Gli Stati Uniti hanno colpito una imbarcazione sospettata di traffico di droga al largo delle coste venezuelane, uccidendo sei persone a bordo. È il quinto episodio in cui gli Stati Uniti attaccano imbarcazioni sospettate di trasportare droghe illegali che viaggiano in acque internazionali vicino al Venezuela, dopo i tre di settembre e il più recente, a inizio ottobre, che hanno già causato vittime e tensioni diplomatiche tra i due Paesi. Washington parla di un’operazione contro le rotte del narcotraffico, mentre Caracas accusa gli USA di voler creare un pretesto per un intervento militare e destabilizzare il governo di Nicolás Maduro.
Nel mondo impianti di petrolio e plastica mettono a rischio la salute di 51 milioni di persone
La produzione di plastica minaccia la salute pubblica su scala globale. Non si parla di minacce ipotetiche dovute alle conseguenze climatiche: ma di responsabilità dirette e misurabili, date dall’emissioni di polveri sottili e sostanze tossiche che colpiscono l’organismo degli esseri umani che vivono nelle vicinanze degli impianti. Un recente rapporto di Greenpeace International ha infatti rivelato che oltre 51 milioni di persone in 11 Paesi vivono entro 10 chilometri da impianti petrolchimici che riforniscono la filiera della plastica, esposte al rischio di inquinamento atmosferico da sostanze tossiche. Di questi, 16 milioni risiedono nel raggio più critico di 5 chilometri. La ricerca, dal titolo “Every Breath You Take”, analizza il livello intermedio della produzione, dove i combustibili fossili vengono trasformati in materie prime plastiche, mappando gli impianti in Thailandia, Filippine, Malesia, Indonesia, Corea del Sud, Canada, USA, Germania, Regno Unito, Svizzera e Paesi Bassi. Aree residenziali sono state individuate entro 10 km dagli impianti in tutti i Paesi considerati, denotando una coesistenza forzata tra comunità e industrie inquinanti.
Gli autori del rapporto mettono in rilievo che la fase «midstream» della produzione – gli impianti che trasformano combustibili fossili in monomeri e resine – è una fonte consistente di emissioni: composti organici volatili (VOCs), ossidi di azoto e zolfo, particolato e gas serra, molte sostanze collegate a cancro, malattie respiratorie e danni riproduttivi. L’analisi geospaziale di Greenpeace ha incrociato la posizione degli stabilimenti con dati di densità di popolazione per stimare chi vive in zone di «rischio elevato» (5 km) e «rischio esteso» (10 km). Gli Stati Uniti detengono il numero assoluto più alto di persone a rischio: oltre 13 milioni, con concentrazioni particolarmente elevate in Texas e Louisiana. Tuttavia, in termini percentuali, sono i Paesi Bassi a registrare la situazione più critica, con circa 4,5 milioni di persone (oltre un cittadino su quattro, il 25.8% della popolazione) che vive entro 10 km da un impianto. Segue la Svizzera, dove il 10.9% degli abitanti è nella stessa condizione di rischio. Il rapporto sottolinea inoltre che l’inquinamento non conosce confini: «Border zone areas in Canada, Germany, Malaysia, the Netherlands, Switzerland, and the United States contain petrochemical production facilities located within 10 kilometers of neighbouring countries», con ricadute sulle comunità di Austria, Polonia, Singapore, Belgio e Francia.
Il report presenta casi studio emblematici di queste “zone di sacrificio”, come definito dalle Nazioni Unite. In Louisiana, la celebre “Cancer Alley” ospita circa 200 impianti lungo il Mississippi e registra tassi di cancro di molto superiori alla media nazionale. In Canada, la “Chemical Valley” a Sarnia, Ontario, sorge a fianco della riserva della First Nation Aamjiwnaang, dove si respirano livelli di benzene sopra i limiti di sicurezza e si segnalano alti tassi di aborti spontanei e malattie respiratorie infantili. In Corea del Sud, lo scandalo del complesso industriale di Yeosu ha portato alla luce una collusione tra aziende e agenzie di misurazione per manipolare i dati sulle emissioni di inquinanti, tra cui il vinile cloruro, un cancerogeno di gruppo 1.
