Nelle ultime 24 ore, l’esercito ucraino ha lanciato un massiccio attacco con 120 droni e 11 munizioni contro la regione russa di Belgorod, causando due morti e diversi feriti, secondo quanto riferito dalle autorità locali. Le aree più colpite sono state i distretti di Shebekinsky, Belgorodsky, Valuisky e Graivoronsky, dove numerosi villaggi sono stati presi di mira. Diversi droni sono stati abbattuti, ma gli attacchi hanno distrutto veicoli e colpito civili, tra cui passeggeri di un autobus. I feriti sono stati trasportati all’ospedale cittadino n. 2 di Belgorod per ricevere le cure necessarie.
Mongolia: si dimette il primo ministro
Il primo ministro mongolo Gombojav Zandanshatar si è dimesso dopo aver perso il sostegno del parlamento del Paese. Il voto sulle dimissioni di Zandanshatar è avvenuto dopo che nel Paese sono scoppiate diverse proteste antigovernative contro la situazione di stagnazione economica. Zandanshatar era primo ministro da soli quattro mesi, ed era finito al centro di indagini per corruzione; era subentrato a Luvsannamsrai Oyun-Erdene, dimessosi per analoghi motivi. Le dimissioni di Zandanshatar arrivano in un contesto di instabilità politica per il Paese, da anni al centro di scandali di corruzione e in crisi economica.
Una bomba ha fatto esplodere l’auto del giornalista Sigfrido Ranucci
Nella sera di ieri, giovedì 16 ottobre, un ordigno esplosivo ha fatto esplodere le auto del giornalista e conduttore della trasmissione Report Sigfrido Ranucci e di sua figlia. L’esplosione è avvenuta davanti alla casa del giornalista, a Campo Ascolano, frazione del Comune di Pomezia, nella città metropolitana di Roma, senza causare feriti; si è verificata attorno alle 22, quando Ranucci si trovava in casa. L’ordigno è stato posizionato «sotto l’auto parcheggiata del giornalista», e ha causato una esplosione tale che «avrebbe potuto uccidere chi fosse passato lì in quel momento», riportano le pagine social della trasmissione. Sul posto sono arrivati gli agenti della Digos, i carabinieri, gli artificieri e i vigili del fuoco. Le indagini sono ancora in corso, e sono ancora ignoti moventi e responsabili.
In una serie di interviste rilasciate nella notte, Ranucci ha spiegato che l’esplosione si è verificata attorno alle 22, una ventina di minuti dopo che era tornato a casa. L’auto del giornalista era parcheggiata davanti al cancello di casa, e la figlia aveva parcheggiato l’altra automobile di fianco a quella del padre poco prima dell’esplosione. L’auto di Ranucci, si legge nel Corriere, era stata utilizzata l’ultima volta alle 13:20. L’esplosione ha causato ingenti danni a entrambe le vetture e sparso detriti nell’area attorno al cancello. In una intervista alla Rai, Ranucci afferma che la bomba era stata piazzata tra l’automobile e il cancello, e che secondo le prime indagini si sarebbe trattato di un ordigno rudimentale: «Si trattava di un chilo di esplosivo usato per fuochi d’artificio, un ordigno pirotecnico» ha detto il giornalista riportando i primi pareri dei tecnici. Oltre a questo, si sa poco di più: l’esplosione deve avere causato un gran boato e per quanto sembri che sia stata causata da una bomba artigianale, in circostanze diverse non sarebbe stata meno letale.
Le indagini sono in mano alla Procura di Velletri, e sono ancora in corso: Ranucci si è limitato a riferire al Corriere che non esclude collegamenti con le nuove inchieste di Report, annunciate recentemente. Il giornalista ha riportato che l’esplosione è arrivata dopo una serie di minacce ed episodi già denunciati alla Digos e alla Procura di Velletri: negli ultimi mesi gli hanno mandato un proiettile di P38 (la nota pistola semiautomatica di fabbricazione tedesca), è stato pedinato da «personaggi identificati» dalla sua scorta, ed è stato oggetto di dossieraggio, «anche dall’estero». Sigfrido Ranucci è particolarmente noto per essere il conduttore della trasmissione Report, noto programma di inchieste e giornalismo investigativo.
