L’Azerbaigian ha rimosso tutte le restrizioni al transito merci verso l’Armenia, e inaugurato la prima spedizione dal Paese verso Erevan. Il transito di merci azere in Armenia è stato interrotto verso la fine degli anni ’80, quando iniziarono a emergere le frizioni che portarono alla guerra del Nagorno-Karabakh. La scelta di rimuovere le restrizioni da parte dell’Azerbaijan segue un accordo di pace raggiunto lo scorso agosto, che istituisce un corridoio tra l’Azerbaijan e la regione di Nakhchivian, exclave azera in territorio armeno. L’accordo non è ancora stato ratificato, e presenta ancora diversi nodi da sciogliere, tra cui la richiesta dell’Azerbaigian di modificare la costituzione dell’Armenia.
L’UE prepara il 19esimo pacchetto di sanzioni e il blocco totale al gas russo
L’Europa chiude i rubinetti al gas russo. I ministri dell’Energia dell’Unione europea hanno approvato a maggioranza la proposta della Commissione UE per lo stop alle importazioni di gas e GNL da Mosca. La misura, destinata a entrare in vigore in più fasi, segna uno spartiacque nella politica energetica comunitaria: dal 1° gennaio 2026 sarà vietato stipulare nuovi contratti con la Russia, gli accordi a breve termine ancora in corso dovranno cessare entro il 17 giugno 2026, mentre quelli a lungo termine saranno definitivamente chiusi entro il 1° gennaio 2028. La serie di regole è stata rinominata dal ministro per il Clima danese, Lars Aagaard, “Pacchetto della libertà”, perché allontana le cancellerie europee dalla dipendenza energetica da Mosca.
La proposta di regolamento, spiega il Consiglio in una nota, costituisce un elemento centrale della tabella di marcia REPowerEU dell’UE: con questa decisione, l’UE compie un passo decisivo verso l’autonomia dalle forniture di Mosca: attualmente circa il 13% del gas consumato in Europa proviene ancora da Mosca. Solo Ungheria e Slovacchia si sono opposte, denunciando gravi rischi per la sicurezza energetica. I due Paesi senza sbocco sul mare stanno, infatti, lottando da tempo per mantenere le forniture russe esistenti. Da Budapest sono arrivate le critiche più dure: «Per noi l’approvvigionamento energetico non ha nulla a che fare con la politica. L’impatto reale di questo regolamento è che la nostra fornitura verrà uccisa. Non parlo dell’aumento dei prezzi. Parlo della sicurezza dell’approvvigionamento per le nostre famiglie», ha dichiarato il ministro degli Esteri Peter Szijjarto, presente a Lussemburgo per il voto, ribadendo che il Paese non intende rinunciare al gas russo senza alternative concrete. In risposta alla posizione ungherese, è intervenuto l’omologo polacco, Miłosz Motyka, che ha invitato a forme di “solidarietà europea” per sostenere le forniture di Budapest e Bratislava.
In due anni, i flussi energetici provenienti dalla Russia saranno chiusi, mentre Bruxelles si prepara a introdurre anche il 19° pacchetto di sanzioni contro il Cremlino. L’Alta rappresentante per la politica estera, Kaja Kallas, ha confermato che l’approvazione del nuovo pacchetto potrebbe arrivare «già questa settimana», segnando l’avvio di una fase di ulteriore pressione economica e politica nei confronti di Mosca, i cui risultati, lungi dalla retorica e dalle aspettative europee, tardano ad arrivare. Il pacchetto di sanzioni colpirà diversi settori: istituti bancari russi, piattaforme di criptovalute, profitti derivanti dall’export energetico e una “flotta ombra” del Cremlino attiva nell’elusione delle restrizioni. Per la Russia, la mossa rappresenta un colpo pesante nei confronti delle sue fonti di finanziamento e della capacità di esportare combustibili fossili verso l’Europa, con implicazioni che vanno al di là dell’energia per toccare l’ambito geopolitico e finanziario. Nel frattempo, Mosca ha reagito con una nota diplomatica rivolta all’Italia: «Non considerate di usare i nostri asset congelati», ha avvertito, segnalando che la contromisura potrebbe colpire interessi e beni russi all’estero. L’Europa appare dunque pronta a intensificare la pressione economica, ambientale e politica verso il Cremlino, proprio mentre sullo scacchiere globale si respira un’aria di distensione in attesa dell’incontro tra il presidente statunitense Donald Trump e il presidente russo Vladimir Putin.
