mercoledì 27 Agosto 2025
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La colazione dei bambini oltre il marketing: i prodotti da evitare

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Da sempre i prodotti che l’industria alimentare e il marketing propongono per i bambini sono colorati, allegri, raffigurano pupazzetti simpatici e si accompagnano a spot TV che promettono tanta salute ed energia per i bimbi. Molti consumatori non sanno che tali prodotti sono quasi per intero a base di zucchero e non di cacao. Questo è il caso, ad esempio, di un noto prodotto in polvere da aggiungere al latte, che esiste in commercio da tantissimi anni e che ancora oggi si compone per ben il 75% di puro zucchero (un tempo arrivava persino all’81% di zucchero).

Questi prodotti, inoltre, richiamano con delle scritte sulle confezioni alla buona salute del sistema immunitario per la presenza di vitamine, ma non fanno nessun accenno al fatto che il prodotto si compone in prevalenza di zucchero, il quale non ha un impatto positivo sul sistema immunitario.

 

Un altro prodotto per la colazione dei bambini che l’industria promuove e vende nei supermercati è il latte fresco già zuccherato e contenente già la polvere di cacao. In Italia tipicamente si trova con la dicitura frontale nella confezione di «Il latte della Lola» raffigurante una simpatica mucca sorridente disegnata come fumetto. Come può non piacere ai bambini e persino alle mamme? Ebbene, al di là delle apparenze è sempre bene analizzare però il prodotto da un punto di vista nutrizionale e di salubrità. Ed ecco che si palesano tutti i suoi difetti: questo latte pronto all’uso ha un quantitativo di zuccheri che è di 2 volte e mezzo quello del latte naturale (10g su 100g di alimento, anziché 3,5g su 100g), proprio perché è stato aggiunto lo zucchero negli ingredienti. Già così siamo fuori da un contesto di prodotto sano per la colazione: ormai sappiamo, infatti, che tutti gli studi e le ricerche scientifiche ci dicono che non bisogna aggiungere lo zucchero nei cibi dei bambini – l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda addirittura di non somministrare mai zucchero ai bambini almeno fino ai 2 anni di età (quindi nemmeno cibi come biscotti, gelati, merendine o caramelle). Il latte possiede già la sua quota di zuccheri naturali (lattosio), pari a 3,5 grammi su 100g di alimento: non ne vanno aggiunti altri

Ma non finisce qua, il «latte della Lola» presenta anche altri problemi di tipo nutrizionale. Per prepararlo viene tolta la panna del latte intero e rimpiazzata con un additivo che lo rende cremoso e più denso: la carragenina, un emulsionante. Si tratta di additivi alimentari ampiamente utilizzati nell’industria alimentare perché permettono di migliorare la consistenza, il colore e il gusto dei cibi processati, oltre ad aumentare la durata di conservazione dei prodotti. 

Ma c’è un problema: anche la carragenina è una sostanza sconsigliata nella dieta, sia dei bambini che degli adulti stavolta, in quanto è collegata negli studi a problemi di salute come tumori e diabete di tipo 2. Il meccanismo attraverso il quale si arriva allo sviluppo di tumori e diabete nell’uso di questo tipo di additivi è collegato agli effetti deleteri che gli emulsionanti come la carragenina esercitano sul microbiota intestinale (cioè i batteri dell’intestino) e all’infiammazione che tali additivi determinano nell’organismo. Queste non sono solo mere ipotesi ma conclusioni scritte nere su bianco in diversi studi scientifici effettuati ad oggi su queste sostanze, come ad esempio questo studio molto esteso effettuato in Francia e pubblicato nel febbraio 2024 sulla rivista Plos Medicine.

Una terza categoria di prodotti per la colazione o la merenda dei bambini su cui il marketing alimentare ha investito tantissimo sono gli yogurt, che però sarebbe meglio definire pseudo-yogurt, in quanto non si tratta mai, a ben guardare, di veri yogurt ma di preparazioni dolciarie a base di yogurt. E anche in questo caso la costante negativa è l’aggiunta di zucchero a quello che potrebbe semplicemente essere un alimento naturale. Nel caso che vi mostro ho scelto un prodotto al gusto di fragola, pertanto anziché vedere solo yogurt e fragole nella lista ingredienti, ci si ritrova in aggiunta anche zucchero, aromi, stabilizzanti, amido di mais, concentrato di minerali del latte. Ma se lo yogurt è presente nel prodotto, perché aggiungere dei minerali del latte? Evidentemente quello yogurt è molto poco, oppure ha perso con il processo di lavorazione alcune sostanze importanti (come minerali e vitamine). Da segnalare che in questo prodotto è stato aggiunto tanto zucchero da far lievitare il contenuto complessivo a ben 16 grammi (ovvero 4 cucchiaini) per un vasetto da 125 grammi, mentre uno yogurt naturale ne avrebbe appena 4 grammi. Quattro volte più zuccheri, insomma. 

