giovedì 20 Novembre 2025
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L’arte 2.0 ai tempi dell’IA: una causa potrebbe segnare il punto di svolta

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Negli Stati Uniti, la Corte Distrettuale del Colorado si trova a dover decidere un caso che potrebbe segnare un punto di svolta nella storia del diritto d’autore e, più in generale, nel rapporto tra arte e tecnologia. L’artista statunitense Jason M. Allen, fondatore dello studio Art Incarnate, ha citato in giudizio l’U.S. Copyright Office dopo che l’agenzia ha rifiutato di registrare il suo Théâtre D’opéra Spatial, un lavoro realizzato con l’ausilio dell’intelligenza artificiale. Allen sostiene che la creazione, pur nata attraverso strumenti digitali, sia frutto di scelte artistiche e concettuali umane e che, di conseguenza, debba godere delle stesse tutele riconosciute a qualsiasi altra opera. 

La mozione, depositata lo scorso agosto ma discussa pubblicamente solo negli ultimi giorni, è seguita dall’avvocato Ryan Abbott, figura già nota nel dibattito internazionale sul rapporto tra IA e creatività. Abbott era stato infatti protagonista del caso DABUS, in cui aveva sostenuto la possibilità che un sistema di intelligenza artificiale potesse essere riconosciuto come inventore di brevetti tecnici. Quella causa, conclusasi con un rigetto, aveva aperto un serio confronto globale sulla proprietà intellettuale e sulla necessità di adattare il diritto all’evoluzione tecnologica. Se nel caso DABUS l’obiettivo era dimostrare che una macchina potesse rivendicare come sua un’invenzione, questa nuova battaglia legale si muove su un terreno più concreto: riconoscere l’autorialità a chi scrive un prompt, cioè a chi guida l’intelligenza artificiale verso un risultato creativo. Un eventuale riconoscimento in questa direzione consoliderebbe l’idea che la GenAI sia un semplice strumento, non un soggetto, a disposizione dell’artista e delle masse.

Il caso si intreccia con un progetto più ampio che Allen porta avanti da tempo e che lui stesso etichetta come “Arte 2.0”, una pratica che unisce linguaggi tradizionali e tecnologie generative. Come già anticipato a L’Indipendente nei mesi estivi, l’artista ha confermato che le sue opere digitali stanno per assumere una forma fisica attraverso il sistema Tradigital Luxe, un metodo di produzione eliografica che consente di trasformare creazioni nate in ambiente digitale in oggetti tangibili, dotati di texture e profondità visiva. Il progetto prevede edizioni limitate, accompagnate da certificati di autenticità e da NFT, con l’obiettivo dichiarato di introdurre nuovi standard di tracciabilità e valore nel mercato dell’arte generativa.

Allen rinnova dunque la sua posizione centrale all’interno di uno scontro critico: quello tra chi difende la centralità dell’intervento umano nel processo di creazione e chi, invece, spinge per un modello in cui la tecnologia sia considerata come parte integrante dell’opera stessa. La sua causa, più che una rivendicazione personale, rappresenta la richiesta di riconoscimento di una nuova generazione di artisti che opera in territori ancora privi di una cornice normativa chiara. In gioco non c’è dunque soltanto il destino di un singolo quadro, bensì la ridefinizione della stessa idea di “autorialità” nell’epoca degli algoritmi.

Qualunque sarà l’esito della causa, il caso Allen costringe il mondo dell’arte e del diritto a interrogarsi su cosa significhi oggi creare. La linea di confine tra autore e macchina, tra idea ed esecuzione, appare sempre più sfumata, mentre la legge – come spesso accade – sembra rincorrere una realtà che si è già trasformata. L’“Arte 2.0” di Jason Allen, con le sue contraddizioni e i suoi interrogativi, mette in luce una verità ormai ineludibile: nell’era dell’intelligenza artificiale, il concetto di opera d’arte non è destinato a scomparire, ma deve essere ricalibrato in funzione o in reazione alla comparsa della GenAI. Se non ancora sul piano filosofico, perlomeno su quello giuridico e istituzionale.