Greenpeace avverte che la crisi non è confinata al problema dei rifiuti: la produzione stessa sta crescendo, con previsioni che vedono raddoppi o più della produzione di plastica entro il 2050, e gran parte dell’espansione è destinata a articoli a breve vita (packaging monouso, fast fashion), incrementando emissioni e rifiuti esportati verso Paesi a basso reddito. Tale scenario rischia di creare nuove “zone di sacrificio” e di compromettere anche gli obiettivi climatici, poiché la plastica diventa la scommessa del settore fossile per compensare il calo di altri mercati. Per fermare questa catena, l’organizzazione chiede un intervento internazionale deciso: «Abbiamo bisogno di un forte Trattato Globale sulla Plastica, che riduca la produzione di plastica di almeno il 75% entro il 2040 per proteggere la nostra salute, le nostre comunità e il pianeta», si legge all’interno della ricerca.
Nonostante lo spaccato si faccia sempre più allarmante, lo scorso agosto è terminato con un nulla di fatto il vertice di Ginevra per redigere un trattato globale contro l’inquinamento della plastica. Gli incontri si sono tenuti per dieci giorni consecutivi, con oltre 1.400 delegati provenienti da 183 Paesi diversi. Sebbene siano stati proposti due distinti testi, entrambi giudicati peraltro troppo poco ambiziosi dalle associazioni ambientaliste, al termine della seduta è mancata l’intesa per siglare la versione definitiva, con il comitato che ha deciso di rinviare i negoziati a data da destinarsi. «L’incapacità di raggiungere un accordo a Ginevra deve essere un campanello d’allarme per il mondo», ha scritto Graham Forbes, capo della delegazione di Greenpeace per i negoziati del Trattato. Secondo il gruppo, un accordo tra i Paesi non può rimanere ostaggio degli Stati e delle multinazionali petrolifere, e deve tenere conto dell’intero ciclo di vita della plastica, della sua produzione, dei danni ambientali e per la salute umana, nonché delle esigenze delle comunità indigene, che risultano le più colpite dalla crisi.
Filippo Turetta rinuncia all’appello contro l’ergastolo
Filippo Turetta ha inviato una lettera agli uffici giudiziari di Venezia per comunicare la sua decisione di rinunciare al processo d’appello contro la condanna all’ergastolo per il femminicidio di Giulia Cecchettin. Turetta era stato condannato lo scorso aprile per avere ucciso con 75 coltellate la propria ex fidanzata l’11 novembre 2023. La difesa aveva presentato istanza contro l’accusa di premeditazione, ma con la rinuncia all’appello, Turetta accetta la condanna all’ergastolo. A presentare appello era stata anche la Procura di Venezia, specificatamente sul mancato riconoscimento dell’aggravante della crudeltà; tale istanza resta attiva, e il processo è previsto il prossimo 14 novembre.
Fotovoltaico in Sardegna: 90 ettari di pannelli in un’area protetta UNESCO
A tre anni dalla prima presentazione del progetto, il Ministero per l’Ambiente e la Sicurezza Energetica (MASE) ha dato il via libera alla realizzazione di una centrale fotovoltaica nel territorio di Putifigari, nel nord della Sardegna. La nuova centrale, della potenza complessiva di 72,6 MW, sorgerà nei territori di Monte Siseri e Seddonai, occupando un’area di poco inferiore ai 90 ettari. Secondo quanto prevede il progetto, parte di essa si troverà all’interno di una zona considerata patrimonio dell’UNESCO per la presenza delle domus de jana, case funerarie tipiche dell’isola risalenti alla Sardegna prenuragica.
Nel documento del MASE si legge chiaramente che, proprio per questa ragione, il parere rilasciato in precedenza dal Ministero della Cultura sulla realizzazione dell’opera era negativo. Alcune porzioni del tracciato del cavidotto rientrano infatti all’interno della fascia di rispetto di 500 metri dai beni culturali vincolati, «risultando, quindi, solo parzialmente localizzate in area idonea». Eppure, il problema sembra non porsi nemmeno, dal momento che il Comitato tecnico PNRR-PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima) ha decretato che il progetto possa inserirsi senza problemi «nel contesto paesaggistico» e che le compensazioni previste, ovvero «opere a verde perimetrali», siano sufficienti a mitigare «gli impatti visivo-percettivi». Il progetto è d’altronde considetato dal Ministero di importanza strategica, dal momento che «concorre al raggiungimento degli obiettivi del PNIEC e del Piano per la Transizione Ecologica (PTE)».
