mercoledì 26 Novembre 2025
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Bologna: intera palazzina sfrattata con la violenza per far posto ai turisti

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A Bologna gli affittuari degli appartamenti di un’intera palazzina sono stati sfrattati dalle proprie case per fare spazio a un b&b di lusso. È la denuncia della Piattaforma di Intervento sociale PLAT, sindacato metropolitano. L’edificio, spiega il PLAT, è di proprietà di un’impresa privata, che ha recentemente recapitato agli affittuari – da sempre in regola con i pagamenti – una lettera di fine locazione; ieri, giovedì 23 ottobre, continua il sindacato, sono stati effettuati gli sfratti di due tra gli ultimi appartamenti locati – entrambi abitati da famiglie con minori – per i quali è stata mobilitata la celere in tenuta antisommossa e manganelli. Le forze dell’ordine hanno caricato un gruppo di manifestanti radunatisi davanti alla palazzina in presidio solidale, e sono entrate negli appartamenti sfondando porta e pareti: dopo avere abbattuto la porta del primo appartamento con l’ausilio di una squadra di fabbri, hanno aperto un varco verso il secondo buttando giù il muro divisorio a martellate.

Gli sfratti nella palazzina sono stati effettuati da decine di agenti in tenuta antisommossa nella mattina di ieri. L’edificio si trova in Via Michelino 41 ed è, si legge in un post del PLAT, di una «multiproprietà dal fatturato di tre milioni di euro». Gli agenti hanno sfrattato le famiglie «ad appena pochi giorni» dal rinvio dei contratti di locazione, dopo che i proprietari dell’edificio hanno recapitato delle lettere di finita locazione agli affittuari. Sul posto, assieme agli agenti, è arrivata anche una squadra di fabbri: i video che circolano online, postati dallo stesso sindacato, mostrano i fabbri intenti a buttare giù la porta del primo appartamento con piede di porco e flessibile, mentre la famiglia si trovava ancora all’interno dell’alloggio. Mentre i fabbri abbattevano la porta, un individuo – presumibilmente un rappresentante del PLAT – discuteva con un agente fuori dall’appartamento chiedendo l’intervento degli assistenti sociali: «Gli assistenti sociali non possono venire sul posto», ha affermato l’agente, «perché hanno indicazioni che non devono venire».

Una volta abbattuta la porta, un folto gruppo di poliziotti è entrato nell’appartamento, abitato da una famiglia con tre minori, di cui una pare essere una bambina affetta da autismo; il padre, invece, avrebbe un disturbo cardiaco. Trascinato il nucleo familiare fuori dall’appartamento, gli agenti si sono spostati verso il secondo alloggio. Questo confina con il primo, ed è stato raggiunto dalla squadra di poliziotti a colpi di martellate: gli agenti hanno aperto una voragine nella parete che divideva i due appartamenti, e sono entrati mentre dentro si trovava ancora la famiglia di locatari. Nel frattempo, di fuori, una cinquantina di persone si sono riunite in presidio solidale per provare a fermare gli sfratti. Gli agenti hanno sfoderato scudi e manganelli e caricato il presidio nei pressi dell’ingresso dello stabile, ferendo alcuni dei presenti; in un video del PLAT si vede un rappresentante sindacale ferito alla testa.

Terminata la violenta operazione di sfratto dei due nuclei familiari, il sindacato ha simbolicamente portato la porta sfondata del primo appartamento in Comune: «L’assessore alla casa ha dichiarato che la responsabilità è del Governo che non investe soldi per calmierare gli affitti e taglia sul welfare, portando avanti con il decreto sicurezza un attacco alla vita delle persone», si legge in un post del gruppo. Dopo la visita in comune, il PLAT ha rilanciato la mobilitazione, e organizzato un presidio che si terrà oggi alle 19 in Piazza del Nettuno.

In Gran Bretagna le aziende stanno aumentando il salario minimo dei lavoratori a basso reddito

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salario minimo

Dal prossimo aprile, migliaia di lavoratori britannici riceveranno un aumento di stipendio. Ma non per effetto di una legge. A riconoscere loro un salario più alto saranno oltre 16.000 aziende che hanno aderito volontariamente al programma del Real Living Wage, una forma di retribuzione alternativa al salario minimo legale, calcolata ogni anno in base al costo reale della vita. La tariffa salirà da 12,60 a 13,45 sterline l’ora nel resto del Paese (circa il 6,7% in più) e da 13,85 a 14,80 sterline a Londra, dove il costo della vita è più alto. Un incremento che riguarda circa mezzo milione di i...