Nonostante le sanzioni, la Russia non appare piegata come sperato da Bruxelles e Washington. L’economia di Mosca ha dimostrato una resilienza sorprendente, mostrando una tenuta maggiore del previsto: le sanzioni hanno imposto costi reali – il prodotto interno lordo russo è stimato essere circa il 10-12 % sotto la traiettoria prevista senza guerra e restrizioni. La caduta non ha, però, generato un collasso economico o il tracollo immediato dell’apparato statale: dopo una breve recessione nel 2022, l’economia russa ha registrato un boom nei due anni successivi e la ripresa nel 2023, i redditi in crescita, i salari reali ai massimi storici, la disoccupazione ai minimi e il controllo rigido dei flussi di capitale suggeriscono che Mosca ha saputo adattarsi. Sull’altro fronte, per l’Europa lo stop del gas russo comporta costi che rischiano di essere trasferiti sui consumatori: l’aumento della volatilità nei prezzi del gas è già documentato, con il benchmark europeo che si è attestato ben al di sopra dei livelli pre-crisi e con la dipendenza da fattori geopolitici e meteo più marcata che mai. La riduzione delle forniture e la necessità di importare GNL da Stati Uniti e Qatar a prezzi più elevati potrebbero spingere nuovamente verso l’alto le bollette energetiche. L’Italia, fortemente dipendente dal mercato spot e dalle infrastrutture di rigassificazione ancora limitate, rischia oscillazioni dei prezzi più marcate nei mesi invernali. Gli esperti avvertono che la transizione energetica non potrà compensare in tempi brevi la chiusura dei rubinetti russi. Così, mentre Mosca riorienta la propria economia e mantiene la leva energetica sul mercato globale, l’Europa si trova a fare i conti con l’altra faccia delle sanzioni: la prospettiva di un inverno più caro e un equilibrio energetico ancora fragile.
Slovacchia, condannato a 21 anni l’uomo che sparò al premier Fico
Il tribunale di Banská Bistrica, in Slovacchia, ha condannato a 21 anni di carcere per terrorismo Juraj Cintula, poeta 72enne che il 15 maggio 2024 aveva sparato al primo ministro Robert Fico, ferendolo gravemente. L’attentato avvenne a Handlová durante un incontro politico: Cintula esplose quattro colpi da circa un metro, colpendo Fico all’addome, all’anca, alla mano e al piede. Il premier fu dimesso dopo 16 giorni di ricovero. Il giudice Igor Kralik ha ritenuto l’imputato colpevole di terrorismo, avendo agito per ostacolare il governo. Cintula ha affermato di non voler uccidere Fico ma fermarne le politiche.
Dalle parole ai fatti: L’Indipendente passa a Banca Etica
L’Indipendente è diventato socio di Banca Etica, trasferendo presso questo istituto tutti i propri conti. In linea con i princípi del consumo etico che da sempre costituiscono un pilastro tra i valori del nostro giornale, abbiamo deciso di trasformare in azioni concrete i buoni intenti. Sin dal principio della nostra attività ci siamo infatti dedicati a denunciare la complicità di banche e istituti finanziari con il settore bellico e dell’industria fossile. In un contesto simile, l’arma che abbiamo in mano, come cittadini, per opporci a queste politiche è una: decidere come spendere e dove mettere i nostri soldi. D’altronde, il movimento BDS lo ha dimostrato chiaramente: il boicottaggio economico funziona e costringe i potenti a riorientare le proprie scelte. Perchè proprio Banca Etica? Perchè è l’unico ente, nel panorama italiano, a dare garanzie sull’eticità delle proprie scelte.
Nata nel 1999, Banca Etica è una banca popolare cooperativa il cui impegno è stato sin da subito quello di creare un istituto di credito basato unicamente sui princípi della finanza etica: tra questi, trasparenza, partecipazione e attenta valutazione degli impatti non economici delle attività economiche. Per garantire ai propri soci la fedeltà a tali valori, Banca Etica pubblica sul proprio sito l’elenco completo dei finanziamenti concessi a organizzazioni e imprese, oltre a un Report d’Impatto annuale nel quale vengono misurati impatti sociali e ambientali di tutti gli attivi della banca e di tutti i crediti erogati.
