Negli Stati Uniti si è svolta una giornata di proteste su larga scala organizzata con lo slogan “No Kings”, in oltre 2.600 località di tutti i 50 Stati. Secondo gli organizzatori 7 milioni di persone manifestato contro le politiche dell’amministrazione Trump che vengono definite “autoritarie” e contro lo shutdown governativo. Le proteste fanno riferimento al presidente come a un “re” non eletto e hanno chiesto un ritorno ai princìpi democratici tradizionali, citando in particolare misure su immigrazione, uso della forza e diritti civili. Le manifestazioni sono rimaste pacifiche, mentre da parte del partito repubblicano sono arrivate accuse di radicalismo e antinazionalismo nei confronti dei partecipanti. Trump ha risposto alle mobilitazioni definendole “contro l’America”. Su Truth Social ha poi condiviso un video creato con l’Intelligenza artificiale in cui lo stesso presidente lancia letame sui manifestanti.
Rapina al Louvre: museo chiuso e indagini in corso
Una rapina è avvenuta nelle prime ore di oggi al Museo del Louvre di Parigi. Il ministero della Cultura francese ha confermato l’accaduto, precisando che non sono al momento noti i dettagli né se oggetti siano stati effettivamente trafugati. Stando a quanto riferito dai media, i malviventi si sarebbero introdotti nel museo nei primissimi momenti dell’apertura, mentre cominciavano ad arrivare i primi visitatori. Secondo quanto riportato da Le Parisien, i ladri avrebbero rubato nove pezzi della collezione di gioielli di Napoleone e dell’Imperatrice. Tuttavia, le circostanze del colpo sono ancora poco chiare e non è stato confermato il bottino del colpo. Il museo resterà chiuso per l’intera giornata di domenica, mentre la polizia ha avviato le indagini sul luogo.
Bosnia, nominata presidente ad interim nell’entità serba
Il parlamento della Republika Srpska (entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina) ha nominato Ana Trišić Babić presidente ad interim in sostituzione di Milorad Dodik, dopo che nel agosto scorso a quest’ultimo era stato revocato il mandato a seguito di una condanna a un anno di reclusione e sei anni di interdizione politica per disobbedienza perpetua alle delibere dell’Alto Rappresentante internazionale in Bosnia ed Erzegovina. La nomina è avvenuta con 48 voti favorevoli e 4 contrari. Trišić Babić rimarrà in carica fino alle elezioni anticipate del 23 novembre.
Israele continua a fare a pezzi la tregua: strage di civili e valico di Rafah ancora chiuso
La tregua tra Israele e Hamas, concordata nove giorni fa a Sharm el Sheik, appare già compromessa. Nella notte di venerdì, l’esercito israeliano ha colpito un autobus nel quartiere di Zeitoun, a Gaza City, uccidendo undici persone, tra cui donne e bambini. Un portavoce dell’agenzia di protezione civile palestinese, Mahmoud Bassal, ha riferito alla BBC che i morti appartengono tutti a una stessa famiglia, che stava rientrando in città per controllare la propria casa. L’esercito israeliano ha confermato di avere colpito il bus, sostenendo che si trattasse di un veicolo sospetto. L’episodio è avvenuto mentre dovrebbe essere in corso un cessate il fuoco, parte dei primi accordi di pace mediati dagli Stati Uniti. Hamas ha denunciato che Israele ha violato l’accordo di cessate il fuoco, in vigore dal 10 ottobre, 47 volte, con attacchi contro la popolazione che hanno causato la morte di 38 persone.