Legge di bilancio 2026, il Consiglio dei ministri approva la manovra

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Via libera del Consiglio dei ministri alla legge di bilancio 2026. Tra le misure approvate è stata confermata la riduzione della seconda aliquota Irpef dal 35% al 33% per i redditi tra 28mila e 50mila euro. Non ci sarà, invece, una tassa sugli extraprofitti delle banche, ma saranno previsti altri tipi di prelievi, tra cui l’aumento dell’Irap di due punti percentuali, “un nuovo regime per la deducibilità dei crediti dubbi che viene spalmata su più esercizi e la limitazione del riporto fiscale delle perdite”, ha chiarito il ministro Giorgetti. “Una manovra che considero molto seria, equilibrata, che va letta nel solco delle precedenti e vale 18,7 miliardi di euro, quindi è più leggera delle precedenti”, ha spiegato la premier Meloni. Il ddl approvato oggi dal CDM sarà trasmesso alle Camere per l’avvio dell’iter parlamentare entro fine anno.

Eurozona, inflazione salita a settembre al 2,2%

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A settembre l’inflazione nell’area euro è salita al 2,2%, in aumento di 0,2 punti rispetto ad agosto, secondo i dati confermati da Eurostat. Il rialzo è trainato dai servizi (+3,2%) e dall’energia, che pur restando in calo (-0,4%), mostra un recupero rispetto al mese precedente. Stabili i beni industriali non energetici (+0,8%), mentre i generi alimentari rallentano al 3%. A livello nazionale, l’inflazione cresce in Germania (2,4%), Francia (1,1%), Italia (1,8%) e Spagna (3%). La BCE esaminerà i dati il 30 ottobre, ma un taglio dei tassi appare al momento improbabile.

La Commissione UE presenta la tabella di marcia sul riarmo: 800 miliardi entro il 2030

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La Commissione Europea ha presentato la “Defence Readiness Roadmap 2030”, un piano quinquennale che mira a trasformare radicalmente l’architettura difensiva dell’Unione attraverso un calendario serrato di implementazione. Il documento si propone, secondo i suoi artefici, di rafforzare la sovranità e la prontezza militare dell’Unione in un contesto geopolitico segnato dall’aggressione russa in Ucraina. La strategia delinea obiettivi concreti e tappe precise per raggiungere la piena prontezza al combattimento entro la fine del decennio. Si apre così la strada a una mobilitazione finanziaria che, a quanto si legge nel documento, potrebbe raggiungere 800 miliardi di euro di spesa aggiuntiva entro il 2030.

Il piano, battezzato “Preserving Peace – Defence Readiness Roadmap 2030”, individua nove settori critici in cui gli Stati membri devono colmare le lacune entro il 2030: difesa aerea e missilistica, tecnologia cyber, artiglieria, mobilità militare, missili, munizioni, combattimento terrestre e sfera marittima. Quattro progetti faro sono stati definiti come prioritari e dovranno essere implementati con massima urgenza: l’ “Osservatorio del fianco orientale” e il “Muro di droni” europeo sono considerati i più urgenti. Come ha affermato Kaja Kallas, Alta rappresentante e vicepresidente della Commissione, «avere difese anti-drone non è più un optional per nessuno: oggi proponiamo un nuovo sistema anti-drone che sarà pienamente operativo entro la fine del 2027». Completano il quadro lo “Scudo aereo” per una protezione integrata contro missili e minacce aeree e lo “Scudo spaziale di difesa”, concepito per garantire la resilienza degli asset spaziali. «Gli europei investiranno fino al 2035 6.800 miliardi di euro; nella difesa vera e propria, il 50%, cioè 3400 miliardi di euro», ha dichiarato il Commissario europeo per la difesa Andrius Kubilius.

