martedì 26 Agosto 2025
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L’UE ha scelto di non sanzionare Israele nonostante il genocidio in corso in Palestina

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Nonostante le gravi violazioni dei diritti umani e i continui attacchi ai civili, i ministri degli Affari esteri, riunitisi ieri a Bruxelles per l’ultimo Consiglio prima della pausa estiva, hanno deciso di non sanzionare lo Stato ebraico, affermando di accogliere con favore i «segnali positivi» che arrivano dalla Striscia di Gaza, tra cui il massiccio ingresso di aiuti umanitari nell’enclave palestinese. «Vediamo entrare più camion e rifornimenti, più varchi aperti e riparazioni alle linee elettriche» ha affermato l’Alta rappresentante dell’UE per gli Affari esteri, Kaja Kallas, aggiungendo che «Non è chiaramente abbastanza, l’Ue continuerà a seguire da vicino l’attuazione di questo accordo comune e fornirà aggiornamenti ogni due settimane». Bruxelles è riuscita così a salvare Tel Aviv e i preziosi accordi economico-commerciali che intrattiene con lo Stato ebraico grazie a un ampio accordo risalente al 1995. Dal canto suo, Agnes Callamard, segretaria generale di Amnesty International, ha asserito che «Il rifiuto dell’UE di sospendere l’accordo con Israele è un tradimento crudele e illegale» e che il voto dei 27 ministri degli Esteri «sarà ricordato come uno dei momenti più vergognosi nella storia dell’UE».

L’ipotesi di sanzionare Israele era emersa lo scorso giugno proprio in seguito alla revisione dell’Accordo di associazione Ue-Israele che aveva certificato le violazioni da parte israeliana: il Servizio europeo di azione esterna (Seae), infatti, aveva constatato che «vi sono indicazioni che Israele violerebbe i propri obblighi in materia di diritti umani ai sensi dell’articolo 2 dell’accordo di associazione Ue-Israele». Lo Stato ebraico avrebbe trasgredito le norme sui diritti umani innumerevoli volte dall’inizio della campagna militare a Gaza: gli ultimi episodi riguardano la violazione del cessate il fuoco il 18 marzo, il prolungato assedio alla popolazione della Striscia, oltre che gli insediamenti illegali in Cisgiordania. Ma anche l’uccisione dei palestinesi durante la distribuzione del cibo e l’assassinio intenzionale di giornalisti e operatori umanitari. Nonostante ciò, Bruxelles ha deciso di non sanzionare Israele, in cambio di un accordo che prevede che gli aiuti su larga scala siano forniti direttamente alla popolazione – tagliando fuori la controversa Gaza Humanitarian Foundation – e un aumento sostanziale del numero di camion giornalieri per il trasporto di generi alimentari e di prima necessità. Intanto, però, le forze israeliane hanno continuato a uccidere decine di civili palestinesi.

Le sanzioni sono state sostenute soprattutto dai rappresentanti di Spagna, Irlanda e Slovenia, mentre gli altri Paesi dell’Ue hanno voluto rimandare ogni decisione. Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, già a giugno aveva sottolineato che quella dell’Italia è una posizione diversa da quella della Spagna: «per noi è fondamentale avere un dialogo con Israele» aveva affermato, aggiungendo che «Avendo un dialogo aperto si possono avere dei risultati» e che «le scelte velleitarie non servono a nulla e sono finalizzate magari alla politica interna dei Paesi». Inequivocabile, dunque, la posizione dell’Italia accanto allo Stato ebraico, nonostante le comprovate violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale, accertate da organizzazioni e tribunali internazionali e documentate dai giornalisti locali, sebbene Israele abbia ridotto al minimo l’accesso dei reporter alle zone devastate dalla guerra.

L’esito del voto dei 27 ministri degli Esteri europei appariva scontato allo stesso ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, ieri sera a Bruxelles per un vertice dei Paesi del Mediterraneo. Sa’ar è stato in grado di predire che «nessuna delle 10 proposte contenuta nel rapporto sarà applicata dai 27 Stati membri domani» confermando la profonda influenza che lo Stato ebraico esercita sui Paesi dell’Unione. Da parte sua, la Kallas si è limitata vagamente ad assicurare che «tutte le opzioni sono sul tavolo e che se la situazione non migliora potremo usarle». Rispetto a questo approccio che cerca di salvare l’immagine dell’Ue di fronte all’opinione pubblica, la segretaria generale di Amnesty International ha sottolineato che «I leader europei hanno avuto l’opportunità di prendere una posizione di principio contro i crimini di Israele, ma gli hanno invece dato il via libera per continuare il suo genocidio a Gaza, l’occupazione illegale dell’intero Territorio Palestinese Occupato (TPO) e il suo sistema di apartheid contro i palestinesi», definendo tutto questo «più che codardia politica».

