sabato 15 Novembre 2025
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Gasparri ha presentato una proposta di legge che criminalizza le critiche a Israele

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Il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri ha presentato un disegno di legge per adottare la definizione di antisemitismo dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (IHRA). Tale definizione fornisce diversi esempi di che cosa sia inquadrabile come «antisemitismo», tra cui rientrano anche le critiche allo Stato di Israele. Il DDL, oltre a inasprire le pene per i reati di propaganda e incitamento all’odio antisemita, prevede l’istituzione di corsi di formazione permanenti per militari, magistrati, forze di polizia e docenti. Inoltre, demanda al Ministero dell’Interno e della Giustizia la creazione di una “Guida pratica” per le forze dell’ordine, introducendo contestualmente obblighi di segnalazione e norme penali per chi viola la definizione dell’IHRA.

Il disegno di legge, composto da quattro articoli, mira a «prevenire e reprimere le (crescenti) manifestazioni di antisemitismo», individuando nell’antisionismo una delle sue moderne manifestazioni. Il testo denuncia come, dopo il «terribile attacco terroristico del 7 ottobre 2023», i focolai di antisemitismo in Europa si siano «estesi e propagati sotto la veste di antisionismo, dell’odio contro lo Stato ebraico e del suo diritto a esistere e difendersi». L’articolo 1 del provvedimento sancisce l’adozione integrale della definizione operativa di antisemitismo approvata dall’IHRA, che descrive l’antisemitismo come «una specifica percezione degli ebrei che può essere espressa come odio nei loro confronti, le cui manifestazioni, di natura verbale o fisica, sono dirette verso le persone ebree o non ebree, i loro beni, le istituzioni delle comunità ebraiche e i loro luoghi di culto».

Il cuore della controversia si trova però nell’articolo 4, che modifica l’articolo 604-bis del codice penale, noto come “legge Mancino”, che punisce chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico e chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione. Nella proposta di legge vengono infatti aggiunti due specifici commi: il primo prevede che la pena della reclusione da due a sei anni si applichi anche quando la propaganda o l’istigazione all’odio si fondino «in tutto o in parte sull’ostilità, sull’avversione, sulla denigrazione, sulla discriminazione, sulla lotta o sulla violenza contro gli ebrei, i loro beni e pertinenze, anche di carattere religioso o culturale, nonché sulla negazione della Shoah o del diritto all’esistenza dello Stato di Israele o sulla sua distruzione»; il secondo introduce un’aggravante specifica: se l’offesa è commessa utilizzando «segni, simboli, oggetti, immagini o riproduzioni che esprimano, direttamente o indirettamente, pregiudizio, odio, avversione, ostilità, lotta, discriminazione o violenza contro gli ebrei, la negazione della Shoah o del diritto all’esistenza dello Stato di Israele, la pena è aumentata fino alla metà».

La proposta di legge istituisce anche un articolato sistema di formazione e controllo. All’art. 2 si legge che i ministeri della difesa, della giustizia, dell’interno, dell’istruzione e del merito e dell’università e della ricerca «promuovono corsi di formazione iniziale e progetti di formazione continua destinati ai militari, ai magistrati, al personale della carriera prefettizia, alle Forze di polizia, ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado e ai docenti e ricercatori universitari» che siano «specificamente dedicati allo studio della cultura ebraica e israeliana e all’analisi di casi di antisemitismo», nonché, con riferimento specifico alle Forze di polizia, «alla formazione in materia di redazione dei verbali di denuncia di atti di antisemitismo». L’articolo 3, invece, introduce obblighi di prevenzione e segnalazione di «atti razzisti o antisemiti in ambito scolastico e universitario», prevedendo sanzioni specifiche per il personale che violi questi doveri.

