domenica 6 Luglio 2025
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Droni ucraini hanno attaccato diverse basi militari in Russia

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Diversi droni ucraini, trasportati da camion con rimorchio che hanno penetrato in profondità il territorio russo, hanno colpito basi militari a oltre 4.000 km di distanza dall’Ucraina. Kiev rivendica di aver distrutto alcuni bombardieri con capacità nucleari, colpendoli mentre si trovavano sulle piste degli aeroporti. A testimonianza sono stati pubblicati alcuni video, che però non è possibile autenticare. Il ministero della Difesa russo, citato dall’agenzia stampa nazionale Tass, ha confermato gli attacchi a cinque aeroporti militari (nelle regioni di Murmansk, Irkutsk, Ivanovo, Ryazan e Amur), ammettendo che «diversi velivoli hanno preso fuoco», ma precisando che gli attacchi «sono stati respinti» e che «alcune delle persone coinvolte negli attacchi terroristici sono state arrestate». Gli attacchi sono stati condotti alla vigilia del nuovo round di colloqui tra Mosca e Kiev, che si svolgerà oggi a Istanbul.

Zelensky ha dichiarato che l’attacco ha richiesto un anno e mezzo di preparazione per essere portato a termine e che è stato condotto «brillantemente» con un totale di 117 droni. A detta del presidente, le operazioni sarebbero state coordinate da un “ufficio” collocato su territorio russo, vicino al quartier generale del FSB. L’attacco ucraino alle basi russe era stato preceduto dal crollo di due ponti collocati in due regioni russe confinanti con l’Ucraina, quelle di Bryansk e Kursk. Il crollo (che per il Comitato Investigativo russo, citato da Reuters, sarebbe da attribuire a due esplosioni) ha causato il deragliamento di due treni e la morte di sette persone, oltre al ferimento di altre 69. L’Ucraina, tuttavia, non ha commentato l’accaduto. Nel mentre, nella notte tra sabato e domenica, la Russia ha lanciato uno dei più grandi attacchi con droni dall’inizio della guerra, durato varie ore: sarebbero 479 i «mezzi di assalto aereo» impiegati, secondo quanto dichiarato dall’aeronautica militare di Kiev, delle quali 472 droni, 3 missili balistici e 4 razzi alati, diretti principalmente verso le regioni di Kharkiv, Sumy, Zhytomyr, Odessa, Donetsk, Dnipropetrovsk e Zaporizhia. Kiev ha dichiarato che 385 droni e 3 razzi sono stati respinti.

Gli attacchi sono avvenuti ore prima dell’inizio di un nuovo round di negoziati diretti tra Mosca e Kiev, avrà luogo oggi a Istanbul. Nel precedente round di negoziati, il primo in tre anni di guerra, era stato concordato lo scambio di mille prigionieri di guerra per parte, ma non a ulteriori discorsi di pace o a una tregua. Oggi, il ministro della Difesa ucraino Rustem Umerov incontrerà l’assistente del Cremlino Vladimir Medinsky. Nei giorni scorsi, l’inviato speciale USA Keith Kellogg aveva dichiarato che era stato concordato tra le parti uno scambio di memorandum contenenti ciascuno le condizioni per un cessate il fuoco. Da parte ucraina, il memorandum è stato consegnato, come riferito dallo stesso Umerov, ma la Russia non ha ancora consegnato la propria copia. I ritardi avevano portato l’Ucraina a minacciare di ritirare la propria presenza dai colloqui, che risulta però ad ora confermata.

L’Indonesia ha ottenuto un’importante vittoria contro l’inquinamento ambientale

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La Corte Suprema indonesiana ha confermato la bancarotta del colosso tessile Sritex, fornitore di marchi globali come H&M e Uniqlo. Contestualmente, ha accolto la class action di 185 residenti della provincia di Giava Centrale contro la controllata PT RUM, colpevole di inquinamento atmosferico e fluviale vicino al fiume Bengawan Solo. Ai cittadini sono stati riconosciuti oltre 500 milioni di rupie in risarcimenti e l’obbligo per l’azienda di bonificare l’ambiente. Dopo la chiusura dello stabilimento, la fauna è tornata e l’ambiente ha mostrato segni di ripresa.

RUM era finita al centro delle polemiche già nel 2022, quando l’agenzia ambientale del distretto di Sukoharjo aveva denunciato lo scarico di sostanze tossiche nel fiume Bengawan Solo, il più lungo di Giava. Per mesi, una condotta difettosa aveva riversato acido solforico, zinco e disolfuro di carbonio nel fiume e nell’aria circostante, senza controlli né sanzioni, complice una legge omnibus del 2020 che aveva indebolito i poteri delle autorità locali. Le proteste delle comunità hanno portato alla chiusura dell’impianto nel 2023. In ultima battuta, si è arrivati alla class action vinta dai cittadini e alla conferma della bancarotta dell’azienda da parte della Corte. Un colpo durissimo per la Sritex, nata come negozio locale negli anni Sessanta e diventata il maggiore produttore tessile indonesiano, con oltre 50mila dipendenti. Il crollo delle vendite durante la pandemia, da 1,3 miliardi di dollari nel 2019 a meno di 850 milioni nel 2020, ha reso insostenibili gli impegni finanziari, portando al default.