E per quanto riguarda il contenuto calorico in questi “prodotti sani” per bambini? Come si può leggere dalla tabella nutrizionale di questo pseudo-yogurt, siamo a 94 calorie, contro le 60 di uno yogurt intero naturale. Non solo più zuccheri e additivi dunque, ma anche più calorie, senza nemmeno accorgersene, per la maggior parte dei genitori che non conoscono le caratteristiche nutrizionali di yogurt e pseudo-yogurt. Molti di loro saranno semplicemente convinti di acquistare uno yogurt, anche perché sulla confezione c’è scritto in effetti «yogurt cremoso senza pezzi di fragola». In realtà non si tratta di uno yogurt ma di un dessert (o preparazione dolciaria) a base di yogurt: due prodotti ben diversi e con caratteristiche nutrizionali differenti, come avete appena potuto constatare da questa analisi. 

In conclusione, i bambini dovrebbero essere i componenti della famiglia ai quali si dà il cibo più sano, invece spesso finiscono per essere proprio coloro che ricevono ogni giorno sostanze e alimenti industriali a base di additivi e sostanze poco salutari. Riflettiamo su questi aspetti e sforziamoci di avere maggiore consapevolezza delle scelte alimentari destinate alla loro nutrizione, dando meno peso agli spot TV sui prodotti per bambini e più importanza a quelli che sono i consigli e raccomandazioni di esperti e nutrizionisti.

Nasce la Global Sumud Flotilla: una flotta di decine di navi partirà verso Gaza

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La solidarietà internazionale verso il popolo palestinese ha fatto un passo avanti. Gli attivisti della Freedom Flotilla, Global March to Gaza e Sumud Convoy hanno deciso di unire le forze, istituendo la Global Sumud Flotilla, «la più grande flottiglia civile mai realizzata per rompere l’assedio illegale di Israele» sulla Striscia di Gaza, dove continuano a essere uccisi centinaia di palestinesi ogni giorno. Di fronte alla repressione subita nelle scorse settimane, i volontari provenienti da tutto il mondo hanno deciso di non indietreggiare, rilanciando la solidarietà verso il popolo palestinese con una strategia comune: un convoglio marittimo coordinato, in partenza da diversi porti del Mediterraneo, che seguirà le orme di tre precedenti missioni della Freedom Flotilla. L’ultima di queste è condotta dall’imbarcazione Handala, che salperà tra pochi giorni dall’Italia in direzione Gaza.

Nelle prime due settimane di giugno, tre diverse iniziative pacifiche hanno provato a rompere l’assedio israeliano in Palestina, contando su migliaia di attivisti e volontari. La Freedom Flotilla ha tentato la strada marittima, mentre la Global March to Gaza e il Sumud Convoy quella terrestre. Tutte e tre hanno però trovato la repressione. Nel primo caso, l’esercito israeliano ha sequestrato l’equipaggio che portava aiuti a Gaza, rimpatriandolo dopo diversi giorni di carcere. Per quanto riguarda le iniziative via terra, a fare il lavoro sporco per Israele sono state rispettivamente le autorità egiziane e quelle libiche, che hanno bloccato migliaia di persone sul proprio territorio. Nonostante la repressione, gli attivisti hanno deciso di rilanciare il proprio impegno verso il popolo palestinese, mettendo in piedi un nuovo progetto che dovrebbe portare decine di imbarcazioni — una piccola flotta nonviolenta — in viaggio verso la Palestina. Gli obiettivi dichiarati consistono nella consegna urgente di aiuti umanitari alla popolazione palestinese a Gaza, per un corridoio guidato dai popoli là dove i governi hanno fallito; nel fermare il genocidio; nel denunciare il silenzio globale, la complicità, la protezione e i profitti costruiti con quella che di recente la relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese ha definito un’economia del genocidio.