La Roadmap stabilisce target rigorosi per gli acquisti: gli Stati membri dovranno organizzare almeno il 40% degli acquisti di difesa come appalti collettivi entro la fine del 2027, raddoppiando il tasso attuale. Entro il 2030, quasi il 60% del budget per gli acquisti dovrà provenire dalla Base Tecnologica e Industriale della Difesa Europea e dall’Ucraina. «Oggi è il giorno dell’azione: la nostra tabella di marcia odierna crea le condizioni per piani, calendari, risultati e indicatori chiari», ha sottolineato Kubilius, aggiungendo che «si tratta di un vero e proprio Big Bang, basato principalmente sulla spesa per la difesa nazionale, che sarà 100 volte superiore a quella dell’Ue».

Il calendario operativo è particolarmente stringente. Entro la prima metà del 2026 dovranno avviarsi tutti i progetti prioritari e formarsi le “coalizioni” di Stati guida. Se la capacità iniziale del muro di droni dovrà essere funzionante entro il 2027, l’orizzonte temporale per la piena operatività dell’Osservatorio del Fianco Orientale si sposta all’anno successivo. Entro marzo 2026 sono previsti i primi pagamenti di prefinanziamento nel quadro SAFE (Security Action for Europe), il meccanismo di prestito che può fornire fino a 150 miliardi di euro garantiti dal bilancio Ue. Il piano vede inoltre l’obiettivo di creare entro la fine del 2027 un’area di mobilità militare a livello europeo, caratterizzata da procedure armonizzate e una rete di corridoi per il trasporto senza ostacoli di truppe ed equipaggiamenti. La Commissione si impegna a presentare un pacchetto completo entro fine anno per identificare questi corridoi entro il primo trimestre 2026. Un ruolo centrale è assegnato all’Ucraina: entro marzo 2026 si intende avviare l’alleanza Ue-Kiev sui droni, mentre entro dicembre dovrebbe completarsi la consegna dei due milioni di munizioni promesse dal ‘piano Kallas’.

Il piano sarà ora sottoposto ai leader dell’Ue per una discussione formale durante il Consiglio europeo in programma la prossima settimana. A inizio ottobre, il vertice informale di Copenaghen, pensato per rinsaldare la coesione europea sulla guerra in Ucraina, aveva messo in luce una serie di importanti fratture tra i Ventisette. Pur rinnovando il sostegno a Kiev, i leader hanno infatti manifestato divergenze su questioni chiave: la proposta del “muro anti-droni” ai confini orientali ha diviso Paesi come Polonia e Stati baltici, favorevoli a un sistema coordinato finanziato dall’UE, e Stati più cauti preoccupati per costi e potenziale militarizzazione permanente delle frontiere. Il clima è stato ulteriormente acceso dall’allerta del Segretario generale della Nato Mark Rutte: «Siamo tutti in pericolo, i più avanzati missili russi potrebbero colpire Roma, Amsterdam o Londra a cinque volte la velocità del suono». Sull’adesione dell’Ucraina, Budapest ha alzato la posta: Viktor Orbán ha ribadito il suo netto «no», proponendo al massimo un accordo strategico e annunciando una petizione del suo partito contro quelli che ha definito «i piani di guerra dell’UE». Da Mosca, Vladimir Putin ha respinto le accuse di intenzioni aggressive, bollandole come propaganda rivolta all’opinione pubblica occidentale.

Nuova telefonata tra Trump e Putin: programmato un incontro a Budapest

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Ha colto di sorpresa diverse cancellerie europee e la stessa Ucraina l’inaspettata conversazione telefonica svoltasi ieri tra il presidente russo Vladimir Putin e quello statunitense Donald Trump, durata quasi due ore e mezza. Al centro dei colloqui la questione della guerra in Ucraina che Trump ha ancora l’intenzione di far cessare quanto prima, nonostante negli ultimi mesi abbia inasprito i toni contro il Cremlino minacciando un maggiore sostegno a Kiev. Nonostante ciò, Trump ha sottolineato l’urgenza di giungere alla pace in Ucraina definendola la sua missione più impegnativa fino ad oggi. A tal fine ha proposto un incontro a Budapest, in Ungheria, con il capo del Cremlino che potrebbe avvenire nelle prossime due settimane. Il consigliere del Cremlino Yury Ushakov ha reso noto che Mosca e Washington inizieranno «senza indugio» i preparativi per un nuovo incontro che potrebbe aver luogo a Budapest, definendolo «un evento davvero significativo». Il presidente statunitense ha definito la conversazione telefonica «produttiva».

