giovedì 30 Ottobre 2025
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ENI contro Greenpeace e ReCommon, al via il processo per diffamazione

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Ieri, martedì 23 settembre, a Roma, è iniziato il processo per diffamazione intentato da ENI contro Greenpeace Italia, Greenpeace Paesi Bassi e ReCommon. La multinazionale accusa le organizzazioni di aver promosso una «campagna d’odio», ma queste denunciano l’azione come una causa temeraria volta a intimidire chi critica l’azienda e il suo ruolo nella crisi climatica. La coalizione europea CASE ha già certificato il procedimento come tale. ENI è accusata di distogliere l’attenzione dalla “Giusta Causa” avviata nel 2023 per denunciare le responsabilità del Cane a Sei Zampe nell’attuale crisi climatica. Greenpeace e ReCommon promettono di continuare la denuncia pubblica.

Riconoscere la Palestina senza riconoscerla: Meloni annuncia la mozione farsa

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Dopo che undici Paesi hanno annunciato il loro riconoscimento formale allo Stato di Palestina, la premier italiana Giorgia Meloni ha presentato le proprie «condizioni» perché l’Italia faccia lo stesso: «Il rilascio degli ostaggi e l’esclusione di Hamas da qualsiasi dinamica di governo all’interno della Palestina». La dichiarazione è stata rilasciata durante un punto stampa davanti alla sede delle Nazioni Unite, a New York, in cui Meloni ha annunciato che la maggioranza presenterà una mozione alla Camera per riconoscere la Palestina sotto tali condizioni. «Dobbiamo capire quali sono le priorità», ha detto Meloni: «È Hamas che ha iniziato questa guerra ed è Hamas che impedisce che questa guerra finisca», ha continuato, spostando le responsabilità del genocidio sull’organizzazione palestinese. Una posizione per riconoscere la Palestina senza farlo davvero, che, di fatto, comporta il mantenimento della situazione così come è, e permette a Israele di continuare indisturbata a massacrare i civili palestinesi senza che l’Italia alzi un dito per fermarla.

L’annuncio di Meloni è stato rilasciato ieri ai giornalisti presenti davanti al palazzo di vetro. Rispondendo a una domanda sul riconoscimento della Palestina annunciato tra gli altri da Canada, Francia e Regno Unito – tre Paesi del G7 – Meloni ha ribadito le proprie posizioni secondo cui «il riconoscimento della Palestina in assenza di uno Stato che abbia i requisiti della sovranità non risolve il problema e non produce risultati tangibili e concreti per i palestinesi», senza menzionare il fatto che se la Palestina non possiede «i requisiti della sovranità» è perché Israele glielo impedisce da decenni. Secondo il diritto internazionale, infatti, i requisiti fondamentali perché uno Stato possa dirsi sovrano sono tre: una popolazione permanente, un territorio definito e un governo che abbia potere su quel territorio in maniera indipendente; sin dalla sua fondazione, Israele caccia la popolazione dalle proprie case, occupa il territorio palestinese e impedisce all’amministrazione di esercitare i propri poteri.

Meloni ha poi discusso degli annunci di riconoscimento della Palestina come «strumento di pressione politica», affermando che, quando si tratta di pressione, «dobbiamo anche capire su chi» essa vada esercitata: «Io penso che la principale pressione politica vada fatta nei confronti di Hamas», ha detto, «perché è Hamas che ha iniziato questa guerra ed è Hamas che impedisce che questa guerra finisca rifiutandosi di consegnare gli ostaggi». Ancora una volta, la premier ha ignorato non solo tutto quello che ha preceduto il 7 ottobre, ma anche il fatto che Hamas ha più volte proposto di riconsegnare gli ostaggi in cambio della fine della guerra, e che Israele si è sempre rifiutata di accettare le condizioni del gruppo palestinese. L’ultima volta è stata appena due mesi fa. Il riconoscimento della Palestina, ha continuato la premier, deve avvenire secondo le giuste priorità; e la priorità, a quanto pare, non è impedire allo Stato di Israele di uccidere i civili palestinesi, ma smantellare Hamas. Alle dichiarazioni di Meloni hanno fatto eco quelle del ministro degli Esteri Tajani, che ha affermato che la maggioranza presenterà la propria mozione alla Camera il prossimo giovedì.