«Sarà un messaggio al mondo intero, un promemoria che i palestinesi a Gaza e in tutta la Palestina non sono soli, e che i popoli non resteranno in silenzio», hanno dichiarato gli attivisti della Global Freedom Flotilla. La solidarietà al popolo palestinese non sarà infatti intaccata dalla più che probabile ondata repressiva che Israele sferrerà nuovamente verso gli attivisti, con l’obiettivo di ostacolare l’arrivo degli aiuti umanitari e mantenere l’assedio sulla Striscia di Gaza. La violenza verso i volontari provenienti da tutto il mondo potrebbe poi comportare un effetto boomerang per Israele, scatenando innanzitutto un’indignazione della società civile internazionale — ad esempio con un rilancio del boicottaggio — seguita dai fino ad ora silenti governi nazionali.

Nel frattempo, nella Striscia di Gaza l’esercito israeliano continua ad uccidere ogni giorno centinaia di palestinesi, molti dei quali in attesa di acqua o dell’unica razione di cibo della giornata. All’alba un bombardamento ha preso di mira il campo profughi di Shati, uccidendo almeno 5 persone e ferendone decine. Nelle ultime ore, le forze di sicurezza israeliane (IDF) hanno dato l’ordine di evacuare Gaza city e Jabalia e spostarsi a sud verso al-Mawasi, un’area che Israele considera sicura ma che bombarda costantemente.

Sorrento, caso appalti: notificati 16 arresti

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Sono state notificate 16 ordinanze in carcere e ai domiciliari ad altrettante persone indagate per l’assegnazione degli appalti pubblici a Sorrento nel periodo 2022-2024. I reati contestati sono corruzione, peculato e turbata libertà degli incanti. Tra i destinatari delle ordinanze ci sono funzionari, dirigenti comunali e alcuni imprenditori. Figura anche l’ex sindaco Massimo Coppola, che nel maggio scorso fu colto in flagrante dopo aver ricevuto denaro da un imprenditore.

In Perù è stata scoperta una città antica di oltre 3000 anni

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Nel cuore della Valle della Supe, in Perù, è riemersa dalle sabbie del tempo una città antichissima fondata nel 1800 a.C., chiamata Peñico e ora ufficialmente aperta al pubblico. Lo rivelano il Ministero della Cultura peruviano e gli archeologi che hanno effettuato la scoperta, aggiungendo che il tutto segue ben otto anni di scavi nel sito. La zona è stata ribattezzata “la Città dell’Integrazione”, in quanto dagli studi è emerso che unisse comunità provenienti dalla costa, dalle Ande e persino dalla giungla amazzonica. Il centro urbano è situato a centinaia di metri sul livello del mare e comprende ben 18 edifici tra strutture residenziali e pubbliche, tra cui un grande complesso cerimoniale decorato con rilievi di pututus, ovvero trombe in conchiglia usate per rituali e annunci. «Questo centro urbano si è sviluppato seguendo la tradizione culturale di Caral», ha spiegato l’archeologa Ruth Shady, aggiungendo che l’inaugurazione è avvenuta ufficialmente sabato 12 luglio con il festival Peñico Raymi, tra cerimonie tradizionali, arte e omaggi ai costumi locali.

Una fotografia del sito archeologico. Credit: Reuters

Gli esperti spiegano che, fondata circa 1200 anni dopo la nascita della civiltà di Caral, considerata la più antica delle Americhe, Peñico si è sviluppata come un importante centro urbano e commerciale. La città sorge su una terrazza geologica nella provincia di Huaura, nella regione di Lima, e si estende ai piedi delle colline andine a 600 metri di altitudine. Secondo gli archeologi dello ZAC (Zona Archeologica di Caral), inoltre, la scelta della posizione non fu casuale, in quanto oltre a garantire protezione da inondazioni e frane, favoriva le comunicazioni tra la costa, l’altopiano e la foresta amazzonica, consentendo lo sviluppo di una fitta rete di scambi economici e simbolici. Con la crisi di Caral però, ritenuta conseguenza di alcuni eventi climatici, Peñico ne avrebbe raccolto l’eredità sociale e politica, continuando a svolgere un ruolo di connessione e dialogo tra popolazioni diverse.