Da parte sua, Putin ha «immediatamente sostenuto l’idea» dell’incontro, secondo quanto riportano i media russi, e i due presidenti hanno anche concordato di mantenere contatti regolari. Allo stesso tempo, il capo russo ha sottolineato l’impegno di Mosca a «raggiungere una soluzione politica e diplomatica pacifica» al conflitto, ma non ha mancato di fare un resoconto sulla situazione sul campo avvertendo Trump sulle conseguenze della fornitura di missili all’Ucraina. Secondo media sia russi che occidentali, Putin ha avvertito che l’invio dei missili Tomahawk a Kiev peggiorerebbe le relazioni bilaterali tra USA e Russia, allontanando il processo di pace, e non altererebbero la situazione sul campo di battaglia, dove, secondo il presidente russo, le Forze Armate russe «controllano pienamente l’iniziativa strategica lungo l’intera linea di ingaggio». «Cosa pensate che dirà? Per favore, vendete i Tomahawk?», ha scherzato successivamente Trump con i giornalisti. «No, non vuole», ha aggiunto, definendoli «un’arma feroce». Durante la conversazione telefonica con il suo omologo russo, Trump ha anche affermato che la fine del conflitto in Ucraina aprirebbe «enormi prospettive» di cooperazione economica tra Stati Uniti e Russia. La cooperazione con Mosca è un obiettivo prioritario di Washington anche per incrinare lo stretto partenariato della Russia con la Cina, che è il primo avversario geopolitico e commerciale della potenza a stelle e strisce. Fatte queste considerazioni e vista l’importanza che Trump attribuisce a un accordo di pace tra Russia e Ucraina, sembra improbabile che il presidente americano possa a stretto giro inviare i Tomahawk all’Ucraina.

È significativo il fatto che i governi europei non siano stati informati preventivamente della conversazione, segno di un sostanziale scavalcamento di Bruxelles da parte di Washington, cosa che già si era verificata per l’incontro tenutosi in Alaska tra i due Capi di Stato ad agosto. Bruxelles risulta priva della forza politica, economica e militare per svolgere un ruolo di primo piano nei negoziati diplomatici per chiudere il conflitto tra Mosca e Kiev che ormai si avvia verso il suo quarto anniversario. L’unico capo europeo che ha mantenuto buone relazioni con la Russia è l’ungherese Viktor Orban e non è un caso che i prossimi colloqui tra Trump e Putin si svolgeranno proprio a Budapest. «L’incontro programmato tra i presidenti americano e russo è una grande notizia per i popoli amanti della pace nel mondo», ha dichiarato Orbán su X. L’incontro effettivo tra Trump e Putin si terrà dopo i colloqui, previsti per la prossima settimana, tra i gruppi guidati dal Segretario di Stato americano Marco Rubio e dal Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, in una sede da definire.

Nel frattempo, sono in corso i colloqui di Trump e Zelensky nello Studio Ovale per informare il presidente ucraino dei contenuti della conversazione con Putin: secondo le ultime notizie, l’accoglienza di Zelensky a Washington è stata fredda. All’aeroporto, infatti, non era presente nessun volto di primo piano del governo Trump ad attenderlo. Con ogni probabilità, Zelensky dovrà mettere da parte l’idea di colpire in profondità la Russia con i missili Tomahawk e cominciare a pensare a un processo di pace. Secondo l’agenzia di stampa russa Tass, infatti, Trump dovrebbe tenere conto di tutti i punti sollevati da Putin durante la conversazione telefonica di ieri nel suo incontro di oggi con Zelensky.