La deriva che vede l’utilizzo del concetto di antisemitismo come potenziale arma politica per strumentalizzare il dissenso appare un fenomeno in grande espansione, non soltanto nel nostro Paese. Sulla base della medesima giustificazione, ad esempio, nel Regno Unito è arrivata l’ennesima stretta repressiva del governo britannico sulle manifestazioni di piazza, che fa seguito alle proteste pro-Palestina che nelle ultime settimane hanno mobilitato migliaia di persone a Londra e in altre città. Secondo il governo, infatti, le recenti proteste avrebbero ingenerato «molto timore» nella comunità ebraica, spingendolo così a intervenire. Lo scorso luglio, su iniziativa dell’allora ministra degli Interni Yvette Cooper, l’esecutivo britannico ha vietato Palestine Action – organizzazione che promuove il boicottaggio di Israele – ai sensi del Terrorism Act. La sua proscrizione come organizzazione terroristica rende reato qualsiasi forma di sostegno pubblico, punibile con fino a 14 anni di carcere. Nelle settimane seguenti, fino a pochi giorni fa, si sono succeduti centinaia di arresti.

Burkina Faso: 8 europei arrestati per spionaggio

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Il governo militare del Burkina Faso ha annunciato di avere arrestato otto persone che lavorano per l’International ONG Safety Organisation, organizzazione non governativa con Sede nei Paesi Bassi. Le persone arrestate sono accusate di spionaggio e tradimento, accuse che l’ONG olandese ha respinto. Tra gli arrestati figurano un francese, un franco-senegalese, un ceco, un maliano e quattro cittadini burkinabé. Gli operatori erano stati precedentemente oggetto di una sospensione di tre mesi, ma, secondo il ministro della Sicurezza del Paese, avrebbero continuato a lavorare «clandestinamente», raccogliendo informazioni e dati sensibili «senza autorizzazione».

Siri ascolta ogni parola? La magistratura francese apre un’inchiesta

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Siri, l’assistente vocale di Apple, è da tempo al centro di accuse riguardanti la presunta violazione della privacy degli utenti. Nello specifico, le interazioni vocali con il sistema sono finite in passato nelle mani di aziende terze, le quali hanno poi ascoltato le registrazioni private delle persone. Alla luce di ciò, la Procura di Parigi ha deciso di aprire un’indagine nei confronti del colosso di Cupertino per stabilire se – e in che misura – Siri operi in violazione delle leggi francesi ed europee sulla protezione dei dati personali.

Il fascicolo, affidato all’Office Anti-Cybercriminalité (OFAC), nasce in relazione a una denuncia presentata il 13 febbraio 2025 dall’organizzazione non governativa Ligue des droits de l’Homme (LDH), tuttavia le radici della vicenda affondano più indietro nel tempo, fino al 2019, quando emerse pubblicamente l’uso controverso delle registrazioni vocali di Siri grazie alle rivelazioni di alcuni whistleblower impiegati presso Globe Technical Services, azienda subappaltatrice di Apple. Il compito dei tecnici era quello di ascoltare una selezione di file audio provenienti dalle interazioni delle persone con Siri, al fine di condurre controlli di qualità e migliorare le prestazioni del sistema. Ufficialmente, tutto avveniva con il consenso volontario degli utenti, eppure l’effettiva consapevolezza di tale adesione è tuttora oggetto di dibattito. Ancor più visto che, almeno inizialmente, la funzione di ascolto risultava attiva di default su tutti i dispositivi Apple e soltanto in seguito l’azienda ha iniziato a chiedere il consenso esplicito.

Secondo quanto ricostruito da un’inchiesta pubblicata all’epoca dal The Guardian, un numero considerevole di queste registrazioni contenevano informazioni estremamente private e sensibili, il che rende difficile credere che siano state condivise con estranei di propria iniziativa. Il soggetto più noto tra coloro che hanno preso parte alla denuncia originale, Thomas Le Bonniec, ha per esempio rivelato di aver compreso la gravità del fenomeno nel momento in cui ha dovuto valutare la qualità di una registrazione di un pedofilo. Approfondendo la questione, è dunque emerso che Siri tendeva ad attivarsi con estrema facilità anche in modo accidentale – bastava il suono di una zip che si apre per avviare una registrazione – e che la maggior parte degli utenti non era pienamente consapevole delle implicazioni derivanti dall’interagire con lo strumento.