Una fotografia del sito archeologico. Credit: Reuters

Nel corso delle indagini archeologiche, spiegano gli scienziati, sono emerse prove significative dell’importanza cerimoniale, commerciale e ideologica di Peñico: tra le strutture identificate spicca il complesso B1-B3, e in particolare l’edificio B2, decorato con rilievi scultorei di pututus, ovvero strumenti usati nelle società andine per riunioni rituali e comunicazioni solenni. Secondo i ricercatori si tratta di indizi che suggeriscono che questo fosse il cuore amministrativo e spirituale della città, dove si tenevano le principali attività pubbliche. Al suo interno, inoltre, sono stati rinvenuti anche oggetti cerimoniali, tra cui collane di pietre pregiate, sculture di argilla, utensili in pietra e conchiglie lavorate, tra cui le cosiddette “Spondylus” e “crisocolla”. Il Ministero della Cultura, poi, suggerisce che il prestigio raggiunto dalla città potrebbe essere legato anche al commercio dell’ematite, un minerale usato per ottenere pigmenti rossi di forte valore simbolico nelle cosmologie andine: «Le caratteristiche monumentali, la posizione e i reperti suggeriscono un ruolo centrale nelle attività della comunità», conferma il comunicato ufficiale. Anche per questi motivi, secondo le istituzioni locali, l’apertura del sito e l’organizzazione del festival Peñico Raymi – con cerimonie dedicate alla Pachamama e momenti di arte e cultura – rappresenteranno il culmine di un lungo processo di ricerca e restituzione alla cittadinanza, confermando Peñico come nuovo tassello nel grande mosaico delle antiche civiltà delle Americhe, pronto a raccontare una storia ancora tutta da ascoltare.

La festa si è svolta sabato 12 luglio alle ore 10:00 locali, mentre gli orari di apertura al pubblico prevedranno la possibilità di ingresso dal lunedì alla domenica, festivi inclusi, dalle ore 9:00 alle 16:00.

Alta Velocità, condannati dieci No TAV per le proteste al cantiere di Giaglione

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Sono comprese tra gli 11 mesi e i 2 anni le pene inflitte agli attivisti del movimento contro la linea ferroviaria ad Alta Velocità in Val di Susa, condannati per gli scontri avvenuti nel luglio del 2020. La sentenza, emessa dal tribunale di Torino, riguarda fatti avvenuti nel cantiere di Giaglione. Le pene interessano dieci attivisti, accusati di avere assaltato il cantiere e ferito dei membri delle forze dell’ordine. Secondo le ricostruzioni della sentenza, la sera del 24 luglio, i manifestati si erano introdotti nel cantiere, e avevano eretto delle barriere lungo gli accessi al luogo; la polizia, incaricata di sgomberare i manifestanti, sarebbe così intervenuta, aumentando la tensione. Durante lo sgombero, sarebbero stati feriti due agenti, tra cui l’attuale questore di Aosta.

Secondo quanto riferito dai No TAV all’indomani dei fatti, la polizia sarebbe intervenuta a varie riprese anche con il fitto lancio di lacrimogeni senza motivo, in un momento in cui non vi sarebbe stata alcuna tensione, mentre i manifestanti cercavano di ricostruire le barricate rimosse dalla polizia nel corso della mattinata. La dinamica è mostrata in un video pubblicato dal Movimento sulle proprie pagine social: trovandosi di fronte una bassa barricata costruita dai cittadini, i poliziotti, in assetto antisommossa, hanno iniziato il lancio in un momento in cui la situazione non era ancora agitata, mirando direttamente ai presenti. Quest’ultima costituisce una pratica estremamente pericolosa, che comporta il rischio di ferite gravi e anche di morte per la persona che viene colpita. Proprio l’anno successivo, secondo quanto riferito dai No TAV (e mostrato all’interno di alcuni video diffusi dal Movimento), una ragazza è rimasta gravemente ferita dopo essere stata colpita in faccia da un lacrimogeno lanciato dalla polizia ad altezza d’uomo. I gas lacrimogeni sono classificati armi chimiche e banditi da convenzioni internazionali ratificate anche dall’Italia, ma nonostante ciò fanno parte dell’equipaggiamento delle forze di polizia e il loro utilizzo è ampiamente diffuso in contesti come quello della Val di Susa. Proprio nel 2020, a fronte dell’utilizzo intensivo di queste armi nel mondo, Amnesty International ha aperto un sito internet di monitoraggio del loro uso da parte delle forze dell’ordine, ricordando come, soprattutto se lanciate ad altezza uomo, costituiscano un rischio letale per i manifestanti.