L’atteggiamento e i toni verso Israele sono molto diversi rispetto a quelli decisi e perentori che Bruxelles assume nei confronti di altre nazioni come la Russia e l’Iran, confermando così l’adozione di doppi standard di valutazione da parte dei funzionari e dei ministri europei, dettati da interessi politici e commerciali. La prossima riunione dei ministri degli Esteri dell’Ue sarà solamente ad ottobre, tra più di due mesi. Nel frattempo, Israele potrebbe continuare a violare le più basilari norme del diritto internazionale senza conseguenze e conservando le sue vantaggiose relazioni commerciali e diplomatiche con le nazioni dell’UE.

 

Etiopia, arrestati 82 sospetti militanti islamisti

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L’Etiopia ha arrestato 82 presunti militanti di gruppi islamisti, che sarebbero stati addestrati e schierati per compiere operazioni in tutto il Paese. Le persone arrestate sono sospettate di fare parte di un gruppo somalo affiliato a Daesh, che opera nella regione semi-autonoma del Puntland. Secondo delle stime, in Somalia sarebbe presente un numero compreso tra i 700 e i 1.500 militanti affiliati allo Stato Islamico, e la presenza del gruppo sarebbe cresciuta negli ultimi anni grazie all’afflusso di combattenti stranieri e all’aumento delle entrate.

Prima regolarizzati, poi licenziati: gli operai di Forlì bloccano di nuovo l’azienda

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Lavoravano 12 ore al giorno per 6 giorni alla settimana, sottopagati e costretti a dormire nello stesso magazzino in cui producevano divani per conto della loro ditta madre, la Gruppo 8, una delle maggiori aziende operanti nel “Distretto dell’imbottito” di Forlì. A dicembre, dopo una settimana di proteste trascorsa dormendo al freddo davanti ai cancelli, erano riusciti a ottenere condizioni di lavoro accettabili: 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana, un contratto stabile e una sistemazione in albergo in attesa di trovare casa. Ma quel “sogno”, se così si può chiamare, è durato poco: appena terminate le ultime consegne, sono stati tutti licenziati in tronco.

Parliamo della difficile, e per molti aspetti esemplare, situazione di un gruppo di operai pakistani che lo scorso anno si erano trasferiti da Prato in Romagna per lavorare alla Sofalegname, azienda che produce in subappalto per la Gruppo 8. Dopo pochi mesi dall’accordo raggiunto con i lavoratori, l’azienda ha sospeso la produzione: «Il 3 luglio l’azienda ci ha comunicato che lo stabilimento sarebbe stato smantellato – spiega a L’Indipendente Sarah Caudiero del sindacato Sudd Cobas –. Nel frattempo è partito un procedimento per delocalizzare la produzione in Cina».

A quel punto gli operai sono tornati a manifestare davanti ai cancelli, questa volta sotto il sole torrido di luglio. Hanno montato tende e, da oltre quindici giorni, presidiano l’ingresso della sede madre, la Gruppo 8: gli altri lavoratori possono entrare, ma i camion no. Di fatto, ogni ingresso e uscita di materiali è bloccato: «Stanno causando un danno economico da mezzo milione di euro», ha commentato l’avvocato della ditta, Massimiliano Pompignoli. «Tengono in ostaggio la produzione».

Lunedì scorso, i manifestanti, seduti a terra per impedire il passaggio di un mezzo pesante, sono stati sgomberati con la forza dalla polizia

Con il passare dei giorni, la situazione è diventata sempre più tesa, fino a degenerare lunedì scorso, quando i manifestanti – seduti a terra per impedire il passaggio di un mezzo pesante – sono stati sgomberati con la forza dalla polizia. Nei video diffusi dal sindacato si vedono gli agenti strattonare e gettare a terra con violenza i contestatori: tre operai sono finiti in ospedale per le ferite riportate. «Il messaggio che passa è che le aziende possono fare ciò che vogliono», commenta ancora Caudiero. «Se c’è uno sciopero, interviene la polizia per liberarle del problema».

