venerdì 9 Maggio 2025
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Torino, la lotta non è associazione a delinquere: cade il teorema della procura

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Si è sgretolata nell’aula del Tribunale di Torino l’accusa di associazione a delinquere contestata a 16 attivisti dei movimenti di resistenza afferenti a diverse realtà del territorio piemontese. Quando al presidio di fronte alla procura arriva la notizia della lettura della sentenza, poco dopo le 15 di lunedì 31 marzo, esplode un boato di festa, le bandiere No TAV sventolano di fronte a un cordone di decine di agenti in tenuta antisommossa. «La lotta per il territorio, la resistenza sociale non è un reato. Sono tanti i reati che vengono contestati, la lotta è ancora lunga, ma la sentenza è chiara: si tratta di un messaggio importantissimo per i movimenti sociali e di lotta non solo di Torino, ma di tutta Italia» commenta una giovane in presidio. 

Il processo, iniziato nel 2022, vede alla sbarra 28 attivisti di età comprese tra i 20 e i 75 anni, afferenti a varie realtà antagoniste e di resistenza del contesto torinese, quali il centro sociale Askatasuna, lo Spazio Popolare Neruda, il Movimento No TAV e il centro sociale Edera, tra gli altri. Sedici tra gli imputati si trovavano ad affrontare l’accusa più grave, ovvero quella di associazione a delinquere: due in quanto ideatori della presunta associazione, sei in quanto promotori e altri otto in quanto partecipanti. Gli imputati restanti erano accusati dei cosiddetti “reati-fine”, ovvero commessi al fine di portare avanti il disegno criminoso dell’associazione – tra questi falò in Val di Susa, danneggiamento delle reti dei cantieri e altri reati minori. «Tutte cose che prese singolarmente non avrebbero fatto partire nulla, ma che messe insieme costruiscono il “disegno criminoso” del quale la pm sta cercando di accusarci» dice a L’Indipendente uno degli imputati. Tra coloro che, secondo l’accusa, costituivano i promotori dell’associazione a delinquere vi erano volti storici della lotta No TAV, come Dana Lauriola, per la quale la procura ha chiesto tre anni. In generale, le pene richieste vanno da un anno e sei mesi a sette anni di detenzione, per un totale di 88 anni complessivi.

Le accuse formulate dalla pm si basavano in gran parte su intercettazioni raccolte tra il 2019 e il 2021, utilizzate, secondo gli attivisti, in maniera del tutto decontestualizzata. Sulla base di queste, l’accusa aveva inizialmente ipotizzato l’accusa di associazione a delinquere con finalità eversive, uno dei reati più gravi del nostro ordinamento. In base a ciò era stato autorizzato lo sgombero del centro sociale Askatasuna e di vari altri edifici occupati a Torino, nonché di tutti i presidi No TAV in Val di Susa. Come spiegato dalla stessa Dana Lauriola a L’Indipendente, la tesi della procura era che, nel corso degli anni, un ristretto gruppo di persone si sia infiltrato nel centro sociale Askatasuna e nello Spazio Popolare Neruda, arrivando fino a realtà sportive e di altro genere del movimento No TAV, per commettere atti violenti. «La pm in aula ci ha anche detto che resistere e protestare è assolutamente legittimo, che però noi guarda caso lo facciamo nel modo sbagliato» riferisce a L’Indipendente L., uno degli giovani sui quali ricadeva l’accusa di associazione a delinquere. «Tuttavia, si tratta di accuse che a un certo punto, a un qualche grado del procedimento, cadono sempre. Succede in moltissimi processi contro i movimenti di resistenza. Che si tratti del primo o del secondo grado finirà, come è successo al comitato Giambellino a Milano». Il riferimento è al movimento per il diritto alla casa dei quartieri periferici di Milano, del quale nove membri erano stati condannati con pene da 1 a 5 anni proprio per il reato di associazione a delinquere con finalità di occupazione e resistenza.

Secondo gli attivisti, l’intero processo ha «chiari fini politici» ed è volto a delegittimare le rivendicazioni, in particolare, del Movimento No TAV, uno dei più longevi nella storia dei movimenti italiani, il quale si oppone alla costruzione di una grande opera e alla conseguente devastazione dei territori, oltre che allo sfratto di numerose famiglie dalle proprie abitazioni.