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Il genocidio a Gaza è un crimine collettivo: il nuovo rapporto di Francesca Albanese

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«Il genocidio in corso a Gaza è un crimine collettivo, sostenuto dalla complicità di influenti Stati terzi, che hanno reso possibili politiche durature di occupazione, assedio e bombardamento». Con queste parole, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, introduce il suo ultimo rapporto, Gaza Genocide: A Collective Crime (A/80/492), in cui accusa Israele di condurre una campagna di distruzione «intenzionale e sistematica» contro la popolazione palestinese, con la complicità di Stati terzi e imprese che, attraverso il prolungato sostegno militare, politico, diplomatico ed economico, avrebbero reso possibile il massacro. Il documento evidenzia anche la riluttanza, da parte della comunità internazionale, a chiedere conto a Israele delle proprie azioni, che hanno consentito a quest’ultimo di consolidare nel territorio palestinese occupato «il proprio regime di apartheid coloniale d’insediamento», arrivando a un livello di violenza «senza precedenti». Il rapporto non parla più soltanto di “crimini di guerra” o “uso sproporzionato della forza”, ma di un progetto coordinato per annientare un gruppo umano protetto dal diritto internazionale. Un’accusa che, se accolta, potrebbe ridefinire le responsabilità globali nel conflitto e aprire la strada a incriminazioni per genocidio.

Un crimine collettivo

Nel rapporto A/80/492, la relatrice ONU identifica chiaramente una responsabilità estesa oltre i confini della Striscia. Il documento è stato elaborato attraverso una revisione dei materiali delle Nazioni Unite, incluso il rapporto del Segretario Generale A/79/588, e 40 contributi provenienti da attori statali e non statali. Tutti i 63 Stati menzionati nel rapporto hanno avuto la possibilità di commentare eventuali errori o inesattezze fattuali; 18 Stati hanno presentato una risposta. Il testo afferma che «la distruzione delle infrastrutture civili, la privazione dell’accesso ai mezzi di sussistenza essenziali, il trasferimento forzato di ampi segmenti della popolazione e l’imposizione di condizioni di vita intese a provocare la distruzione parziale o totale del gruppo protetto, in tutto o in parte» sono elementi che testimoniano l’intenzione genocidaria. Non si tratta, dunque, di danni collaterali o incidenti di guerra, ma di un progetto complessivo di distruzione.

Una responsabilità condivisa e radicata

La responsabilità, secondo Albanese, è condivisa e «non ricade solo sulla Potenza occupante». Oltre a Israele, infatti, anche gli Stati terzi «sono vincolati da obblighi non solo di astenersi dal prestare aiuto o assistenza nella commissione del genocidio o di altri atti gravi, ma anche di adottare misure attive per prevenire atti genocidari quando il rischio è noto o avrebbe dovuto essere noto». Negli ultimi due anni, invece, una «complicità radicata», che ha abbracciato la narrazione di Tel Aviv e ha promosso la propaganda israeliana, «ha messo a tacere gli appelli urgenti all’azione e offuscato la rete di interessi politici, finanziari e militari in gioco». L’uso della Convenzione sul genocidio del 1948 come quadro interpretativo è centrale: tre degli atti previsti dalla Convenzione sarebbero «ampiamente documentati», mentre gli altri due «richiedono approfondimento» ma nel complesso «suggeriscono un’intenzione genocidaria».

Le accuse agli USA

Il presidente Donald Trump pronuncia il suo discorso all’80ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, martedì 23 settembre 2025, presso la sede delle Nazioni Unite a New York

Durissime le accuse rivolte agli Stati Uniti. Da sempre, gli USA sostengono Israele con aiuti finanziari e militari, garantendone il “vantaggio militare qualitativo”. Dal 1967, Israele è il principale destinatario dei fondi FMF, ricevendo 3,3 miliardi l’anno più 500 milioni per la difesa missilistica. Washington fornisce armi, accesso agli arsenali USA e fondi per l’acquisto di jet e munizioni, anche da aziende israeliane. Parallelamente, l’acquisto israeliano di caccia F-15, F-16 e F-35 e di munizioni è sostenuto dall’accesso a fondi di approvvigionamento destinati alle filiali israeliane negli Stati Uniti. Dopo il 7 ottobre 2023, gli USA hanno usato sette volte il veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, bloccando i cessate il fuoco e garantendo copertura diplomatica a Israele. Negli ultimi due anni, gli USA hanno inviato 742 spedizioni di armi a Israele e approvato vendite per decine di miliardi, riducendo la trasparenza e aggirando il Congresso e hanno fornito artiglieria, missili, fucili e bombe, oltre a droni e forze speciali impiegati nei raid su Hamas. Entro aprile 2025, Israele contava 751 contratti attivi per 39,2 miliardi.