Di tutto ciò non sembrerebbe esservi traccia nella sentenza della Procura di Torino, la quale ha invece condannato i presenti, tra le altre cose, per il lieve e accidentale ferimento di due membri delle forze dell’ordine durante le operazioni di sgombero delle barricate. L’ex dirigente di polizia (oggi questore di Aosta), Gianmaria Sertorio, e un altro commissario sono infatti rimasti feriti (la prognosi più lunga è stata di tre giorni) a causa dello strattonamento di un palo il quale, spiegano i presenti, avrebbe dovuto fungere da linea divisoria tra le due parti. Nel maggio di quest’anno, l’accusa aveva chiesto complessivamente 37 anni di carcere per i 10 imputati, ma il tribunale aveva disposto la riformulazione dei capi d’accusa al fine di ricostruire in maniera più esatta quanto accaduto.

La militarizzazione della Val di Susa, funzionale alla costruzione dei cantieri dell’Alta Velocità, va avanti da trent’anni circa, ovvero da quando si iniziò a parlare del progetto e, contestualmente, i residenti della valle si mobilitarono per impedire lo scempio del territorio. In trent’anni sono stati creati cantieri, cementificati chilometri di territorio, incarcerati decine e decine di cittadini in protesta, ma non è stato costruito nemmeno un metro dell’opera principale, mentre su alcune delle aziende coinvolte nei lavori si allunga anche l’ombra della mafia. Da quanto il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, ha (per l’ennesima volta) inaugurato l’inizio dei lavori di scavo nel tunnel di base, nel dicembre del 2023, non sono stati scavati nemmeno due chilometri del tunnel di base (su 12,5 complessivi in carico alla parte italiana), ovvero l’opera principale, che dovrebbe bucare la montagna per collegare la città di Torino con quella di Lione. La fine dei lavori è prevista, al momento, per il 2033. Nel frattempo, la repressione della valle prosegue senza sosta.

Bitcoin, sfondato il tetto dei 120mila dollari

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Bitcoin ha superato per la prima volta la soglia dei 120mila dollari per unità. La criptovaluta ha subito un’impennata verso gennaio, in concomitanza delle elezioni statunitensi, poi ha continuato a ondeggiare sul valore di 100mila dollari. Secondo gli analisti, il balzo degli ultimi giorni è dato dal fatto che, con il progredire dei confronti sui dazi di Donald Trump, gli asset di rischio sono tornati a essere attraenti, comprese tutte le principali monete crypto.

Venezia: l’Isola di Poveglia resterà pubblica grazie alla mobilitazione dei cittadini

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isola di poveglia

Dopo anni di lotte, manifestazioni e battaglie legali, l'isola di Poveglia, una delle località più affascinanti e al contempo misteriose della laguna veneziana, avrà una gestione pubblica. La concessione per la parte settentrionale dell’isola, non edificata e in stato di abbandono, è stata affidata per sei anni all’associazione “Poveglia per tutti”, che si occuperà di riqualificarla creando un parco urbano lagunare. Un traguardo che arriva dopo anni di tentativi falliti di privatizzazione, segnando una vittoria per la comunità veneziana e per chi da sempre lotta per mantenere l’isola nella sfe...

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Il comune di Bologna “combatte” il caldo spendendo decine di migliaia di euro in alberelli

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Un centinaio di alberi (in vaso) sistemati in 7 diverse piazze del centro storico al fine di contrastare il caldo cittadino: questa l’iniziativa del Comune di Bologna, guidato dal sindaco Matteo Lepore, che rientra nel più ampio progetto denominato Bologna Verde e volto a contrastare la vulnerabilità climatica attraverso interventi di mitigazione e adattamento. Dei circa 20 milioni di euro investiti complessivamente nel progetto, 128 mila sono stati spesi per l’acquisto e la sistemazione di queste piante: poco meno di 1300 euro ciascuna, una cifra che le opposizioni definiscono spropositata, al punto da aver presentato un esposto alla Corte dei Conti. In aggiunta a ciò, gli alberi non sarebbero nemmeno sufficientemente alti da creare effettivamente una zona d’ombra e dovrebbero in ogni caso essere rimossi a settembre, quando verranno sistemati definitivamente nei cortili e nelle scuole d’infanzia della città.