[di Valeria Casolaro]

Gaza, ufficiale israeliano ammette: l’esercito usa “schiavi” palestinesi come scudi umani

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A Gaza, quasi tutte le squadre dell’esercito israeliano attive usano i palestinesi come scudo umano almeno sei volte al giorno. A dirlo è un ufficiale superiore (l’equivalente di colonnello, tenente colonnello o maggiore nell’esercito italiano), con una testimonianza anonima inviata al quotidiano israeliano Haaretz. «Ho prestato servizio a Gaza per nove mesi e mi sono imbattuto per la prima volta in queste procedure, chiamate “protocollo zanzara”, nel dicembre 2023», si legge nella testimonianza. «Allora non mi rendevo conto di quanto sarebbe diventato onnipresente l’uso di scudi umani». Li chiamano shawish, parola araba traducibile con “sergente”, e li sfruttano per entrare in un’abitazione o in un luogo sospetto per «sgomberarlo» prima che venga effettuato il raid dalle forze israeliane. «Ci sono quattro “shawish” in una compagnia, dodici in un battaglione e almeno 36 in una brigata», ha detto l’ufficiale anonimo. «Gestiamo un sotto-esercito di schiavi».

La procedura zanzara è semplice: «I palestinesi innocenti sono costretti a entrare nelle case di Gaza e a “sgomberarle”, per assicurarsi che non ci siano terroristi o esplosivi». «Oggi», ha spiegato l’ufficiale, quasi ogni plotone ha uno “shawish” e nessuna forza di fanteria entra in una casa prima che egli abbia svolto le proprie mansioni. Da quanto riporta l’ufficiale, sia il Capo di Stato Maggiore che il Capo del Comando Meridionale sarebbero a conoscenza del protocollo, che nei mesi sarebbe stato via via sempre più normalizzato. In generale, oggi, dopo oltre un anno di genocidio, la procedura sarebbe radicata nelle operazioni dell’esercito israeliano e verrebbe insabbiata quotidianamente dalle autorità. Di recente, scrive l’ufficiale, la Divisione Investigativa Criminale della Polizia Militare dell’IDF ha aperto sei indagini sull’uso di civili palestinesi come scudi umani. «Sono rimasto a bocca aperta. Se la MPCID volesse fare seriamente il suo lavoro, dovrebbe aprire ben più di mille indagini». Uno specchietto per le allodole, insomma, creato appositamente per trovare qualche capro espiatorio, addossargli interamente la responsabilità della pratica e continuare impunemente a portarla avanti.

Anche il resto del personale militare di grado più alto sarebbe a conoscenza della pratica, ma nessuno si sarebbe mosso per fermarla. «Al contrario, è stata definita come una necessità operativa». «È importante notare che possiamo entrare nelle case senza usare scudi umani», dice l’ufficiale. «Lo abbiamo fatto per mesi, seguendo la corretta procedura di ingresso che include l’invio di un robot, un drone o un cane. Questa procedura dà i suoi frutti, ma richiede tempo, ma il comando vuole risultati rapidi». Insomma, i palestinesi verrebbero utilizzati come scudi perché è più comodo, facile e veloce. Le persone selezionate, talvolta anziani, inoltre, non sarebbero né pratiche di operazioni militari, né tantomeno addestrate. A volte, inoltre, i plotoni invierebbero gli “shawish” in un’abitazione solo per farla saltare in aria subito dopo.

Il fatto che le IDF farebbero uso di scudi umani era già comparso nello stesso quotidiano lo scorso agosto, quando Haaretz ha riportato di una serie di testimonianze raccolte da Breaking the Silence, ONG di veterani israeliani che si propone di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle conseguenze dell’occupazione militare israeliana in Palestina. In generale, sono tanti i rapporti che provano le violazioni del diritto umanitario internazionale perpetuate dall’esercito israeliano. Già a novembre del 2023 , l’ONU parlava di un utilizzo dei civili come scudo umano, mentre a giugno 2024 tale pratica, utilizzata su quattro bambini, è valsa allo Stato ebraico la registrazione nella lista nera dei Paesi che minacciano i bambini.