Belgorod, attacco ucraino con 120 droni in 24 ore: morti e feriti

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Nelle ultime 24 ore, l’esercito ucraino ha lanciato un massiccio attacco con 120 droni e 11 munizioni contro la regione russa di Belgorod, causando due morti e diversi feriti, secondo quanto riferito dalle autorità locali. Le aree più colpite sono state i distretti di Shebekinsky, Belgorodsky, Valuisky e Graivoronsky, dove numerosi villaggi sono stati presi di mira. Diversi droni sono stati abbattuti, ma gli attacchi hanno distrutto veicoli e colpito civili, tra cui passeggeri di un autobus. I feriti sono stati trasportati all’ospedale cittadino n. 2 di Belgorod per ricevere le cure necessarie.

Mongolia: si dimette il primo ministro

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Il primo ministro mongolo Gombojav Zandanshatar si è dimesso dopo aver perso il sostegno del parlamento del Paese. Il voto sulle dimissioni di Zandanshatar è avvenuto dopo che nel Paese sono scoppiate diverse proteste antigovernative contro la situazione di stagnazione economica. Zandanshatar era primo ministro da soli quattro mesi, ed era finito al centro di indagini per corruzione; era subentrato a Luvsannamsrai Oyun-Erdene, dimessosi per analoghi motivi. Le dimissioni di Zandanshatar arrivano in un contesto di instabilità politica per il Paese, da anni al centro di scandali di corruzione e in crisi economica.

Una bomba ha fatto esplodere l’auto del giornalista Sigfrido Ranucci

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Nella sera di ieri, giovedì 16 ottobre, un ordigno esplosivo ha fatto esplodere le auto del giornalista e conduttore della trasmissione Report Sigfrido Ranucci e di sua figlia. L’esplosione è avvenuta davanti alla casa del giornalista, a Campo Ascolano, frazione del Comune di Pomezia, nella città metropolitana di Roma, senza causare feriti; si è verificata attorno alle 22, quando Ranucci si trovava in casa. L’ordigno è stato posizionato «sotto l’auto parcheggiata del giornalista», e ha causato una esplosione tale che «avrebbe potuto uccidere chi fosse passato lì in quel momento», riportano le pagine social della trasmissione. Sul posto sono arrivati gli agenti della Digos, i carabinieri, gli artificieri e i vigili del fuoco. Le indagini sono ancora in corso, e sono ancora ignoti moventi e responsabili.

In una serie di interviste rilasciate nella notte, Ranucci ha spiegato che l’esplosione si è verificata attorno alle 22, una ventina di minuti dopo che era tornato a casa. L’auto del giornalista era parcheggiata davanti al cancello di casa, e la figlia aveva parcheggiato l’altra automobile di fianco a quella del padre poco prima dell’esplosione. L’auto di Ranucci, si legge nel Corriere, era stata utilizzata l’ultima volta alle 13:20. L’esplosione ha causato ingenti danni a entrambe le vetture e sparso detriti nell’area attorno al cancello. In una intervista alla Rai, Ranucci afferma che la bomba era stata piazzata tra l’automobile e il cancello, e che secondo le prime indagini si sarebbe trattato di un ordigno rudimentale: «Si trattava di un chilo di esplosivo usato per fuochi d’artificio, un ordigno pirotecnico» ha detto il giornalista riportando i primi pareri dei tecnici. Oltre a questo, si sa poco di più: l’esplosione deve avere causato un gran boato e per quanto sembri che sia stata causata da una bomba artigianale, in circostanze diverse non sarebbe stata meno letale.