La posizione del governo, insomma, è quella di non fare niente. Esercitare pressione su Hamas invece che sullo Stato ebraico permette di fatto a Israele di continuare a bombardare i civili palestinesi senza temere ripercussioni. Inoltre, se anche Hamas rilasciasse gli ostaggi e se ne andasse dalla Striscia la situazione non cambierebbe, visto che ha accettato di farlo più di una volta. Da mesi, infatti, le autorità israeliane sono piuttosto chiare nel manifestare le proprie intenzioni: «L’intera Gaza sarà ebraica. Il governo sta spingendo affinché Gaza venga cancellata. Grazie a Dio, stiamo estirpando questo male» ha dichiarato il ministro israeliano ultranazionalista Amihai Ben-Eliyahu. L’ultimo piano militare approvato dal gabinetto di sicurezza israeliano, prevede l’occupazione totale di Gaza City, lo sfollamento della popolazione in aree sempre più prossime al confine meridionale, e l’implementazione graduale del piano di Trump per Gaza, di cui è recentemente trapelata una bozza.

ONU, BRICS, antifascisti e paracetamolo: Trump delinea i suoi prossimi obiettivi

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All’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Donald Trump ha tracciato la rotta del suo secondo mandato con un intervento che ha trasformato il consesso internazionale in un palcoscenico per delineare i suoi prossimi obiettivi, attaccare gli avversari politici e demolire la logica stessa della cooperazione multilaterale. A New York ha invocato la sovranità nazionale e bollato il globalismo che «ha alimentato conflitti e caos senza fine in tutto il mondo», come una cospirazione che strangola le stesse nazioni industrializzate che lo hanno teorizzato. In un discorso di quasi un’ora, contro i 15 concessi a ogni capo di Stato, il tycoon ha accusato l’ONU di essere complice di una burocrazia che tradisce i popoli e ha suggerito ai leader mondiali di usare la sua ricetta MAGA per «rendere i loro Paesi di nuovo grandi». Il globalismo, secondo Trump, smantella la sovranità degli Stati, sostituendo il governo del popolo con regole sovranazionali che opprimono le nazioni industrializzate. Il presidente americano ha respinto le pressioni sul “cambiamento climatico” definito «la più grande truffa mai perpetrata» e definendo “ipocrita” l’Europa per le sue politiche ambientali. Ha poi rilanciato la linea inflessibile sull’Iran, a cui non deve essere permesso di possedere armi nucleari, e sull’Ucraina, imponendo che Kiev riconquisti i territori occupati e attribuendo la colpa esclusiva a Mosca: un modo per “lavarsi le mani” della guerra e scaricare la responsabilità del destino di Kiev agli alleati europei, limitandosi a invitare i Paesi NATO ad «abbattere i jet russi sui loro cieli». Anche sul conflitto a Gaza il presidente ha preferito la logica dello scontro, difendendo l’unilateralismo statunitense e rifiutando compromessi multilaterali.

Così l’Assemblea si è trasformata in un ring: ogni dichiarazione è servita a erigere muri ideologici e a rafforzare l’immagine di un’America isolata, ma “pura” nella difesa della propria sovranità. L’obiettivo strategico è impedire ogni sfida all’egemonia americana, non solo a parole ma anche a colpi di dazi e minacce di sanzioni: i BRICS – Russia, Cina, India e Brasile – vengono indicati da mesi come il fulcro di un progetto per ribaltare l’ordine mondiale, un “nuovo sistema” capace di minare la stabilità internazionale. Proprio Cina e India sono stata bollate nel consesso all’ONU come “finanziatrici” di Mosca, implicando una responsabilità strategica nel conflitto russo-ucraino. Durante il suo discorso, Trump ha anche associato il globalismo a fenomeni che considera nocivi: flussi migratori non regolamentati, ingerenze in politiche nazionali tramite organismi internazionali e una serie di vincoli ambientali e regolatori imposti da agenzie multilaterali che, a suo dire, limitano la crescita e l’autonomia dei Paesi. Descrivendo la crisi dell’“immigrazione incontrollata”, definita come «la principale questione politica dei nostri tempi», come il risultato del «fallito esperimento dei confini aperti» al quale bisogna «mettere fine ora», il presidente ha puntato il dito contro l’ONU, responsabile a suo avviso di favorire politiche migratorie che mettono in pericolo i Paesi occidentali.