Nel 2025, gli istituti finanziari nel mondo hanno destinato quasi mille miliardi di dollari all’industria della difesa. Soldi appartenenti alla società civile, in buona parte contraria alla retorica bellicista e guerrafondaia dei governi odierni. E tuttavia, grazie a politiche favorevoli e normative opache, le banche possono decidere di investire nei settori più remunerativi – come quello della guerra, o dei combustibili fossili – senza dover rendere conto ai propri clienti. Le banche italiane non sono esenti da questo schema: come una nostra inchiesta vi ha mostrato, istituti quali Intesa San Paolo o Unicredit traggono profitti miliardari da questi settori. Poco importa se questi enormi flussi di denaro scorrano grazie al sangue versato dai palestinesi, dai curdi o di qualsiasi altra popolazione nel mondo sia vittima della violenza armata.
In questo contesto, Banca Etica fa una scelta diversa: l’industria degli armamenti rientra tra i settori categoricamente esclusi da finanziamenti e investimenti, così come quella delle fonti fossili, preferendo piuttosto investire in progetti che supportino non solo l’energia rinnovabile, ma anche il risparmio energetico, la protezione della biodiversità e il contenimento dei rifiuti. Nel 2009, insieme ad altre banche etiche europee, l’istituto fonda la Global Alliance for Banking Values (GABV), rete indipendente di istituti nel mondo impegnati a seguire i principi della finanza etica, che nel 2024 (su proposta proprio di Banca Etica) ha sottoscritto il Manifesto per una finanza di pace, schierandosi a lato di tutte le persone che lavorano per la pace e a sostegno dei popoli vittime di conflitti armati.
La banca è poi impegnata a escludere qualsiasi tipo di finanziamento diretto a tutte quelle attività che violano i diritti umani e dei lavoratori, che emarginano le minoranze o discriminano intere categorie, agli allevamenti intensivi e agli esperimenti su soggetti non tutelati o animali, alla mercificazione del sesso e al gioco d’azzardo. Tutti settori sui quali anche L’Indipendente, con inchieste, interviste e articoli, punta a tenere alta l’attenzione.
Come già avvenuto con la nostra guida Boicottare Israele, il nostro intento è quello di essere un giornale che, oltre a denunciare le malefatte di governi e potenti, agisce concretamente per muovere il mondo verso una direzione diversa. Dimostrando così ai nostri lettori che, nonostante le difficoltà che questo può comportare, si può essere coerenti con quello che si racconta.
Dal cessate il fuoco Israele ha ucciso oltre 100 palestinesi e sganciato 153 tonnellate di bombe
Il cessate il fuoco è entrato in vigore da ormai dieci giorni, ma i bombardamenti e le aggressioni israeliane nella Striscia di Gaza non si sono mai fermati. Nella sola giornata di domenica sono state sganciate 153 tonnellate di bombe e uccisi «molti terroristi»: lo ha riferito lo stesso premier israeliano Benjamin Netanyahu, nel corso di una riunione della Knesset. Supera così il centinaio il numero di civili uccisi dallo scorso 10 ottobre nella Striscia di Gaza, in quelle che ormai sono sistematiche violazioni del cessate il fuoco da parte di Tel Aviv. Solamente nella mattinata di oggi, riportano i media palestinesi, l’esercito ha bombardato la zona est dell’enclave e aperto il fuoco su alcune persone che stavano facendo ritorno nelle proprie case. Anche gli aiuti umanitari sono tornati a diminuire, dopo che Israele ha interdetto il transito per alcune ore in alcuni dei valichi di accesso alla Striscia. Nel frattempo, il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance si trova in visita in Israele per discutere del cessate il fuoco, insieme all’inviato speciale per il Medioriente Steve Witkoff e a Jared Kushner, genero e consigliere di Trump.
«Grazie alle decisioni determinate e coraggiose che abbiamo preso, abbiamo consolidato la nostra posizione di potere. La campagna non è finita. Ieri Hamas ha violato palesemente il cessate il fuoco e ha sentito subito la potenza del nostro braccio, lo abbiamo attaccato con 153 tonnellate di bombe. Abbiamo attaccato decine di obiettivi in tutta la Striscia ed eliminato molti terroristi» ha riferito Netanyahu al Parlamento, dove alcuni dei membri della destra estrema non hanno accolto di buon grado l’accordo di cessate il fuoco. A scatenare gli attacchi israeliani sarebbe stata l’uccisione di due soldati dell’IDF, avvenuta nel sud della Striscia. L’esercito israeliano si sarebbe infatti impegnato a «smantellare le strutture terroristiche» nella zona di Rafah, quando le proprie truppe sono state raggiunte da spari e un missile anticarro. In tutta risposta, l’esercito ha «iniziato a colpire la zona per eliminare la minaccia e smantellare i tunnel e le strutture militari utilizzate per le attività terroristiche». A questo si aggiunge la denuncia di Philippe Lazzarini, commissario generale dell’UNRWA, che riporta come «quattro persone sono state uccise in seguito al bombardamento da parte delle forze israeliane di una scuola dell’UNRWA trasformata in rifugio nel campo profughi di Nuseirat» e chiede che venga mantenuto il «fragile cessate il fuoco».