La complicità degli altri Paesi

Il Primo Ministro Keir Starmer incontra Donald Trump, Presidente degli Stati Uniti d’America, per un incontro bilaterale alla Casa Bianca

Washington non è isolata: astensioni, ritardi e bozze di risoluzioni indebolite da parte dei suoi alleati hanno permesso la prosecuzione delle operazioni israeliane. Il Regno Unito, allineato agli USA fino al novembre 2024, ha svolto un ruolo chiave nella cooperazione militare con Israele, garantendo da Cipro i rifornimenti statunitensi e conducendo oltre 600 missioni di sorveglianza su Gaza, condividendo intelligence con Tel Aviv. Tra ottobre 2023 e ottobre 2025, 26 Paesi – tra cui Italia, Cina, India e Francia – hanno fornito armi o componenti a Israele, spesso attraverso canali opachi o “dual use (espressione che si riferisce a prodotti, tecnologie e servizi che possono avere sia un impiego civile sia uno militare). L’Italia, terzo esportatore verso Israele nel periodo 2020-2024, ha proseguito le forniture e consentito il transito di armamenti nei propri porti e aeroporti, pur dichiarando di rispettare i vincoli internazionali. Inoltre, partecipa con Israele a esercitazioni congiunte come INIOCHOS e manovre guidate da AFRICOM, contribuendo indirettamente al rafforzamento dell’apparato militare israeliano. Nel frattempo, Israele ha aumentato del 18% le esportazioni di armi, testate in Gaza, con l’Unione Europea come principale acquirente.

Dati, testimonianze e distruzioni

Il rapporto documenta una vasta gamma di violazioni: strutture civili distrutte o danneggiate, accesso all’acqua, all’elettricità e al carburante gravemente limitato, ospedali sovraccarichi o distrutti, e una popolazione che subisce mobilità quasi nulla. Albanese sottolinea che queste condizioni non sono conseguenze accidentali della guerra, ma «parte integrante di una strategia di distruzione». Le imprese internazionali svolgono un ruolo nel sistema descritto: secondo il rapporto, «i trasferimenti di armi da parte degli Stati, il mantenimento del supporto diplomatico e politico alle operazioni militari, e la prosecuzione di relazioni commerciali “business as usual” con la potenza occupante consentono alla macchina della distruzione a Gaza di operare con impunità». In questo modo, l’economia dell’occupazione si trasforma – secondo la relatrice – in un’economia del genocidio, alimentata da profitti e interessi privati e pubblici. Il precedente rapporto From Economy of Occupation to Economy of Genocide aveva già suscitato scalpore internazionale, parlando apertamente di “economia del genocidio“, citando le aziende conniventi con i crimini perpetrati da Israele. A seguito di quella denuncia, gli Stati Uniti, il 9 luglio 2025, hanno imposto sanzioni contro Francesca Albanese.

Il ruolo degli Stati terzi e delle imprese

Ora, il nuovo rapporto sfida direttamente governi e imprese oltreconfine: 63 Stati, molti dei quali europei, avrebbero mantenuto forme di sostegno politico, militare o economico a Israele pur essendo a conoscenza dei rischi di crimini internazionali. Le imprese globali sono chiamate in causa per avere «facilitato o acconsentito alla distruzione di un gruppo protetto» e, per questo, gli Stati dovrebbero considerare la «responsabilità penale delle imprese» sul modello dei precedenti processi internazionali. La relatrice invita i governi a intervenire con misure di sanzione, cessazione di accordi commerciali e revoca di licenze militari o dual-use verso Israele e le sue filiere.

Impatti umanitari e civili

Al centro del documento ci sono gli effetti sulla vita quotidiana della popolazione della Striscia di Gaza. La privazione di mezzi di sussistenza, il blocco prolungato degli aiuti, l’interruzione dei trasporti verso l’esterno e la costante minaccia di bombardamenti hanno portato a condizioni di sopravvivenza estreme. Secondo Albanese, l’intero sistema è progettato affinché «la distruzione della vita quotidiana nella Striscia di Gaza sia deliberata e concertata». La relatrice nota come l’intera popolazione venga trattata non come un danno collaterale, ma come un obiettivo deliberato. Le infrastrutture civili – centri sanitari, scuole, reti elettriche e idriche – sono ripetutamente distrutte o rese inoperanti; il risultato è una crisi umanitaria che non è semplice conseguenza della guerra, ma elemento integrante del progetto di estinzione del gruppo protetto.

