martedì 1 Luglio 2025
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Pakistan, attentato a uno scuolabus in Belucistan: 6 morti

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Oggi, in Pakistan, almeno sei persone, di cui quattro bambini, sono state uccise in un’esplosione che ha coinvolto uno scuolabus nel distretto di Khuzdar, nella regione separatista del Belucistan. Altre 38 persone sono rimaste ferite e stanno venendo trasportate in aereo verso la città di Quetta. Secondo le prime indagini, sul veicolo erano presenti 46 studenti, e il veicolo sarebbe stato colpito da un «attacco con ordigno esplosivo improvvisato trasportato da un veicolo». L’esercito pakistano ha condannato la violenza e accusato «agenti terroristici indiani» di essere coinvolti nell’attacco, senza tuttavia condividere prove a sostegno di tale affermazione. Per ora non c’è stata alcuna rivendicazione dell’attacco.

Il Regno Unito ha sospeso i negoziati per l’accordo di libero scambio con Israele

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Il ministro degli Esteri britannico, David Lammy, ha annunciato la sospensione dei colloqui per un nuovo accordo di libero scambio con Israele. L’annuncio è stato dato in un discorso davanti al Parlamento in cui Lammy ha contestato le operazioni israeliane a Gaza e il lancio dell’operazione Carri di Gedeone, aggiungendo inoltre che il Paese sanzionerà individui, avamposti di coloni illegali e organizzazioni che sostengono la violenza contro le comunità palestinesi in Cisgiordania. Il fermo dei negoziati, specifica il governo britannico, non riguarda gli accordi ancora in corso, ma il ministro degli Esteri britannico ha affermato che, se Israele non cesserà le ostilità, il Paese potrebbe prendere ulteriori contromisure. Si tratta di una mossa dai risvolti più politici che concreti, insomma, volta a esercitare pressione sullo Stato ebraico senza cambiare troppo le carte in tavola, e ad ampliare il ventaglio di possibilità del Paese, assumendo una prima timida presa di posizione contro il genocidio del popolo palestinese.

L’annuncio del blocco dei negoziati con Israele è arrivato martedì 20 maggio ed è stato dato formalmente in un discorso nel Parlamento britannico. Negli oltre dodici minuti di intervento, Lammy ha parlato dell’attuale situazione a Gaza e dei crimini di guerra di cui si sta macchiando Israele, criticando le operazioni militari sulla Striscia e l’avvio dell’operazione Carri di Gedeone. Negli ultimi minuti del discorso, Lammy ha annunciato il blocco dei negoziati per estendere la sfera d’azione dell’accordo di libero scambio UK-Israele, e ha convocato l’ambasciatore israeliano per un colloquio. Il ministro, inoltre, ha dichiarato che il Paese rivedrà gli accordi nel quadro della cosiddetta “Tabella di marcia 2030”. Siglata nel 2023, la “roadmap” definisce il percorso delle relazioni bilaterali tra Regno Unito e Israele per i successivi anni, basandosi proprio sul trattato di libero scambio. Nello specifico, la Tabella di marcia prevede un’ampia cooperazione in materia di sicurezza e difesa, il contrasto al programma nucleare iraniano, la promozione degli Accordi di Abramo, investimenti industriali e tecnologici, nonché scambi accademici.

Nel suo discorso, Lammy ha parlato anche di sanzioni a coloni ed entità coloniali israeliane in Cisgiordania. In particolare, si legge nel comunicato governativo, il Regno Unito ha aggiunto alla lista degli individui sanzionati altri due coloni di spicco, tra cui Daniella Weiss, fondatrice di un insediamento e di un’associazione per lo sviluppo e la promozione delle colonie, insieme ad alcuni avamposti di coloni illegali e a due organizzazioni. La mossa segue la «drammatica impennata di violenze da parte dei coloni in Cisgiordania, con le Nazioni Unite che hanno registrato oltre 1.800 attacchi da parte dei coloni contro le comunità palestinesi dal 1° gennaio 2024». Individui ed entità sanzionati saranno ora soggetti a misure quali «restrizioni finanziarie, divieti di viaggio e interdizioni per amministratori».

La mossa sugli accordi del Regno Unito, per quanto significativa, ha di fatto limitati risvolti pratici perché – almeno per ora – non ferma alcun trattato in essere. L’aggiunta di 2 individui e 4 entità alla lista dei soggetti sanzionati risulta già più concreta, ma è ben lontana da una formale condanna dell’occupazione israeliana in Palestina e dal creare danni strutturali alla pratica: in totale, il Regno Unito ha infatti sanzionato 20 soggetti tra individui ed entità israeliane, ma, nella sola Cisgiordania, al 2017, risultavano presenti oltre 200 insediamenti in cui abitavano 620mila persone. La scelta di fermare i negoziati con lo Stato ebraico, aprire alla revisione della Roadmap 2030 e sanzionare le colonie sembra insomma avere una valenza prevalentemente politica, cambiando la postura del Regno Unito senza minare alla radice i rapporti con l’alleato. Con essa, comunque, Londra compie un primo passo per allontanarsi dallo Stato ebraico e apre a nuove possibili misure di pressione diplomatica.

Bruxelles vota per rivedere i trattati con Israele, ma l’Italia vota contro

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Con il lancio dell’operazione Carri di Gedeone da parte di Israele, l’Unione Europea sta iniziando a capire che – forse – lo Stato ebraico va fermato. I ministri degli Esteri dell’Unione hanno infatti approvato la richiesta di avviare una revisione del trattato di associazione UE-Israele, avanzata dai Paesi Bassi dopo un anno di ripetuti appelli da parte di Spagna e Irlanda. In sede di votazione, comunicano fonti diplomatiche, nove Paesi si sarebbero opposti tra cui, come ormai consolidato in sede diplomatica, anche l’Italia. L’accordo regola le relazioni multilaterali tra Israele e Stati membri e, sin dal preambolo e dai suoi primi articoli, si fonda sul rispetto dei diritti umani e sulla condivisione dei valori democratici. Aprendo a una possibile revisione, l’UE compie così, con drammatico ritardo, i primi passi formali per distanziarsi dallo Stato ebraico, sottolinea Amnesty. «L’entità della sofferenza umana a Gaza negli ultimi 19 mesi è stata inimmaginabile. Israele sta commettendo un genocidio a Gaza con agghiacciante impunità».

La decisione di avviare una revisione dell’accordo di associazione UE-Israele è stata annunciata ieri, martedì 20 maggio, dall’Alta Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri, Kaja Kallas, in una conferenza stampa. Davanti ai giornalisti, Kallas ha fatto il punto dell’incontro tenutosi a porte chiuse a Bruxelles, citando rapidamente la votazione sugli accordi. La richiesta era stata avanzata dai Paesi Bassi, che si erano accodati agli appelli che Spagna e Irlanda lanciano da oltre un anno. A questi tre Paesi se ne sono aggiunti altri sette: Belgio, Finlandia, Francia, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Svezia, che hanno pubblicamente appoggiato la richiesta. Da quanto si apprende da fonti diplomatiche citate da Euronews, Danimarca, Estonia, Malta, Polonia, Romania e Slovacchia hanno appoggiato la revisione, mentre la Lettonia si sarebbe mostrata neutrale e nove Paesi si sarebbero dichiarati contrari. Tra questi ultimi figura anche l’Italia, che sin dall’escalation del 7 ottobre risulta il baluardo degli interessi di Israele in Europa. Nelle varie votazioni in sede di istituzioni internazionali, infatti, il nostro Paese si è quasi sempre astenuto.