Le indagini sono in mano alla Procura di Velletri, e sono ancora in corso: Ranucci si è limitato a riferire al Corriere che non esclude collegamenti con le nuove inchieste di Report, annunciate recentemente. Il giornalista ha riportato che l’esplosione è arrivata dopo una serie di minacce ed episodi già denunciati alla Digos e alla Procura di Velletri: negli ultimi mesi gli hanno mandato un proiettile di P38 (la nota pistola semiautomatica di fabbricazione tedesca), è stato pedinato da «personaggi identificati» dalla sua scorta, ed è stato oggetto di dossieraggio, «anche dall’estero». Sigfrido Ranucci è particolarmente noto per essere il conduttore della trasmissione Report, noto programma di inchieste e giornalismo investigativo.

Riserve della biosfera, nuova strategia decennale dà più voce ai popoli indigeni

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L'UNESCO ha approvato il Piano d'Azione Strategico Hangzhou 2026-2035, per definire la nuova rotta globale per la gestione delle sue 759 riserve della biosfera. Il piano mette al centro le conoscenze ecologiche dei popoli indigeni e delle comunità locali, e impegna i governi a rafforzare la conservazione, lo sviluppo sostenibile e la ricerca nelle proprie riserve. Sette dei 34 obiettivi riguardano direttamente i popoli indigeni e le comunità locali, prevedendo consenso libero e informato, riconoscimento dei territori ancestrali e integrazione delle conoscenze tradizionali nella governance. Il ...

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Le condizioni degli ostaggi della “democrazia” israeliana: quello che i media non dicono

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Magrissimi, quasi scheletrici, con segni evidenti di torture sul corpo. Molti sembrano malati, alcuni non possono camminare e vengono trasportati in sedia a rotelle, o a braccia. Negli occhi lo spaesamento di ritrovarsi in mezzo a una folla, la gioia di rivedere le famiglie e gli amici, dopo anni di prigionia, isolamento, torture. Eccoli, i quasi 2000 palestinesi rilasciati, gli ostaggi di cui nessuno parla, mentre i media occidentali raccontano in modo ossessivo ogni dettaglio dei venti ostaggi israeliani riconsegnati a Tel Aviv.

Oltre 1700 di loro erano stati rapiti dalla Striscia di Gaza dopo il 7 ottobre. Presi nei raid israeliani, per strada, nelle case, veri e propri ostaggi di quella che ancora viene definita “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Altri 250 erano invece prigionieri politici, segregati nelle galere israeliane da anni e che avrebbero dovuto restarci tutta la vita o comunque decenni. Gli abusi, le torture, l’assenza di cure e di condizioni di vita basiche sono state provate da decine di ONG internazionali, e si leggono da sole sul volto degli uomini rilasciati grazie all’accordo di pace tra Hamas e il governo Netanyahu.

Ma ai media nazionali e internazionali gli ostaggi palestinesi interessano poco. Tv e giornali si sono focalizzati sui 20 ostaggi israeliani liberati; ci hanno raccontato le loro storie, le loro vite. Conosciamo i loro nomi, le loro età, se avevano figli, sogni, un lavoro. Ci stanno descrivendo le dure condizioni di vita di questi mesi di prigionia, cercando ancora una volta di collocare il torto e la disumanità dalla parte palestinese, dimenticando, troppo spesso, il contesto in cui quelle detenzioni sono avvenute. E cancellando completamente le sofferenze degli ostaggi palestinesi, prigionieri – spesso detenuti senza processo né capi d’accusa – nelle galere israeliane.

I tg seguono la consegna degli ostaggi israeliani in diretta, e giornali come il Fatto Quotidiano titolano: “Due anni sottoterra, legati, malnutriti, operati senza anestesia”.  Parlano di vite di ostaggi “legate dal filo, sottile e fortuito, della sopravvivenza,” dimenticando, forse, che Gaza era un territorio che non ha avuto un attimo di pace dalle bombe per due anni. Dimenticando gli almeno 67mila morti, i bombardamenti a tappeto di case, tende, ospedali, scuole. Parlano di ostaggi lasciati senza cibo, affamati, e non ricordano le centinaia di persone, tra cui molti bambini e anziani deceduti o in condizioni critiche per la mancanza di cibo dato il blocco totale degli aiuti umanitari, in un territorio dove la fame è stata usata come arma. Parlano di persone operate senza anestesia ma non sottolineano che a Gaza in questi due anni essere operati era già un privilegio, data la distruzione sistematica da parte di Israele degli ospedali e l’impossibilità di far arrivare cure. Non dicono niente sui bambini che hanno subito amputazioni agli arti senza anestesia, sulle centinaia di persone morte per l’assenza di medicine voluta da Tel Aviv nella Striscia. Sull’utilizzo della fame per uccidere anche durante la distribuzione degli aiuti.