Raccomandazioni e responsabilità internazionale

Alla fine del rapporto, Albanese formula raccomandazioni incisive: l’immediato cessate il fuoco, l’embargo sulle armi verso Israele, il blocco delle imprese che operano nei territori occupati, l’istituzione di una forza internazionale per proteggere la popolazione della Striscia e meccanismi giudiziari nazionali e internazionali per perseguire Stati e imprese che agevolano il genocidio. In tal senso, si afferma che «non c’è bisogno di attendere la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia per definire questa dinamica come genocidaria: il dovere di prevenire e reagire è già immediato». Il messaggio è chiaro: il sistema internazionale non può più trattare la Striscia di Gaza come un teatro periferico di conflitto, ma come un laboratorio di distruzione di un gruppo protetto, di cui tutti – occupante, Stati terzi, imprese – sono potenzialmente corresponsabili.

Quali implicazioni per l’Italia e l’Europa?

Per l’Italia e l’Europa, il rapporto impone una riflessione non più rinviabile. Se molti Stati europei sono indicati come “facilitatori” – direttamente o indirettamente – delle politiche messe in luce da Albanese, allora diventa urgente considerare strumenti normativi e politici che vanno oltre le dichiarazioni di condanna: revoca di licenze d’armamento, sospensione di accordi commerciali con Israele, esame dell’impatto delle imprese europee che operano nei territori occupati, e un cambio reale di strategia verso la protezione della popolazione palestinese.

I Paesi sono chiamati a scegliere

In foto: la Relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese

Dal rapporto di Albanese emerge un quadro allarmante e complesso: una popolazione sotto attacco continuato, una strategia di distruzione sistematica, un’economia della guerra che coinvolge imprese globali, e un sistema internazionale che collabora, resiste o resta inerte. Alla luce della gravità delle accuse avanzate, la pace e la stabilità del Medio Oriente – e di riflesso dell’Europa – si trovano di fronte a un bivio storico: intervenire concretamente, o restare complici per omissione. Il rapporto non rappresenta solo una denuncia delle politiche di occupazione o della distruzione degli insediamenti, è un richiamo all’intera architettura internazionale. «Il mondo» si legge nelle conclusioni, «sta osservando Gaza e l’intera Palestina. Gli Stati devono assumersi le proprie responsabilità. Solo garantendo al popolo palestinese il diritto all’autodeterminazione – così sfacciatamente violato dal genocidio in corso – potranno smantellare le strutture coercitive globali che perpetuano l’oppressione. Nessuno Stato può affermare con credibilità di aderire al diritto internazionale mentre arma, sostiene o protegge un regime genocidario. Tutto il sostegno militare e politico deve essere sospeso; la diplomazia deve servire a prevenire i crimini, non a giustificarli. La complicità nel genocidio deve finire». Anche l’Italia è chiamata a scegliere: continuare nella complicità di un sistema che beneficia del modello militare-economico delineato, oppure, impegnarsi nella protezione di un popolo sottoposto al genocidio. La posta in gioco non è solo diplomatica: è la credibilità del diritto internazionale e la protezione dell’umanità contro la distruzione sistematica di un gruppo vulnerabile.

Mongolia: la Corte Suprema blocca la destituzione del premier

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La Corte Suprema della Mongolia ha dichiarato incostituzionale il voto parlamentare della scorsa settimana per destituire il primo ministro Zandanshatar Gombojav. Secondo la Corte, la mozione, approvata venerdì scorso, non ha fondamento giuridico per questioni tecniche; la Corte di preciso, ha contestato irregolarità procedurali e l’impiego di una «formula di voto errata». Il voto sulle dimissioni di Zandanshatar è avvenuto dopo che nel Paese sono scoppiate diverse proteste antigovernative contro la situazione di stagnazione economica. Zandanshatar è primo ministro da soli quattro mesi, ed è finito al centro di indagini per corruzione; è subentrato a Luvsannamsrai Oyun-Erdene, dimessosi per analoghi motivi.

Paranoia securitaria e caccia al nemico interno: la svolta autoritaria del potere negli USA

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Mentre i riflettori del mondo sono puntati sul Medio Oriente e sull’immagine di Donald Trump come “artefice della pace” tra Israele e Hamas, sul fronte interno gli Stati Uniti sembrano imboccare una strada ben diversa. Nelle ultime settimane, la Casa Bianca ha intensificato l’impiego della Guardia Nazionale in numerose città, contro la volontà dei governatori statali, segnando un preoccupante scivolamento verso forme di governo coercitivo. Dietro la retorica della sicurezza e dell’ordine pubblico si delinea un paradosso politico: mentre si accredita come architetto della pace all’estero, Trump...

