come il futuro del partito resti comunque in bilico: la stagnazione economica, l’ascesa di formazioni come Sanseitō e la posizione geografica dell’arcipelago rischiano di rivelarsi un sassolino nella scarpa alle prossime elezioni, in un panorama politico che da anni risulta fortemente instabile.
Uganda, maxi incidente provoca oltre 60 morti
Sessantatré persone hanno perso la vita in un grave incidente stradale avvenuto sull’autostrada Kampala-Gulu, in Uganda. Secondo la polizia, due autobus che procedevano in direzioni opposte si sono scontrati frontalmente mentre cercavano di sorpassare un camion e un’auto. Nel tentativo di evitare l’impatto, uno dei mezzi ha sterzato bruscamente, provocando una collisione multipla che ha coinvolto anche gli altri veicoli, ribaltatisi dopo lo scontro. Oltre alle vittime, numerosi passeggeri e altre persone sono rimasti feriti e sono stati trasportati in ospedale a Kiryandongo. La polizia ha avviato un’indagine per chiarire le cause dell’incidente.
Cosa contengono i risotti in busta e perché sono un cibo da evitare
I risotti in busta sono dei prodotti precotti e quasi pronti al consumo, presenti in tutti i supermercati e prodotti da tante aziende, comprese quelle a marchio del supermercato. Rispondono alle logiche della vita moderna dove “non si ha tempo” di cucinare e preparare i pasti in casa a partire da ingredienti di base freschi e genuini, quindi sono prodotti pratici per consumatori che vanno sempre di fretta. Ma va detto che sono considerati prodotti industriali appartenenti alla categoria dei cibi ultra-processati e gli studiosi di salute pubblica e prevenzione ci dicono che questo genere di alimenti pronti potrebbero non essere salutari a causa della presenza di svariati additivi e sostanze che possono alterare la flora batterica intestinale, causare problemi come iperglicemia, insulino-resistenza e aumento di peso.
Perché vengono considerati poco salutari?
I risotti in busta sono preparazioni a base di riso che vengono confezionate in buste, pronte per essere cucinate in pochi minuti. Solitamente contengono riso e altri ingredienti disidratati e, in alcuni casi, anche altri ingredienti come verdure, carne o pesce. Analogamente ad altri prodotti industriali, contengono additivi e conservanti che possono avere effetti negativi sulla salute. Tra questi:
- alterazione della flora batterica intestinale: gli additivi possono alterare l’equilibrio dei batteri buoni nell’intestino, favorendo lo sviluppo di batteri meno benefici;
- iperglicemia e insulino-resistenza: alcuni additivi possono influenzare la risposta del corpo all’insulina, aumentando il rischio di iperglicemia e insulino-resistenza;
- aumento di peso: alcuni ingredienti presenti nei risotti in busta, come grassi di bassa qualità e zuccheri aggiunti, possono contribuire all’aumento di peso.
Insidie per i celiaci o persone intolleranti al glutine
Alcune buste di risotti fra i più commerciali presenti al supermercato contengono persino della farina di frumento al loro interno, e dunque del glutine. Si tratta di un vero paradosso, dal momento che il riso è un cereale di per sé naturalmente privo di glutine (la proteina del grano). Un consumatore poco attento potrebbe acquistare queste buste sentendosi tranquillo e pensando di mangiare in fondo solo del riso. In realtà i prodotti più industriali e scadenti contengono sia frumento (quindi il glutine) che molti altri additivi e sostanze poco raccomandabili come: maltodestrine (zuccheri), amidi, zucchero, estratto di lievito (insaporitore), lattosio, estratto di soia, olio di semi di girasole, proteine del latte, sciroppo di glucosio, conservanti come i nitriti. Tutto ciò comporta che questi prodotti siano da considerare in tutto e per tutto parte dei cibi ultra-processati, che – come spiegato su L’Indipendente in un approfondimento – sono da considerare sempre insalubri e da consumare meno possibile.