Per ora, non risulta ancora chiaro quando la revisione verrà concretamente effettuata. Malgrado un giornalista abbia infatti posto tale domanda a Kallas, la rappresentante si è limitata a rispondere che «stiamo avviando questo esercizio». Nel frattempo, ha detto Kallas, «spero davvero che gli aiuti umanitari vengano sbloccati e che la situazione migliori». Riguardo ad altre possibili contromisure, Kallas ha affermato che i ministri hanno parlato anche di possibili sanzioni contro i coloni in Cisgiordania, senza tuttavia riuscire ad approvarle a causa del veto proveniente da un Paese. Le stesse fonti diplomatiche citate da Euronews indicano che a opporsi sarebbe stata l’Ungheria.

L’accordo di associazione UE-Israele costituisce la base delle varie relazioni tra lo Stato ebraico e i Paesi membri dell’Unione Europea. Spagna e Irlanda chiedono da tempo che il trattato venga rivisto per esercitare pressioni su Tel Aviv, sostenendo che le azioni di Israele a Gaza vadano contro i principi fondativi e alcuni articoli della Carta. A essere messo in discussione, oltre alle considerazioni iniziali, è l’articolo 2 dell’accordo; esso sancisce che: «Le relazioni tra le Parti, nonché tutte le disposizioni dell’Accordo stesso, si basano sul rispetto dei diritti umani e dei principi democratici, che guidano la loro politica interna e internazionale e costituiscono un elemento essenziale del presente Accordo».

Migranti, approvato il decreto per modificare il protocollo Albania

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Il Senato ha approvato in via definitiva il decreto legge che modifica il protocollo Italia-Albania per rendere le strutture presenti in Albania utilizzabili per ospitare migranti. Il DL di preciso trasforma la struttura di Gjader, originariamente pensata per l’accoglienza e il trattenimento dei richiedenti asilo, in Centro per il Rimpatrio, destinata a ospitare persone già munite di ordine di espulsione. La modifica arriva dopo che vari tentativi del governo di trasferire migranti in Albania sono stati bloccati dai giudici.

Rosignano Solvay: la città ostaggio dell’industria chimica

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Rosignano Solvay non è soltanto una frazione del Comune di Rosignano Marittimo, un Comune in provincia di Livorno. È un paese nato interamente attorno al suo stabilimento chimico, al punto da portarne il marchio fin nel toponimo. Oggi conta circa 20 mila abitanti, ma la sua storia comincia nel 1912, quando prende forma il polo industriale fondato dai fratelli belgi Ernest e Alfred Solvay. La costruzione dello stabilimento segna l’inizio dello sviluppo urbano: le prime edificazioni sono le ville dirigenziali, affacciate sull’ingresso della fabbrica, seguite dal quartiere operaio, situato sul lato mare della ferrovia Livorno-Vada-Cecina. Da questo nucleo prende forma il paese, cresciuto nel tempo quasi interamente intorno alla fabbrica. Lo stabilimento non ha solo offerto lavoro a migliaia di persone: ha plasmato anche la vita sociale del territorio. Solvay ha costruito scuole, teatro, circoli ricreativi e spazi di aggregazione, contribuendo a modellare la quotidianità e l’identità della comunità operaia e delle generazioni successive. Lo stile architettonico degli edifici ricalca quello del Nord Europa, mentre l’assetto urbano dei primi decenni si distingue per una griglia regolare, priva di grandi spazi aperti o di un vero centro. Una scelta che alcuni leggono anche in chiave politica: un impianto urbano che scoraggia assembramenti e potenziali proteste.

Oggi la forza lavoro non è più quella di un tempo, e il tessuto industriale è cambiato. Il sito non è più esclusivamente Solvay: accanto alla storica azienda, si sono affermati altri attori, come la multinazionale britannica Ineos e diverse piccole e medie imprese. Nel bene e nel male, però, la storia di Rosignano Solvay resta inseparabile da quella della fabbrica che l’ha generata. Una città costruita attorno a un nome, che ancora oggi racconta la sua origine.

La narrazione di Solvay

«La sostenibilità è nel nostro DNA»: così si legge nella sezione dedicata all’ambiente sul sito ufficiale di Solvay. A corredo, un’immagine patinata: un prato verde brillante sullo sfondo di un impianto industriale dell’azienda. «Solvay si concentra sulla riduzione della sua impronta ambientale. Stiamo dando priorità alle azioni per ridurre le emissioni di gas serra e sostenere la biodiversità in tutto il mondo. Stiamo implementando piani d’azione per la biodiversità, migliorando la gestione dei rifiuti e dando priorità alla gestione dell’acqua», si legge ancora, in un linguaggio che ricalca quello ormai tipico della comunicazione green delle grandi multinazionali.

In un’altra pagina della stessa sezione compare l’immagine di una bambina che annaffia delle piantine in vaso. La didascalia recita: «In Solvay, stiamo lavorando attivamente per ridurre al minimo l’impatto delle nostre attività sulla natura. Ciò significa agire sia a livello locale che globale per mitigare e adattarsi ai cambiamenti climatici, proteggere gli ecosistemi e prevenire la perdita della natura». Più avanti, un altro passaggio sottolinea: «L’acqua è essenziale per le nostre operazioni e siamo incrollabili nella nostra dedizione per aiutare a conservarla nelle aree in cui siamo attivi. L’aumento della siccità e delle condizioni meteorologiche estreme in tutto il mondo e i rischi ambientali e industriali associati ci hanno portato a creare piani d’azione per la conservazione dell’acqua».

Parole rassicuranti, immagini accattivanti. Ma per chi vive a Rosignano, tutto questo suona più che altro come una beffa. A dispetto dei proclami, la realtà racconta un’altra storia: quella di un territorio segnato da oltre un secolo di presenza industriale, che continua ancora oggi a lasciare tracce evidenti. Per gli abitanti, leggere questi messaggi è spesso percepito come uno schiaffo.

Per quanto condivisibili nelle intenzioni, queste dichiarazioni si inseriscono in quella pratica sempre più diffusa nota come greenwashing: una strategia di comunicazione adottata dalle aziende per costruirsi un’immagine ecologicamente responsabile, spesso in netto contrasto con il reale impatto delle proprie attività sull’ambiente. Più che uno sforzo concreto verso la sostenibilità, le parole appaiono come un’operazione di facciata, e per molti cittadini rappresentano non solo un’ingannevole narrazione, ma anche un’offesa alla propria esperienza quotidiana.

Le spiagge “caraibiche” di Rosignano

Gli scarichi a mare nel Fosso Bianco, Lillatro, Rosignano Solvay

A Rosignano, Solvay scarica direttamente in mare i propri rifiuti solidi. Un fatto che stride fortemente con gli sbandierati concetti di sostenibilità, impronta ambientale, biodiversità, gestione dei rifiuti, conservazione dell’acqua e adattamento ai cambiamenti climatici. Le cosiddette «Spiagge Bianche», celebri per l’aspetto caraibico che attira turisti e fotografie da tutto il mondo, sono in realtà il risultato di decenni di sversamenti industriali. Un habitat morto, trasformato in discarica marina. Tutto questo avviene nel rispetto della legge, grazie a una autorizzazione del Ministero dell’Ambiente, che di fatto ha derogato all’accordo di programma del 2003 nel quale Solvay aveva accettato una drastica riduzione degli scarichi a mare..

Tra i materiali scaricati in mare, insieme a calcare e carbonato di calcio, si trovano sostanze altamente inquinanti: mercurio, arsenico, cadmio, nickel, piombo, zinco, dicloroetano, ammoniaca. Nel 2003, Solvay firmò con gli enti territoriali un accordo di programma che prevedeva una riduzione del 70% dei solidi sospesi scaricati in mare entro il 2007, passando da 200.000 a 60.000 tonnellate annue.