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Maltempo in Nuova Zelanda: cancellati i voli

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La Nuova Zelanda sta venendo colpita da una ondata di forti venti, che hanno costretto gli aeroporti a cancellare circa 200 voli, causato vasti blackout e forzato la chiusura delle scuole. Le tempeste di vento hanno colpito prevalentemente la parte meridionale dell’Isola del Nord, dove si trova la capitale Wellington, spingendosi fino alla parte centro-settentrionale dell’Isola del Sud, nei pressi della città di Christchurch. Il servizio meteorologico nazionale ha emesso avvisi di allerta massima. La tempesta di vento coincide con uno sciopero a cui hanno partecipato almeno 100.000 lavoratori, che ha contribuito alla interruzione dei servizi nel Paese. Alcune delle manifestazioni in programma sono state cancellate, ma i lavoratori continuano lo sciopero.

Olimpiadi Cortina ’26: escluse Russia e Bielorussia, Israele invece potrà partecipare

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Mentre si avvicina l’inizio dei Giochi Olimpici invernali di Milano-Cortina 2026, riemerge con forza il differente trattamento riservato agli atleti di Paesi coinvolti in conflitti internazionali. Infatti, se la Federazione Internazionale Sci e Snowboard (FIS) ha infine deciso di escludere atleti russi e bielorussi dalle qualificazioni olimpiche, anche nella formula di atleti neutrali, il Comitato Olimpico Internazionale ha contemporaneamente ribadito la piena legittimità della partecipazione israeliana. Questa divergenza di approcci si basa sulla qualifica di «caso speciale» attribuita dal Comitato Olimpico alla situazione israeliano-palestinese, in netto contrasto con la linea dura adottata verso Mosca e Minsk, e continua a sollevare grossi interrogativi sulla coerenza dei criteri applicati.

Nel dettaglio, il consiglio della FIS ha votato per «non agevolare la partecipazione degli atleti provenienti da Russia e Bielorussia come atleti neutrali individuali (AIN) agli eventi di qualificazione FIS per i Giochi olimpici invernali e i Giochi paralimpici di Milano-Cortina 2026». Nello specifico, la scelta della Federsci esclude dalle competizioni tutti gli atleti di sci alpino, snowboard, freestyle, sci di fondo e combinata nordica dalle gare di disciplina. La Federazione, di preciso, ha tagliato fuori gli atleti dalle gare di qualificazione alle Olimpiadi, eliminandoli di fatto dall’evento sportivo. Anche l’Ibu, l’organismo internazionale per il biathlon, ha preso la stessa decisione; gli atleti russi e bielorussi saranno esclusi anche dagli sport di scivolamento come bob, slittino e skeleton, e dagli sport di squadra. La decisione è stata giudicata discriminatoria dalla federazione sciistica russa, che ha espresso «profonda delusione» e annunciato possibili azioni legali.

Dall’altro lato, il direttore esecutivo del CIO, Christophe Dubi, ha tracciato una linea di separazione netta riguardo a Israele. In occasione della conferenza stampa del Comitato organizzatore dei Giochi Olimpici dello scorso settembre, ha dichiarato: «Il caso è diverso da quello di Russia e Bielorussia. Su Israele e Palestina è un caso speciale perché abbiamo due comitati olimpici nazionali e entrambi ottemperano alla Carta Olimpica». Una posizione corroborata da Giovanni Malagò, presidente della Fondazione Milano-Cortina 2026, che ha precisato: «Attenzione, non stiamo parlando dei governi di quei Paesi, ma stiamo parlando dei comitati olimpici. Il Comitato Olimpico nazionale di Israele e quello di Palestina, per il CIO, sono entrambi riconosciuti da moltissimi anni». Nel 2023, il CIO aveva deciso di sospendere il Comitato olimpico russo (Roc) per violazione della Carta Olimpica, essendogli contestato di avere incluso tra i suoi componenti le organizzazioni sportive regionali di Donetsk, Kherson, Luhansk e Zaporizhzhya, che sono sotto l’autorità del Comitato olimpico ucraino.

Già nel marzo 2024 il movimento Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (BDS) aveva organizzato una protesta davanti alla sede del CIO a Losanna, chiedendo l’esclusione di Israele dalle Olimpiadi di Parigi a causa dei crimini di guerra a Gaza. Gli attivisti avevano denunciato l’applicazione di un «doppio standard» nel trattamento di Israele rispetto ad altri Paesi, richiamando alla memoria gli anni in cui il Sudafrica dell’apartheid venne escluso dalle competizioni olimpiche. Il movimento sottolineava come, mentre alla Russia e alla Bielorussia venivano imposte severe restrizioni – partecipazione solo sotto bandiera neutrale, divieto di sfilare alle cerimonie e di esporre simboli nazionali – per Israele non fosse stata prevista alcuna misura analoga, nonostante le accuse di violazioni dei diritti umani e la stessa inchiesta della Corte Internazionale di Giustizia per genocidio.