A distanza di cinque anni, l’ONG francese ha dunque chiesto alle autorità di aprire il caso e indagare più a fondo. Una mossa che potrebbe sembrare tardiva – e in parte lo è – ma che rispecchia i tempi della giustizia d’oltreoceano e delle azioni legali intraprese in merito negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti, Apple ha infatti recentemente chiuso una class action relativa alla gestione delle registrazioni di Siri, accettando di versare 95 milioni di dollari per risolvere la controversia in via extragiudiziale. L’obiettivo dichiarato della Ligue des droits de l’Homme è quello di aprire la strada a un procedimento analogo anche in Francia, con la prospettiva che un’eventuale causa, la quale potrebbe poi estendersi a macchia d’olio sull’intera Unione Europea. Il tutto mentre la Big Tech sta cercando – non senza difficoltà – di rilanciare Siri in versione potenziata dall’intelligenza artificiale.

“Apple non ha mai usato i dati di Siri per creare profili di marketing, non li ha mai resi accessibili agli inserzionisti e non li ha mai venduti a nessuno, per nessun motivo”, ha commentato Apple in un comunicato diffuso alla stampa. Una replica che, a ben vedere, non affronta il cuore delle accuse: il problema non è la vendita dei dati, ma le potenziali violazioni della privacy derivanti dal trasferimento delle registrazioni a società esterne e dall’ascolto da parte di personale umano. A prescindere dall’esito dell’inchiesta, il caso mette ancora una volta in luce come la tecnologia “intelligente” non sia alimentata da arcane magie digitali, bensì da operatori in carne e ossa tenuti molto lontani dallo sguardo degli utenti.

Birmania, l’esercito bombarda i manifestanti: 27 morti

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L’esercito della Birmania ha sganciato due bombe da un parapendio a motore su una folla di manifestanti, uccidendo 27 persone e ferendone altre 47. L’attacco è avvenuto a Chang-U, città nella Birmania centrale controllata dalle forze ribelli. I manifestanti, qualche centinaio di persone, si erano radunati per protestare contro la giunta militare. Dal 2021 la Birmania è al centro di una violenta guerra civile che vede contrapposto l’esercito, salito al potere con un colpo di Stato, e gruppi di milizie etniche locali. Da quanto riportano i gruppi per i diritti umani, l’esercito starebbe utilizzando sempre più spesso paramotori per effettuare attacchi contro i propri contestatori.

Legami tra talco e cancro: Johnson & Johnson dovrà pagare 966 milioni di dollari

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Un tribunale di Los Angeles ha inflitto una sonora sconfitta a Johnson & Johnson: la giuria ha condannato l’azienda a versare 966 milioni di dollari in favore dei familiari di Mae Moore, una donna californiana morta nel 2021 per mesotelioma, ritenuto causato dall’esposizione ad amianto presente nei prodotti a base di talco del colosso farmaceutico. Il verdetto ha una portata storica, in quanto è stata riconosciuta la responsabilità morale e civile di una multinazionale accusata da anni di aver minimizzato i rischi legati all’uso del talco contaminato. Trey Branham, uno degli avvocati che rappresentano la famiglia Moore, ha dichiarato dopo il verdetto che il suo team «spera che la Johnson & Johnson si assuma finalmente la responsabilità di queste morti insensate».

Secondo il verdetto, 16 milioni copriranno i danni compensativi, mentre ben 950 milioni rappresentano il risarcimento punitivo, con l’intento di colpire l’azienda oltre che risarcire le vittime. La reazione di Johnson & Johnson è stata immediata: la multinazionale ha annunciato che presenterà appello, definendo la decisione «atroce e incostituzionale» e ribadendo che le accuse sarebbero basate su «scienza spazzatura», ovvero studi scientifici difettosi e non attendibili. Da anni l’azienda sostiene che i suoi prodotti siano sicuri, privi di amianto e non correlati a malattie tumorali. Tuttavia, già nel 2020, spinta da un’ondata di denunce e dalla perdita di fiducia dei consumatori, J&J aveva sospeso la vendita del talco per bambini negli Stati Uniti, sostituendolo con polveri a base di amido di mais, segno che la pressione mediatica e giudiziaria aveva iniziato a produrre i suoi effetti. Il maxi-risarcimento, tuttavia, potrebbe essere ridotto in appello, poiché la Corte Suprema statunitense ha stabilito che i danni punitivi non dovrebbero superare di nove volte quelli compensativi.