Nel 2008, l’associazione Medicina Democratica presentò un esposto alla Procura di Livorno, denunciando il mancato rispetto dell’accordo da parte dell’azienda, la presenza di quattro scarichi abusivi sconosciuti all’Arpat (Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana) e l’utilizzo di pratiche finalizzate a diluire i fanghi per aggirare i limiti di emissione previsti dalla normativa. Nel maggio 2013, Michèle Huart, direttrice dell’epoca dello stabilimento e altri quattro dipendenti della società, furono iscritti sul registro degli indagati dopo l’indagine della Procura di Livorno che stava indagando sullo scarico illecito di fanghi da parte di Solvay nell’area delle Spiagge Bianche, attraverso un sistema di condotte non mappate che permetteva di diluire sostanze come mercurio, piombo, selenio e fenoli, mantenendo i valori all’interno dei parametri di legge. Non si arrivò a sentenza, in quanto l’azienda scelse di patteggiare, impegnandosi ad attuare un’opera di bonifica del sito. 

Secondo quanto dichiarato a L’Indipendente da Maurizio Marchi, storico attivista di Medicina Democratica, quella bonifica non è mai stata realizzata. Tuttavia, il Ministero dell’Ambiente ha continuato a rinnovare l’autorizzazione per lo scarico a mare: l’ultima è del 2022, con limiti persino superiori a quelli stabiliti nell’accordo del 2003. Eppure, come racconta ancora Marchi, mentre le tappe intermedie previste tra il 2004 e il 2006 per la progressiva riduzione degli scarichi fallivano una dopo l’altra, la Regione Toscana erogava comunque 30 milioni di euro pubblici a Solvay in base allo stato di avanzamento dei lavori. «La Regione sapeva dell’inadempienza, ma pagava lo stesso. Qualunque persona onesta penserebbe a una truffa combinata ai danni dello Stato», ha dichiarato Marchi.

A questo si aggiungono numerosi episodi di sversamenti accidentali, in particolare di ammoniaca, avvenuti in seguito a blackout elettrici nello stabilimento, provocando la morte di interi banchi di pesci, poi spiaggiati lungo quella costa che, sotto l’apparenza esotica, nasconde una delle più grandi discariche industriali d’Italia.

Il più recente degli sversamenti di ammoniaca si è verificato il 29 agosto 2017, come denunciato da Medicina Democratica e Rete Ambientalista, oltreché riportato da diversi quotidiani nazionali e locali. La motivazione: un incidente avvenuto in sodiera confermato da Solvay a Il Tirreno, per il quale dai vertici aziendali si specificò di aver rispettato tutte le procedure necessarie, così come sostenuto anche da ARPAT, Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Toscana. Quest’ultima ha comunque rilevato una concentrazione di ammoniaca di 1,71 mg/l a 100 metri a nord dello scarico, informando Comune e ASL. I pesci sono poi stati analizzati presso la sede di Pisa dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale per il Lazio e Toscana, risultando in eccessiva decomposizione per un’attenta analisi.

La sostenibilità costa, sversare no 

Le Spiagge Bianche di Rosignano Solvay durante l’estate, agosto 2019

Come ci ha raccontato Maurizio Marchi, da tempo Medicina Democratica e altri comitati locali chiedono la chiusura degli scarichi a mare e la realizzazione, all’interno dello stabilimento, di una vasca di decantazione per il trattamento dei rifiuti, in modo da evitare l’enorme impatto ambientale provocato dallo sversamento diretto. Perché Solvay continua a scaricare in mare? La risposta è semplice. Come mostrato dallo stesso Marchi, secondo uno studio condotto nel 2013 dalla sezione di Livorno e Val di Cecina di Medicina Democratica, negli ultimi quarant’anni — cioè da quando è stata introdotta la legge Merli — Solvay avrebbe risparmiato circa 1,4 miliardi di euro rispetto a un corretto smaltimento dei rifiuti in discariche autorizzate. La costruzione di una vasca di decantazione nel parco industriale comporterebbe inoltre un costo stimato in decine di milioni di euro.

La colorazione bianca assunta nel tempo dal mare e dalla sabbia è dovuta principalmente alla dispersione di calcare e carbonato di calcio. Di per sé non si tratta di sostanze pericolose, non fosse che sono accompagnate da metalli pesanti. Inoltre, la colorazione biancastra che impedisce ai raggi solari di penetrare in profondità unitamente al sedimento sul fondale marino dei rifiuti, rende impossibile la sopravvivenza della posidonia, una pianta marina fondamentale per l’equilibrio dell’ecosistema costiero. La prateria di posidonia ospita numerose specie animali e vegetali, contribuisce alla protezione naturale della costa dall’erosione ed è considerata un bioindicatore della qualità delle acque.

Quando abbiamo parlato con l’attuale sindaco di Rosignano, Claudio Marabotti, in carica dall’estate 2024 e a capo di una giunta composta da liste civiche e Movimento 5 Stelle, ci ha raccontato di colloqui avuti con la dirigenza locale e nazionale di Solvay. L’azienda avrebbe manifestato una generica disponibilità a valutare in futuro la chiusura degli scarichi, sostenendo di non avere particolari ostacoli in tal senso. Tuttavia non risulta che sia stata ancora presa alcuna iniziativa concreta in merito.

Secondo quanto riferito dal sindaco, la dirigenza Solvay ha inoltre fatto notare che, nel caso in cui gli scarichi venissero chiusi, nel giro di una quindicina d’anni le Spiagge Bianche scomparirebbero e il mare potrebbe arrivare fino alla ferrovia, a causa dell’assenza di quei sedimenti solidi che hanno modellato l’attuale litorale. In altre parole l’azienda sostiene che, scaricando in mare, non solo non causa danni ma anzi contribuisce positivamente alla stabilizzazione della costa. Abbiamo chiesto a Solvay un incontro, il quale è stato negato, concedendo solo la risposta in forma scritta alle nostre domande. Un carteggio nel quale l’ufficio stampa della multinazionale ribadisce la posizione: «Il calcare in polvere che rimane dal ciclo di produzione viene restituito al mare in tutta sicurezza, contribuendo a stabilizzare la riva delle Spiagge Bianche contro l’erosione».

Quello che non viene ammesso è però un dato incontrovertibile: quel materiale apparentemente inerte è accompagnato da metalli pesanti e altre sostanze inquinanti. Anche lo stesso rilascio di calcare altera profondamente l’equilibrio marino: il fondale si copre di sedimenti melmosi che impediscono la vita della posidonia. Il mare, pur se visivamente suggestivo e per questo meta a basso costo per set fotografici e pubblicità senza dover recarsi ai Caraibi, è di fatto biologicamente morto. Paradossalmente, la funzione naturale di protezione della costa è proprio quella che sarebbe garantita dalla prateria di posidonia, se solo potesse esistere. La natura, insomma, fornisce già la propria difesa. Solvay invece sostiene di essere lei a fare un favore ai cittadini.

Incalzata dalle nostre domande, l’azienda ha dovuto riconoscere la presenza di metalli pesanti, pur mantenendo la propria linea: «È importante notare che Solvay non utilizza né aggiunge metalli pesanti durante il processo di produzione. Il calcare naturale stesso, come molti tipi di roccia o pietra, contiene naturalmente tracce di metalli pesanti, ma questi rimangono imprigionati allo stato solido nel calcare. Le autorità locali e regionali confermano che la qualità dell’acqua vicino all’impianto soddisfa elevati standard ed è coerente con il resto della costa toscana».

Sul punto specifico della scomparsa della posidonia e della sua relazione con il cosiddetto “mare bianco”, però, nessuna risposta.