In una dichiarazione ufficiale, il governo di Gaza parla di «attacchi deliberati» e «crimini di fuoco diretto contro i civili». Secondo Hamas, l’esercito israeliano continua a operare con carri armati e droni in diverse aree della Striscia, in violazione del diritto internazionale umanitario. Nonostante l’intesa, i raid israeliani sono, infatti, proseguiti in diverse aree della Striscia e il valico di Rafah, principale punto di passaggio verso l’Egitto e fondamentale per gli aiuti umanitari, resta chiuso «fino a nuovo avviso», su ordine del governo israeliano, aggravando una situazione umanitaria già drammatica. La chiusura del valico ritarderà la consegna delle salme degli ostaggi che Hamas deve restituire a Israele in virtù dell’accordo di cessate il fuoco, ha commentato lo stesso movimento di resistenza islamico. Intanto, La Croce Rossa ha informato l’esercito israeliano che Hamas ha consegnato due bare, contenenti i corpi di due ostaggi uccisi. I resti saranno trasferiti all’istituto forense Abu Kabir di Tel Aviv per l’identificazione. Da parte di Israele, l’ufficio del premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito che Hamas deve rispettare gli impegni dell’accordo e ha specificato che «non si farà sconto» sulla restituzione delle salme degli ostaggi. Netanyahu ha annunciato in queste ore che si candiderà alle elezioni del novembre 2026 e che si aspetta di vincerle. Al canale televisivo di destra Channel 14, il premier israeliano ha anche dichiarato che la guerra a Gaza terminerà solo una volta completata la seconda fase della tregua in corso, che prevede il disarmo di Hamas. Hamas, dal canto suo, ribadisce di non volersi disarmare e di voler mantenere il controllo della Striscia. Lo ha dichiarato in un’intervista pubblicata sul sito dell’agenzia Reuters dal dirigente di Hamas Mohammed Nazzal. Questi ha inoltre assicurato che il gruppo non ha alcun interesse a trattenere i corpi rimanenti degli ostaggi israeliani deceduti, confermando che esistono, però, problemi di reperimento e aggiungendo che attori internazionali come la Turchia o gli Stati Uniti avrebbero contribuito alle ricerche, se necessario.
Mentre sul terreno, la tregua si dissolve tra accuse incrociate e un numero crescente di vittime, da Washington il presidente Donald Trump ha rinnovato la minaccia di intervenire militarmente contro Hamas se lo spargimento di sangue persiste a Gaza: «Non avremo altra scelta che entrare e ucciderli» ha scritto in un post su Truth Social. La Casa Bianca non ha fornito chiarimenti e il leader statunitense non ha spiegato come vorrebbe attuare il suo avvertimento. Trump ha poi chiarito che non invierà truppe statunitensi a Gaza: «Non saremo noi», ha spiegato il tycoon in uno scambio con i giornalisti alla Casa Bianca. «Non dovremo farlo. Ci sono persone molto vicine, molto vicine, che entreranno e faranno tutto molto facilmente, ma sotto i nostri auspici». Intanto, il Dipartimento di Stato statunitense ha diffuso un avvertimento basato su «informazioni attendibili» su un presunto piano di Hamas per colpire civili palestinesi, nella Striscia di Gaza, in violazione del cessate il fuoco. Nella breve nota del Dipartimento di Stato USA si legge che tale violazione comprometterebbe i progressi ottenuti grazie ai mediatori (Qatar, Turchia, Egitto) e che in tal caso saranno adottate «misure per proteggere la popolazione di Gaza». A Hamas viene chiesto di «rispettare gli impegni» secondo «i termini del cessate il fuoco». Nella nota non ci sono, però, dettagli sul possibile attacco, gli obiettivi o il luogo.