Le ombre sulla gestione finanziaria di Sritex si sono infittite con l’arresto di Iwan Lukminto, presidente e amministratore delegato del gruppo, accusato di corruzione. Fermato il 20 maggio 2025 dalla Procura Generale nella sua residenza di Solo, in Giava Centrale, Lukminto è ora al centro di un’inchiesta che potrebbe svelare gravi irregolarità nella gestione delle risorse aziendali. L’indagine della Divisione Crimini Speciali è in corso, e molti cittadini chiedono che siano recuperate le risorse sottratte e che venga fatta piena luce sulle responsabilità del disastro ambientale e sociale.

Il fallimento di Sritex, con oltre 10mila operai che hanno perso il lavoro, rappresenta una crisi per l’industria tessile nazionale, che rimane uno dei principali motori occupazionali del Paese. Tuttavia, per le organizzazioni ambientali e le comunità locali, la sentenza costituisce un precedente fondamentale nella lotta per il diritto alla salute, alla trasparenza e alla tutela dell’ambiente. Il caso solleva anche interrogativi più ampi sulla sostenibilità del modello produttivo del fast fashion, che continua ad appoggiarsi su filiere opache e spesso responsabili di gravi violazioni ambientali e sociali.

Messico al voto per le prime elezioni giudiziarie della storia

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Per la prima volta nella storia, il Messico va oggi al voto per le prime elezioni giudiziarie del Paese, indette dopo la revisione del sistema giudiziario nazionale indetta dall’ex presidente Obrador. Secondo quest’ultimo e l’attuale presidente, Sheinbaum, le elezioni permetteranno di eliminare la corruzione dal sistema giudiziario, permettendo ai cittadini di decidere chi diventerà giudice. Gli elettori potranno infatti votare per eleggere, tra gli altri, i 9 giudici della Corte Suprema. La destra ha tuttavia invitato a boicottare il voto, in quanto le procedure di selezione dei giudici sarebbero poco trasparenti.

La sfida dei BRICS per ridefinire l’ordine mondiale

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Con l’inizio del 2025, il blocco BRICS ha segnato un nuovo capitolo nella sua storia con un’ampia espansione che include nuovi Paesi partner e l’ingresso a pieno titolo dell’Indonesia. Questo evento segna un passo cruciale verso il consolidamento del gruppo come polo di potere economico e geopolitico, con l’obiettivo di sfidare l’egemonia statunitense e proporre un nuovo modello di governance globale. L’ingresso di Bielorussia, Bolivia, Cuba, Kazakistan, Malesia, Thailandia, Uganda, Uzbekistan e Nigeria come partner e dell’Indonesia come membro a pieno titolo rafforza ulteriormente la portata e l’influenza del gruppo, che rappresenta ora il 36% del PIL globale, il 37% del commercio mondiale e il 40% della produzione petrolifera. Fondata nel 2006 da Brasile, Russia, India e Cina, e con l’aggiunta del Sudafrica nel 2011, l’alleanza BRICS ha ampliato costantemente la propria portata.

Con l’ingresso di nuovi membri come Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti nel 2024, il blocco ha consolidato il suo ruolo di rappresentante delle economie emergenti. L’introduzione dello status di partner, stabilito durante l’ultimo vertice a Kazan, in Russia, segna un ulteriore passo avanti verso l’obiettivo di creare una piattaforma di cooperazione economica e, in prospettiva, un soggetto politico capace di rappresentare gli interessi dei Paesi del Sud globale.

L’espansione del titolo di partner e i nuovi membri

In foto: il presidente della Nigeria Bola Tinubu durante un meeting con il presidente brasiliano Lula da Silva

Lo status di partner, concepito per rafforzare la cooperazione economica e politica, offre ai Paesi l’opportunità di collaborare con i BRICS su progetti specifici. Sebbene non conferisca potere decisionale o diritto di voto, esso rappresenta un primo passo verso una maggiore integrazione con l’alleanza. Tra i nuovi partner, spiccano Paesi come Cuba e Nigeria, che vedono nel blocco una via per diversificare e rafforzare le proprie economie. 