La presenza di metalli pesanti in mare, in realtà, è accertata da decenni, come dimostrano numerosi studi, tra cui quelli del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Già nel 1999, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) aveva inserito i 14 chilometri di litorale di Rosignano tra le aree più inquinate del Mediterraneo. Una situazione citata anche in un’interrogazione del 2021 posta alla Commissione Europea da alcuni eurodeputati del Movimento 5 Stelle — Massimo Castaldo, Chiara Gemma, Dino Giarrusso e Daniela Rondinelli — in cui si chiedeva come fosse possibile che Solvay rientrasse tra le aziende con i più alti rating ESG (Environmental, Social and Governance), mentre Rosignano risultava uno dei luoghi più inquinati del Mediterraneo. Per l’occasione, si sollecitavano controlli e verifiche più stringenti. Richieste che rischiano oggi di essere vanificate dal nuovo corso politico della Commissione Europea sul Green Deal, che in nome della semplificazione e della competitività sta facendo marcia indietro su molte politiche ambientali.

Mesotelioma, cardiopatie, Alzheimer: lo studio epidemiologico mancante

L’impatto ambientale di Solvay non riguarda solo gli scarichi a mare ma anche le emissioni in atmosfera. Anche le osservazioni inviate all’Italia dalla Commissione Europea — con i quali si dava parere favorevole allo stanziamento di aiuti di Stato a Solvay per l’ammodernamento dell’impianto di produzione del cloro per un valore di 13,5 milioni di euro — confermano indirettamente l’inquinamento da mercurio presente in mare e nell’aria: «Dal punto di vista ambientale il principale vantaggio offerto dal processo a membrana rispetto al processo a catodo di mercurio per la produzione di cloro consiste nell’eliminazione degli scarichi idrici e delle emissioni atmosferiche di mercurio. Il mercurio è un metallo tossico, nocivo per la vita delle persone e degli animali. Lo stabilimento esistente emette 0,0565 kg di mercurio all’anno nell’atmosfera e ne scarica circa 0,1 t all’anno nell’acqua. Inoltre, verranno completamente eliminati i fanghi il cui volume annuo attualmente è pari a 32,94 t/anno», è quanto scrive la Commissione Europea nel 2005. Il nuovo impianto è poi entrato in funzione nel 2007. Il forte inquinamento dell’aria e del mare era stato anche oggetto di un’inchiesta condotta dalla giornalista Adele Grossi per Report nel 2019.

L’attuale sindaco di Rosignano Claudio Marabotti

Nel 2016 l’attuale sindaco di Rosignano, Claudio Marabotti — cardiologo di professione — condusse insieme a Paolo Piaggi, Paolo Scarsi, Elio Venturini, Romina Cecchi e Alessandro Pingitore uno studio ecologico comparativo tra Rosignano Solvay e Cecina, due aree geograficamente vicine ma con livelli molto diversi di inquinamento ambientale. L’obiettivo era verificare l’incidenza della mortalità per malattie cronico-degenerative rispetto alla media regionale della Toscana. Dallo studio emerse che in tutta la Bassa Val di Cecina i tassi standardizzati di mortalità risultavano significativamente più alti per patologie come mesotelioma, cardiopatie ischemiche, malattie cerebrovascolari, Alzheimer e altre malattie neurodegenerative. Nel Comune di Rosignano, in particolare, fu riscontrato un eccesso significativo di mortalità per tutte queste patologie. I risultati suggerivano un possibile legame causale tra la vicinanza agli impianti industriali — e agli altri siti inquinanti presenti nella zona — e l’aumento della mortalità, indicando quindi un potenziale ruolo patogenetico delle sostanze inquinanti

Per confermare questa ipotesi sarebbe stato necessario uno studio epidemiologico sulla popolazione. Uno strumento più preciso, richiesto da tempo da comitati e cittadini, ma mai realizzato per l’inerzia delle istituzioni pubbliche. Ora, però, la nuova giunta guidata da Marabotti ha dato il via libera all’avvio dello studio. Il sindaco ci ha riferito che le pratiche per l’affidamento dell’incarico sono state avviate e che lo studio epidemiologico sarà condotto dai laboratori del CNR di Pisa. 

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* Rettifica del 12 giugno 2025: Nella versione originale dell’articolo si scriveva che, nel maggio 2013, venne “accertato” uno scarico illecito di fanghi da parte di Solvay. Questo non è corretto, in quanto la fattispecie di reato non venne accertata in sede processuale in seguito al patteggiamento.

Esplosioni, fughe di gas, nessun piano di emergenza: benvenuti a Rosignano Solvay

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Il rischio zero all’interno di un parco industriale, com’è noto, non esiste. Esistono però buone pratiche, protocolli e normative pensati per prevenire gli incidenti o, almeno, per contenerne gli effetti in caso si verifichino. Questo vale per la sicurezza interna agli impianti, ma c’è un altro aspetto da considerare: la sicurezza dei cittadini. Un tema particolarmente rilevante a Rosignano Solvay, dove il tessuto urbano si è sviluppato quasi interamente attorno alla fabbrica, come conseguenza diretta della sua storia urbanistica. Se la sicurezza dei lavoratori ricade sotto la responsabilità della dirigenza del parco industriale, quella dei cittadini è un compito condiviso: coinvolge sì la stessa dirigenza, ma soprattutto l’amministrazione comunale e la prefettura, cioè gli organi pubblici chiamati a garantire la tutela della popolazione.

Il 28 agosto 2024, alle 13:15 circa, un’esplosione ha interessato una tubatura sotterranea di azoto liquido, secondo alcuni lavoratori — intervistati da L’Indipendente — a causa della mancata chiusura di una valvola che ha portato alla rottura del collettore di distribuzione dell’azoto. Fortunatamente, non ci sono stati feriti. L’esplosione ha provocato una voragine nel manto stradale e causato danni a un furgone e a un’auto parcheggiati nelle immediate vicinanze. «Questo incidente è solo l’ultimo di una serie di eventi pericolosi che mettono in luce la precaria sicurezza degli impianti», aveva denunciato in una nota il gruppo Resistenza Popolare su Facebook. L’incidente è avvenuto durante il periodo della cosiddetta “fermata”, ovvero la fase dell’anno in cui gli impianti vengono arrestati per consentire gli interventi di manutenzione. In questa fase, il carico di lavoro per gli operai aumenta sensibilmente, mentre le imprese appaltatrici principali forniscono personale aggiuntivo alle ditte che operano all’interno del parco industriale.

“Fermata” e fughe di cloro-metano

Mappa parziale di Rosignano Solvay: 1. Scuole Elementari e Medie Ernesto Solvay 2. Stadio Ernesto Solvay 3. Circolo Ricreativo Solvay 4. Cinema Teatro Solvay 5. Distretto Sanitario Azienda USL Toscana nord ovest 6. Ingresso principale stabilimento Solvay Linea verde – perimetro parziale dello stabilimento industriale

Come ci è stato raccontato da fonti interne alla fabbrica — che hanno chiesto di restare anonime — chi lavora per le due multinazionali o per le ditte interne, spesso organizzate in forma di cooperativa, deve essere obbligatoriamente formato per accedere agli impianti industriali, seguendo protocolli di sicurezza specifici. Anche durante il periodo della cosiddetta ‘’fermata’’, quando vengono assunti lavoratori a tempo determinato per far fronte all’aumento del carico di lavoro, è previsto per legge l’obbligo di corsi di formazione sulla sicurezza. Tuttavia questa preparazione risulterebbe spesso insufficiente. «Voglio tornare a casa da mia figlia» è quanto ebbe a dire una delle nostre fonti a un giovane dipendente assunto temporaneamente durante la fermata, sorpreso con il cellulare in tasca su un impianto classificato a rischio. In contesti simili, infatti, le componenti elettroniche possono provocare l’innesco di un’esplosione in caso di fuga di gas. Per questo motivo, l’uso dei telefoni cellulari è vietato in alcune aree ad alto rischio. A tutto ciò si aggiungono precise norme di sicurezza anche per quanto riguarda l’abbigliamento da utilizzare all’interno dello stabilimento.