Le condizioni degli ostaggi della “democrazia” israeliana: quello che i media non dicono
Magrissimi, quasi scheletrici, con segni evidenti di torture sul corpo. Molti sembrano malati, alcuni non possono camminare e vengono trasportati in sedia a rotelle, o a braccia. Negli occhi lo spaesamento di ritrovarsi in mezzo a una folla, la gioia di rivedere le famiglie e gli amici, dopo anni di prigionia, isolamento, torture. Eccoli, i quasi 2000 palestinesi rilasciati, gli ostaggi di cui nessuno parla, mentre i media occidentali raccontano in modo ossessivo ogni dettaglio dei venti ostaggi israeliani riconsegnati a Tel Aviv.
Oltre 1700 di loro erano stati rapiti dalla Striscia di Gaza dopo il 7 ottobre. Presi nei raid israeliani, per strada, nelle case, veri e propri ostaggi di quella che ancora viene definita “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Altri 250 erano invece prigionieri politici, segregati nelle galere israeliane da anni e che avrebbero dovuto restarci tutta la vita o comunque decenni. Gli abusi, le torture, l’assenza di cure e di condizioni di vita basiche sono state provate da decine di ONG internazionali, e si leggono da sole sul volto degli uomini rilasciati grazie all’accordo di pace tra Hamas e il governo Netanyahu.
Ma ai media nazionali e internazionali gli ostaggi palestinesi interessano poco. Tv e giornali si sono focalizzati sui 20 ostaggi israeliani liberati; ci hanno raccontato le loro storie, le loro vite. Conosciamo i loro nomi, le loro età, se avevano figli, sogni, un lavoro. Ci stanno descrivendo le dure condizioni di vita di questi mesi di prigionia, cercando ancora una volta di collocare il torto e la disumanità dalla parte palestinese, dimenticando, troppo spesso, il contesto in cui quelle detenzioni sono avvenute. E cancellando completamente le sofferenze degli ostaggi palestinesi, prigionieri – spesso detenuti senza processo né capi d’accusa – nelle galere israeliane.
I tg seguono la consegna degli ostaggi israeliani in diretta, e giornali come il Fatto Quotidiano titolano: “Due anni sottoterra, legati, malnutriti, operati senza anestesia”. Parlano di vite di ostaggi “legate dal filo, sottile e fortuito, della sopravvivenza,” dimenticando, forse, che Gaza era un territorio che non ha avuto un attimo di pace dalle bombe per due anni. Dimenticando gli almeno 67mila morti, i bombardamenti a tappeto di case, tende, ospedali, scuole. Parlano di ostaggi lasciati senza cibo, affamati, e non ricordano le centinaia di persone, tra cui molti bambini e anziani deceduti o in condizioni critiche per la mancanza di cibo dato il blocco totale degli aiuti umanitari, in un territorio dove la fame è stata usata come arma. Parlano di persone operate senza anestesia ma non sottolineano che a Gaza in questi due anni essere operati era già un privilegio, data la distruzione sistematica da parte di Israele degli ospedali e l’impossibilità di far arrivare cure. Non dicono niente sui bambini che hanno subito amputazioni agli arti senza anestesia, sulle centinaia di persone morte per l’assenza di medicine voluta da Tel Aviv nella Striscia. Sull’utilizzo della fame per uccidere anche durante la distribuzione degli aiuti.
E in pochi parlano delle condizioni in cui sono usciti gli ostaggi palestinesi. I prigionieri della “democrazia”.
Nelle testimonianze che stanno venendo raccolte, la maggior parte dei prigionieri palestinesi rilasciati riporta dure sofferenze nelle prigioni israeliane. Fame, malattie, botte, e assenza di cure erano armi usate sistematicamente e volontariamente nelle celle di Tel Aviv. L’isolamento, le umiliazioni, così come torture psicologiche e fisiche, alcuni degli strumenti principe dei carcerieri israeliani. Molti riportano l’impossibilità di comunicare con i propri cari e i propri avvocati da anni, e le condizioni di vita estremamente dure, che hanno portato i detenuti a perdere decine di chili e ad ammalarsi. Ma anche stupri: come già testimoniato da ex-prigionieri di numerose strutture detentive sioniste, anche lo stupro – tramite bastoni o cani da guardia – è stata un arma utilizzata. Come se non bastasse, 154 di loro, dopo decenni in prigione, sono condannati all’esilio: non potranno restare con le loro famiglie a Gaza o in Cisgiordania, ma non costretti a emigrare in paesi terzi. A molte famiglie è stato anche negato il permesso di viaggio per andare ad accoglierli in Egitto, così come a tutte le famiglie dei prigionieri liberati a Ramallah è stata vietata ogni forma di festeggiamento. Non una novità, visto che già ad agosto 2024 era uscito un approfondito rapporto, tra l’altro redatto dall’organizzazione umanitaria israeliana B’Tselem, che dettagliava come quella descritta sia la condizione detentiva ordinaria per i palestinesi nelle carceri israeliane. Torture “democratiche” che in passato sono state anche dimostrate attraverso dei video.