Hamas ha respinto le accuse, definendole “false” e «in linea con la propaganda israeliana». In un comunicato diffuso da Al Jazeera, il gruppo accusa Washington di fornire copertura ai «crimini dell’occupazione» e ha invitato la Casa Bianca a concentrarsi, invece, sulle violazioni israeliane del cessate il fuoco. L’avvertimento del Dipartimento di Stato arriva, infatti, dopo le ultime minacce di Trump a Hamas, delineando una narrazione univoca che sposta l’attenzione dalla responsabilità di Israele, che continua a colpire obiettivi civili, a un fantomatico disegno islamista non documentato. In questo modo, gli Stati Uniti si pongono sul piano internazionale come architetti della pace, presentandosi come arbitri neutri, mentre in realtà legittimano le azioni militari israeliane, ignorando apertamente le vittime palestinesi dall’entrata in vigore della tregua. Il risultato è che la promessa di cessate il fuoco si traduce ogni giorno in una realtà fatta di bombardamenti, morti tra i civili e silenzi diplomatici. Quello che avrebbe dovuto segnare un punto di svolta per avviare un percorso politico e alleviare la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza oggi appare in stallo. La comunità internazionale osserva con preoccupazione, ma senza il coraggio di compiere passi concreti: l’accordo rischia così di restare una parentesi sospesa tra la guerra e una pace che continua a esistere solo sulla carta.
Pakistan e Afghanistan concordano cessate il fuoco immediato
Dopo due settimane di combattimenti lungo il confine, Islamabad e Kabul hanno concordato un cessate il fuoco immediato, mediato dal Qatar. Lo ha annunciato il ministero degli Affari Esteri del Qatar, dopo che almeno 10 persone sono state uccise in attacchi aerei pakistani dopo una precedente tregua. La violenza tra i due Paesi vicini è aumentata dall’inizio di questo mese, con ciascuna delle parti che sostiene di rispondere alle aggressioni dell’altra. L’intesa prevede la creazione di meccanismi di cooperazione e dialogo per prevenire nuove escalation e favorire una stabilità duratura nella regione. Il governo pakistano e quello afghano si sono impegnati a proseguire il confronto diplomatico, mentre Doha continuerà a svolgere un ruolo di garante del processo di pace.
Giochi Milano-Cortina: emesse 16 interdittive antimafia per imprese interessate ai lavori
Un’importante operazione di prevenzione amministrativa antimafia ha sbarrato la strada a sedici aziende, la maggior parte edili, che puntavano ad accedere agli appalti per le opere infrastrutturali delle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 e alla ricostruzione post-sisma nell’Italia Centrale. I provvedimenti di interdizione sono stati emessi ieri, venerdì 17 ottobre, dalla Struttura per la prevenzione antimafia del Viminale guidata dal prefetto Paolo Canaparo, e sono scattati dopo accertati «collegamenti diretti con esponenti della criminalità organizzata in grado di incidere sulle scelte imprenditoriali». Le misure disposte mirano a impedire che capitali illeciti delle organizzazioni criminali trovino accesso agli appalti e ai finanziamenti pubblici più consistenti. Sono ormai numerosi gli indicatori che, nel corso del tempo, hanno confermato il grande interesse mafioso per le opere legate ai Giochi olimpici.
Le aziende interdette – attive principalmente nel settore edile e in prevalenza con base al Sud – avevano tutte fatto richiesta di iscrizione nell’Anagrafe Antimafia degli Esecutori, passo obbligatorio per partecipare a gare pubbliche di tale portata. La mappatura geografica delle sedi sociali è assai eloquente: ben sette imprese hanno sede nella provincia di Foggia, due in quella di Caserta, altrettante in provincia di Catania e una ciascuno nelle province di Torino, Teramo, Modena, Lecco e Ancona. Questo dato conferma il forte interesse dei clan, non solo pugliesi della Sacra Corona Unita, ma anche di mafia, camorra e ‘ndrangheta, per i capitali legati a grandi eventi e alla ricostruzione. Le indagini della struttura del Viminale hanno portato alla luce un quadro di compromissione preoccupante. Dall’analisi sono emerse «connivenze, alleanze e accordi di mutua convenienza, legami parentali e frequentazioni assidue con esponenti di clan» attraverso cui le organizzazioni criminali «da un lato esercitano sempre di più una illecita pressione ed ingerenza sul tessuto socio-economico, e dall’altro rafforzano la capacità di infiltrare e condizionare la rete produttiva anche ricorrendo a forme di intimidazione ed estorsione». Non si tratta quindi di mere suggestioni, ma di legami strutturati e pericolosi, in grado di alterare la concorrenza e il mercato.