La mattina del 31 ottobre 2024 si è verificata una fuga di cloro-metano dagli impianti Ineos. Il cloro-metano, a temperatura ambiente, si presenta in forma gassosa; sotto pressione diventa un gas liquefatto. È quasi incolore, ha un odore leggermente etereo e pungente, ed è altamente infiammabile, capace di formare miscele esplosive in presenza di aria, oltre a risultare irritante e corrosivo per le vie respiratorie. In passato veniva impiegato come gas refrigerante, ma a causa della sua tossicità il suo utilizzo è stato progressivamente abbandonato ed è oggi escluso dai prodotti di largo consumo.

Secondo quanto riferito da nostre fonti interne allo stabilimento, la fuoriuscita sarebbe stata causata dalla rottura di una guarnizione tra due accoppiamenti flangiati. Dopo l’incidente, sono scattati i protocolli di emergenza, ma solo nella parte del parco industriale gestita da Ineos. Mentre gli operai di quest’ultima abbandonavano gli impianti per raggiungere i punti di raccolta, le entrate e le uscite venivano bloccate e veniva effettuato l’appello dei lavoratori, nella parte di stabilimento dove opera Solvay, invece, le attività proseguivano regolarmente.

Le fonti ci hanno riferito che alcuni operai Solvay, insieme a quelli delle ditte interne, sono stati fermati dai lavoratori Ineos e fatti entrare nei punti di raccolta mentre attraversavano i settori in cui erano in corso le procedure di evacuazione. Un gesto che evidenzia come, tra gli operai Ineos, vi fosse una chiara percezione del rischio, tale da spingere ad allertare anche i colleghi delle aree adiacenti. Un atteggiamento di prudenza che contrasta con la scelta di Solvay di mantenere le attività regolarmente in corso.

Abbiamo chiesto a Solvay come mai, in presenza di una fuga di gas — che per sua natura si propaga con l’azione del vento — non fosse stato attivato alcun protocollo di emergenza. La risposta — pervenutaci via mail da parte della Responsabile Media e Reputazione della multinazionale, Laetitia Van Minnenbruggen — è stata la seguente: «L’azienda ha attuato misure di sicurezza preventive per i suoi dipendenti». Alla richiesta di chiarire cosa si intendesse con «misure preventive» — definizione che solitamente si riferisce a ciò che precede un evento, non che lo segue — ci è stato risposto: «La sicurezza dei nostri dipendenti è la nostra massima priorità. Per garantire la loro sicurezza, Solvay li ha informati e ricordato le misure di sicurezza, ha monitorato costantemente la qualità dell’aria e ha seguito le procedure interne. Poiché l’incidente si è verificato lontano dall’area di Solvay, i sensori non hanno rilevato anomalie e non è stato necessario alcun ulteriore intervento». Alla domanda su come sia stata gestita l’emergenza nei confronti della cittadinanza, invece, non è arrivata alcuna risposta. Del resto, se per Solvay era tutto sotto controllo all’interno dello stabilimento, è difficile immaginare che ci sia stata attenzione a ciò che accadeva fuori.

Domande senza risposta 

Rosignano Solvay, l’esplosione di una tubatura ad agosto 2024

La mattina del 31 ottobre, alcuni cittadini che vivono o lavorano nelle immediate vicinanze della fabbrica — in un’area in cui si trovano anche il distretto sanitario, lo stadio, il teatro, il circolo ricreativo e, soprattutto, le scuole elementari e medie — hanno sentito una voce provenire dagli altoparlanti dello stabilimento e avvertito un forte odore nell’aria. La cittadinanza, però, è rimasta all’oscuro di quanto stava accadendo. L’unica comunicazione ufficiale è arrivata solo diverse ore dopo, tramite un post pubblicato sulla pagina Facebook dell’amministrazione comunale. Non esattamente una prassi e un metodo di comunicazione ideale e tempestivo in un episodio del genere.

L’azienda ha avvertito il Comune dell’accaduto «non rapidissimamente», ha confermato a L’Indipendente il sindaco Claudio Marabotti. Il messaggio rilasciato sui social media dall’amministrazione riportava: «Siamo stati informati che questa mattina è avvenuta la fuoriuscita di gas (composto intermedio della lavorazione dei clorometani) da una tubazione situata in un impianto Ineos. Sono state attivate le procedure di sicurezza, sono stati evacuati i lavoratori ed è stato isolato il tratto di tubazione interessato dalla perdita. I dirigenti Ineos informano che non ci sono stati danni al personale e che non esiste rischio per i cittadini. Per precauzione sono stati interrotti gli ingressi dall’esterno all’interno del parco industriale».

Ma se non vi era alcun rischio per la popolazione, tanto da non attivare nemmeno la sirena di allarme, perché avvisare il sindaco ad alcune ore di distanza? E ancora: trattandosi di una fuga di gas, che per natura si diffonde con il vento, chi decide se esiste o meno un rischio per la cittadinanza? L’azienda non dovrebbe limitarsi a riportare con la massima tempestività l’accaduto e lasciar decidere alle autorità cittadine e sanitarie se vi sono o non vi sono rischi per la cittadinanza? Anche su questi punti da Solvay non è arrivata alcuna risposta alle nostre domande.

Il piano di emergenza fermo al 2015

A rendere la vicenda ancora più preoccupante è un dettaglio non secondario: il piano di emergenza cittadino è fermo al 2015, mentre i programmi di esercitazione per la popolazione risultano sospesi da ancora prima. A spiegarlo sono stati il sindaco Claudio Marabotti e l’assessore Giacomo Cantini. La redazione di questo piano dovrebbe avvenire congiuntamente tra le istituzioni pubbliche — in particolare l’amministrazione comunale e la prefettura — e la dirigenza dello stabilimento. Il sindaco, per legge, è considerato il massimo responsabile della salute e della sicurezza della cittadinanza, prerogativa condivisa con la prefettura.

La nuova giunta comunale guidata da Marabotti, in carica dal 2024 dopo decenni di amministrazioni a guida Partito Democratico, è frutto dell’alleanza tra le liste civiche Rosignano nel Cuore e Io Voto Io Vinco con il Movimento 5 Stelle. Secondo quanto riferito da Cantini, una delle prime azioni della nuova amministrazione è stata proprio quella di chiedere alla prefettura l’attivazione di un tavolo di lavoro per l’aggiornamento del piano di emergenza. L’assessore ha inoltre evidenziato come sia necessario che la cittadinanza venga adeguatamente istruita su come comportarsi in caso di incidente, in base alla tipologia del rischio. Ma da almeno un decennio nulla di tutto questo viene fatto. Una situazione particolarmente allarmante per una città che è cresciuta e vive a ridosso di uno dei più grandi poli chimici del Paese.

Alessandria: dove gli PFAS prodotti da Solvay avvelenano il sangue dei cittadini

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Una manifestazione di comitati e cittadini contro il silenzio delle istituzioni e le ricadute dello stabilimento produttivo Solvay a Spinetta Marengo

Entriamo in contatto con sostanze inquinanti ogni giorno, spesso senza nemmeno farci caso. Ma una cosa è sapere che l’inquinamento esiste, un’altra è scoprire di averlo dentro. Nel sangue. È quanto accaduto agli abitanti di Spinetta Marengo, frazione di Alessandria, in Piemonte, nota un tempo per la storica battaglia tra le truppe di Napoleone Bonaparte e l’esercito austriaco, e oggi per una crisi ambientale che ha travolto la comunità. Negli ultimi anni, il nome di Spinetta Marengo è infatti legato alla contaminazione da PFAS, sostanze chimiche definite “eterne” perché si accumulano nell’ambiente e nell’organismo umano senza degradarsi. Le conseguenze dell’esposizione sono gravi: i PFAS sono associati a tumori, disturbi ormonali e patologie cardiovascolari, rappresentando una minaccia a lungo termine per la salute di chi vive in quest’area.