Secondo Addameer, un’organizzazione palestinese per i diritti umani che tiene traccia dei prigionieri politici, il numero di persone imprigionate da Israele è aumentato da 5.200 a 11.100 dal 7 ottobre 2023. In questi due anni sono almeno 78 i morti nelle carceri israeliane: morti oscure, morti per botte, torture, assenza di cure, ma di cui di nuovo, nessuno parla. La maggior parte di quei cadaveri risiede ancora in mano israeliana.
Non si parla nemmeno dei corpi dei 90 palestinesi uccisi che sono stati restituiti e che sono arrivati all’ospedale di Nasser martedì e mercoledì. «Ci sono segni di tortura ed esecuzioni», ha affermato Sameh Hamad, membro di una commissione incaricata di ricevere i corpi all’ospedale Nasser ad Al Jazeera. I corpi appartenevano a uomini di età compresa tra i 25 e i 70 anni. La maggior parte aveva delle fasce intorno al collo, compreso uno che aveva legata una corda. La maggior parte dei corpi indossava abiti civili, ma alcuni indossavano uniformi, il che suggerisce che fossero combattenti palestinesi. «Quasi tutti avevano gli occhi bendati, erano stati legati e avevano ricevuto colpi di pistola tra gli occhi. Quasi tutti erano stati giustiziati», ha detto il dottor Ahmed al-Farra, capo del reparto pediatrico dell’ospedale Nasser, secondo quanto riporta The Guardian. «C’erano cicatrici e macchie di pelle scolorita che dimostravano che erano stati picchiati prima di essere uccisi. C’erano anche segni che indicavano che i loro corpi erano stati maltrattati dopo la morte».
Yemen: ucciso il capo di stato maggiore Houthi
Yahya Saree, portavoce militare del gruppo yemenita Ansar Allah, meglio noto con il nome di Houthi, ha annunciato la morte del capo di stato maggiore del movimento, il Tenente Generale Mohammed Abdul Karim Al-Ghamari. Al-Ghamari è stato ucciso in un raid dell’esercito israeliano, assieme al figlio Hussein, di 13 anni. Saree non ha specificato quando sia avvenuto l’attacco israeliano; l’ultimo grande bombardamento delle IDF sullo Yemen risale allo scorso 10 settembre. Al-Ghamari aveva rilasciato una dichiarazione pubblica il 1° settembre, dopo un attacco scagliato dall’aviazione israeliana sulla capitale yemenita Sana’a, in cui era stato ucciso il primo ministro di Ansar Allah.
Grecia: il parlamento ha approvato la giornata lavorativa di 13 ore, proteste nel Paese
Nonostante le proteste e gli scioperi generali, il parlamento greco ha approvato la legge che consente l’allungamento della giornata lavorativa. La legge permette ai datori di lavoro di ampliare la giornata lavorativa fino a 13 ore al giorno per un massimo di 37 giorni l’anno, su base volontaria. La modifica aveva ricevuto diverse critiche dal mondo della politica e dai sindacati, che denunciavano uno «smantellamento dei diritti dei lavoratori» affermando che in molti, sebbene dotati di facoltà di scegliere se aderire all’allungamento della giornata lavorativa, non avrebbero potuto rifiutare a causa delle basse paghe e dello squilibrio di potere tra datore di lavoro e impiegato. Contro di essa sono state organizzate diverse manifestazioni in tutte le maggiori città greche, tanto che solo nel mese di ottobre sono scoppiati due scioperi generali, che hanno bloccato treni, traghetti e traffico in tutta la penisola ellenica.