La decisione del MASE, riporta il Coordinamento Gallura contro la speculazione eolica e fotovoltaica, «calpesta con arroganza istituzionale il lunghissimo e dettagliatissimo parere contrario del Ministero della Cultura (MIC) e della soprintendenza ABAP di Sassari». Oltre a trovarsi nel mezzo della zona cuscinetto della domus de jana di Monte Siseri, infatti, questa sarà ad appena 70 metri dai pannelli di Nuraghe Pedra de Fogu, a 10 metri circa dalle strutture di Monte Siseri e a 250 metri dalla domus de janas S’Ena Cocciada, in un punto dove si trova «una concentrazione di storia millenaria che sarà non solo deturpata nel paesaggio, ma letteralmente minacciata nelle sue fondamenta da un progetto industriale». Il Coordinamento invoca quindi la Regione Sardegna, chiedendo che si opponga alla delibera del MASE e non rilasci l’Autorizzazione Unica. Nel frattempo i comitati sardi, da tempo impegnati nella difesa del proprio territorio dall’assalto delle infrastrutture e dalla “speculazione energetica”, promettono battaglia.
Il presidente del Madagascar dissolve l’Assemblea
Il presidente del Madagascar, Andry Rajoelina, ha annunciato di avere sciolto l’Assemblea Nazionale per «ristabilire l’ordine nella Nazione e rinforzare la democrazia», dando «spazio ai giovani». L’annuncio del presidente arriva dopo settimane di proteste, a cui recentemente si sono aggiunti anche i membri dell’esercito. Le proteste, lanciate dai giovani del Paese, chiedevano che venissero garantiti i servizi idrici ed elettrici; nei giorni, si sono allargate in un più ampio moto antigovernativo, che ha portato alla fuga dello stesso Rajoelina dal Paese.
L’allarme del fondatore di Telegram: l’internet libero sta per finire
«Sto per compiere 41 anni, ma non ho voglia di festeggiare. La nostra generazione sta esaurendo il tempo per salvare l’Internet libero costruito per noi dai nostri padri». Con queste parole Pavel Durov ha scelto di trasformare il giorno del suo compleanno in un monito pubblico. Niente auguri, nessuna celebrazione: il fondatore di Telegram lancia un allarme evocando un futuro in cui il tempo per salvare la libertà digitale sta per esaurirsi. Il richiamo non è rindirizzato solo ai colleghi delle Big Tech: è un appello globale rivolto a chiunque usi la rete, in tutti i continenti, prima che quello che consideravamo un diritto si trasformi in uno strumento di sorveglianza di massa. Quella che un tempo era la promessa di uno scambio di informazioni orizzontale, libero da confini e controlli, si sta oggi trasformando – secondo Durov – «nel più potente strumento di controllo mai creato».
Nei messaggi diffusi via Telegram e sul suo profilo X, Durov denuncia che Paesi che un tempo si definivano “liberi” stanno imboccando vie che sembrano uscite da romanzi distopici. La difesa della privacy, per lui, non è però solo tecnica, è anche politica e culturale. Telegram nasce, infatti, dalla libertà di pensiero dei fratelli Durov (celebre la frase di Pavel: «Preferisco morire anziché permettere a terzi di accedere ai messaggi privati su Telegram), con l’obiettivo di poter creare una piattaforma dove le comunicazioni potessero essere sicure e private, ma soprattutto libere dall’ingerenza politica. Telegram è la prima app a usare la crittografia end-to-end, ha sparso i data center in tutto il mondo e ha scelto come sede centrale Dubai. Sulla base della sua visione della libertà digitale, Durov ha criticato apertamente il Chat Control europeo, i sistemi di identificazione digitale e i controlli sull’età online. Per lui, la privacy è un diritto umano fondamentale e ogni legge o misura che la riduca rappresenta un passo verso Internet controllato e sorvegliato. E snocciola alcuni esempi: l’implementazione del sistema di identità digitale nel Regno Unito, i controlli obbligatori sull’età in Rete in Australia, la scansione di massa dei messaggi privati nel contesto europeo. Avverte che la Germania sanziona chi critica funzionari via web, che il Regno Unito procede a incarcerazioni per un tweet e che la Francia avvia indagini penali contro leader digitali che difendono privacy e libertà. Un mosaico in cui il controllo statale si estende, la dissidenza viene criminalizzata e la rete diventa un recinto.