Il caso Moore rappresenta l’ultimo capitolo di una lunghissima battaglia legale che vede coinvolte decine di migliaia di persone in tutto il mondo. Da anni, i querelanti sostengono che i prodotti per l’igiene personale di Johnson & Johnson, tra cui il celebre borotalco, contenessero tracce di amianto in grado di provocare gravi patologie, tra cui tumori ovarici e mesoteliomi. Si stima che, nel 2025, le cause pendenti contro la società superino le 67.000. Nel corso degli anni, l’azienda ha tentato in più modi di chiudere la vicenda: nel 2023 aveva offerto 9 miliardi di dollari per mettere fine alle accuse legate al talco, mentre nel 2024 ha raggiunto un accordo da 700 milioni di dollari per risolvere alcune cause promosse dai procuratori generali di diversi Stati americani. Sempre nel 2024, la società ha presentato un piano da 6,5 miliardi di dollari, distribuiti in 25 anni, per chiudere il 99,75% delle richieste di risarcimento per cancro ovarico. Tutti questi tentativi avevano un obiettivo chiaro: contenere i danni economici e salvaguardare l’immagine del marchio, senza mai ammettere una responsabilità diretta. Le strategie giudiziarie e finanziarie di Johnson & Johnson non hanno convinto i tribunali. In più occasioni, infatti, i giudici federali hanno respinto i tentativi della multinazionale di spostare le cause all’interno di società veicolo create ad hoc per dichiarare il fallimento e ridurre i debiti legali, ritenendo tali manovre una distorsione della legge fallimentare. Nell’ultimo anno, J&J ha ottenuto diverse sentenze importanti in casi di mesotelioma, ma quella di lunedì è tra le più consistenti. L’azienda ha vinto alcuni processi per mesotelioma, tra cui quello della scorsa settimana in South Carolina, dove una giuria ha dichiarato J&J non responsabile ed è riuscita a ridurre alcuni risarcimenti in appello, tra cui un caso in Oregon in cui un giudice statale ha accolto la richiesta della multinazionale di annullare un verdetto di 260 milioni di dollari e di tenere un nuovo processo. Il caso Mae Moore, dunque, chiude simbolicamente una fase di tattiche dilatorie e apre un nuovo capitolo in cui il peso della responsabilità aziendale viene riaffermato con forza.

La condanna da 966 milioni di dollari non rappresenta solo un evento giudiziario, ma un segnale di svolta nel modo in cui l’opinione pubblica e la giustizia guardano al rapporto tra salute e industria. Se confermata in appello, la sentenza potrebbe costituire un precedente importante, rafforzando le posizioni delle migliaia di querelanti che ancora attendono giustizia. Anche se l’importo dovesse essere ridimensionato, il messaggio lanciato dal tribunale è chiaro: le multinazionali non possono più nascondersi dietro le strategie legali per eludere le proprie responsabilità. Per Johnson & Johnson, questo verdetto rischia di trasformarsi in una condanna più pesante della cifra in sé: una condanna morale che mette in discussione decenni di pubblicità e di fiducia costruite attorno all’immagine di un marchio “per la famiglia”. La vicenda del talco contaminato diventa così un caso emblematico del conflitto tra profitto e salute, tra le logiche di mercato e il diritto dei cittadini a conoscere la verità sui prodotti che utilizzano quotidianamente, spingendo sempre più verso una revisione dei protocolli di sicurezza. L’industria cosmetica e farmaceutica è oggi chiamata a fare i conti con una nuova consapevolezza: non basta proclamare la sicurezza di un prodotto, serve dimostrarla in modo trasparente, accettando la possibilità di un errore. Quella di Mae Moore non è più una storia isolata: è il simbolo di una giustizia che, dopo anni di silenzi e compromessi, inizia finalmente a chiedere conto del prezzo umano pagato sull’altare del profitto.