[di Dario Lucisano]

Gaza, continua il massacro: decine di morti in tutta la Striscia

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Continua l’offensiva dell’esercito israeliano a Gaza. Al Jazeera parla di decine di palestinesi uccisi nelle ultime ore. A Khan Younis, Israele ha eliminato almeno nove palestinesi in tre diversi attacchi, mentre due bambini sono morti in un raid aereo su una casa. Gli attacchi nei campi profughi di Az-Zawayda e Maghazi, nel centro di Gaza, hanno ucciso almeno due persone, mentre tre palestinesi sono morti nelle zone a est di Jabalia, a nord. Tre contadini sono morti in un attacco israeliano a Deir el-Balah, nel centro di Gaza, altre tre persone nel bombardamento di una tenda che ospitava sfollati presso al-Mawasi, nella Striscia di Gaza meridionale.

Un nuovo studio rivela che il linguaggio umano è vecchio di almeno 135 mila anni

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Il linguaggio umano è emerso almeno 135.000 anni fa e il suo utilizzo si è diffuso ben 35.000 anni più tardi, accendendo la scintilla del pensiero simbolico: è quanto emerge da un nuovo studio condotto da ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT), sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Frontiers in Psychology. Gli scienziati hanno proposto un nuovo metodo per datare la nascita del linguaggio umano, basandosi sul DNA piuttosto che su reperti fossili o archeologici. Ricostruendo le migrazioni delle prime popolazioni dell’Homo Sapiens e basandosi su 15 lavori scientifici pubblicati negli ultimi anni, gli autori sono riusciti a datare le radici della nostra storia, stimando il periodo in cui è emerso il linguaggio come lo conosciamo. «La logica è molto semplice. Ogni popolazione ramificata nel mondo ha un linguaggio umano e tutte le lingue sono correlate», ha spiegato Shigeru Miyagawa, professore del MIT e coautore della ricerca.

Nonostante il significativo accordo riguardante la nascita degli esseri umani moderni, risalente a circa 230.000 anni fa, gli scienziati si sono a lungo confrontati sull’origine del linguaggio, che resta incerta. Tradizionalmente, infatti, gli studiosi hanno spesso cercato indizi in manufatti e fossili, ottenendo risultati contrastanti. Per questo motivo, il team del MIT ha deciso di scegliere un approccio differente, ipotizzando che tutte le lingue umane derivino da una radice comune. Se ciò fosse vero, allora la comparsa del linguaggio dovrebbe precedere la prima grande divisione genetica delle popolazioni di Homo sapiens, un evento che però i dati genomici possono aiutare a individuare. Basandosi su 15 studi precedenti – di cui 3 focalizzati sul cromosoma Y, 3 sul Dna mitocondriale e 9 sull’intero genoma – e incrociando questi dati, i ricercatori hanno tracciato il mosaico della variabilità genetica umana, stimando che le popolazioni di homo sapiens formassero ancora un unico gruppo fino a circa 135.000 anni fa. Questo implicherebbe, secondo quanto riportato, che la capacità di comunicare verbalmente fosse già presente prima di quella data.

Si tratta di un’analisi che è stata resa possibile dal fatto che «dal punto di vista quantitativo abbiamo più studi, e dal punto di vista qualitativo, la finestra temporale è più ristretta», ha spiegato Miyagawa, aggiungendo che la diffusione su larga scala avvenuta più tardi – circa 100.000 anni fa – potrebbe essere la prova che fu proprio il linguaggio ad aver innescato la rivoluzione cognitiva che portò a nuove forme di comunicazione e cultura: «Il linguaggio è stato l’innesco del comportamento umano moderno. In qualche modo ha stimolato il pensiero umano e ha contribuito a creare questo tipo di comportamenti. Se abbiamo ragione, le persone imparavano le une dalle altre (grazie al linguaggio) e incoraggiavano innovazioni del tipo di quelle che abbiamo visto 100.000 anni fa», ha aggiunto. Infine, i coautori hanno spiegato che sebbene lo studio aggiunga un tassello fondamentale al dibattito sull’origine del linguaggio – un tema ancora aperto nella paleoantropologia – e sebbene i dati genomici offrano una nuova prospettiva temporale, ulteriori conferme dovranno arrivare dall’archeologia, dalla linguistica comparativa e da future analisi genetiche per stabilire con maggiore certezza quando e come sia nata la capacità linguistica umana.