Nigeria, scontri tra esercito e ribelli islamisti: 50 morti

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L’esercito nigeriano ha ucciso 50 militanti di gruppi ribelli islamisti che hanno lanciato un attacco in quattro distretti dell’area nord-orientale del Paese. Di preciso, gli attacchi sono stati lanciati contro tre postazioni militari nello Stato di Borno e contro un’altra nello Stato di Yobe; i ribelli hanno lanciato attacchi con droni e granate, e dato fuoco a una caserma, ma sono stati respinti dalle truppe regolari. L’esercito nigeriano ha segnalato alcuni feriti, ma ora si trovano tutti in condizioni stabili. Veicoli ed edifici hanno invece subito ingenti danni. In seguito alla controffensiva, l’esercito ha affermato di avere recuperato armamenti e munizioni in mano ai ribelli.

Brasile: il presidente “ambientalista” Lula approva le trivelle nel Rio delle Amazzoni

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Il presidente brasiliano Lula è riuscito ad ottenere l’autorizzazione da parte dell’Istituto Brasiliano per l’ambiente (IBAMA) per le perforazioni petrolifere esplorative nel bacino di Foz do Amazonas, a 170km dalla costa e a 500km dal delta del Rio delle Amazzoni. La licenza ambientale, concessa lunedì 20 ottobre dall’ente governativo, permetterà fin da subito all’azienda petrolifera brasiliana di Stato, Petrobras, di dare il via alle azioni di ricerca e successivamente estrazione del greggio. Una decisione a lungo contestata da gruppi ambientalisti e rappresentanti indigeni, in quanto andrebbe ad impattare – con conseguenze potenzialmente drammatiche in caso di incidenti e fuoriuscite di petrolio – su una delle aree ecologicamente più importanti non solo del Brasile ma del mondo intero. Un fatto che getta una luce oscura sulle politiche ambientali di Lula, che proprio nel cuore dell’Amazzonia, a Belém, ha scenograficamente deciso di organizzare la prossima COP30, la Conferenza ONU sui cambiamenti climatici.

La prima fase del lavoro avrà durata di cinque mesi e consisterà nell’analisi del suolo marino, attraverso una sonda subacquea, con il fine di comprovare la veridicità degli studi che attesterebbero la presenza di petrolio lungo le coste atlantiche del paese sudamericano. L’area in questione, denominata “Blocco FZA-M-059”, è situata al largo dello stato dell’Amapá e lungo la linea equatoriale dell’Atlantico. Il territorio adiacente è caratterizzato da diversità medio ambientale e ospita una delle più grandi riserve di mangrovie al mondo, oltre che vari contesti naturali e sociali protetti in quanto minacciati dall’intaccamento di progetti di sfruttamento industriale.

Era stata proprio la fragilità dell’area a interrompere, nel 2023, l’approvazione da parte dell’IBAMA del progetto, motivata dall’assenza di garanzie sufficienti per la salvaguardia della flora e della fauna locale, oltre che delle comunità indigene abitanti del territorio. Una decisione che era stata fortemente contestata da Lula che aveva esercitato pressioni pubbliche affermando che l’IBAMA «deve autorizzare» le perforazioni, accusando l’Istituto dell’ambiente di sembrare «un’agenzia contro il governo» anziché un’agenzia governativa. Aveva inoltre cercato di rassicurare gli ambientalisti, affermando: «rispetteremo tutte le procedure necessarie per evitare di causare danni alla natura, ma non possiamo sapere che c’è ricchezza sotto di noi e rifiutarci di sfruttarla, soprattutto perché è da questa ricchezza che ricaveremo i soldi per costruire la necessaria transizione energetica». 

Dopo l’approvazione, evidentemente non soddisfatti dalle rassicurazioni del presidente, i movimenti attivi per la salvaguardia dell’ambiente sono insorti. «Le organizzazioni della società civile e i movimenti sociali si rivolgeranno al tribunale per denunciare le illegalità e i difetti tecnici del processo di licenza» afferma l’Observatório do Clima in una nota di stampa pubblicata lunedì 20 ottobre. 