Con i sedici provvedimenti firmati dal prefetto Canaparo, salgono a 40 le interdittive disposte nei primi dieci mesi del 2025. Un numero in netta crescita: nel 2024, infatti, le interdittive erano state 26, mentre nel 2023 se ne contavano 19. Accanto alle sedici interdittive, l’operazione ha incluso anche due provvedimenti di cosiddetta “prevenzione collaborativa” della durata di un anno, emessi nei confronti di altre due imprese di Foggia interessate ai lavori di ricostruzione post-terremoto. In questi casi, i tentativi di infiltrazione e di agevolazione dei clan pugliesi accertati dal Gruppo interforze antimafia sono stati ritenuti occasionali. Scaduti i dodici mesi, se le verifiche non evidenzieranno altri tentativi di infiltrazione mafiosa, le due imprese potranno ottenere una liberatoria. Diversamente, riceveranno a loro volta un’interdittiva.
Non è la prima volta che scatta il campanello dall’allarme sulle strategie mafiose di attacco ai lavori per i Giochi. A giugno, nella sua ultima relazione al Parlamento, la Direzione Investigativa Antimafia aveva segnalato il rischio concreto di infiltrazioni mafiose nei cantieri delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026. Uno dei 50 provvedimenti antimafia emessi nel 2024 in Lombardia ha infatti colpito una società edile milanese coinvolta nella costruzione di un parcheggio interrato a Sondrio, opera inserita nel piano olimpico. Gli amministratori dell’azienda sono risultati legati a cosche della ‘Ndrangheta. La DIA ha sottolineato come la criminalità organizzata, in particolare quella calabrese, stia cercando di sfruttare i grandi eventi per penetrare nell’economia legale e negli appalti pubblici.
Lo scorso febbraio, la Prefettura di Verona aveva emesso un’interdittiva antimafia nei confronti di due aziende del settore delle costruzioni che puntavano a partecipare agli appalti per le Olimpiadi invernali. Secondo quanto ricostruito dagli uffici della Prefettura scaligera, le due società – con sede legale a Verona e Legnago – avrebbero infatti avuto connessioni con personaggi organicamente attivi in un network ‘ndranghetista che da tempo operava nel territorio veronese. Nel 2022, inoltre, era stato arrestato a Milano Pietro Paolo Portolesi, presunto affiliato alla ’Ndrangheta, con l’accusa di trasferimento fraudolento di beni e valori. Una delle sue società aveva partecipato alla gara per lo smaltimento delle macerie nel cantiere del villaggio olimpico di Porta Romana, a Milano.
Firenze, migliaia in piazza con gli operai della ex GKN
Sarebbero almeno diecimila, secondo gli organizzatori, le persone scese in piazza a Firenze con il collettivo di fabbrica della ex GKN, per chiedere l’avvio del Consorzio industriale nella fabbrica di Campi Bisenzio al fine di reindustrailizzare lo stabilimento. Il consorzio era stato approvato in estate, ma non è mai partito perchè non sono state fatte le nomine. Insieme agli operai della ex GKN, da 7 mesi in disoccupazione, vi sono persone arrivate da tutta Italia. Alcuni momenti di tensione sono stati registrati quando un gruppo corteo ha deviato dal percorso entrando in aeroporto, dove ha trovato il cordone delle forze dell’ordine.
Il governo Meloni vuole inserire un membro nominato dal governo nei CDA delle università
La commissione per la riforma della governance universitaria ha presentato una proposta al Ministero dell’Università e della Ricerca che introdurrebbe una figura nominata direttamente dal governo nei Consigli di Amministrazione degli atenei. A dare la notizia è Rete 29 aprile (R29A), associazione di lavoratori e lavoratrici del mondo accademico italiano. La proposta si inserisce all’interno di un progetto di riforma della governance di ateneo che l’esecutivo ha intenzione di portare avanti da tempo, e che prevedrebbe anche «l’imposizione di due componenti nel CdA da parte degli enti locali», e il rafforzamento del mandato dei rettori. Il Ministero, inoltre, «influirebbe sulla politica dell’Ateneo anche imponendo delle ‘linee generali’, di cui il rettore dovrebbe ‘tenere conto’». Una vera e propria «ingerenza diretta» del Governo all’interno degli atenei, scrive R29A, che sembra essere volta ad accentrare gli organi universitari e a subordinarli ai dettami governativi.