La strategia trumpiana non si limita al fronte estero e nemmeno ai punti delineati a New York. Alla vigilia del discorso all’ONU, la Casa Bianca ha diffuso un ordine esecutivo che designa “Antifa” come organizzazione terroristica interna. Il provvedimento, nato sull’onda emotiva dell’omicidio Kirk, è di fatto un tentativo di instaurare una nuova stagione di maccartismo: “Antifa” non è un’entità strutturata, ma un’etichetta generica utile a colpire oppositori, movimenti sociali e contestazione politica. Parallelamente, proprio in questi giorni, la Casa Bianca ha rafforzato la pressione sulla stampa – con divieti e restrizioni già imposti a Pentagono e istituzioni federali – e ha intensificato l’offensiva contro la libertà accademica, usando come pretesto il contrasto all’antisemitismo nei campus. In questo quadro, il presidente costruisce un nemico interno da affiancare, a seconda delle occasioni, a quello esterno, così da presentarsi come il difensore della nazione sotto assedio e giustificare la censura preventiva della stampa e il silenziamento dei “nemici”. L’obiettivo politico è duplice: mobilitare la base conservatrice alimentando paure e divisioni, screditare e imbavagliare ogni forma di dissenso, ricodificandolo come un pericolo per la “sicurezza nazionale”. In questo modo, l’agenda securitaria diventa una clava da brandire tanto contro i BRICS quanto contro studenti, docenti, giornalisti o migranti. Dietro tutto questo non c’è solo la risposta all’omicidio di Charlie Kirk: c’è una strategia politica coerente con il programma MAGA e con il “Project 2025”, che molti commentatori individuano come il programma ideologico di governo reazionario della Heritage Foundation e degli ambienti conservatori attorno a Trump.

Ancora alla vigilia dell’Assemblea ONU, la Casa Bianca ha organizzato una conferenza stampa in cui il presidente americano ha annunciato che la Food and Drug Administration (FDA) avvierà una revisione sull’uso del paracetamolo in gravidanza e comunicherà ai medici americani che il Tylenol – un farmaco americano a base di paracetamolo (o acetaminofene), come la Tachipirina – può causare l’autismo nei bambini se assunto dalle donne incinte. Una notizia che era stata anticipata nei giorni scorsi dal Washington Post. Mentre sul piano internazionale Trump accusa l’ONU di complottare contro gli Stati sovrani, sul piano interno si appropria di teorie alternative in campo scientifico per mostrarsi “anti-sistema”, affiancando Robert Kennedy jr. nella sua crociata contro Big Pharma. Così, mentre annuncia che l’Ucraina deve riconquistare i territori e insiste con le sue invettive contro il globalismo, il tycoon trova anche il modo di strizzare l’occhio alla base MAGA, sul piede di guerra negli ultimi mesi per l’insabbiamento del caso Epstein. La miscela di geopolitica aggressiva e populismo sanitario rivela la coerenza di un disegno che si fonda sempre sulla costruzione di un nemico e di una minaccia: che si tratti dei BRICS, dei migranti, degli antifascisti, dell’Iran, della stampa o di un farmaco da banco, l’importante è alimentare la “percezione” di un’America sotto assedio, che grazie al suo presidente in pochi mesi sta vivendo una «età dell’oro», a cui si contrappone un’Europa invece «in grossi guai» con l’invasione dei migranti che «arrivano a frotte».