Cosa fare per scegliere risotti più sani?
Per scegliere risotti più sani si consiglia di:
- leggere attentamente le etichette: controllare la lista degli ingredienti e scegliere prodotti con pochi additivi e conservanti. Oggi alcune aziende producono risotti in busta che sono di buona qualità, contenenti solo riso, olio extravergine di oliva e sale;
- Preparare il risotto in casa: cucinare il risotto da zero permette di controllare tutti gli ingredienti e scegliere riso di alta qualità.
Sassaiola bus, 9 Daspo per gli ultrà di Rieti
Il questore di Rieti, Pasquale Fiocco, ha emesso nove Daspo nei confronti di tifosi ultrà della squadra locale, coinvolti nell’attacco al pullman dei sostenitori del Pistoia Basket 2000. Otto di loro saranno esclusi da manifestazioni sportive per cinque anni, il nono – già colpito da un provvedimento – per otto anni. Tra i nove ultrà reatini raggiunti dal provvedimento della Questura ci sono anche i tre in carcere per omicidio volontario per l’azione violenta che ha provocato la morte dell’autista del pullman ospite.
L’Europa congela le sanzioni a Israele con la scusa dell’accordo di tregua
I ministri degli Esteri dell’Unione Europea hanno deciso di congelare la proposta di sanzionare Israele. «Al momento non procediamo, ma non le escludiamo nemmeno», ha detto l’alta commissaria per gli Affari Esteri Kaja Kallas, sostenendo che la decisione è stata presa a fronte della «fragilità» della situazione sul campo. Mentre Israele continua a violare il cessate il fuoco a Gaza bombardando e affamando la popolazione, l’UE sfrutta la ratifica dell’accordo per continuare a evitare di prendere contromisure nei confronti dello Stato ebraico, arrivando a lodarlo per il suo lavoro: «Dobbiamo constatare un miglioramento degli aiuti umanitari a Gaza», ha detto infatti Kallas, senza menzionare che finora Israele ha concesso un’apertura dei corridoi umanitari solo parziale.
L’unica misura concreta adottata dall’Unione dopo due anni di genocidio e 70 mila morti civili, dunque, è stata fermata ancora prima di entrare effettivamente in vigore. Le sanzioni, proposte lo scorso settembre, prevedevano iniziative tiepide, a una prima impressione volte più a dare l’impressione alla società civile (in rivolta in tutta europa) di star agendo concretamente che non atte a fermare genocidio e l’avanzare delle nuove colonie illegali in Cisgiordania. Tra timidi innalzamenti dei dazi doganali e sanzioni contro Hamas e «ministri estremisti», infatti, non vi era alcun accenno a misure quali il blocco del commercio di armi o della collaborazione di aziende e università europee con i progetti di ricerca dello Stato sionista destinati alla sorveglianza della popolazione palestinese.
L’UE prosegue così sulla linea del doppio standard, non applicando nessuna misura contro Tel Aviv (che a 10 giorni di cessate il fuoco ha ucciso oltre cento palestinesi, scaricando in un solo giorno 153 tonnellate di bombe su Gaza) ma proseguendo imperterrita con le sanzioni alla Russia. Con l’ultimo pacchetto di sanzioni, il 19° dall’inizio della guerra nel 2022, l’Unione introduce infatti nuove misure che mirano a colpire settori economici strategici per Mosca, oltre ad annunciare il completo stop all’importazione di gas e GNL dalla Russia entro due anni. Misure che non sono neanche lontanamente state messe sul piatto, nel caso di Israele: mentre infatti criticava la mancanza di volontà, da parte della Russia, di arrivare a un accordo di pace, l’alta commissaria Kallas ha infatti dichiarato che in Medioriente «il cessate il fuovo ha superato il primo stress test e penso che questa sia una buona prima fase, ma ovviamente dobbiamo lavorare su cosa possiamo fare in più per arrivare a una pace sostenibile», ammettendo che «c’è molto da fare per portare all’interno gli aiuti umanitari» e «per far durare il cessate il fuoco». Secondo l’Europa, la responsabilità di una possibile rottura dell’accordo di pace è da imputare ad Hamas, per il suo «rifiuto di deporre le armi» e i suoi attacchi «contro i civili palestinesi». Ma la minaccia di sanzioni rimane sul tavolo, almeno fino a che non si assisterà a un cambiamento «reale e duraturo».