[di Roberto Demaio]

Francia, Le Pen colpevole al processo per appropriazione indebita

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Si è concluso con una condanna il processo alla leader del partito Rassemblement National, Marine Le Pen, accusata di essere al centro di un ampio «sistema di appropriazione indebita» di fondi pubblici del Parlamento europeo. Le pene non sono ancora state comunicate, ma Le Pen rischia una condanna detentiva fino a 10 anni e una multa fino a 1 milione di euro. Potrebbe inoltre venirle imposto il divieto di candidarsi a una carica pubblica per cinque anni, che le impedirebbe di presentarsi alle elezioni presidenziali del 2027. Le Pen può ora presentare ricorso in appello. In tal caso, si andrà a un nuovo processo, probabilmente nel 2026.

Marcia “stop pesticidi”: in migliaia in piazza per un’agricoltura più sostenibile

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Un fiume di persone ha attraversato le colline trevigiane per l’ennesima edizione della Marcia “Stop Pesticidi”. In una domenica soleggiata, oltre 1.500 manifestanti hanno percorso la strada tra Cison di Valmarino e Follina, in provincia di Treviso, unendosi nella richiesta di un’agricoltura libera dai pesticidi di sintesi, capace di rispettare la biodiversità e la salute pubblica. Striscioni colorati, slogan e interventi hanno scandito il cammino di ambientalisti, agricoltori, cittadini e rappresentanti di numerose associazioni, con un obiettivo chiaro: riportare al centro del dibattito la necessità di politiche agricole più sostenibili.

«La nostra lotta non si ferma. Chiediamo l’adozione di misure concrete per ridurre i pesticidi e proteggere la salute dei cittadini e dell’ambiente», hanno dichiarato gli organizzatori della marcia. Tra i partecipanti spiccano le adesioni di grandi organizzazioni nazionali come Legambiente, WWF, LIPU e Navdanja, oltre a sindacati come la Flai CGIL e numerosi biodistretti. Il corteo ha ribadito con forza la necessità di una svolta politica in un momento critico per il futuro dell’agricoltura europea. La recente decisione della Commissione Europea di accantonare il Regolamento sull’uso sostenibile dei fitofarmaci (SUR), eliminando l’obiettivo di dimezzare i pesticidi entro il 2030, ha infatti generato forte preoccupazione tra gli attivisti, che temono un arresto nel percorso verso un’agricoltura più ecologica e meno dipendente dalla chimica di sintesi.

Il percorso della manifestazione si è concluso all’abbazia di Follina, dove si sono tenuti gli interventi finali. «L’Italia attende da anni un Piano di azione nazionale aggiornato per l’uso sostenibile dei pesticidi, scaduto nel 2019 e mai rinnovato con misure più stringenti – ha dichiarato Angelo Gentili, responsabile Agricoltura di Legambiente – Servono regole chiare e coraggiose, a partire dall’adozione di distanze minime di sicurezza per i trattamenti fitosanitari, ancora disattese. Il futuro del settore non può essere basato sulla chimica, ma su innovazione, agroecologia e tutela degli ecosistemi». Parallelamente alla marcia, dal 20 al 30 marzo si è svolta la Settimana per le alternative ai pesticidi, un’iniziativa internazionale per promuovere pratiche agricole più sostenibili. Legambiente ha partecipato attivamente con un webinar dedicato, ribadendo la necessità di incentivare metodi di coltivazione basati sull’agroecologia e su soluzioni naturali per la difesa delle colture.

I dati scientifici confermano le preoccupazioni dei manifestanti. Diversi studi hanno infatti evidenziato la correlazione tra l’esposizione ai fitofarmaci e l’aumento di patologie croniche, mentre la perdita di biodiversità nei territori più colpiti è ormai evidente. Il declino degli impollinatori come le api, fondamentali per la produttività agricola, è una delle conseguenze più allarmanti, così come la contaminazione delle falde acquifere e la presenza di residui di pesticidi nei cibi. Lo scorso novembre, oltre 260mila cittadini europei hanno sottoscritto una petizione indirizzata alla Commissione UE, chiedendo espressamente all’esecutivo europeo di dare priorità politica alla riduzione dell’uso dei pesticidi. La petizione è stata sostenuta da numerose organizzazioni ambientaliste e associazioni attive nel settore della protezione dell’ambiente e dell’agricoltura, ma anche da molti esperti di salute pubblica e biologi. Tre gli obiettivi fondamentali al centro dell’istanza: la reintroduzione della riduzione dei pesticidi nella politica dell’UE, il ripristino di obiettivi ambiziosi per sistemi di produzione alimentare sostenibili e la protezione della salute pubblica e dell’ambiente.