Ma come si è arrivati a questo punto? Secondo le analisi condotte negli ultimi anni, la fonte della contaminazione è un impianto chimico attivo da decenni, che ha lasciato un’impronta tossica nelle acque e nei terreni della zona. A gestirlo è stata per anni la multinazionale belga Solvay. Oggi l’impianto è passato all’azienda Syensqo, ma si tratta di un cambiamento solo apparente: Syensqo è un’azienda da una dismissione della divisione “Specility” di Solvay, creata a fine 2023 all’interno di un’operazione di riorganizzazione societaria. Seppur si tratti di una azienda autonoma, a guidarla è Ilham Kadri, già amministratrice delegata di Solvay, a conferma di una continuità tra le due realtà.

Un’eredità tossica 

Tra il 2019 e il 2023 Ilham Kadri è stata amministratore delegato di Solvay. Dopo la scissione della società nel dicembre 2023, ha continuato a ricoprire la carica di CEO di Syensqo

Lo stabilimento chimico di Spinetta Marengo ha una storia che inizia nei primi del Novecento. Fondato nel 1905 da un gruppo di imprenditori locali, l’impianto avviò la produzione di composti chimici di base, tra cui pigmenti, acidi e, in particolare, solfato. Negli anni ’30, in piena crisi economica, l’impianto viene acquisito dalla Montecatini, allora gigante dell’industria chimica italiana, che ne amplia le attività. Nel dopoguerra inizia una nuova fase di espansione, culminata nella fusione tra Montecatini ed Edison nel 1966, che porta la fabbrica sotto il controllo di Montedison, uno dei colossi industriali europei.

Negli anni ’70, l’impianto si orienta sulla produzione di polimeri fluorurati, plastiche particolarmente resistenti ma difficili da smaltire. Questa direzione produttiva resta centrale fino agli anni ’90, quando lo stabilimento passa prima ad Ausimont, controllata di Montedison, e poi nel 2002 alla multinazionale belga Solvay. È in questo periodo che la produzione di polimeri speciali e fluorurati — tra cui i PFAS, composti poli e perfluorurati noti per la loro persistenza nell’ambiente e nel corpo umano — diventa uno dei fulcri dell’attività. Anche dopo il 2023, quando l’impianto viene formalmente trasferito a Syensqo la produzione di sostanze chimiche avanzate prosegue, mantenendo elevato il rischio di contaminazione ambientale.

Se si guarda la cronologia dal punto di vista produttivo, a Spinetta Marengo è passato di tutto. L’impianto ha iniziato con la chimica degli acidi forti, come l’acido solforico e fluoridrico, per poi spostarsi sulla produzione di cromati e bicromati, sostanze che possono provocare irritazioni, corrosioni delle mucose e, nei casi più gravi, ulcerazioni e perforazione del setto nasale. Col tempo, la produzione si è concentrata sui fluoroderivati, segnando la fase in cui i PFAS diventano centrali per lo stabilimento. Utilizzati in una vasta gamma di applicazioni industriali e di consumo, questi composti hanno lasciato cicatrici profonde sull’ambiente e sulla salute.

Quello che per decenni è stato considerato un esempio di successo industriale si è rivelato, col passare del tempo, un’eredità tossica: una realtà che continua a generare inquinamento e a minacciare la salute delle persone e degli ecosistemi in un’intera area del territorio.

I PFAS a Spinetta Marengo

Per anni, l’inquinamento a Spinetta Marengo è stato un sospetto più che una certezza. Se negli anni ’80 si parlava già dell’impatto ambientale dello stabilimento chimico, a mancare erano però dati e prove. Almeno fino al 2007, quando, secondo uno studio coordinato dall’Università di Stoccolma e citato dall’organizzazione ambientalista Greenpeace, il polo chimico della Solvay viene indicato come la principale fonte di PFOA (una molecola appartenente al gruppo PFAS, classificata dall’OMS come cancerogena per l’uomo) nel bacino del Po.

Concentrazioni di PFAS in varie province del Piemonte [elaborazione grafica: L’indipendente]
A far scattare l’allarme è un evento del tutto casuale. In quell’anno una nota catena di supermercati chiede di acquistare un terreno poco distante dalla fabbrica. Per ottenere i permessi, vengono condotte analisi sulla falda acquifera. I risultati forniti da ARPA Piemonte parlano chiaro: l’acqua è contaminata. Nel 2008, l’Istituto di Ricerca sulle Acque (IRSA-CNR) avvia uno studio sulla diffusione dei PFAS nei corpi idrici italiani. La ricerca, durata 24 mesi, conferma che lo stabilimento di Spinetta Marengo è una delle principali fonti di PFOA, sostanza che appartiene al gruppo PFAS.

Nel 2019, nuovi dati di ARPA Piemonte (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale), rivelano che la contaminazione non riguarda solo le acque superficiali. Le falde acquifere continuano a essere compromesse, dimostrando che la barriera idraulica installata dall’azienda per contenere l’inquinamento non si è dimostrata risolutiva. Criticità sottolineate da Angelo Robotto, Direttore generale di ARPA Piemonte che, intervenendo presso la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, tenutasi il 22 ottobre 2020, affermava: «La barriera è andata in crisi già due volte nel giro di cinque anni e a volte c’è stata una mancanza di informazioni circa il suo reale funzionamento». E non è tutto: a partire dal 2020 emerge un aspetto ancora più preoccupante. I PFAS non si fermano all’acqua, ma si disperdono nell’aria, trasportati dai venti ben oltre l’area dello stabilimento. L’inquinamento, insomma, non è circoscritto a Spinetta Marengo. Indagini condotte da Greenpeace Italia nel 2024 dimostrano che il C6O4, una molecola appartenente alla categoria generale dei PFAS e prodotta esclusivamente in questo stabilimento, è arrivata perfino nelle acque potabili di comuni lontani, da Torino alla Valle di Susa, fino alla provincia di Sondrio. Un’accusa a cui Syensqo ha risposto con un comunicato in cui, tra le altre cose, scrive: «C6O4 è l’unico fluorotensioattivo ancora prodotto a Spinetta Marengo e viene gradualmente eliminato. È registrato nell’ambito della legislazione europea (REACH) e non è bioaccumulabile né biopersistente». 

Ma il problema non è solo ambientale. Le ultime analisi condotte nel giugno 2024 su un campione di 36 cittadini hanno rilevato che il 100% dei soggetti presentava concentrazioni di PFAS superiori ai 2 nanogrammi per millilitro, il limite oltre il quale possono manifestarsi effetti dannosi per la salute.

Perché sono dannosi 

I PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) costituiscono una vasta famiglia di composti chimici artificiali, con oltre 4700 varianti conosciute. Queste sostanze si sono distinte nell’industria per la loro straordinaria resistenza al calore, all’acqua e ai grassi, grazie ai fortissimi legami chimici tra carbonio e fluoro. Una caratteristica che le rende ideali per applicazioni che richiedono materiali durevoli e impermeabili, come rivestimenti per padelle antiaderenti, tessuti, schiume antincendio, prodotti per la pulizia e cosmetici. La loro grande diffusione è legata proprio a questa resistenza, un vantaggio per le aziende da una parte, un danno inestimabile per l’ambiente e per il corpo umano dall’altra. Una volta introdotti, i PFAS restano infatti in circolo per anni, se non decenni, rappresentando un serio rischio per la salute degli esseri viventi. Essendo così persistenti, tendono ad accumularsi nel corpo umano, penetrando attraverso diverse vie: l’acqua potabile contaminata è una delle principali fonti di esposizione, ma anche l’aria e la catena alimentare possono diventare veicoli di contaminazione.