Dei droni hanno attaccato la Global Sumud Flotilla lanciando bombe assordanti

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Nella notte tra il 23 e il 24 settembre la Global Sumud Flotilla, la spedizione internazionale composta da oltre cinquanta imbarcazioni partite da diversi porti del Mediterraneo che trasporta attivisti e aiuti umanitari diretti a Gaza, è stata attaccata da una serie di droni che avrebbero sganciato bombe assordanti, oggetti non identificati e spray urticanti nelle acque internazionali a sud dell’isola di Creta. Secondo i resoconti diffusi dagli organizzatori, almeno tredici episodi esplosivi si sarebbero verificati nell’arco della notte, con momenti di particolare intensità dopo l’una e quarantacinque. Le esplosioni hanno generato lampi e boati che hanno seminato il panico tra i passeggeri e provocato danni a più imbarcazioni: la Zefiro ha subito la distruzione dello strallo di prua, mentre la Morgana ha riportato gravi problemi alla vela principale. Non ci sono stati feriti, ma le comunicazioni radio sono state interrotte e i sistemi di bordo danneggiati, rendendo più difficile mantenere la rotta verso la Striscia. Gli organizzatori avvertono che la situazione rappresenta il culmine di una campagna di intimidazioni già registrata lungo la traversata del Mediterraneo da parte di Israele, accusato di screditare e mettere in pericolo i più di 500 civili disarmati impegnati nella missione umanitaria.

Maria Elena Delia, portavoce italiana della missione che viaggiava sulla Morgana, ha parlato di “violazione gravissima” e denunciato che “le comunicazioni sono state bloccate”, avvertendo che la vita dei partecipanti è stata messa a rischio. Il messaggio della portavoce è stato condiviso da diverse ONG e attivisti coinvolti nella spedizione, che sottolineano come le azioni subite violino “ogni principio del diritto marittimo internazionale”. Nei video diffusi si vedono lampi e si odono esplosioni isolate al largo, mentre le navi cercano di mantenere la rotta verso Gaza. Tra le imbarcazioni colpite figura anche la cosiddetta Family Boat, una delle principali della Flotilla, che trasportava membri del Comitato direttivo della missione e batteva bandiera portoghese. Le accuse si sono concentrate sull’ipotesi di un coinvolgimento israeliano, anche se nessuna autorità ha finora rivendicato l’operazione e non ci sono conferme indipendenti sull’origine dei droni. Dal governo italiano è arrivata una prima reazione attraverso il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha chiesto chiarimenti e garanzie per la sicurezza dei cittadini italiani a bordo. La Farnesina segue l’evolversi della situazione e ha attivato i canali diplomatici. Da parte degli organizzatori l’attacco è stato definito un atto di guerra contro civili disarmati, un crimine da sottoporre alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale. La GSF chiede agli Stati membri dell’ONU di garantire protezione immediata alle imbarcazioni, con scorte marittime, osservatori diplomatici e misure di sicurezza, e invita l’Assemblea Generale ad affrontare il tema con una risoluzione urgente.

La Global Sumud Flotilla è partita a fine agosto da diversi porti mediterranei, tra cui Barcellona, Genova, Tunisi e Catania. Riunisce decine di imbarcazioni e centinaia di volontari provenienti da oltre quaranta Paesi con l’obiettivo dichiarato di rompere l’assedio imposto a Gaza e portare sostegno materiale e politico alla popolazione palestinese. Già lungo la rotta le navi avevano denunciato episodi di sorveglianza da parte di droni, manovre di disturbo e tentativi di sabotaggio. L’attacco della scorsa notte rappresenta un salto di qualità, trasformando un’iniziativa umanitaria in un bersaglio militare di fatto. Il ricorso a bombe sonore e all’impiego sistematico di droni ha un valore intimidatorio evidente, ma non meno rilevante è il profilo politico: la missione intende portare la questione di Gaza al centro del dibattito internazionale e l’aggressione potrebbe avere l’effetto opposto a quello sperato da chi l’ha ordinata, accendendo i riflettori sulla determinazione dei volontari. Gli attivisti, infatti, ribadiscono la loro intenzione di non arretrare: «Gli atti di aggressione volti a intimidire e ostacolare la nostra missione non ci scoraggeranno. La nostra missione pacifica per rompere l’assedio su Gaza e stare in solidarietà con la sua popolazione continua con determinazione e risolutezza». All’alba, nonostante i danni e lo shock, la Flotilla ha annunciato di proseguire la rotta. La traversata verso la Striscia si conferma così non solo un atto di solidarietà, ma una sfida aperta alle logiche dell’assedio e della guerra.