Nel frattempo, a Gaza si continua a morire. Di fatto, i palestinesi hanno raccontato ai giornalisti di non aver assistito a «nessun reale cambiamento», dall’inizio del cessate il fuoco: gli attacchi israeliani continuano, mentre gli aiuti umanitari sono ancora in gran parte bloccati. Il tutto nonostante Hamas stia mantenendo i propri impegni, con la restituzione, nella giornata di ieri, dei resti di due ostaggi. Per il vicepresidente USA, JD Vance, in visita a Tel Aviv per parlare degli sviluppi del prossimo futuro, il cessate il fuoco sta «andando meglio del previsto». E l’Europa sembra essere dello stesso parere.
Nelle carceri italiane stanno aprendo le prime stanze dell’affettività
Nelle carceri italiane stanno aprendo le prime stanze dedicate ai colloqui intimi, in osservanza della sentenza della Corte Costituzionale che, quasi due anni fa, ha dichiarato illegittimo il divieto assoluto di affettività in carcere. Seguendo l’esempio degli istituti di Padova e Terni, il Lorusso e Cotugno di Torino si doterà, a partire dal primo novembre, di una stanza per gli incontri affettivi. Questi ultimi, proprio come per i colloqui, potranno essere richiesti dai detenuti una volta al mese, per una durata di un’ora. L’utilizzo del locale, privo della supervisione della polizia penitenziaria, è disciplinato da ordinanze interne che si rifanno alle linee guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP). Secondo quanto stabilito da quest’ultimo, non potranno accedere alla misura i reclusi sottoposti a isolamento sanitario o a regime di 41bis e coloro che hanno commesso durante la detenzione un’infrazione disciplinare o violato la legge, possedendo ad esempio microtelefoni o sostanze stupefacenti.
“L’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice”. Così si era espressa la Corte Costituzionale nel gennaio del 2024, con una sentenza che, richiamando la funzione educativa della pena, la serenità della famiglia e la salute psicofisica del detenuto, ha scardinato un tabù della società italiana: l’affettività in carcere. La sentenza, oltre ad avvicinare l’Italia a diversi Paesi europei, ha sancito che il detenuto ha il diritto di incontrare riservatamente non soltanto il coniuge, ma anche la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente, riferendosi dunque anche alle coppie di fatto o omosessuali.
Il primo istituto penitenziario ad adeguarsi alla strada tracciata dalla Consulta è stato quello di Terni, seguito da Padova e Torino. Le stanze dedicate agli incontri intimi sono arredate con un letto e annessi servizi igienici, non sono chiudibili dall’interno e la sorveglianza del personale di polizia penitenziaria è limitata all’esterno del locale. L’accesso da parte dei detenuti è regolamentato da ordinanze interne, compatibili con le disposizioni del DAP. Quest’ultimo è stato criticato dal sindacato di polizia OSAPP per il suo lavoro «fulmineo nell’applicare la sentenza della Corte Costituzionale e nell’organizzare l’intimità con una velocità che stupisce».
Dagli ultimi dati disponibili, la platea di potenziali beneficiari dei colloqui intimi è di circa 17mila detenuti. Sono esclusi quelli sottoposti a regime di 41bis e coloro che sono stati sospesi con sostanze stupefacenti, telefoni cellulari e oggetti atti a offendere. Per chi ha commesso un’infrazione disciplinare l’accesso è inibito per almeno sei mesi. L’ultima previsione, come rilevato da una parte della dottrina, rischia di attribuire alla misura una funzione disciplinare: sospendere un diritto in caso di infrazione introduce infatti una logica premiale, quando non apertamente punitiva.