Ciudad Bolivar un anno dopo: tutto è cambiato, nulla è cambiato

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Nel Nord di Ciudad Bolivar, a Bogotà, in un anno non è cambiato niente e contemporaneamente tutto. Sono tornato in Colombia per una missione di un mese dopo un anno di assenza. Nel frattempo, la nostra Scuola ha iniziato il percorso di accreditamento del Baccalaureato Internazionale, il diploma più riconosciuto al mondo, per offrirlo gratuitamente ai bambini più vulnerabili dell’America latina. Questo è un momento tanto fondamentale quanto delicato, e sono tornato qui per supervisionare il suo corretto  compimento. 

Ho scelto un alloggio in prossimità della Scuola, a Ciudad Bolivar, nel profondo sud della città. Dovrò recarmi a scuola ogni giorno e dunque soggiornare nel confortevole ed europeo settentrione della città sarebbe alquanto impraticabile. Questa mia scelta, per molti “rollos” – così si chiamano gli abitanti di Bogotà – è assolutamente scellerata.  

Stando alla cronaca, alle statistiche, e ai racconti di coloro che non ci abitano, Ciudad Bolivar sembra essere un inferno in terra. Narcotraffico, gangs armate, furti violenti. Un posto da non visitare «nemmeno con sessanta guardie del corpo», scherza un funzionario della Segreteria dell’Educazione, con il quale mi incontro poco dopo il mio arrivo. 

Eppure i sentieri in salita, i colori, la musica che si riversa nelle strade dai negozi, e la familiarità con cui la gente si parla mi hanno sempre fatto sentire, in un certo senso, a casa. Non è romanticismo o ingenuità. Sono perfettamente al corrente di quanto feroce questo quartiere possa diventare. Nonostante la relativa stabilità del Paese, Ciudad Bolivar ha un profilo di sicurezza oggettivamente pessimo. Attacchi al coltello sono all’ordine del giorno. Un passo falso in un’area non conosciuta può essere fatale. Del resto, il narcotraffico non è la sola crisi che attanaglia Ciudad Bolivar. Il quartiere è terreno fertile per i reclutamenti dei gruppi paramilitari che imperversano nelle zone contese del Paese, nella cornice di uno dei conflitti più longevi al mondo. Ma c’è di più. Qui a Ciudad Bolivar risiede gran parte della comunità di rifugiati venezuelani di Bogotà. Sono loro, ormai, che hanno il monopolio della raccolta dei rifiuti nelle strade del quartiere. Uomini, donne e bambini venezuelani, il pomeriggio tardo e la domenica si riversano per la strada impegnati a ripulire ogni angolo.  Nella nostra scuola internazionale, ciascuno dei nostri studenti si fa ambasciatore di una di queste realtà. Ma Ciudad Bolivar è più che un coacervo di situazioni drammatiche e disagi sociali. 

A dispetto di tutto, calcare queste strade, scambiare saluti cordiali, e origliare le conversazioni di perfetti sconosciuti indaffarati nelle loro esistenze, mi ricorda lo scorrere del tempo nelle città nostrane. Siamo separati da un oceano, ma il legame di parentela tra noi italiani e questo popolo è evidente. Anche per noi il quartiere è un mosaico di vite che si muovono in armonia, toccandosi e intrecciandosi in strade diverse.

Giungo alla mia residenza per il prossimo mese: la “Riserva della Maddalena”. Soltanto un anno fa, questa stessa palazzina era un cantiere in costruzione. Ora è un complesso residenziale totalmente funzionale, che conta sei torri di venti piani riunite intorno a un giardino comune. I residenti passeggiano freneticamente su e giù dalle scale, attraverso il giardino, mentre telefonano o portano a spasso i loro cani. La Riserva della Maddalena ha stravolto i connotati di un angolo di Ciudad Bolivar. Tutto è come prima al di fuori della Riserva, ma il fatto che questa esista è un segno lampante del cambiamento in atto. Le case di mattoni rossi sembravano attributi permanenti di queste vie. Ora, residenti più abbienti, e conseguenti investimenti, sono arrivati in questo angolo della città, spostando la popolazione originaria verso aree dove il costo della vita è più clemente. Così, il carattere di questo sobborgo di Ciudad Bolivar comincia a mutare irreversibilmente. 