Tifone Ragasa devasta Taiwan: almeno 14 morti e 124 dispersi

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Il super tifone Ragasa ha flagellato l’isola di Taiwan con piogge torrenziali e venti devastanti, provocando finora 14 vittime, 18 feriti e 124 dispersi, secondo le autorità locali. Nella contea orientale di Hualien, la rottura di una vecchia barriera lacustre ha scatenato inondazioni che hanno travolto infrastrutture, distruggendo un ponte e sommergendo interi quartieri della cittadina di Guangfu. Circa 100 persone risultano intrappolate e le squadre di soccorso sono al lavoro per accedere alle zone isolate. Le operazioni sono rese difficili da strade logisticamente compromesse e dal perdurare delle precipitazioni. Il tifone ha colpito lunedì con piogge torrenziali le Filippine settentrionali e Taiwan, costringendo migliaia di persone a evacuare.

L’Australia inaugurerà una nuova importante riserva marina

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protezione fauna marina

Il Golfo di Exmouth,  uno dei sistemi marini più ricchi del pianeta situato nella parte occidentale dell’Australia, diventerà presto un’area protetta. Lo ha annunciato il governo dell’Australia Occidentale, che ha deciso di istituire un parco marino esteso a tutto il golfo, in risposta alle raccomandazioni della Taskforce locale e alla crescente pressione ambientale che interessa la zona. Si tratta di un’area di circa 2.600 chilometri quadrati, strettamente collegata alla barriera corallina di Ningaloo, patrimonio mondiale dell’UNESCO. Qui si incontrano praterie sommerse, mangrovie, aree ripar...

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Maltempo anche in Campania: a Ischia nubifragi e allagamenti

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Un violento nubifragio ha colpito Ischia, causando allagamenti diffusi, auto sommerse e gravi disagi. In un’ora, a Casamicciola sono caduti 76 millimetri di pioggia, un quantitativo simile a quello che precedette la frana del 2022. A Ischia Porto la pioggia ha invaso la scuola dell’infanzia Marconi, costringendo all’evacuazione dei bambini, e allagato diverse aule del liceo Buchner. Strade, abitazioni e uffici comunali sono stati invasi dall’acqua in vari comuni, spingendo il sindaco di Forio a chiudere uffici e impianti pubblici. Disagi, seppur minori, anche a Procida. Squadre di soccorso sono ancora al lavoro.

Roma rompe la collaborazione con Mekorot, l’azienda israeliana che ruba l’acqua ai palestinesi

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Il 18 settembre il Consiglio Comunale di Roma ha approvato una mozione inaspettata. In appena due righe si è sancito il più grande atto di boicottaggio istituzionale che si è visto in Italia ai danni dello Stato di Israele dall’inizio del genocidio in corso: la rottura della collaborazione tra l’azienda municipalizzata dell’acqua, Acea, e Mekorot, l’azienda israeliana complice dell’apartheid idrico in Palestina. 

Tra le due società era in vigore un accordo dal 2013 che riguarda uno scambio di conoscenze nel settore delle risorse idriche, con possibilità di scambio di expertise specifiche  e sperimentazione di tecnologie, in quello che viene definito un Memorandum of Understanding (MoU). L’Assemblea capitolina ha votato a maggioranza la cessazione di questo accordo e quindi Acea, che è controllata al 51% da Roma Capitale, ha ricevuto mandato di interrompere immediatamente la partnership. 

I dettagli dell’accordo in vigore tra Acea Spa e Mekorot Water Company Ltp e il valore economico della collaborazione non sono mai stati resi pubblici ma solo citati in un documento ufficiale e in passato i tentativi di accesso agli atti effettuati da alcuni consiglieri municipali della città sono caduti nel vuoto. Quello che è noto è invece l’azione di Mekorot sulla vita dei palestinesi. L’azienda israeliana, società a totale monopolio ministeriale israeliano, è infatti uno strumento di pressione bellica e di controllo sociale sulla vita di migliaia di palestinesi, basti sapere che già dal 1967 una combinazione di controllo regolatorio, permessi e gestione centralizzata ha consolidato quello che molte analisi definiscono «colonialismo idrico» evoluto in un regime di apartheid come denuncia anche l’ultimo rapporto di Francesca Albanese Dall’economia di occupazione, all’economia di genocidio.