La legge sull’ampliamento della giornata lavorativa fa parte di una più ampia riforma delle norme sul lavoro che mira a rendere le regole da seguire nel mercato lavorativo più flessibili. In Grecia si lavora di norma otto o nove ore al giorno con un massimo di tre ore di straordinario, pagate il 40% in più della normale paga oraria. La misura prevede un ampliamento del tetto degli straordinari a quattro ore lavorative per non più di 37 giorni l’anno e su base volontaria; essa vuole inoltre che il monte ore settimanale resti invariato, così come il totale delle ore straordinarie permesse in un anno, che in Grecia ammonta generalmente a 150. La nuova legge si inserisce sulla scia di analoghe manovre sul lavoro proposte negli anni precedenti dall’attuale governo Mitsotakis, che ha precedentemente introdotto la settimana lavorativa da sei giorni e permesso ai dipendenti di lavorare fino a 74 anni, 7 anni oltre l’età pensionabile attualmente prevista. È anche per tale motivo che è stata contestata dalle opposizioni e dai lavoratori, che denunciano come la Grecia sia uno dei Paesi dell’UE in cui si lavora di più e guadagna di meno.
La misura era stata approvata mesi fa, ma è stata discussa dal parlamento ieri, e approvata oggi, giovedì 16 ottobre. Contro di essa, sono state organizzate diverse proteste, tra cui due scioperi generali nel solo mese di ottobre. L’ultimo, martedì 14 ottobre, ha visto migliaia di manifestanti riversarsi nelle piazze del Paese, e bloccare le infrastrutture elleniche. Lo sciopero è durato 24 ore, ha impedito ai treni di circolare, interrotto i servizi locali di trasporto pubblico, il traffico automobilistico, e i servizi di traghetti. A Tessalonica e Atene sono state organizzate ampie proteste; nella capitale i manifestanti hanno raggiunto piazza Syntagma, protestando davanti al palazzo del parlamento.
Secondo i dati Eurostat, la Grecia è il Paese dell’UE dove si lavora di più, con gli uomini che raggiungono una media settimanale di 42,8 ore e le donne con 39,1. Sebbene non siano toccati da questa norma, anche i lavoratori autonomi ellenici risultano i più carichi di lavoro, con una media di 46,6 ore per settimana. Il Paese è il terzo peggiore per salario annuo corretto per il tempo pieno (che stima, in termini assoluti, quanto guadagnerebbero i lavoratori di un Paese se tutti lavorassero a tempo pieno), e il peggiore per reddito reale, seguito proprio dall’Italia. Nel Belpaese non è possibile lavorare più di 13 ore al giorno, e il monte ore di straordinari annuale è generalmente fissato a 250 ore, nonostante le variazioni previste per i singoli contratti collettivi.
Kenya, spari al funerale dell’ex premier: 4 morti
La polizia keniota ha sparato sulla folla radunatasi presso lo stadio Kasarani per celebrare il funerale dell’ex primo ministro e storico leader dell’opposizione Raila Odinga, uccidendo 4 persone. Non sono chiare le dinamiche dell’accaduto: un video che circola online mostra una folla di persone che corre mentre si sentono spari in sottofondo. Odinga è morto ieri, mercoledì 15 ottobre, mentre si trovava ricoverato presso l’ospedale di Devamatha, nello Stato indiano del Kerala. L’ex premier era una figura molto popolare tra i cittadini e dopo l’annuncio della sua morte sono sorti cortei spontanei per in sua commemorazione.
Ecuador: la repressione brutale dell’esercito contro le proteste indigene
Da un mese, in Ecuador la popolazione indigena sta protestando contro le misure neoliberiste imposte dal governo del presidente Daniel Noboa. Ad accendere la miccia del malcontento popolare è stata, in particolare, la decisione di abolire il sussidio sul diesel, in vigore dal 1974, che ha fatto impennare il prezzo del carburante. Dal 15 settembre blocchi stradali e cortei paralizzano la nazione, in particolare la provincia di Imbabura e la zona di Otavalo. Il governo ha deciso di rispondere seguendo la linea repressiva, dichiarando lo stato di eccezione in 7 province e inviando esercito e forze di polizia. Almeno due persone sono state uccise fino ad ora, oltre un centinaio quelle ferite. Altre cento persone almeno sono state arrestate e una dozzina sono scomparse, mentre altrettante sono a processo per atti di terrorismo. Il 14 ottobre, in uno degli atti repressivi più violenti dall’inizio delle proteste, migliaia di militari hanno fatto irruzione nella città di Otavalo a bordo di quello che il governo aveva definito un «convoglio umanitario», lanciando lacrimogeni e granate stordenti direttamente contro le persone e le abitazioni e ferendo gravemente bambini e anziani.