Secondo quanto comunicato da Magda Chambriard, presidente dell’azienda Petrobras, se le previsioni risultassero accertate, il progetto prevedrebbe la creazione del giacimento nei successivi due anni e la produzione del petrolio in otto anni. A questo si aggiungerebbe il progetto di trivellazione di altri sei pozzi nella regione, in un contesto geografico fortemente vulnerabile sotto il profilo ambientale. Da un punto di vista prettamente economico l’area si rivela come una miniera d’oro: secondo il governo del paese l’area potrebbe contenere fino a dieci miliardi di barili di greggio, che si aggiungerebbero ad una riserva del paese pari a circa diciassette miliardi di barili.

Una ricchezza a cui il governo brasiliano intende attingere, anche a costo di far apparire lo svolgimento della COP 30 in Brasile un grottesco paradosso. Mentre i potenti della terra discuteranno alla corte di Lula delle misure da attuare per contrastare la crisi ecologica e climatica, prometteranno politiche attente con la sostenibilità e lo sviluppo di energie green, a qualche centinaio di chilometri da Belém le sonde di Petrobras saranno già al lavoro per consolidare il ruolo del Brasile nell’estrazione di greggio e inseguire la missione di inserire il paese tra i cinque protagonisti nella produzione petrolifera entro il 2030.

La fake news sulla Cassazione che avrebbe escluso qualsiasi legame tra Berlusconi e Cosa nostra

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«La Cassazione esclude qualsiasi legame tra Dell’Utri, Berlusconi e Cosa Nostra»; «Berlusconi, smontata la bufala della mafia: la Cassazione scagiona l’ex premier e Dell’Utri da ogni legame con la mafia»; «La Cassazione: Berlusconi e Dell’Utri non ebbero mai legami con la mafia». Nelle ultime ore, sono questi i titoli che si leggono a caratteri cubitali su testate nazionali come Il Foglio, Il Tempo, Il Dubbio, Il Giornale, TgCom24 e addirittura FanPage, Open, Today, AdnKronos e Il Corriere (che poi, in corsa, ha apportato modifiche), concordi nel ritenere che una recente sentenza della Cassazione avrebbe definitivamente smentito i legami tra Berlusconi, Dell’Utri e Cosa Nostra. Tutte gigantesche fake news. E non solo perché la pronuncia in questione, emessa in risposta a un ricorso dei magistrati di Palermo sulle misure di prevenzione patrimoniale nei confronti di Dell’Utri, si limita solo a dire che «non vi è la prova» di «attività di riciclaggio di Cosa nostra nelle imprese berlusconiane», ma soprattutto perché è stata la stessa Cassazione a sancire definitivamente tali rapporti sporchi nella sentenza definitiva che, nel 2014, condannò l’ex senatore di FI per concorso esterno. Quest’ultimo, infatti, si fece garante di un “patto di protezione” tra i vertici di Cosa Nostra e il Berlusconi imprenditore, che nel corso di almeno 18 anni – dal 1974 al 1992 – versò nelle casse mafiose decine di milioni di euro.

I soldi a Dell’Utri

Ma andiamo con ordine. L’ultima sentenza della Cassazione accolta con giubilo e riportata con titoli assolutamente fuorvianti da numerose testate giornalistiche di primo piano (non solo di area centro-destra) è una pronuncia di inammissibilità del ricorso avanzato dalla Procura generale di Palermo, convinta che il patrimonio di Dell’Utri fosse di natura illecita. In particolare, ci si concentrava anche sulle decine di milioni di euro che Silvio Berlusconi ha elargito al suo ex braccio destro dal 2012, nel corso del processo in cui era alla sbarra, e anche negli anni successivi, quando era ristretto in galera per la condanna rimediata. Secondo i giudici, invece, «tale conclusione, oltre che estremamente semplicistica e indimostrata, si scontra con la successiva evoluzione dei rapporti fra i due e con il più volte rinnovato, finanche nelle proprie disposizioni testamentarie, come notorio (Berlusconi ha destinato post mortem a Dell’Utri 30 milioni di euro, ndr), senso di amicizia e riconoscenza mostrato da Berlusconi nei confronti di Dell’Utri e posto alla base degli ingenti flussi finanziari veicolati in suo favore». Nel frattempo, occorre però ricordare che, nell’aprile 2024, la Procura di Firenze ha chiuso proprio un filone di inchiesta inerente il patrimonio di Dell’Utri, che i pm hanno messo sotto indagine – chiedendo infine il rinvio a giudizio – per la violazione della normativa antimafia e, in concorso con sua moglie, per trasferimento fraudolento di valori, con l’aggravante di aver agito «al fine di occultare la più grave condotta di concorso nelle stragi ascrivibile a Silvio Berlusconi e allo stesso Dell’Utri». Negli scorsi mesi, il procedimento è stato spostato per competenza a Milano, con i magistrati della città meneghina che hanno chiesto di mandare a processo Dell’Utri e la moglie per i 42 milioni di euro di donazioni ricevuti da Berlusconi e mai dichiarati al Fisco. Vedremo come si evolverà la vicenda processuale.