Lo sciopero, però, non si è fermato. Il giorno successivo gli operai erano di nuovo davanti ai cancelli. Sugli striscioni appesi ai loro tendoni improvvisati si legge: «Vogliamo i nostri diritti 8×5» e «la Gruppo 8 sfrutta e scappa».

«La dinamica è chiara» – continua Caudiero – «C’è una società vuota, la Sofalegname, in cui un caporale ha reclutato persone per tenerle in condizioni di semi-schiavitù. Quando l’azienda è stata costretta a regolarizzare la loro posizione, si è deciso di chiudere lo stabilimento»

Una forma di sfruttamento alla luce del sole, ben conosciuta dai sindacalisti di Sì Cobas, attivi da anni a Prato. In quella città, gli alloggi di fortuna ricavati dentro le fabbriche per gli operai cinesi erano una prassi fino al 2013, quando un incendio alla ditta tessile Teresa Moda causò la morte di otto persone sorprese nel sonno. Per quella tragedia le due titolari sono state condannate, ma nel frattempo sono tornate in Cina. Anche la Gruppo 8 di Forlì ha legami con la Cina: fa capo alla multinazionale della moda HTL, con sede a Singapore. «Queste aziende vengono in Italia per vantarsi del Made in Italy, ma vogliono trovare le regole di altri Paesi. Quando capiscono di dover rispettare le leggi italiane, se ne vanno», afferma Caudiero.

Anche a Prato, Sudd Cobas ha vissuto una stagione di lotte. Nella scorsa primavera si sono contati oltre 70 scioperi e, a ottobre, tremila persone sono scese in piazza dopo le aggressioni subite da alcuni operai durante un presidio. Le proteste hanno però portato anche a risultati concreti: «In molte situazioni siamo riusciti a ottenere contratti regolari e condizioni di lavoro dignitose – conclude Caudiero –. Tutte cose che dovrebbero essere la normalità, ma che invece dobbiamo ancora lottare ogni giorno per difendere».

Ed è proprio questo che stanno facendo oggi, di nuovo, i lavoratori della Sofalegname. Quegli stessi operai che pochi mesi fa credevano di aver trovato una vita migliore, ora resistono sotto il sole, chiedendo solo ciò che in qualsiasi posto di lavoro dovrebbe essere scontato: rispetto, legalità e diritti.

I membri della commissione d’inchiesta ONU per i territori palestinesi occupati si sono dimessi

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I tre membri della Commissione d’inchiesta ONU per i territori palestinesi Occupati hanno annunciato in blocco le loro dimissioni. Il gruppo è stato istituito nel 2021 per accertare i fatti che avvengono sul territorio palestinese e israeliano. Tra le motivazioni fornite dai singoli relatori, vi sono ragioni di età, questioni mediche, e «il peso di diversi altri impegni». Le dimissioni, che avranno effetto il prossimo novembre, sono arrivate in parallelo all’imposizione di sanzioni nei confronti della Relatrice Speciale per i territori Palestinesi Occupati, Francesca Albanese; la notizia del loro allontanamento dalla Commissione è passata in sordina sulla stampa internazionale, ma è stata accolta con piacere dai media e dai gruppi che ne contestavano l’operato, che vedono proprio nelle pressioni statunitensi le vere ragioni dietro le dimissioni: «La paura di dover rendere conto sta finalmente prendendo piede», ha detto Hilel Neuer, vertice di UN Watch, organizzazione spesso critica nei confronti delle voci che si battono per la Palestina; «Francesca Albanese era solo la punta dell’iceberg».

Le dimissioni dei membri della Commissione Internazionale Indipendente d’Inchiesta per i Territori Palestinesi Occupati sono arrivate una di seguito all’altra a partire dallo scorso 8 luglio, ma sono state rese note solo una settimana dopo. La prima a presentare le proprie dimissioni è stata Navanethem Pillay, 83 anni, direttrice della Commissione. Nella breve lettera, Pillay spiega che le dimissioni arrivano «a causa dell’età, di problemi medici e del peso di diversi altri impegni» e che avranno effetto a partire dal 3 novembre. Alla lettera di Pillay è seguita, il 9 luglio, quella di Chris Sidoti, 74 anni, che sostiene che «il pensionamento del Presidente è il momento opportuno per ricostituire la Commissione», mostrandosi aperto a un eventuale riassegnazione dell’incarico. L’ultimo a rassegnare le proprie dimissioni è stato Miloon Kothari, 69 anni, già Relatore speciale ONU sul Diritto a un Alloggio Adeguato, che sostiene che la decisione segue una riunione della Commissione tenutasi la settimana precedente.