Le sue parole assumono un peso ancora maggiore dopo le recenti vicende giudiziarie che lo hanno visto protagonista lo scorso anno. La sera del 24 agosto 2024, appena atterrato con il suo jet privato all’aeroporto di Le Bourget, l’imprenditore russo con cittadinanza nevisiana, francese ed emiratina, è stato arrestato dalla gendarmerie con dodici accuse a suo carico: dalla complicità nella diffusione di materiale pedopornografico al traffico di droga, dall’omessa collaborazione con le autorità alla fornitura di strumenti di crittografia “fuori standard”. La notizia ha fatto il giro del mondo, gettando nello scompiglio i media, dividendo l’opinione pubblica e scuotendo le fondamenta delle Big Tech: che sia solo l’inizio di una operazione di rastrellamento degli imprenditori digitali divergenti? Il suo arresto rappresenta uno spartiacque per la libertà di espressione: si inserisce in un contesto più ampio di quei tentativi sempre più aggressivi da parte dei governi di soffocare ogni voce libera o dissidente. Il nodo centrale dell’indagine era stata la mancata moderazione dei contenuti su Telegram e la scarsa cooperazione con le forze dell’ordine. Per Durov, però, l’inchiesta rappresenta qualcosa di più: il segnale che persino in Occidente la libertà digitale è ormai vista come una minaccia. Il paradosso è che con il suo arresto non è stato perseguitato da un regime autoritario, ma da un Paese – la Francia – che si proclama culla dei diritti umani. A evidenziare l’anomalia è stato persino il Cremlino, con cui non sono mai corsi buoni rapporti: «Le accuse sono gravi e richiedono prove solide – ha dichiarato il portavoce Dmitrij Peskov – altrimenti sarà evidente che si tratta di un tentativo di intimidazione». Durov non è nuovo a scontri con i governi. Nel 2014 rifiutò di consegnare al governo federale russo i dati personali di un gruppo attivo su VK, che protestava apertamente contro Putin, scegliendo l’esilio. Lo scopo principale del CEO, infatti, era quello di avere la massima libertà da ogni costrizione politica. La sua piattaforma doveva poter non essere controllata, perché la sua filosofia vede un sistema di comunicazione privo di regolamentazioni, moderazioni e costrizioni.
Il suo allarme, oggi, a più di un anno dal suo arresto e rilascio, non nasce dal vuoto e appare come il manifesto di un’epoca in bilico: Telegram è sempre stato un simbolo, per molti, di comunicazione libera e cifrata. Il suo messaggio funziona da catalizzatore: spinge a mettere al centro il tema della sovranità digitale, della trasparenza normativa, della governance della rete. Se l’Internet libero è davvero in pericolo, non si tratta di difendere un’idea astratta, ma una condizione essenziale per la democrazia contemporanea e la sopravvivenza stessa del pensiero critico. Dietro l’atlante delle presunte violazioni si innesta, infatti, un’idea di battaglia civile, un invito alla resistenza digitale. Durov sostiene che la generazione attuale rischia di passare alla storia come l’ultima che ha conosciuto la libertà, quella che ha permesso che le sue stesse libertà venissero progressivamente tolte. «Un mondo oscuro e distopico si avvicina rapidamente – mentre noi dormiamo», scrive. Non è solo una denuncia, ma un’esortazione implicita: mobilitarsi, creare infrastrutture di resistenza, difendere strumenti cifrati, sostenere modelli decentralizzati, fare della privacy un tema non tecnico ma politico. Tra poteri che reclamano l’accesso totale ai dati e cittadini sempre più sorvegliati, la rete rischia di smettere di essere un luogo di libertà per diventare il più sofisticato sistema di controllo globale. Durov invita a scegliere da che parte stare: è un richiamo all’azione, perché il tempo a disposizione resta poco e ogni tentennamento rischia di accelerare la corsa verso la distopia.
Processo Morandi, richiesta condanna di 18 anni e 6 mesi per Castellucci
A oltre sette anni dalla tragedia del crollo del ponte Morandi, la Procura fa le sue richieste di condanna nei confronti dei 57 imputati. Nel corso della requisitoria che si è protratta per mesi, il pm Walter Cotugno ha chiuso l’istruttoria chiedendo per l’ex amministratore delegato di Autostrade Giovanni Castellucci, già in carcere dopo la sentenza sulla strage di Avellino, una pena di 18 anni e 6 mesi, il massimo previsto dalla legge. La Procura ha motivato la richiesta sostenendo che “tutti gli indicatori per lui sono negativi”, definendo il caso un modello di dolo eventuale. La difesa di Castellucci ha replicato dichiarando che l’ormai detenuto dirigente si trova “in carcere da innocente”, chiedendo rigore nelle valutazioni processuali e sottolineando la sua estraneità alle nuove imputazioni. A Genova, con la tragedia che costò la vita a 43 persone, le prossime udienze saranno decisive per definire le richieste di pena anche per gli altri 56 imputati. A processo ci sono ex dirigenti e tecnici appunto di Aspi, dell’allora società gemella Spea, ma anche del ministero delle Infrastrutture.