[di Stefano Baudino]

Trump senza freni minaccia dazi a Putin, bombe all’Iran e piani militari per la Groenlandia

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Donald Trump è tornato a lanciare minacce contro chiunque non si adegui alle sue decisioni. In risposta alle dichiarazioni di Putin, che ha suggerito di porre Kiev sotto un’amministrazione temporanea per svolgere nuove elezioni e siglare gli accordi di pace, Trump si è detto «molto arrabbiato» e pronto ad aumentare i dazi sul petrolio russo. Sempre a proposito di dazi, mercoledì 3 aprile dovrebbero arrivare nuovi annunci, questa volta su scala globale, contro chiunque decida di rispondere alle sue tariffe. Ancora più duro l’approccio nei confronti dell’Iran che, visto lo stallo nei dialoghi sul programma nucleare, il presidente ha minacciato senza mezzi termini di bombardare e colpire con tariffe secondarie. Trump ha detto di non escludere un intervento militare anche in Groenlandia. In generale, il magnate sembra voler applicare la logica del più forte anche sul fronte della politica interna, tanto da aver anticipato di voler correre per un terzo mandato, vietato dalla Costituzione degli Stati Uniti.

Le dichiarazioni di Trump sono arrivate una di seguito all’altra a partire da venerdì 28 marzo. Dopo aver ricucito i rapporti con Zelensky e, almeno apparentemente, riaperto la strada a un potenziale accordo sulle terre rare, Trump ha difeso la legittimità di Zelensky, messa in discussione dal presidente Putin. In un’intervista alla rete statunitense NBC, Trump ha affermato di essere «molto arrabbiato» (il termine usato è «pissed off», traducibile più letteralmente con «incazzato») con il presidente russo, con cui prevede di parlare in settimana. La dichiarazione è arrivata nella giornata di venerdì, dopo che Putin ha suggerito di porre l’Ucraina sotto una forma di amministrazione temporanea per consentire lo svolgimento di nuove elezioni e facilitare la firma di accordi definitivi per un cessate il fuoco, mettendo in discussione la credibilità del presidente ucraino. La proposta è stata ritenuta inaccettabile dal magnate, che ha così minacciato dazi fino al 50% su tutto il petrolio russo qualora ritenesse che Mosca ostacoli i suoi sforzi per porre fine alla guerra in Ucraina. Ha aggiunto che le tariffe potrebbero entrare in vigore entro un mese, a meno che non venga raggiunto un cessate il fuoco. Nell’arco di due giorni, il presidente USA ha già cambiato l’oggetto delle sue minacce, parlando direttamente a Zelensky: secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Reuters, domenica Trump ha dichiarato che il presidente ucraino vuole tirarsi indietro dall’accordo sui minerali critici, sottolineando che «se lo dovesse fare avrebbe dei problemi; grossi, grossi problemi».

Gli sforzi – e le minacce – di Trump sono arrivati anche in altre aree del vecchio continente, dove sono continuati tanto il braccio di ferro sui dazi quanto le pressioni in Groenlandia. Lo stesso venerdì, il vicepresidente JD Vance è arrivato sull’isola danese e ha visitato la base militare statunitense Pituffik, dove ha pronunciato un discorso per rimarcare le ambizioni statunitensi. Vance ha accusato la Danimarca di non difendere adeguatamente la Groenlandia, sostenendo che gli USA le garantirebbero maggiore tranquillità e sicurezza dalle ingerenze esterne. Il vicepresidente ha infatti sottolineato che il Paese ha bisogno dell’isola per questioni di sicurezza nazionale e internazionale e che in molti, Cina in primis, avrebbero gli occhi sulla Groenlandia. Sebbene Vance abbia tranquillizzato gli animi affermando che non crede ci sarà bisogno di un intervento militare da parte degli Stati Uniti, Trump, in occasione della visita del vicepresidente, ha sottolineato di non escludere l’opzione e che, in una forma o nell’altra, gli USA controlleranno l’isola. La Groenlandia è effettivamente una terra particolarmente strategica negli interessi di Trump, perché è dotata di diverse risorse e si colloca in un’area sensibile del Mar Artico. In generale, i leader danesi e quelli groenlandesi non hanno mai risparmiato le critiche verso le affermazioni dell’amministrazione statunitense e, anche in questa circostanza, hanno sottolineato che l’isola non è in vendita e che le pressioni e le accuse statunitensi sono da considerarsi «inaccettabili».