E in pochi parlano delle condizioni in cui sono usciti gli ostaggi palestinesi. I prigionieri della “democrazia”.

Nelle testimonianze che stanno venendo raccolte, la maggior parte dei prigionieri palestinesi rilasciati riporta dure sofferenze nelle prigioni israeliane. Fame, malattie, botte, e assenza di cure erano armi usate sistematicamente e volontariamente nelle celle di Tel Aviv. L’isolamento, le umiliazioni, così come torture psicologiche e fisiche, alcuni degli strumenti principe dei carcerieri israeliani. Molti riportano l’impossibilità di comunicare con i propri cari e i propri avvocati da anni, e le condizioni di vita estremamente dure, che hanno portato i detenuti a perdere decine di chili e ad ammalarsi. Ma anche stupri: come già testimoniato da ex-prigionieri di numerose strutture detentive sioniste, anche lo stupro – tramite bastoni o cani da guardia – è stata un arma utilizzata. Come se non bastasse, 154 di loro, dopo decenni in prigione, sono condannati all’esilio: non potranno restare con le loro famiglie a Gaza o in Cisgiordania, ma non costretti a emigrare in paesi terzi. A molte famiglie è stato anche negato il permesso di viaggio per andare ad accoglierli in Egitto, così come a tutte le famiglie dei prigionieri liberati a Ramallah è stata vietata ogni forma di festeggiamento. Non una novità, visto che già ad agosto 2024 era uscito un approfondito rapporto, tra l’altro redatto dall’organizzazione umanitaria israeliana B’Tselem, che dettagliava come quella descritta sia la condizione detentiva ordinaria per i palestinesi nelle carceri israeliane. Torture “democratiche” che in passato sono state anche dimostrate attraverso dei video.

Secondo Addameer, un’organizzazione palestinese per i diritti umani che tiene traccia dei prigionieri politici, il numero di persone imprigionate da Israele è aumentato da 5.200 a 11.100 dal 7 ottobre 2023. In questi due anni sono almeno 78 i morti nelle carceri israeliane: morti oscure, morti per botte, torture, assenza di cure, ma di cui di nuovo, nessuno parla. La maggior parte di quei cadaveri risiede ancora in mano israeliana.

Non si parla nemmeno dei corpi dei 90 palestinesi uccisi che sono stati restituiti e che sono arrivati all’ospedale di Nasser martedì e mercoledì. «Ci sono segni di tortura ed esecuzioni», ha affermato Sameh Hamad, membro di una commissione incaricata di ricevere i corpi all’ospedale Nasser ad Al Jazeera. I corpi appartenevano a uomini di età compresa tra i 25 e i 70 anni. La maggior parte aveva delle fasce intorno al collo, compreso uno che aveva legata una corda. La maggior parte dei corpi indossava abiti civili, ma alcuni indossavano uniformi, il che suggerisce che fossero combattenti palestinesi. «Quasi tutti avevano gli occhi bendati, erano stati legati e avevano ricevuto colpi di pistola tra gli occhi. Quasi tutti erano stati giustiziati», ha detto il dottor Ahmed al-Farra, capo del reparto pediatrico dell’ospedale Nasser, secondo quanto riporta The Guardian. «C’erano cicatrici e macchie di pelle scolorita che dimostravano che erano stati picchiati prima di essere uccisi. C’erano anche segni che indicavano che i loro corpi erano stati maltrattati dopo la morte».