La verità storica

A ogni modo, resta scolpita nella pietra (e nella storia del nostro Paese) la sentenza definitiva con cui, nel 2014, la Suprema Corte ha inflitto a Marcello Dell’Utri la condanna a 7 anni di carcere per concorso esterno in Cosa Nostra. Nella pronuncia si leggono parole che non si prestano a interpretazioni: «Grazie all’opera di intermediazione svolta da Dell’Utri veniva raggiunto un accordo che prevedeva la corresponsione da parte di Silvio Berlusconi di rilevanti somme di denaro in cambio della protezione da lui accordata da Cosa Nostra palermitana. Tale accordo era fonte di reciproco vantaggio per le parti che a esso avevano aderito grazie all’impegno profuso da Dell’Utri: per Silvio Berlusconi esso consisteva nella protezione complessiva sia sul versante personale che su quello economico; per la consorteria mafiosa si traduceva invece nel conseguimento di rilevanti profitti di natura patrimoniale». Il patto fu sancito nel 1974, in occasione di un incontro tenutosi a Milano tra Silvio Berlusconi, il suo braccio destro Marcello Dell’Utri, l’allora capo della mafia palermitana Stefano Bontate e il mafioso Francesco di Carlo, ed è rimasto effettivo almeno fino al ’92, anche dopo la guerra di mafia scatenata dai corleonesi all’inizio degli anni Ottanta e la presa di potere di Salvatore Riina su Cosa Nostra. «L’avvento dei corleonesi di Totò Riina non aveva inciso sulla causa illecita del patto. Berlusconi aveva infatti costantemente manifestato la sua personale propensione a non ricorrere a forme istituzionali di tutela, ma avvalendosi piuttosto dell’opera di mediazione con Cosa Nostra svolta da Dell’Utri. A sua volta Dell’Utri aveva provveduto con continuità a effettuare per conto di Berlusconi il versamento delle somme concordate a Cosa Nostra e non aveva in alcun modo contestato le nuove richieste avanzate da Totò Riina», ha scritto la Cassazione, consegnandoci una storia molto diversa da come è stata strumentalmente contro-raccontata negli ultimi giorni.

Inoltre, nel 2021, la Cassazione ha pronunciato un’altra sentenza assai eloquente, in cui ha sottolineato come scrivere che «la Fininvest ha finanziato Cosa Nostra ed è stata in rapporti con la mafia» sia assolutamente legittimo. Il verdetto è andato a chiudere il processo intentato dalla Fininvest, holding fondata nel 1975 da Berlusconi, contro il magistrato Luca Tescaroli, il giornalista Ferruccio Pinotti ed RCS, la Casa Editrice che ha pubblicato il loro libro dal titolo “Colletti Sporchi”. All’interno dell’opera, uscita nel 2008, gli autori avevano approfondito il tema dei rapporti tra il gotha della mafia siciliana e la società di Berlusconi, i cui vertici hanno versato periodicamente 200 milioni di lire «a titolo di contributo a Cosa Nostra». Seguendo la linea dei giudici di primo e secondo grado e respingendo l’ennesimo ricorso della Fininvest, la Cassazione ha effettuato la «verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie» e «della congruità e logicità della motivazione».

La corsa alla menzogna

«La Corte di Cassazione ha definitivamente chiarito ciò che era ovvio per noi e per tutti gli italiani in buona fede: non è mai esistito alcun legame tra Berlusconi, Dell’Utri e Cosa nostra – ha scritto festante il numero uno di Forza Italia Antonio Tajani su Facebook -. Oggi si cancellano anni di menzogne e calunnie, mettiamo la parola fine a una storia vergognosa e rendiamo giustizia alla memoria di un grande italiano». Gli ha fatto eco il ministro per le Riforme istituzionali Elisabetta Casellati, che ha affermato: «Silvio Berlusconi non ha mai avuto legami con Cosa nostra, l’ha sempre combattuta con provvedimenti esemplari da premier. La Cassazione chiude trent’anni di mistificazioni e attacchi strumentali». «La verità ha vinto, dopo anni di fango e di persecuzioni – si legge sull’account ufficiale di Forza Italia, che riporta il titolo-fake de Il FoglioOggi è stata fatta giustizia». Eppure, mentre si finge di celebrare una presunta verità ritrovata, si diffondono solo macroscopiche bugie.