Spostandosi a est, e precisamente in Iran, le minacce di Trump si sono fatte molto più concrete. Il presidente lamenta lo stallo registratosi nei dialoghi sulla revisione del programma nucleare del Paese. In particolare, gli USA chiedono all’Iran di ridurre le attività nucleari e minacciano di bombardare il Paese e di introdurre nuove sanzioni e nuovi dazi. Teheran ha affermato di non voler avere colloqui diretti con Trump, ma si è detta pronta a svolgere colloqui indiretti. L’Ayatollah Khamenei ha inoltre affermato che qualsiasi attacco non avverrà senza risposta e ha smentito le accuse secondo cui l’Iran starebbe aumentando le attività nucleari per produrre armi atomiche. Questa situazione si inserisce in un contesto di crescenti tensioni tra Iran e Stati Uniti: nel 2017, durante il suo primo mandato, Trump ha ritirato gli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran siglato nel 2015, che introduceva limitazioni sulle attività nucleari del Paese in cambio di un alleggerimento delle sanzioni. Trump ha così reintrodotto sanzioni economiche contro l’Iran, che ha ripreso le attività di arricchimento dell’uranio oltre i limiti stabiliti dall’accordo.

Nei primi due mesi e mezzo di amministrazione, Trump ha sempre portato avanti la tattica diplomatica del “bastone e della carota”, alternando, sia in faccende interne che in politiche estere, atteggiamenti gratificanti e aperti al dialogo a tecniche persuasive di stampo fortemente autoritario. Lo si è visto nella politica dei dazi, prima annunciati, poi ritirati per qualche mese, successivamente glorificati, e forse ancor di più con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che da solido alleato è diventato «comico mediocre e dittatore non eletto» da umiliare in mondovisione, per poi tornare a essere un partner da difendere strenuamente. In generale, l’approccio sembra essere sempre quello: avanzare grandi richieste e minacciare gravi ritorsioni per suscitare una reazione, aspettare una risposta, e riproporre la stessa logica, fino all’ottenimento del risultato sperato.

[di Dario Lucisano]

Terremoto in Birmania, i morti salgono a oltre 2.000

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Continua ad aggravarsi il bilancio delle vittime del sisma che venerdì ha colpito la Birmania e la Thailandia. Secondo quanto ha riferito la giunta militare birmana, i morti sarebbero saliti ad almeno 2.028, mentre i feriti sarebbero 3.408. Le prime stime dell’Us Geological Survey suggerivano che il numero di vittime potrebbe superare le diecimila unità. La situazione è ancora critica anche a Bangkok, dove vibrazioni e crepe si sono registrate in edifici governativi dai dipendenti rientrati oggi in ufficio dopo l’evacuazione di venerdì. Diverse strutture sono state nuovamente evacuate e migliaia di persone si sono riversate in strada.

Paesi Bassi: le proteste fermano il finto progetto “green” della centrale a biomassa

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Vattenfall, la terza più grande azienda dei Paesi Bassi nel settore dell'energia, ha abbandonato il proprio progetto di costruzione di una enorme centrale a biomassa del Paese. La decisione è stata accolta come una vittoria da parte dei comitati ambientalisti, che si opponevano al progetto sostenendo che la combustione di pellet di legno sia responsabile di più emissioni di carbonio che non la combustione del carbone. Gli scienziati stanno infatti collezionando sempre più prove del fatto che gli impianti a biomassa legnosa inquinano fino a tre volte di più rispetto a quelli che impiegano combu...

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Yemen, Houthi attaccano 3 volte in 24 ore la portaerei USA

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Nelle ultime 24 ore, i ribelli Houthi hanno attaccato per tre volte la portaerei USS Harry S. Truman nel Mar Rosso, utilizzando missili da crociera, droni e forze navali. Lo ha dichiarato il portavoce delle forze armate Houthi, Yahya Saree, sul canale televisivo yemenita Al-Masirah. Gli attacchi si inseriscono nel contesto dell’operazione militare statunitense annunciata il 15 marzo da Donald Trump contro gli Houthi, che controllano un terzo dello Yemen. Gli USA giustificano l’intervento evidenziando gli attacchi dei ribelli alle navi commerciali nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden. La USS Harry S. Truman, base dell’operazione, continua a colpire obiettivi Houthi.