Concentrazioni di PFAS in località del vercellese a confronto con Spinetta Marengo. Il limite di legge suggerito è 0.5 µg/L. Dati simulati a scopo illustrativo basati su criteri di valutazione generici dell’ARPA Piemonte [elaborazione grafica: L’indipendente]
Nel tempo, l’esposizione cronica a queste sostanze può causare danni significativi alla salute. Studi scientifici hanno collegato l’accumulo di PFAS nel corpo umano a problemi come malattie del fegato, disturbi del sistema immunitario, alterazioni del colesterolo e, in alcuni casi, danni al sistema riproduttivo. Inoltre, prove sempre più numerose suggeriscono che i PFAS contribuiscano allo sviluppo e alla progressione di specifici tipi di tumore, come il cancro ai reni e ai testicoli, in particolare in relazione all’esposizione al PFOA. La loro permanenza nell’organismo è una delle principali preoccupazioni: non essendo facilmente eliminabili, gli effetti negativi tendono ad accumularsi nel tempo, aumentando il rischio per la salute. 

La battaglia legale 

Una manifestazione di comitati e cittadini contro il silenzio delle istituzioni e le ricadute dello stabilimento produttivo Solvay a Spinetta Marengo

La vicenda giudiziaria legata alla contaminazione da PFAS a Spinetta Marengo ha un percorso che si snoda attraverso indagini e sentenze. Una delle prime e più significative tappe del processo si registra nel 2008, quando il Nucleo Operativo Ecologico (NOE) dei Carabinieri avvia un’indagine approfondita sullo stabilimento chimico di Spinetta Marengo, sotto la direzione della Procura di Alessandria. Gli investigatori iniziano a raccogliere evidenze sulla contaminazione ambientale causata dalle attività industriali del sito, in un lavoro meticoloso protrattosi per oltre un decennio. I risultati arrivano nel 2019, con la pronuncia di una condanna nei confronti dei vertici aziendali per il reato di disastro colposo innominato. Nello stesso anno, le indagini dell’ARPA Piemonte rivelano la costante presenza di inquinanti collegabili alle produzioni Solvay nelle acque di falda. I monitoraggi evidenziano l’inefficacia della barriera idraulica installata dall’azienda, teoricamente progettata per filtrare le acque contaminate e convogliarle a un apposito impianto di trattamento.

Il giugno 2020 segna una svolta nella vicenda con l’ingresso in campo del WWF Italia. L’associazione ambientalista, per voce dell’avvocato Vittorio Spallasso, presenta un esposto formale alle autorità giudiziarie: un’azione legale che catalizza l’attenzione dell’opinione pubblica su una problematica fino ad allora relegata principalmente agli ambiti tecnici e specialistici. Il riconoscimento del WWF come “persona offesa” nel procedimento rafforza ulteriormente il peso dell’iniziativa, conferendo all’organizzazione un ruolo formale che le consente di vigilare sull’accertamento delle responsabilità.

L’inchiesta accelera significativamente nel febbraio 2021, quando il NOE conduce una vasta operazione di perquisizione presso lo stabilimento. L’obiettivo è verificare direttamente le modalità di sversamento delle sostanze inquinanti, raccogliendo prove concrete sull’entità dell’inquinamento e sulle responsabilità dei soggetti coinvolti. Azioni che, nell’agosto 2023, portano le autorità giudiziarie a disporre il sequestro preventivo di due discariche di gessi appartenenti al gruppo Solvay. Secondo gli inquirenti, queste strutture — che avrebbero dovuto essere dismesse — erano state illegalmente rimesse in funzione. La Procura ipotizza che i bacini, contenenti scarti di lavorazione e residui della depurazione delle acque, siano privi di adeguate coperture protettive, permettendo alle sostanze tossiche di disperdersi nell’ambiente circostante attraverso le correnti d’aria. Supposizioni che, nel giugno 2024, si trasformano in atti concreti: la Provincia di Alessandria emette due diffide ufficiali nei confronti di Solvay, imponendo all’azienda di rispettare rigorosamente i limiti per gli scarichi di PFAS e ordinando la sospensione delle attività produttive per 30 giorni.

Parallelamente all’iter giudiziario, anche le istituzioni hanno cominciato, seppur tardivamente, a muoversi. L’ARPA, per esempio, ha implementato un geoportale che mappa dettagliatamente la presenza di queste sostanze nel territorio. La Regione Piemonte, in collaborazione con l’ASL di Alessandria, ha avviato nel 2022 il “Biomonitoraggio Integrato”, un progetto nato dalla necessità di valutare concretamente l’esposizione umana ai contaminanti attraverso l’analisi di alimenti di origine animale e vegetale. Iniziative necessarie, ma del tutto insufficienti a risolvere il problema in assenza di una reale bonifica.

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* Rettifica del 12 giugno 2025: Nella versione originale dell’articolo era scritto che l’azienda Syensqo è una divisione di Solvay. Questo non è formalmente corretto, in quanto si tratta di un’azienda autonoma. Seppur la continuità manageriale evidenzi il collegamento tra le due aziende, definire Syensqo una azienda “controllata” da Solvay è formalmente errato.

* Replica di Syensqo in merito ai lavori di bonifica: in data 10 giugno Havas Pr, agenzia che si occupa delle relazioni con i media per conto di Syensqo, ci ha inviato alcune dichiarazioni che pubblichiamo al fine di garantire il diritto di replica:

«Dal 2012 l’impegno di Solvay prima e di Syensqo oggi, è stato continuo e consistente non solo dal punto di vista economico – oltre 47 milioni di Euro investiti e altri 26 già accantonati per interventi futuri – ma anche dal punto di vista tecnologico con l’applicazione delle migliori e più innovative tecnologie disponibili, sviluppate con partner qualificati come l’Università del Piemonte Orientale di Alessandria, oltre alla costante attività di collaborazione e monitoraggio in coordinamento con gli Enti.

Le attività di bonifica stanno procedendo verso il progressivo raggiungimento di tutti gli obiettivi e i monitoraggi, come già anticipato, confermano il significativo miglioramento dello stato qualitativo dei terreni e delle acque di falda. In particolare, tutti gli interventi approvati e pianificati per la rimozione dei solventi clorurati dai terreni e dalle acque di falda all’interno della proprietà sono stati completati.

Per maggiori dettagli, la invitiamo a consultare il pieghevole informativo “Syensqo: il nostro impegno per la bonifica”, relativo allo stato dell’arte della bonifica, distribuito a Marzo 2025 alla comunità di Alessandria».

La lotta dei cittadini contro Solvay e il silenzio delle istituzioni: intervista a Lino Balza

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Giornalista, scrittore, attivista, presidente del Movimento di Lotta per la Salute G. Maccacaro e direttore di Rete Ambientalista, Lino Balza è un volto storico della lotta contro la devastazione ambientale e sanitaria causata dalle attività della Solvay di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria. Le sue denunce contro l’azienda, iniziate dopo trent’anni di lavoro dipendente nell’azienda, gli sono costate ritorsioni quali cassa integrazione, trasferimenti, mobbing, demansionamento e licenziamento, oltre che una decina di cause, tutte vinte. Al momento, Balza si sta battendo strenuamente contro la richiesta di patteggiamento di Solvay per la causa relativa al disastro eco-sanitario dello stabilimento Spinetta Marengo, che permetterebbe all’azienda di chiudere il procedimento in anticipo senza dibattimento in cambio del pagamento di una somma in denaro (come già accaduto nel 2013, a Rosignano, per la questione degli scarichi abusivi in mare).  

Quali sono gli scenari futuri dopo la richiesta di patteggiamento di Solvay nella causa per il disastro eco-sanitario di Spinetta Marengo? 