Secondo alcuni testimoni, inoltre, militari dell’IDF avrebbero anche sparato contro alcuni civili che stavano facendo ritorno alle proprie case, azione che i militari hanno giustificato sostenendo si trattasse di «terroristi» che avevano superato la linea gialla di demarcazione oltre il quale l’esercito israeliano è tenuto a ritirarsi. La sua costruzione, mostra un video dell’IDF, è in pieno svolgimento: bulldozer israeliani stanno infatti spianando ampie zone della Striscia, dove sorgerà una nuova barriera con delimitazioni alte fino a 3,5 metri. L’ennesimo muro che stringe sempre più la zona nella quale i gazawi sono auorizzati a esistere.
Netanyahu insiste nel ripetere che tutti i corpi dei deceduti saranno riportati a casa e nega che Hamas abbia mai accettato le condizioni di cessate il fuoco: «sentiamo ripetere continuamente questa affermazione, ma è assolutamente falsa. In nessun momento Hamas ha accettato il piano che abbiamo raggiunto ora: la liberazione immediata di tutti gli ostaggi, il controllo da parte dell’IDF della maggior parte del territorio di Gaza e una decisione esplicita, con un ampio consenso internazionale, compresi gli Stati arabi, di smilitarizzare la Striscia di Gaza e disarmare Hamas. Siamo determinati a raggiungere tutti gli obiettivi di guerra». Eppure, proprio in queste ore l’IDF ha confermato la consegna, da parte del gruppo palestinese, del corpo di un tredicesimo ostaggio deceduto, quello del sergente maggiore Tal Haimi.
L’alto funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato ai media che il gruppo è «pienamente impegnato» ad attuare l’accordo nella sua interezza e a rispettare quanto concordato, e ricordato che Trump e i mediatori avevano assicurato che la guerra in Gaza era finita. E proprio in queste ore, alti funzionari della Casa Bianca, tra i quali lo stesso vicepresidente Vance, sono in visita in Israele, per discutere degli sviluppi del cessate il fuoco.
Giappone: Sanae Takaichi eletta premier, la prima donna alla guida del Paese
La 64enne ultraconservatrice Sanae Takaichi è stata eletta premier del Giappone al primo turno con 237 voti, segnando la prima volta nella storia del Paese che una donna ricopre questo incarico. Assume il ruolo succedendo a Shigeru Ishiba dopo tre mesi di vuoto politico, ma dovrà affrontare una maggioranza fragile e numerose sfide interne quali la bassa crescita economica, i rapporti con gli Stati Uniti e una crisi di fiducia nell’élite politica. Nonostante l’accordo del Partito Liberal Democratico con il partito di destra di Osaka Japan Innovation Party abbia assicurato a Takaichi la carica di primo ministro, l’alleanza non ha ancora la maggioranza in entrambe le camere del Parlamento.
Armenia, arrestato il sindaco di una città
La polizia armena ha arrestato Vardan Ghukasyan, sindaco di Gyumri, seconda città del Paese. Ghukasyan è un esponente dell’opposizione di Robert Kocharyan, ex presidente del Paese dal 1998 al 2008. Ghukasyan è stato arrestato con l’accusa di avere chiesto una tangente di circa 10mila dollari a un cittadino per la realizzazione di un progetto edilizio non autorizzato. L’arresto di Ghukasyan arriva in un momento teso per il Paese, che si sta avvicinando a elezioni. Il premier Nikol Pashinyan ha ingaggiato un duro scontro diplomatico con i vertici ecclesiastici della Chiesa armena (che è autocefala), da tempo critica nei confronti del suo esecutivo, arrestando diversi vescovi ed esponenti del clero.