Israele detiene le leve principali su estrazione, stoccaggio e distribuzione delle risorse idriche tanto nelle città israeliane quanto negli insediamenti nei Territori palestinesi occupati, condizionando quotidianità, sviluppo e salute delle comunità palestinesi. L’insicurezza idrica in cui vivono i gazawi è testimoniata da tempo e già nel 2018, in un rapporto di Rand Corporation, (tra l’altro Think Thank statunitense finanziato dallo stesso Dipartimento della Difesa) si è affermato come tra le principali cause di mortalità infantile nella Striscia vi erano le malattie causate dall’inquinamento idrico. Ma è la divulgazione di un report, appartenente a un gruppo di ricerca indipendente chiamato Zenobia, il giorno prima della liberazione, a generare la spinta propulsiva per un’azione concreta. 

Dai simbolismi alle azioni concrete

Insediamento israeliano visto dal villaggio di Umm al Kheir, Credits Lorenzo Ianiro

I precursori della mozione, appartenenti alla lista civica territoriale Aurelio in Comune, si erano sollevati in un consiglio municipale della Capitale, nel XIII Municipio, già appena pochi mesi dopo il 7 ottobre 2023, seguiti da Roma Futura e SCE  nei Municipi XV e VIII.  Un gesto che ha fatto seguito a un’inchiesta avviata da un collettivo indipendente, progetto Zenobia, che ha dato i suoi frutti alla fine dell’estate del 2025.

Dopo una spinta del Movimento 5 Stelle a inizio estate, con una mozione urgente che proponeva diverse azioni di solidarietà e scelte operative (tra cui l’esposizione della bandiera Palestinese in Campidoglio e la sospensione della collaborazione con le aziende israeliane coinvolte nell’occupazione), e a seguito di un’ulteriore mozione depositata da SCE, che chiedeva espressamente l’interruzione dei rapporti Acea-Mekorot e Teva-Farmacap, tra astensioni e rinvii, lo scorso 18 settembre dal Campidoglio è stata approvata una proposta omnibus, a prima firma della capogruppo del PD Baglio, che prevede tre operazioni:

Con oggetto. «Mozione Ex. Art. 58 Impegno per la Pace, i diritti umani e la soluzione dei due Stati nel conflitto Israele – Palestina, alla luce delle recenti iniziative ONU della Flotilla e dell’offensiva su Gaza City» si richiede al Sindaco e alla Giunta:

  • Di impegnarsi per il riconoscimento dello Stato Palestinese;
  • L’esposizione della bandiera Palestinese fuori dal Campidoglio;
  • «Ad adottare, infine,» e cito testualmente nelle poche righe che chiudono la mozione «ogni utile iniziativa finalizzata a non dare seguito al Memorandum stipulato nel 2013 tra Acea Spa e Mekorot Water Company Ltd fino al superamento della drammatica crisi».

Per la prima volta la mozione vede tutti e tutte d’accordo con 31 favorevoli e un astenuto di Fratelli D’Italia.

Un’accelerazione che nasce dal basso e fuori le aule del Campidoglio. All’alba dell’approvazione della mozione dove la bandiera sembra aver preso il primo piano nella discussione mediatica, dall’altra parte della città, in una fattoria metropolitana e durante una festa di quartiere promossa dalla lista civica Aurelio in Comune nel XIII municipio, era in corso un dibattito intitolato Roma contro il Genocidio. Due giovani attivisti del collettivo Zenobia presentavano un dossier inedito a testimonianza dell’urgenza della mozione Acea – Mekorot intitolato Colonialismo idrico. Le complicità di Acea con il sistema israeliano di controllo dell’acqua.

Questo documento ora pubblico, frutto di due anni di lavoro dal basso e realizzato sul campo in collaborazione con importanti ONG palestinesi è diventato uno strumento per esortare i Consiglieri Comunali presenti al dibattito, rispettivamente Ferdinando Bonessio di Europa Verde e Alessandro Luparelli di SCE, a compiere un atto politico dai risvolti economici per agire in modo concreto contro l’impunità sionista: chiedere una mozione condivisa per interrompere la collaborazione tra Acea a Mekorot. Lo stesso strumento utilizzato due anni prima dal collettivo per spingere ad approvare analoghe mozioni nei Municipi è così servito a fare pressioni per tradurre la battaglia in Aula Giulio Cesare.