La dimensione degli alberelli è effettivamente ridotta: un tronco tra i 20 e i 25 centimetri, per un’altezza di 4-5 metri al massimo. Dalle immagini diffuse dal Comune stesso, è evidente che le zone d’ombra create dalle piante siano estremamente ridotte e non sufficienti a creare uno spazio d’ombra sufficiente a dare sollievo dal caldo estremo di queste settimane o a limitare l’effetto “isola di calore” nel centro cittadino, come vorrebbe l’amministrazione. I soldi necessari sono stati prelevati dal Fondo per la riparazione e l’adattamento climatico, il quale prevede la messa in atto di interventi volti a riparare i danni dei fenomeni climatici. Tuttavia, già solo per la sua durata l’intervento non si dimostra essere pensato per avere efficacia a lungo termine, nonostante l’ingente spesa effettuata. Secondo il capogruppo della Lega nel Consiglio Comunale, Matteo Di Benedetto, la somma corrisponde a circa il triplo del massimo possibile per l’acquisto di piante simili. Di Benedetto ha denunciato la natura puramente «estetica» e di «cosmesi urbana» dell’iniziativa, definendola una manovra di greenwashing e annunciando anche di aver presentato un esposto alla Corte dei Conti. Stefano Cavedagna, eurodeputato di FDI, segnala inoltre il rischio che piante così giovani e fragili possano morire facilmente, complici proprio le alte temperature.

Negli anni, il Comune di Bologna ha abbattuto molti più alberi di quanti ne abbia piantati. Come spiegato da Anna Petrucci, presidente del Comitato Tutela Alberi, le piante con le quali il Comune cerca di sostituire gli alberi secolari abbattuti per far posto a infrastrutture urbane sono spesso piccole e mantenute male, motivo per il quale si seccano e muoiono nell’arco di un paio di stagioni. Inoltre, «prima che un albero vada a sostituire le funzioni di quelli abbattuti ci vanno 30-40 anni». In un solo anno, denuncia Petrucci, sono stati abbattuti migliaia alberi per la costruzione del Passante di Mezzo, così come capitato a centinaia di altri che hanno dovuto far posto alla nuova linea tramviaria. In via degli Scalini, sulla collina bolognese, la deforestazione messa in atto dall’amministrazione ha comportato, a seguito dell’alluvione del 2023, una frana che ha causato la chiusura della via, riaperta solamente dopo 2 anni e 600 mila euro di interventi di ripristino. Lo scorso anno, solamente la ferma opposizione di cittadini e comitati – che hanno resistito anche alla dura repressione di polizia – ha evitato la cementificazione del parco Don Bosco e l’abbattimento di 42 alberi.

Il progetto, spiega Lepore ai media, è di piantare complessivamente 3 mila alberi. Quelli in vaso distribuiti in giro per le piazze, assicura, saranno innaffiate tre volte a settimana, si valuterà poi se sarà necessario farlo di più. Nel frattempo, quelle che già ci sono «permetteranno alle persone di attraversare questa piazza così assolata», riferisce in una intervista rilasciata in piazza Nettuno. Peccato che dell’ombra non ci sia traccia neanche lontanamente.

Somalia: Al Shabaab avanza nel Paese

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Le milizie di al-Shabaab, movimento jihadista affiliato ad Al Qaeda, hanno conquistato la città di Tardo, nella regione della Somalia centrale di Hiiran. A dare la notizia è un funzionario militare somalo, che ha dichiarato che Al Shabaab starebbe proseguendo nell’avanzata nella regione. Da quanto comunica l’esercito somalo, le forze del Paese si starebbero mobilitando per un contrattacco. L’offensiva di Al Shabaab si è intensificata a partire dall’inizio di quest’anno. Un parlamentare regionale ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che almeno 12.500 famiglie sarebbero fuggite da Tardo e dalla vicina città di Muqokori, che al-Shabaab ha dichiarato di aver conquistato la scorsa settimana.

Rotterdam, il più grande porto d’Europa, si prepara alla guerra con la Russia

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Prosegue il piano europeo per prepararsi a una guerra contro la Russia. Dopo il riarmo e l’aumento delle spese militari da destinare all’Alleanza atlantica, ora è il porto di Rotterdam, il più grande d’Europa, a prepararsi alla guerra contro la nazione eurasiatica guidata da Vladimir Putin. Lo scalo olandese, infatti, sta predisponendo aree per accogliere navi della NATO cariche di mezzi e forniture militari e pianificando esercitazioni anfibie. A riferirlo è stato direttamente l’amministratore delegato dell’Autorità portuale di Rotterdam, Boudewijn Siemons, in un’intervista al quotidiano britannico Financial Times (FT). Il ministero della Difesa olandese ha chiesto alle autorità portuali di destinare degli spazi per lo scarico regolare di diverse navi con materiali militari nell’ambito delle operazioni della NATO, rendendo disponibili tali spazi per diverse settimane per quatto o cinque volte all’anno. Secondo il FT, si tratta della prima volta che il porto si prepara ad attività simili: non era mai successo nemmeno durante il periodo della Guerra fredda.