L’alleanza tra USA e petro-monarchie affossa la tassa sulle emissioni in mare
Il Comitato dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), organismo dell’ONU, ha rinviato al 2026 il voto sul primo sistema vincolante per ridurre le emissioni di gas serra nel trasporto marittimo. La proposta era stata promossa da UE e Cina e le trattative per implementarla andavano avanti da un decennio; essa avrebbe introdotto limiti annualmente più severi per le navi di stazza superiore a 5.000 tonnellate e l’obbligo di compensazioni economiche per quelle che non rispettano le norme sulle emissioni dovute ai carburanti. Ad affossare l’accordo sono stati gli Stati Uniti, sostenuti da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Singapore e Russia, che hanno esercitato pressione su funzionari dell’IMO e politici favorevoli alla proposta, minacciando ritorsioni economiche. Una mossa del tutto in linea con l’agenda dell’amministrazione Trump, che sin dal suo insediamento ha aumentato gli investimenti nel settore degli idrocarburi e puntato sempre di più sulla deregolamentazione del fossile.
Il voto sulla proposta del sistema per ridurre le emissioni del trasporto marittimo si è tenuto lo scorso venerdì 17 ottobre, a Londra. La proposta era stata approvata preventivamente lo scorso aprile, e intendeva ridurre le emissioni di gas serra del settore di almeno il 20% entro il 2030, per arrivare a zero emissioni nette entro il 2050. L’accordo avrebbe introdotto, a partire dal 2028, limiti sulle navi di stazza superiore a 5.000 tonnellate, mediante l’imposizione di una imposta varia direttamente proporzionale alla quantità di emissioni rilasciate. L’imposta era basata su un sistema di crediti: chi non avesse rispettato i limiti imposti avrebbe dovuto acquistare delle cosiddette “unità correttive”, mentre chi fosse riuscito a rientrare nei parametri avrebbe generato “unità in eccesso” da usare nel futuro o da vendere alle altre navi. Ad oggi, il trasporto marittimo rappresenta circa il 3% delle emissioni globali, ma secondo diversi studi potrebbero arrivare al 10% entro il 2050.
I 176 Paesi dell’IMO hanno affossato la proposta approvando il rinvio dell’adozione della tassa al 2026: 57 Paesi hanno votato a favore del rinvio, 49 hanno votato contro e 21 si sono astenuti. Diversi funzionari dell’IMO hanno affermato, come riporta il quotidiano Politico, di avere ricevuto minacce e intimidazioni da parte dei funzionari statunitensi; altre testimonianze dell’atteggiamento «da bullo» dei funzionari statunitensi sono state raccolte dal quotidiano The Guardian, che riporta di minacce dirette ai rappresentanti politici dei Paesi. Gli USA, di preciso, hanno minacciato di imporre dazi aggiuntivi agli Stati che avrebbero votato contro la sospensione, e di introdurre restrizioni contro i loro cittadini. L’atteggiamento intimidatorio dei funzionari statunitensi è stato portato avanti anche pubblicamente: il 10 ottobre, il segretario di Stato Marco Rubio, il segretario all’Energia Chris Wright e il segretario ai Trasporti Sean Duffy hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui parlano esplicitamente di contromisure nei confronti dei Paesi che avrebbero votato a favore della misura, citando proprio eventuali imposte aggiuntive, e restrizioni ai visti.
La scelta di affossare la proposta in seno all’IMO si colloca in piena continuità con l’agenda politica trumpiana. Sin dal suo primo giorno come presidente, Trump ha approvato diversi decreti per incentivare il settore del fossile e revocare i limiti imposti dalla precedente amministrazione Biden. In fatto ambientale, Trump ha ritirato gli USA dagli accordi di Parigi, il patto internazionale per combattere il cambiamento climatico, e dichiarato un’emergenza nazionale sull’energia, così da sbloccare più fondi per il settore; Trump ha poi annullato il divieto di trivellazione sui 625 milioni di acri di acque federali promosso da Biden nel su ultimo mese di amministrazione; il presidente ha infine ordinato il riavvio delle revisioni dei nuovi terminali di esportazione per il gas naturale liquefatto e l’interruzione delle concessioni delle acque federali per i parchi eolici offshore. Nei mesi successivi, le politiche di rilancio del fossile sono continuate: il presidente ha riaperto la corsa all’esplorazione petrolifera in Alaska, e ha incentivato disboscamento e politiche estrattiviste nelle sue stesse leggi finanziarie.