Impianto di estrazione di minerali nei pressi della colonia di Mishor Adumim. Credits Lorenzo Ianiro

Zenobia è un collettivo nato da alcuni under 30 tra i quali Iacopo Smeriglio, portavoce di GazaFreestyle e Lorenzo Ianiro, consigliere del XIII Municipio e attivista per l’area MENA. Il rapporto si basa sul lavoro di inchiesta portato avanti sul campo da Al Haq, la prima ONG palestinese per la difesa dei diritti umani. Con uno status consultivo speciale presso il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, la ONG, che ogni anno promuove anche una scuola di diritto sul campo aperta a tutti e tutte per dare massima diffusione alle violazioni subite dai civili palestinesi, lo scorso 5 settembre è stata sanzionata dagli Stati Uniti per aver collaborato all’istruzione delle indagini della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra condotti da esponenti del Governo Israeliano. 

Il documento fa leva sui rischi che corre Acea nel collaborare con una società direttamente coinvolta nell’infrastruttura coloniale in Cisgiordania, come dimostra la presenza di esponenti di Mekorot nel think tank deputato alla redazione dell’ultimo Masterplan per l’espansione delle colonie in Cisgiordania nel 2020. Rischi, dunque, etici, reputazionali ma anche legali, vista l’aperta violazione che gli insediamenti illegali rappresentano nei termini del diritto internazionale istituito con la IV Convenzione di Ginevra.

Il logo del progetto Zenobia sulla maglia di un educatore palestinese intento a riparare una cisterna dell’acqua. Credits Lorenzo Ianiro

Un’indagine su cui i due attivisti hanno continuato a dare battaglia negli anni, raccogliendo il testimone dai movimenti per l’acqua pubblica e dal Comitato contro l’accordo Acea-Mekorot sorto nel 2013, contribuendo a portare in Campidoglio la vertenza.

«Nessuna illusione» – dichiarano gli attivisti del progetto Zenobia in un comunicato – «sappiamo che gran parte di questo spazio è dettato da opportunismo legato al consenso, ma, come a Roma, è il caso di coglierne il valore tattico e realizzare avanzamenti che rimarranno effettivi anche quando l’attenzione della politica istituzionale tornerà a concentrarsi altrove. C’è voluto un allineamento fortunato per rompere quel blocco granitico che solitamente si compatta a difesa degli interessi israeliani. La battaglia non è finita, ma l’atto approvato in Assemblea Capitolina è decisivo e dovrà essere fatto rispettare ad Acea, di cui il 51% di quote societarie sono detenute dal Comune di Roma, che ne nomina la maggioranza dei membri del Consiglio di Amministrazione. La partita, dunque, si sposta dentro ad Acea, e può finalmente servirsi di una leva politica importante e vincolante».

San Marino ha riconosciuto lo Stato di Palestina

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Dopo gli annunci di Canada, Francia, Regno Unito e altri sette Paesi, anche la Repubblica di San Marino ha annunciato il proprio riconoscimento formale allo Stato di Palestina. L’annuncio di San Marino arriva in occasione di una seduta del Congresso di Stato, nella quale la Repubblica del Monte Titano ha riconosciuto la Palestina «quale Stato sovrano e indipendente, entro i confini internazionalmente riconosciuti e nel rispetto delle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite». Sabato, il ministro degli Esteri del Paese riferirà la scelta presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e comunicherà il riconoscimento alle autorità palestinesi.

A Napoli i ritardi processuali hanno rimesso in libertà i vertici di un clan della camorra

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Sono accusati di essere a capo di uno dei più potenti clan di Camorra, ma a causa della lentezza del processo che li riguarda e la decorrenza dei termini di custodia cautelare sono a piede libero. È la storia che riguarda i 15 imputati al processo contro la famiglia Moccia, su cui ha messo il timbro il Tribunale del Riesame di Napoli, respingendo l’appello dei pm. Tra gli scarcerati ci sono anche i fratelli Antonio, Luigi e Gennaro Moccia, che secondo la Procura siederebbero ai vertici del clan di Afragola. Il processo, avviato nel 2022 con 48 imputati, ha accumulato lunghi ritardi: questioni di competenza territoriale, sospensioni e oltre 60 udienze hanno impedito di arrivare a una sentenza nei tre anni previsti dalla custodia cautelare. Il dibattimento proseguirà dunque con i suoi più importanti protagonisti in libertà.