La bozza visionata da R29A è stata avanzata dalla commissione per la riforma della governance universitaria, che il MUR ha istituito il 20 settembre 2024 per mezzo di un decreto ministeriale. Oltre all’inserimento di tre nuovi membri nei CdA nominati da ministro ed enti locali, la proposta si concentrerebbe sul rafforzamento delle figure ai vertici degli atenei. La bozza proporrebbe di allungare l’ufficio dei rettori da 6 a 8 anni e aprirebbe alla rielezione dei professori per un secondo mandato; a metà mandato sarebbe prevista una votazione per confermare il rettore nel suo ruolo. Allo stesso modo, regolamenterebbe anche le figure dirigenziali: i direttori di dipartimento verrebbero rinnovati in coincidenza dell’elezione e della conferma del rettore, mentre i direttori generali inizierebbero e cesserebbero il loro lavoro in parallelo al rettore, di cui dovrebbero «applicare gli indirizzi».
R29A denuncia «l’approccio dirigistico» che emergerebbe dalla proposta, giudicandolo «allarmante», e «intollerante anche a pallidi spiragli democratici»; la Rete riporta infatti che nei CdA l’unica componente elettiva sarebbe quella studentesca. R29A denuncia la «volontà di un controllo governativo sempre più capillare anche delle università». La proposta sembra infatti tesa a un accentramento del potere nelle mani degli organi universitari monocratici e degli uffici dirigenziali, rafforzando notevolmente la figura del rettore e allineando i direttori a essa. Parallelamente a questo accentramento, vi sarebbe quella «ingerenza» di cui parla R29A, incarnata dall’imposizione di figure esterne e nominate dall’alto nei CdA e della richiesta di allineamento alle «linee generali» del Ministero.
Caso Almasri, la CPI contro l’Italia: “Non ha rispettato i propri obblighi”
Si apre un nuovo capitolo sul caso Almasri. La Corte Penale Internazionale ha infatti stabilito che l’Italia, non eseguendo correttamente la richiesta di arresto del generale libico dello scorso gennaio, non ha rispettato i propri obblighi internazionali. Le tre giudici della camera preliminare I de L’Aja hanno rilevato all’unanimità la mancanza di dovuta diligenza e hanno respinto le giustificazioni del governo sul trasferimento in Libia, ritenute «molto limitate». La Corte ha tuttavia rinviato una decisione sul deferimento, concedendo all’Italia tempo fino al 31 ottobre per fornire chiarimenti su eventuali procedimenti interni pertinenti alla vicenda. Tra questi, ci sono anche le carte dell’inchiesta a carico dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano, i quali, in seguito al respingimento dell’autorizzazione a procedere da parte della Camera, non potranno essere processati.
Dal documento, emerge che le giudici hanno sancito «all’unanimità che l’Italia non abbia agito con la dovuta diligenza né utilizzato tutti i mezzi ragionevoli a sua disposizione per ottemperare alla richiesta di cooperazione» della Corte dell’Aja. L’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, mette ancora nero su bianco la CPI, non ha fornito «alcuna valida ragione giuridica o ragionevole giustificazione» per il trasferimento immediato dell’uomo in Libia, «anziché consultare preventivamente la Corte o cercare di rettificare eventuali difetti percepiti nella procedura d’arresto». Le giudici hanno definito «molto limitate» le spiegazioni attraverso cui il governo italiano ha cercato di giustificare le proprie azioni (che a detta dei protagonisti della vicenda sarebbero state basate su «motivi di sicurezza e il rischio di ritorsioni»), sottolineando che «non è chiara» la scelta di trasportare Almasri «in aereo verso la Libia».