L’effetto non si limita alla riqualificazione urbana. È più profondo. Determina la capacità di un Paese di creare un cambiamento che benefici tutti. Mi chiedo se questo cambiamento vada nella direzione giusta. Chiacchiero con una residente della città, che mi chiede cosa farò durante il mio soggiorno a Bogotà. Le spiego che mi recherò giornalmente nel Lucero Bajo. Scherzando, ma non troppo, mi dice che lei, in vita sua, non ci metterà mai piede. Ma la signora che le fa la manicure una volta al mese, che è una brava persona, viene proprio da quel quartiere. Ho già la mia risposta.

Premio Nobel per la Chimica 2025 a Kitagawa, Robson e Yaghi

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Il Premio Nobel per la Chimica 2025 è assegnato a Susumu Kitagawa, Richard Robson e Omar M. Yaghi «per lo sviluppo di strutture metallo-organiche». Queste architetture molecolari formano cavità in cui molecole possono entrare e uscire: applicazioni concrete includono estrazione dell’acqua dall’aria in climi aridi, purificazione da sostanze inquinanti, cattura dell’anidride carbonica e stoccaggio di idrogeno. Con questo riconoscimento, si celebra non solo l’eleganza teorica, ma anche il potenziale rivoluzionario per sfide ambientali e energetiche globali.

Crosetto operato d’urgenza al colon, condizioni buone

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Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, è stato sottoposto lunedì 8 ottobre a un intervento chirurgico presso l’ospedale Fatebenefratelli di Roma per l’asportazione di tre polipi al colon. Secondo il comunicato ufficiale del Ministero, l’operazione è andata a buon fine, senza complicazioni e Crosetto è vigile e stabile. L’equipe medica ha eseguito l’intervento con tecniche tradizionali, in un quadro clinico stabile e il ministro è stato seguito nelle ore successive in regime di degenza ordinaria. Il personale medico è in attesa dell’esame istologico per accertare la natura delle formazioni rimosse. Al momento non è stato comunicato alcun dettaglio ufficiale sui tempi di recupero né sull’eventuale ripresa dell’attività istituzionale del ministro.

Israele attacca illegalmente anche la nuova Flotilla: 150 arresti, 10 italiani

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Alle 04:34 del mattino, a circa 120 miglia nautiche, circa 220 chilometri, dalla costa di Gaza, l’esercito israeliano ha attaccato e intercettato le imbarcazioni della Freedom Flotilla Coalition (FFC) e della Thousand Madleens to Gaza (TMTG), che avevano lasciato i porti del sud Italia sabato 27 settembre. Nove navi, di cui otto a vela battenti bandiere italiana e francese e una motonave registrata a Timor Est, sono state circondate, abbordate e prese sotto controllo dalle forze navali israeliane. A bordo c’erano circa 150 persone, di cui dieci italiani, provenienti da 30 Paesi diversi, tra cui medici, giornalisti, volontari e alcuni funzionari eletti, tutti disarmati. Secondo quanto dichiarato dai coordinamenti delle due missioni, l’attacco è avvenuto in acque internazionali, al di fuori di ogni giurisdizione israeliana, e si è concluso con il sequestro dei membri dell’equipaggio e degli aiuti umanitari destinati agli ospedali di Gaza, per un valore stimato di oltre 110.000 dollari in medicinali, attrezzature respiratorie e forniture alimentari. La nota diffusa dalla Freedom Flotilla Coalition accusa Israele di aver commesso un atto di pirateria e di aver violato apertamente il diritto internazionale del mare. «I nostri volontari non sono soggetti alla giurisdizione israeliana – si legge – e non possono essere criminalizzati per aver partecipato a una missione umanitaria in acque internazionali». La sorte degli equipaggi rimane incerta: secondo le fonti della Coalizione, i contatti radio sono stati interrotti subito dopo l’abbordaggio e le comunicazioni oscurate. L’intervento, descritto come «un sequestro in piena regola», avrebbe avuto luogo senza alcuna avvertenza o negoziazione preliminare. Tel Aviv ha confermato l’operazione, parlando di un’azione «necessaria per impedire la violazione del blocco navale imposto su Gaza». Fonti militari israeliane affermano che le imbarcazioni sono state scortate in un porto israeliano e che i passeggeri «sono in buone condizioni e saranno rimpatriati appena possibile».