Le dimissioni della presidente del gruppo Pillay sono state rassegnate in parallelo all’imposizione di sanzioni alla Relatrice speciale Francesca Albanese, tanto che secondo i media israeliani e il gruppo UN Watch sarebbero da ricondurre proprio a queste, o più in generale alle pressioni statunitensi su coloro che perseguono i crimini di guerra israeliani. «UN Watch ha tracciato una linea diretta tra le ultime dimissioni e lo shock politico causato dalla decisione degli Stati Uniti di sanzionare Francesca Albanese», si legge nel comunicato del gruppo; malgrado le date non sembrino combaciare (le sanzioni ad Albanese sono state annunciate il 9 luglio, ma le dimissioni di Pillay sono state firmate l’8 luglio, e Kothari parla di una decisione raggiunta la settimana precedente), gli Stati Uniti stanno effettivamente aumentando la propria pressione a livello internazionale; le sanzioni ad Albanese sono infatti state precedute da analoghe misure contro quattro giudici della Corte Penale Internazionale, per le loro «azioni illegittime» contro Washington e Israele; le misure contro i giudici e Albanese, inoltre, si appoggiano a un decreto con cui Trump aveva aperto la strada alle sanzioni contro la Corte Penale Internazionale e coloro che collaborano con essa per perseguire i crimini israeliani. Il primo a essere colpito era stato il procuratore della CPI Karim Khan, che aveva chiesto l’emissione dei mandati di arresto internazionale contro Netanyahu e il suo ex ministro Gallant.

UE: la Slovacchia si oppone alle nuove sanzioni alla Russia

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La Slovacchia ha bloccato il nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia. La scelta di fermare l’approvazione del pacchetto arriva dopo una serie di falliti tentativi di negoziato tra Bratislava e Bruxelles su questioni legate al settore energetico. La diatriba è sorta in seguito alla proposta della Commissione di abbandonare completamente l’uso del gas russo entro il 2028; la Slovacchia dipende ancora dalle importazioni russe, e per questo a chiesto maggiori garanzie per non essere danneggiata dal piano della UE, minacciando di esercitare il veto sul prossimo pacchetto di sanzioni e rinviandone il voto.

In Spagna un tribunale ha stabilito che gli allevamenti intensivi violano i diritti umani

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Il Tribunale superiore di giustizia della Galizia ha emesso una sentenza storica, unica nel suo genere, che riconosce la violazione dei diritti umani da parte delle autorità regionali e statali spagnole per l’inquinamento provocato dagli allevamenti intensivi. La Corte ha in particolare stabilito che l'inquinamento, a danno di migliaia di residenti nella regione di A Limia, nel sud della Galizia, rappresenta una violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione spagnola e dal diritto europeo.
La Corte ha accertato che le istituzioni Xunta de Galicia e Autorità di bacino del fiume ...

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UE: sanzioni a individui iraniani

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L’UE ha imposto sanzioni a otto persone e a un’entità accusati dell’assassinio di dissidenti iraniani per conto del governo di Teheran. A dare la notizia è stato il Consiglio europeo, che ha spiegato che le sanzioni includono il congelamento dei beni e il divieto di viaggio. Il Consiglio ha inserito nell’elenco la Rete Zindashti, che definisce come un gruppo criminale collegato al Ministero dell’Intelligence e della Sicurezza iraniano, accusandolo di «atti di repressione transnazionale». Incluso anche il capo della Rete, Naji Ibrahim Sharifi-Zindashti, individuato come uno dei capi della criminalità organizzata legata al narcotraffico. Preso di mira anche Mohammed Ansari, capo di una unità legata ai pasdaran.

Sfruttamento e caporalato nella moda di lusso: Loro Piana in amministrazione giudiziaria

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Il marchio di abbigliamento di lusso Loro Piana è stato messo sotto amministrazione giudiziaria con l’accusa di avere subappaltato colposamente parte della propria produzione ad aziende che sfruttano i lavoratori. A chiedere e ottenere la misura di prevenzione è stata la Procura di Milano, impegnata in una più ampia indagine sullo stato di salute dei marchi di abbigliamento in Italia. Quella di Loro Piana è la quinta amministrazione giudiziaria che ha investito il settore tra il 2024 e il 2025. Gli altri brand di lusso coinvolti sono Alviero Martini, Armani Operations, Manufactures Dior e Valentino Bags Lab.