Sono oltre una trentina gli arresti «arbitrari» avvenuti nel corso di questa sola ultima operazione, più di 50 i feriti. «La forza pubblica ha bloccato l’accesso agli ospedali e ha fatto irruzione nei centri di salute, infastidendo il personale medico e negando la possibilità di attendere i feriti, in piena violazione del diritto internazionale umanitario» denuncia la CONAIE (Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador), che sottolinea come «queste azioni costituiscono violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani». Un uomo della comunità kichwa di 30 anni, José Guamán, sarebbe inoltre stato ucciso da un proiettile sparato dalle forze dell’ordine, che lo ha colpito in pieno petto. Un’altra persona, Rosa Elena Paui, sarebbe deceduta per arresto cardiorespiratorio causato dall’inalazione di gas lacrimogeni.
⭕ #SOSImbabura | Condenamos el atroz asesinato de José Guamán, comunero kichwa de 30 años, padre de dos niños, fue herido de muerte por un disparo en el pecho por las Fuerzas Armadas en #Otavalo, durante la violenta represión ordenada por el Gobierno Nacional.
Exigimos verdad,… pic.twitter.com/bZPqhfXCQC
— CONAIE (@CONAIE_Ecuador) October 15, 2025
L’assedio armato dello Stato è tale che la CONAIE ha indetto una colletta di viveri, medicine e beni basici per aiutare le comunità colpite dell’Imbabura e ha chiesto la fine della repressione e il ritiro delle forze militari da Otavalo, oltre all’attenzione medica «urgente, imparziale e senza persecuzioni» nei riguardi dei feriti, la liberazione immediata delle persone detenute, indagini indipendenti sugli «abusi della forza pubblica» e l’intervento urgente di organismi per la tutela dei diritti umani, come la Corte Interamericana per i Diritti Umani (CIDH), l’ONU e l’OHCHR (l’Ufficio ONU per i Diritti Umani), per documentare quanto accaduto. Nel frattempo, la Confederazione ha smentito le informazioni circolate su alcuni mezzi stampa nazionali riguardo un presunto incontro tra il suo presidente, Marlon Vargas, e rappresentanti del governo, che avrebbe portato a una sospensione delle proteste.
In un comunicato stampa, la CIDH ha riferito di aver assistito a casi di uso eccessivo della forza da parte delle autorità e di deliberati atti di violenza contro le persone che stavano protestando, mentre condanna la morte, avvenuta il 28 settembre, di Efraín Fueres, le cui circostanze sono ancora al vaglio delle autorità. Non si salvano nemmeno i giornalisti, con oltre 20 casi di aggressione fisica e vessazione contro chi si occupava di raccontare le mobilitazioni registrati dal Relatore Speciale per la libertà di espressione (RELE). Inoltre sarebbe stata sospesa per 15 giorni la trasmissione di informazione indigena TV MICC, su disposizione dell’Agenzia di Regolazione e Controllo delle Telecomunicazioni (ARCOTEL), col motivo di garantire l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale (e con il probabile obiettivo di inibire la partecipazione sociale, denuncia il RELE).
Lo Stato ha risposto alle accuse dicendo che ha agito nel rispetto dei principi di legalità, necessità, proporzionalità e temporalità per proteggere i diritti dei cittadini e di stare investigando sulle accuse di uso eccessivo della forza, aggiungendo che i disordini sono stati causati dall’infiltrazione del crimine organizzato nelle proteste. Nel frattempo, la Croce Rossa ecuadoriana, in una lettera inviata al governo e citata dai media, ha smentito le dichiarazioni delle forze armate in merito alla propria partecipazione al cosiddetto “convoglio umanitario” inviato in Imbabura, ma confermato la propria presenza sul luogo per aiutare i feriti.
Siria: uccise 4 guardie di un impianto petrolifero
Su un’autostrada a est della città di Deir al-Zor, capoluogo dell’omonimo governatorato siriano, è stato condotto un attacco su un veicolo in seguito a cui sono state uccise 4 persone. Le vittime facevano parte del personale militare a sorveglianza della sicurezza nel giacimento petrolifero di Teim, e stavano rientrando a casa dopo il loro turno lavorativo. Nessun gruppo ha rivendicato la responsabilità dell’attacco.