La Freedom Flotilla Coalition e la Thousand Madleens to Gaza denunciano una «deliberata escalation militare» da parte di Israele, ricordando che si tratta del quarto episodio di questo tipo in meno di un anno. I coordinatori delle missioni sottolineano come questo attacco segua il sequestro della Global Sumud Flotilla, della Handala e della Madleen, e l’attacco con droni israeliani alla nave Conscience nelle acque europee nei mesi scorsi. In tutte le circostanze, civili disarmati sono stati intercettati o detenuti mentre tentavano di consegnare aiuti umanitari a Gaza. «Israele continua ad agire nella totale impunità», scrive il Coordinamento Thousand Madleens Italia, sfidando «gli ordini vincolanti della Corte Internazionale di Giustizia che impongono l’apertura di corridoi umanitari e l’accesso senza ostacoli alla Striscia». La dichiarazione accusa inoltre i governi occidentali di un «fallimento totale» nell’applicare e nel far rispettare il diritto internazionale oltre che a tutelare i civili impegnati in missioni umanitarie. A livello diplomatico, la reazione europea appare cauta. Alcuni parlamentari italiani e francesi chiedono l’intervento urgente dell’Unione Europea per ottenere la liberazione dei volontari. A Roma, il Ministero degli Esteri ha dichiarato di «monitorare la situazione» e di essere «in contatto con le autorità israeliane». «L’Ambasciata ed il Consolato d’Italia a Tel Aviv stanno seguendo fin dall’alba il blocco della nuova Flotilla da parte della marina israeliana. Sono una decina gli italiani fermati. A loro verrà prestata tutta l’assistenza consolare necessaria con la richiesta al governo israeliano di garantire il rispetto dei diritti individuali fino al momento dell’espulsione. Al lavoro anche l’Unità di crisi della Farnesina», ha scritto su X il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani. In Francia, un gruppo di deputati ha presentato un’interrogazione parlamentare per chiarire le circostanze dell’attacco, tuttavia, nessuna condanna ufficiale è stata ancora formulata. Nel frattempo, organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch hanno chiesto l’apertura di un’indagine indipendente, sottolineando che l’abbordaggio in acque internazionali costituisce una violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. L’episodio, osservano diversi analisti, rischia di aprire un nuovo fronte di tensione tra Israele e la comunità internazionale, già divisa sull’intervento militare nella Striscia e sulle accuse di genocidio.

La vicenda della Freedom Flotilla ripropone un copione già noto. Ogni volta che civili tentano di rompere simbolicamente l’assedio di Gaza, la risposta israeliana è immediata e sproporzionata. A oltre un decennio dal raid del 31 maggio 2010 contro la nave turca della Freedom Flotilla Mavi Marmara, costato la vita a dieci attivisti, Israele continua a rivendicare il diritto di bloccare qualsiasi accesso via mare, nonostante le condanne internazionali e le risoluzioni ONU. L’uso della forza in acque internazionali resta un punto di frattura giuridico e morale, ma la comunità internazionale evita di intervenire. L’indifferenza delle istituzioni internazionali alimenta un senso di impunità e svuota di valore le risoluzioni della Corte Internazionale di Giustizia, che da mesi impone a Israele l’apertura di corridoi umanitari verso Gaza. Intanto, mentre il mare si trasforma in un confine militarizzato, la protesta torna nelle strade. Già alla vigilia dell’attacco era partita la mobilitazione. «L’8 ottobre tutti in piazza» è stato l’appello diffuso sui canali social di Freedom Flotilla Coalition, Giovani Palestinesi Italia, Movimento Studenti Palestinesi in Italia e Unione Democratica Arabo-Palestinese. Gli attivisti avevano lanciato l’allarme: «Nelle prossime ore la seconda spedizione entrerà nelle acque internazionali vicino a Gaza, dove esiste il concreto rischio che venga intercettata e sequestrata dalle forze israeliane come accaduto in passato», un chiaro riferimento all’intercettazione della Sumud avvenuta pochi giorni prima. Da Nord a Sud, in Italia si moltiplicano i presidi e le manifestazioni di solidarietà. Mentre i governi occidentali restano fermi su una linea di “equilibrio diplomatico”, migliaia di persone tornano a manifestare per chiedere la fine del blocco e la libertà dei civili trattenuti. L’eco delle piazze italiane accompagna un silenzio istituzionale sempre più assordante. Nel Mediterraneo, la solidarietà civile continua a essere criminalizzata; sulla terraferma, si alza una voce che tenta di rompere l’assedio mediatico. In questo spazio sospeso tra mare e piazza, si misura la distanza tra la legalità proclamata e quella negata, tra la retorica umanitaria e la realtà di un’umanità lasciata sola a resistere.