Loro Piana è un brand vercellese dell’abbigliamento di lusso specializzato in cashmere, parte del gruppo Moët Hennessy Louis Vuitton (LVMH). L’accusa mossa dalla Procura di Milano a Loro Piana è quella di aver instaurato rapporti stabili “con soggetti dediti allo sfruttamento dei lavoratori” e agevolato “colposamente” il caporalato cinese lungo la filiera della lavorazione del cashmere in Italia. In questo modo, vestiti venduti a migliaia di euro nei negozi Loro Piana nascondevano costi di lavorazione da circa un centinaio di euro, per un sistema di caporalato e sfruttamento a danno degli operai ricostruito dai carabinieri del Comando Tutela Lavoro. È emersa una catena di appalti e subappalti, con al vertice Loro Piana, impegnata nell’ideazione dei capi di abbigliamento. La realizzazione era affidata invece a Evergreen, una società con 7 operai e quasi nessun macchinario, che a sua volta si rivolgeva — come ricostruito dal filone giudiziario — alla Sor-Man, altra azienda italiana che subappaltava a due ditte cinesi: la Clover Moda e la Day Meiying. Secondo il Tribunale di Milano, queste ditte erano impostate su condizioni di lavoro illegali, tra evasione fiscale e contributiva e carenze nella sicurezza degli operai, sottopagati e “di fatto continuamente sorvegliati”. Inoltre, i consumi energetici delle ditte hanno rivelato che “il lavoro era svolto per tutto il giorno, indistintamente” compresi “sabati e domeniche ed i giorni festivi”.

Proprio il Tribunale di Milano ha accolto la richiesta della Procura e disposto per Loro Piana l’amministrazione giudiziaria, una misura preventiva, “volta non a punire l’imprenditore che sia intraneo all’associazione criminale, quanto a contrastare la contaminazione antigiuridica di imprese sane, sottoponendole a controllo giudiziario” — come spiegato dallo stesso Tribunale di Milano in una pronuncia recente. Mentre appaltatori e subappaltatori sono stati denunciati e multati, Loro Piana non risulta infatti indagata dai magistrati. Il brand di lusso vercellese, che conta all’attivo più di 2mila dipendenti e un fatturato da oltre 1,6 miliardi di euro, avrebbe comunque agevolato il sistema di sfruttamento e caporalato, ottenendo la massimizzazione dei profitti dall’abbattimento illegale dei costi di produzione. Pertanto, l’amministratore giudiziario discuterà nei prossimi mesi coi giudici del piano di risanamento aziendale, costringendo la società a rivedere le proprie politiche di appalti e subappalti. Questa misura, insieme alle quattro comminate ai colossi della moda italiana, punta a un radicale cambio di gestione del settore, che, come rivelato dai recenti filoni investigativi, nasconde spesso dietro abiti costosi attacchi alla dignità dei lavoratori. Starà poi alla classe politica decidere di cogliere o meno i segnali della magistratura e procedere con una regolamentazione più stringente sulla catena di appalti e subappalti su cui si regge il lavoro nel nostro Paese.

L’Ucraina ha esteso la legge marziale fino a novembre

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Il parlamento ucraino ha esteso la legge marziale fino al 5 novembre. A dare la notizia è il deputato Yaroslav Zhelezniak. Da quanto riporta Zhelezniak, l’estensione è stata approvata da 320 deputati, mentre uno solo ha votato contro; dall’inizio della guerra con la Russia, è la sedicesima volta che il parlamento proroga la scadenza della legge marziale. L’ultima volta risale il 16 aprile, quando il parlamento aveva approvato una estensione valida fino al 6 agosto. L’estensione approvata nella giornata di oggi, martedì 15 luglio, entrerà in vigore il 7 di agosto.

La nuova legge finanziaria di Trump apre a disboscamento ed estrattivismo

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La One Big Beautiful Bill Act (la “grande e bellissima legge”), approvata in via definitiva dalla Camera USA, è la legislazione finanziaria su cui Trump ha puntato molto per rispondere ai grandi temi della propria campagna elettorale: su tutti, quelli della sicurezza e della difesa, specie per quanto riguarda i confini, e quello in materia fiscale. All’interno di questa mastodontica legge è compresa una massiccia vendita di terreni federali, al fine di costruire alloggi e aumentare in maniera vigorosa la produzione di legname e la concessione in leasing di terre ove estrarre materie prime. La One Big Beautiful Bill Act non è solo una manovra finanziaria ma una vera e propria riscrittura delle priorità nazionali in materia di conservazione e risorse naturali.