Sebbene le autorità italiane abbiano avuto «ampio tempo a disposizione» e vi siano stati «ripetuti tentativi d’interloquire con il ministero della Giustizia italiano», nella pronuncia si spiega che l’Italia non ha mai contattato la Corte per «risolvere eventuali ostacoli» in merito al mandato d’arresto e alla «presunta richiesta d’estradizione concorrente» da parte della Libia. Così, la CPI non ha potuto esercitare le proprie funzioni. La Corte ha inoltre evidenziato come le questioni di diritto interno non possano essere invocate al fine di giustificare una mancata cooperazione con la CPI. Pur avendo rilevato la violazione, le giudici hanno deciso di non rinviare immediatamente la questione all’Assemblea degli Stati parte né al Consiglio di sicurezza dell’ONU, riconoscendo la «complessità» della materia. Con voto di maggioranza, è stata accordata al governo una proroga fino a venerdì 31 ottobre per trasmettere ulteriori spiegazioni e documenti su eventuali procedimenti interni legati alla vicenda.
Almasri, soprannominato «il torturatore di Tripoli» dalle organizzazioni che investigano la situazione dei migranti in Libia, si trovava a Torino quando, lo scorso 19 gennaio, è stato arrestato dalle forze dell’ordine italiane su segnalazione dell’Interpol. Su di lui pendeva un ordine di arresto segreto della Corte Penale Internazionale (CPI) con l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità, principalmente per quanto accade all’interno delle carceri libiche. La Corte d’Appello di Roma ha però giudicato «irrituale» l’operazione, sostenendo che la polizia italiana non avesse l’autorità per agire, come prevedono le norme sulla cooperazione con la Corte dell’Aia, senza una preventiva autorizzazione del ministro della Giustizia. Il ministro della giustizia Nordio, a quel punto, avrebbe potuto sanare la situazione dando l’autorizzazione per convalidare l’arresto, ma non è intervenuto. In un informativa al Parlamento, Nordio si è difeso dicendo che il mandato è «arrivato in lingua inglese senza essere tradotto con una serie di criticità che avrebbero reso impossibile l’immediata adesione del ministero alla richiesta arrivata dalla Corte d’appello». Tra questa sorta di barriera linguistica, cui Nordio ha fatto più volte riferimento, e il «pasticcio» formale della CPI, il guardasigilli – almeno secondo la sua versione – avrebbe tardato nella lettura degli atti, che in ogni caso avrebbe giudicato «nulli». Così, Almasri è stato scarcerato, con il ministro dell’Interno Piantedosi che ha firmato un decreto di espulsione, dichiarandolo «soggetto pericoloso» e vietandogli l’ingresso in Italia per 15 anni. Almasri è stato quindi riportato in Libia su un aereo dei servizi segreti italiani.
Investito della questione in seguito alla denuncia presentata sul caso dall’avvocato Luigi Li Gotti, lo scorso agosto il Tribunale dei Ministri aveva archiviato la posizione della premier Giorgia Meloni, chiedendo invece l’autorizzazione a procedere per i ministri Nordio e Piantedosi e per il sottosegretario Alfredo Mantovano, indagati per favoreggiamento, con ulteriori accuse di peculato e rifiuto di atti d’ufficio. Il 9 ottobre, la Camera dei deputati ha però respinto definitivamente la richiesta di processare i tre membri del governo: come previsto, la maggioranza di centrodestra ha votato compatta contro l’autorizzazione a procedere: 251 voti contrari per Nordio, 252 per Mantovano e 256 per Piantedosi, con circa venti voti provenienti anche da parte dell’opposizione. L’esito comporta per loro l’archiviazione delle indagini, mentre resta aperta l’inchiesta sulla capo di gabinetto del Ministero della Giustizia, Giusi Bartolozzi, seguita dalla Procura di Roma.