ISTAT: in Italia una famiglia su tre costretta a tagliare le spese alimentari

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Secondo gli ultimi dati ISTAT, nel 2024 il 31,1% delle famiglie italiane è stato costretto a tagliare per le spese alimentari, diminuendo quantità o qualità del cibo acquistato. Il dato, in continuità con quello dell’anno precedente, disegna un quadro analogo anche per quanto riguarda le bevande. In generale, la spesa media mensile per i consumi è rimasta la stessa del 2023, ma in parallelo è diminuito il potere d’acquisto. Forte il divario tra Nord e Sud: secondo i dati, nel Nordest si spendono in media 834 euro in più rispetto al Meridione, con Puglia e Calabria che registrano i tassi medi di spesa mensile più bassi del Paese.

Se, infatti, nelle regioni nordorientali del Paese la spesa media si attesta sui 3.032 euro, in quelle meridionali la media è di 2.199 euro, con uno scarto pari al 37,9% – passando per i 2.999 del Centro, i 2.973 del Nordovest e i 2.321 delle Isole. Il divario tra le due zone del Paese supera dunque i livelli raggiunti durante il Covid, quando era sceso di qualche punto, per avvicinarsi nuovamente ai livelli del 2019 (37,7%). In Calabria e in Puglia, la media è la più bassa a livello nazionale, attestandosi rispettivamente a 2.075 e 2.000 euro mensili. Una significativa differenza è segnata anche dalla tipologia di spesa effettuata: in Meridione, dove le disponibilità economiche delle famiglie sono in linea generale minori, la spesa delle famiglie residenti si concentra su beni e servizi destinati ai bisogni primari (es. alimentari), mentre nel Centro-Nord è più elevata quella per servizi di ristorazione e alloggio, trasporti, ricreazione, sport e cultura.

In generale, se dal 2019 al 2024 la spesa per consumi delle famiglie è cresciuta del 7,6%, tale aumento è stato accompagnato da un aumento dell’inflazione del 18,5%. A questi dati va aggiunto quello secondo il quale le famiglie composte unicamente da italiani spendono in media un terzo in più (31,8%) di quelle composte solo da stranieri.

Federconsumatori commenta che il dato «non fa che confermare le preoccupazioni che manifestiamo da tempo sulle condizioni economiche delle famiglie, sempre più precarie, e su un andamento dei prezzi poco trasparente che, a seguito dell’impennata dei prezzi (motivata in parte dal caro energia), son rimasti su livelli troppo elevati, senza mai riposizionarsi in maniera adeguata al ribasso». Di fronte a questa situazione, prosegue Federconsumatori, sono dunque necessari provvedimenti urgenti, quali la rimodulazione dell’IVA sui generi di largo consumo (che potrebbe consentire un risparmio superiore ai 516 euro a famiglia all’anno), la creazione di un Fondo di contrasto alla povertà energetica e azioni più decise contro la povertà alimenare, stanziamento di fondi adeguati per il diritto alla sanità e allo studio, una riforma fiscale equa e il contrasto alla speculazione sui prezzi lungo le filiere.