Come proposto dal Comitato per l’energia e le risorse naturali del Senato statunitense, il Bureau of Land Management (BLM) e il Servizio Forestale degli Stati Uniti sono obbligati a identificare e cedere una quantità di terreno compresa tra i 2,2 milioni e 3,3 milioni di acri, in 11 Stati: Alaska, Arizona, California, Colorado, Idaho, Nevada, New Mexico, Oregon, Utah, Washington e Wyoming. Infatti, come esposto nella scheda informativa del Comitato, le due agenzie sarebbero obbligate a cedere tra lo 0,5% e lo 0,75% dei propri terreni, il cui totale ammonta a circa 438 milioni di acri (circa 177 milioni di ettari). L’obiettivo primario dichiarato di queste vendite è lo sviluppo di alloggi o la soddisfazione di “esigenze comunitarie associate”, con l’ambizione di generare fino a 10 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni

Oltre alla vendita di terreni, il disegno di legge apre le porte a un’accelerazione significativa nello sfruttamento delle risorse naturali. All’interno di riserve forestali create dal demanio pubblico, la legge richiede al Servizio Forestale di aumentare la vendita di legname di 7 milioni di metri cubi rispetto a quella venduta nell’anno fiscale precedente, e così fino al 2034. Per questo il Comitato del Senato suggerisce la realizzazione di almeno una quarantina di contratti a lungo termine. Tradotto: disboscamento di grandi aree verdi

Inoltre, la lege prevede di raccogliere oltre 15 miliardi di dollari attraverso l’espansione del leasing di petrolio, gas, carbone e geotermico in aree federali. Questo in particolare avverrà in Alaska, dove il governo federale possiede il 61% di tutte le terre dello Stato. La legge richiede al governo federale, entro il 2035, di tenere aste di concessione anche all’interno dell’Arctic National Wildlife Refuge, un’enorme area protetta di circa 20 milioni di acri nel nord-est dell’Alaska, nel Cook Inlet, zona vicino al Golfo d’Alaska il cui ecosistema è molto sensibile, così come nella National Petroleum Reserve in Alaska (NPRA), zona ecologicamente molto importante per la sua fauna e in cui insistono diversi villaggi Iñupiat. In quest’area era già stato aperto un contenzioso nel 2023, durante l’amministrazione Biden, la quale aveva dato via alle perforazioni con delle restrizioni rispetto alla prossimità dei villaggi Iñupiat. Una mossa finanziaria cruciale per lo stato è l’aumento della quota di royalties che rimarranno in Alaska: dal 50% precedente all’attuale 90% su tutti i canoni e le royalties derivanti dalle concessioni di petrolio e gas. Insomma, un po’ di carota dopo il bastone.

La risposta a queste proposte è stata un coro di allarme da parte dei gruppi ambientalisti e di conservazione, così come da parte delle comunità indigene. La vendita di terre pubbliche, lungi dall’essere una soluzione alla crisi abitativa, è vista come uno «stratagemma sfacciato per vendere terre pubbliche incontaminate per case trofeo e comunità recintate che non faranno nulla per affrontare la carenza di alloggi a prezzi accessibili», come affermato al New York Times da Jennifer Rokala, direttrice esecutiva del Center for Western Priorities. La critica è amplificata dalla mancanza di requisiti di accessibilità nel disegno di legge, suggerendo che le nuove costruzioni potrebbero anche andare a persone non bisognose o alla costruzione di quartieri lussuosi, esclusivi e recintati e protetti dalle guardie di sicurezza.

L’espansione delle perforazioni petrolifere e del taglio di legname solleva interrogativi profondi sulla gestione delle risorse. Ma Trump era stato chiaro fin dalla campagna elettorale, in cui aveva coniato lo slogan “Drill baby, drill”. Le modifiche alle royalties petrolifere per l’Alaska, pur attraenti per le casse statali, rappresentano un incentivo a un maggiore sfruttamento del territorio e di utilizzo di combustibili fossili. In definitiva, il trumpiano One Big Beautiful Bill Act, oltre alle problematiche che L’Indipendente ha già esposto, è una politica che porterà alla svendita di terreno pubblico, al disboscamento di intere foreste e alla trivellazione e all’estrazione di materie prime che occorro alla immensa macchina (da guerra) statunitense.