In seguito al rinvio a giudizio del luglio 2022, il procedimento contro il clan Moccia, inizialmente assegnato al tribunale di Aversa, è stato trasferito a Napoli per incompetenza territoriale nel gennaio 2023. Da allora, il processo è progredito lentamente presso la settima sezione penale napoletana, con decine di udienze celebrate e un enorme volume di atti da esaminare. Il nodo cruciale riguarda il computo della durata della custodia cautelare, già sospesa a giugno 2023. La difesa ha sollevato la questione della sua scadenza, sostenendo che il termine massimo di tre anni sia scaduto il 25 luglio 2024, calcolato a partire dal decreto di giudizio immediato. La sesta sezione penale, competente per il periodo feriale, ha accolto questa tesi in due provvedimenti, ritenendo il tetto dei tre anni «insuperabile».

La Procura ha impugnato la decisione, avanzando un’interpretazione differente: il termine dovrebbe decorrere non dalla data iniziale, ma dal successivo trasferimento degli atti a Napoli (gennaio 2023), il che posticiperebbe la scadenza al 2026. Tuttavia, il Tribunale del Riesame ha respinto questo ricorso. Alcuni imputati restano sottoposti a misure restrittive come il divieto di dimora in Campania e Lazio, aree ritenute cruciali per gli affari del clan. In attesa delle motivazioni formali, la Procura sta ora valutando di presentare un ricorso alla Corte di Cassazione. Nel frattempo, il collegio della settima sezione penale, nell’udienza del 16 settembre, ha stabilito di celebrare quattro udienze a settimana per i prossimi due mesi – 32 udienze in 60 giorni – per evitare ulteriori cambi di collegio dopo il trasferimento del giudice Michele Ciambellini alla Procura generale della Cassazione.

Il clan Moccia è descritto come un’élite della camorra, una dinastia criminale potentissima le cui radici risalgono agli anni ’70. A differenza dei clan dediti a una violenza plateale, i Moccia hanno evoluto il loro potere, basandolo non sulla ferocia (pur avendo alle spalle una lunga e sanguinosa faida familiare) ma su un’enorme disponibilità di capitali liquidi e sulla capacità di infiltrare l’economia legale. La loro forza risiede in una solida struttura familiare: non sono un semplice clan, ma una confederazione camorristica con un vastissimo territorio di influenza che si estende dalla cintura nord di Napoli fino a Roma, dove riciclano capitali in attività di lusso. Sono specializzati in settori ad alto reddito come gli appalti pubblici a livello nazionale e, come dimostra l’inchiesta “Petrol-mafie Spa”, nel business dei carburanti, dove hanno costruito un impero economico basato su frodi fiscali.

Non è la prima volta che mafiosi di calibro riescono a uscire di galera per decorrenza dei termini. Nell’ottobre del 2024 era toccato a Giuseppe Corona, 56 anni, noto come “il re delle scommesse” di Palermo, condannato in appello a 15 anni e 2 mesi per riciclaggio e intestazione fittizia. Era stato arrestato sette anni fa e ritenuto parte del vertice dei mandamenti di San Lorenzo e Resuttana, riciclando capitali in centri scommesse, compro oro e pegni. Detenuto al 41-bis, è stato scarcerato dopo che la corte d’Appello ha accolto la richiesta dei suoi difensori, con divieto di dimora in Sicilia. Pochi giorni prima, nonostante le condanne non definitive subìte, per la scadenza dei termini di custodia cautelare erano stati scarcerati 11 fedelissimi di Matteo Messina Denaro. Tra loro, anche due boss che erano reclusi al 41 bis, ovvero Nicola Accardo (condannato a 10 anni) e Vincenzo La Cascia (condannato a 9 anni e 8 mesi). Più di recente, nel maggio di quest’anno, a essere liberati per decorrenza dei termini sono stati due imputati del maxi-processo Rinascita-Scott, il più grande procedimento mai celebrato contro la ’ndrangheta vibonese, ovvero Andrea Prestanicola e Gregorio Gasparro, ritenuto esponente apicale della ‘ndrina di San Gregorio d’Ippona. Anche lui era recluso al 41-bis.