La preparazione dello scalo a possibili scopi militari sarebbe solo una parte di una strategia più ampia per affrontare un possibile conflitto con la Russia: la Commissione europea, infatti, anche alla luce della pandemia e della crisi del gas dovuta alla fine dell’importazione del gas russo, intende predisporre e adottare una nuova “strategia di stoccaggio” per beni essenziali quali rame, litio, grafite, attrezzature mediche ed energia, imitando la riserva obbligatoria di petrolio introdotta dopo lo shock del 1973. Secondo il FT, lo stesso direttore del porto di Rotterdam ha esortato l’UE a creare riserve strategiche non solo di petrolio, ma anche di rame, litio, grafite e farmaci. A suo dire, le aree circostanti i porti, dotate di una logistica avanzata, sono ideali per lo stoccaggio di tali riserve. Simons ha anche reso noto che il porto sta coordinando le proprie attività con il vicino porto di Anversa in previsione dell’arrivo di equipaggiamenti e materiali dal Regno Unito, dagli Stati Uniti e dal Canada, per gestire eventuali picchi nel traffico militare. «Non tutti i terminal sono adatti a carichi militari. In caso di grandi volumi, potremmo affidarci ad Anversa o viceversa», ha spiegato, aggiungendo anche che «Ci vediamo sempre meno come concorrenti: collaboriamo dove possibile».

Il porto di Rotterdam si estende per 42 chilometri lungo il fiume Mosa e movimenta ogni anno circa 436 milioni di tonnellate di merci, ricevendo 28 mila navi marittime e 91 mila imbarcazioni fluviali. In seguito alle sanzioni imposte dall’UE alla Russia, il traffico del porto è calato dell’8%, soprattutto nei settori legati al greggio. Il porto di Anversa, invece, con 240 milioni di tonnellate di merci all’anno, rappresenta il secondo scalo europeo e ospita regolarmente forniture per le truppe statunitensi di stanza in Europa. I porti sono ora coinvolti nelle misure di preparazione militare a livello continentale, che prevedono, tra le altre cose, un piano di riarmo da 800 miliardi di euro e l’aumento delle spese per la Difesa fino al 5% del Pil. L’UE ha scelto la strada della guerra contro la Russia in maniera apparentemente irreversibile, sebbene fino ad ora abbia pagato a caro prezzo, soprattutto a livello economico e industriale, la decisione di contrastare con tutti i mezzi possibili la Federazione russa.

Anche un rapporto pubblicato pochi giorni fa dalla Fondazione russa Roscongress, intitolato La militarizzazione dell’Europa: bilanci e geografia delle nuove capacità produttive, attesta la volontà del Vecchio Continente di prepararsi specificamente a uno scontro militare con Mosca, mettendosi nelle condizioni di affrontare un conflitto lungo e intenso senza l’appoggio degli Stati Uniti e riconvertendo a questo scopo l’intera economia europea. L’effetto è il ridimensionamento dell’economia civile a favore di quella militare: secondo il rapporto, tra il 2021 e il 2024, la spesa totale per la difesa dell’UE è aumentata del 31%, raggiungendo i 326 miliardi di euro. In questo contesto, i produttori di armi, soprattutto quelli europei, hanno iniziato a battere nuovi record finanziari: le vendite di ogni produttore europeo di armi crescono di diverse decine di punti percentuali all’anno. Guidata ideologicamente da una strategia rigidamente atlantista, piuttosto che cercare soluzioni diplomatiche e riprendere il dialogo con Mosca, l’Ue ha deciso di sacrificare i popoli europei sull’altare della guerra. A tal fine, la preparazione dei porti di Rotterdam e Anversa è solo l’ultimo tassello di una predisposizione complessiva del Vecchio Continente allo scontro con la Russia, anche nel tentativo ultimo di arginare il rapido mutamento degli assetti internazionali.