Fincantieri: l’azienda italiana di Stato si butta nel business dei droni di sorveglianza
Fincantieri, gruppo controllato dallo Stato e conosciuto per le sue navi militari e da crociera, ha firmato un’intesa strategica con la start-up italiana Defcomm, fondata dall’imprenditore Federico Zarghetta e specializzata nei droni per il settore marittimo, per accelerare lo sviluppo di unità navali autonome e droni di superficie destinati a missioni di sorveglianza, pattugliamento e raccolta dati. Il messaggio è chiaro: l’Italia non solo si riaffaccia sul mercato globale dei sistemi senza equipaggio, ma lo fa attraverso una società pubblica radicata nel tessuto economico nazionale, aprendo nuovi scenari industriali e politici.
L’accordo prevede un cofinanziamento per accelerare la produzione delle piattaforme navali sviluppate da Defcomm, mezzi che – secondo quanto dichiarato da Fincantieri – hanno già superato test di lunga durata. I droni potranno operare in modo completamente autonomo, oppure, essere controllati a distanza, e saranno integrabili sulle unità navali del gruppo. L’obiettivo è duplice: servire clienti italiani e stranieri e, allo stesso tempo, rafforzare la cosiddetta “sovranità tecnologica” del Paese. Il progetto rientra nella più ampia strategia di modernizzazione della cantieristica nazionale, che punta sempre più verso la produzione militare e la difesa avanzata. Il nodo critico è evidente. In un momento in cui il dibattito pubblico in Italia si interroga sulla crescita della spesa militare e sul ruolo delle aziende di Stato nel settore della difesa, la mossa di Fincantieri segna un’ulteriore accelerazione verso una visione in cui sicurezza e industria diventano strettamente intrecciate. Non si tratta solo di innovazione tecnologica: è un segnale politico. L’Italia vuole inserirsi nella catena produttiva mondiale della sorveglianza marittima, un comparto che supera la costruzione navale tradizionale e tocca questioni geopolitiche, economiche e morali.
La presenza dello Stato in questa scelta industriale ne amplifica la portata e le responsabilità. Da un lato, lo sviluppo interno di tecnologie autonome rappresenta un passo verso una maggiore indipendenza strategica e un rafforzamento dell’apparato industriale nazionale, dall’altro, evidenzia una tendenza ormai consolidata: la progressiva concentrazione di risorse pubbliche e competenze nel settore militare, a scapito di altri ambiti essenziali come la sanità, la ricerca civile o l’istruzione. La scelta di Fincantieri si inserisce in una strategia che privilegia la sicurezza e la difesa come assi portanti dello sviluppo economico. Questo modello, che intreccia sempre più strettamente Stato e industria bellica, rischia di ridefinire le priorità del Paese, orientandolo verso una logica di potenziamento militare e controllo tecnologico. La sfida per l’Italia sarà quella di mantenere un equilibrio tra innovazione, autonomia e responsabilità sociale, evitando che la corsa alla sicurezza diventi un motore esclusivo di crescita a discapito della dimensione civile e democratica.
Siria: il Regno Unito rimuove HTS dalle organizzazioni terroristiche
Il governo britannico ha rimosso Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), il gruppo che ha guidato il rovesciamento dell’ex presidente Bashar al-Assad lo scorso dicembre, dalla sua lista di organizzazioni terroristiche. HTS è stato inserito nella lista di organizzazioni terroristiche del Regno Unito nel 2017 perché affiliato ad Al Qaeda. La scelta britannica ha lo scopo di avvicinare il Paese al nuovo governo siriano, guidato proprio dal leader di HTS, Al Sharaa. Essa segue un’analoga misura presa dagli USA lo scorso luglio.