È possibile che il patteggiamento segua lo stesso andamento di quello di Montecastello, Comune in provincia di Alessandria il cui acquedotto è stato chiuso nel 2024 per i PFAS e che si è accontentato di centomila euro per uscire dal processo, nel quale si era costituito parte civile. Solvay non ammetterà mai di star risarcendo qualcuno per le patologie da lei causate, nonostante da un monitoraggio effettuato dalla Regione Piemonte tramite il prelievo del sangue sia emerso che tutti i soggetti analizzati avessero PFAS nel sangue – compreso quello che produce solo Solvay, perché ne detiene il brevetto. Molte persone si sono ammalate di tumori a reni, testicoli, pancreas, tiroide, oltre ad aver sviluppato patologie legate al metabolismo. Questi soggetti, però, sono esclusi dal processo e quindi anche dal patteggiamento (o, meglio, dall’elemosina). All’inizio, l’imputazione nel processo era di disastro doloso, ma il tribunale l’ha poi derubricata a disastro ambientale colposo. Il procedimento è andato peraltro a colpire due pesci piccoli, due direttori anziché l’amministrazione dell’azienda. Per questo Solvay propone i patteggiamenti per evitare dibattimenti e udienze, perché le testimonianze potrebbero aggravare l’imputazione dell’azienda. 

A Rosignano la nuova amministrazione comunale ha dato il via alle procedure per effettuare uno studio epidemiologico sulla cittadinanza, che sarà effettuato dal CNR di Pisa. Le istituzioni pubbliche di Alessandria o della Regione Piemonte che posizioni hanno in merito a tali azioni? 

Ci sono state diverse indagini epidemiologiche nel corso di due decenni, di cui l’ultima nel 2019, dalle quali è emerso che la diffusione di alcuni tipi di tumori è qui altissima rispetto alla media regionale. Invece di condurre analisi su piccoli campioni di popolazione, come quelle effettuate dalla Regione, sarebbe essenziale un monitoraggio su vasta scala, ma non è mai stato fatto. Noi accusiamo da sempre la Regione di essere complice. Prima con Montedison, ora con Solvay. Hanno sempre impedito di realizzare monitoraggi di massa, perché il risultato sarebbe una pistola fumante contro l’industria e costituirebbe una forma di pressione pubblica nei confronti della Regione. Proprio questa pressione rischia di smorzarsi con il patteggiamento in corso: se la Regione Piemonte patteggia (al momento si parla di 600 milioni di euro), la questione si sgonfia e l’azienda ne esce pulita. Solvay ha bisogno di tempo, di alcuni anni ancora di produzione, poi deciderà lei se e quando chiudere. E lo farà senza dover pagare in cause civili e penali quello che uscirebbe fuori dal monitoraggio di massa. 

Anche i Comuni potrebbero patteggiare per chiudere la questione, anche se il sindaco ha il potere di emanare ordinanze con le quali chiudere le produzioni che ritiene siano un pericolo per la salute pubblica, sulla base di indagini epidemiologiche. Nel corso del tempo ho accusato tutti i sindaci che si sono succeduti ad Alessandria di essere complici di Solvay.

Secondo i dati dell’ARPA, poi, oltre agli PFAS ci sono 20 tipi di veleni che vanno a finire nell’aria, nel suolo, nelle falde e nei corsi d’acqua: tra questi, cromo esavalente, arsenico, nitriti, cloroformio, selenio, fluorurati, solfati e idrocarburi. Questi non vengono rilevati dal micro campionamento del sangue effettuato, né vengono cercati, anche se l’ARPA riferisce che le centraline che rilevano questi veleni abbiano registrato valori abnormi, sia nell’aria che nell’acqua. Si tratta di un inquinamento generalizzato, tra l’altro già dichiarato nel processo precedente. 

Il ministero dell’Ambiente si è costituito parte civile nel processo, ma questo governo si è rifiutato di emanare una legge nazionale che proibisse sostanze come gli PFAS. La lobby che sostiene le sostanze tossiche è molto potente, eppure alcuni Stati, come la Danimarca, hanno trovato il coraggio di andarle contro. In questo modo, sostanze come l’amianto e il DDT sono state eliminate. Anche in questo caso, un patteggiamento favorirebbe senz’altro Solvay, ma permetterebbe anche al governo di uscirne senza troppo sforzo.

In un simile contesto, le associazioni della società civile cosa chiedono?

Da un lato, abbiamo diffidato le istituzioni pubbliche dal partecipare ai tavoli di trattativa che favoriscono questo patteggiamento, perché in questo modo vengono estinti i reati penali e civili della contaminazione ambientale, non vengono riconosciute le vittime, le persone ammalate e quelle morte, né la reale entità dei risarcimenti. Dall’altro, abbiamo invitato la Procura a fermare il patteggiamento e lasciare che il processo vada avanti, senza tappare la bocca al dibattimento. 

Allo stesso tempo, è necessario fermare la produzione e l’utilizzo di sostanze tossiche e cancerogene, azzerare le emissioni e procedere con una seria procedura di bonifica a carico dell’azienda. Non come adesso, che Solvay dichiara di portare avanti la bonifica mentre il sito di produzione continua ad andare avanti. Così è come cercare di svuotare una vasca d’acqua lasciando il rubinetto aperto. La bonifica deve essere fatta con gli impianti di produzione chiusi.

Giungere alla redazione di una diffida congiunta insieme a tutti i comitati e le organizzazioni sociali è stato un grande risultato condiviso, perché una coesione simile non è sempre possibile. Spesso le persone hanno paura di esporsi e perdere il posto di lavoro: ad Alessandria, per esempio, non c’è una mobilitazione come quella di Vicenza, le condizioni sono diverse soprattutto perché a Spinetta Marengo si produce ancora.

Secondo lei vi è stata, negli anni, una adeguata copertura mediatica della situazione di Spinetta Marengo? 

Negli scorsi decenni a livello locale c’è stata una grande attenzione, poi personalmente ho iniziato a essere censurato, tanto da Montedison quanto da Solvay. Il motivo è stato chiaro quando sono uscite le intercettazioni telefoniche delle conversazioni tra i dirigenti dell’azienda e i giornalisti di organi di informazione locale, che si facevano dettare il contenuto degli articoli. Esistono prove certe di questo. A livello nazionale, invece, negli ultimi anni se ne è parlato moltissimo. Anche noi comitati e organizzazioni varie raggiungiamo tutti i giornali italiani con la nostra informazione e le nostre denunce. 

I lavoratori dell’azienda sono coscienti dei pericoli nei quali possono incorrere per la loro salute? 

Gran parte della questione ruota attorno alla fabbrica e la sua relazione con la realtà sociale ed economica della zona. Il ricatto salute-lavoro, quello è il nodo di tutto: le persone mettono in secondo piano il proprio diritto alla salute per il timore di perdere il lavoro. Nonostante la lotta di comitati e organizzazioni locali, non è semplice, quando avviene un ricatto del genere sui cittadini e la pressione sociale ed economica è così forte. Inoltre, con il passare del tempo, il problema viene normalizzato, non viene più percepito come tale. Ultimamente ci sono state un paio di fughe di gas, che ho denunciato, però parla oggi, parla domani, le fughe di gas alla fine le si da quasi per scontate.

Nell’ultimo anno in Europa sono state rimosse 542 barriere fluviali

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Romania: Simion chiede l’annullamento delle elezioni

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A due giorni dalla sconfitta alle elezioni presidenziali romene, George Simion, candidato di destra al ballottaggio, ha annunciato di avere chiesto alla Corte Costituzionale di annullare le elezioni. Le ragioni dietro la sua richiesta, si legge in un post pubblicato da Simion su X, «sono le stesse per cui sono state annullate le elezioni di dicembre: interferenze esterne di attori statali e non statali». Simion, di preciso, accusa Francia e Moldavia di avere interferito nelle elezioni. Parigi era già stata accusata da Pavel Durov, fondatore di Telegram, durante il giorno delle elezioni: Durov aveva detto di essere stato contattato dalla Francia per «silenziare le voci conservatrici romene».