Cuba, ad esempio, sta cercando di superare le difficoltà economiche causate da diversi fattori, tra cui spiccano l’embargo decennale imposto dagli Stati Uniti, le difficoltà economiche del Venezuela (storico fornitore di petrolio a basso prezzo per l’Avana) e il crollo del turismo seguito alla pandemia da Covid-19. L’adesione come partner permetterà all’isola socialista di accedere a nuove opportunità di investimento da parte di Russia e Cina (membri chiave dei BRICS), che potrebbero essere cruciali per affrontare la crisi energetica e monetaria che ha colpito l’isola nel 2024. La Nigeria, invece, con oltre 200 milioni di abitanti e un’economia in crescita, si configura come un partner strategico per i BRICS in Africa. Essendo il Paese più popoloso del continente, la Nigeria offre non solo un vasto mercato interno, ma anche un punto d’accesso privilegiato verso altre nazioni africane. Il governo brasiliano, presidente di turno dei BRICS, ha sottolineato il ruolo cruciale della Nigeria nel rafforzare la cooperazione Sud-Sud e nel promuovere riforme nella governance globale per assicurare una maggiore rappresentatività ai Paesi in via di sviluppo. 

Tra i nuovi membri, l’Indonesia si distingue per essere diventata rapidamente un membro a pieno titolo del blocco BRICS. Con oltre 280 milioni di abitanti, il Paese è la più grande economia del Sudest asiatico e il quarto più popoloso al mondo. L’ingresso nei BRICS rappresenta per Giacarta una tappa fondamentale nella sua strategia di diversificazione economica e politica. La partecipazione del Paese apre la strada a una cooperazione più ampia su scala globale, includendo scambi tecnologici e iniziative per lo sviluppo sostenibile. Inoltre, l’Indonesia è il primo Paese del Sud-est asiatico a diventare membro a pieno titolo, evidenziando la volontà del blocco di espandersi in regioni strategiche. 

Dal punto di vista geopolitico, l’ingresso dell’Indonesia ha una rilevanza significativa. Come principale economia della regione, il Paese funge da catalizzatore per ulteriori collaborazioni con altre nazioni del Sud-est asiatico, rafforzando la rappresentanza dei Paesi in via di sviluppo all’interno delle istituzioni internazionali.

La visione della presidenza brasiliana

Con il passaggio della presidenza di turno al Brasile, l’agenda del blocco BRICS si concentra su tre obiettivi principali. Il primo è la creazione di sistemi finanziari alternativi, proseguendo sulla strada del superamento del dollaro statunitense come valuta di scambio globale. Vi è poi la promozione della governance globale del Sud del mondo tramite una riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in modo da renderlo più rappresentativo delle realtà globali attuali e garantire una voce maggiore ai Paesi in via di sviluppo nei processi decisionali internazionali. Infine, la nuova presidenza punta all’ampliamento della cooperazione economica e tecnologica, attraverso la promozione di iniziative per incoraggiare la cooperazione in settori chiave come la tecnologia, l’energia e l’agricoltura sostenibile, favorendo il trasferimento di conoscenze tra i membri e i partner del blocco.

L’espansione dei BRICS ha implicazioni significative per l’ordine economico e politico globale. Con l’aggiunta di nuovi partner, il blocco rappresenta ora la metà della popolazione mondiale e una parte considerevole dell’economia globale, potendo così sfidare direttamente l’egemonia delle istituzioni occidentali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. La diversificazione geografica è un altro elemento chiave. L’ingresso di Paesi del Sud-est asiatico, dell’Africa e dell’America Latina riflette l’intento del blocco di consolidare una rete globale di alleanze che promuovano lo sviluppo economico sostenibile e l’indipendenza dalle strutture economiche dominate dall’Occidente.

L’espansione del blocco BRICS nel 2025 segna un momento cruciale nella ridefinizione degli equilibri economici e politici globali. Con l’aggiunta di nuovi partner e membri, il gruppo sta costruendo una piattaforma che non solo sfida l’egemonia occidentale, ma offre anche una visione alternativa per il futuro della governance globale. Grazie alla leadership della presidenza brasiliana e al contributo di economie emergenti come l’Indonesia e la Nigeria, i BRICS si posizionano come un attore centrale in un mondo sempre più multipolare. 

BRICS e Paesi del G7 a confronto

L’allargamento del blocco BRICS segna una sfida crescente all’alleanza occidentale rappresentata dai G7 (USA, Regno Unito, Germania, Francia, Canada, Italia e Giappone) sul piano economico, politico e geostrategico. Sebbene il PIL nominale del G7 (46.000 miliardi di dollari) resti superiore a quello dei BRICS (30.000 miliardi con i nuovi membri), le economie del blocco emergente crescono rapidamente, trainate da Cina e India. In termini di parità di potere d’acquisto (PPA), i BRICS hanno già superato il G7.

In foto: Il presidente russo Vladimir Putin e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman

I BRICS vantano un’enorme popolazione (3,6 miliardi, quasi la metà della popolazione mondiale), contro i 772 milioni del G7. Questo vantaggio demografico, insieme al controllo di risorse naturali strategiche (petrolio, gas, minerali rari) e rotte commerciali (Via del Mare Artico, Corridoio Nord-Sud, Belt and Road Initiative), conferisce al blocco un potenziale geostrategico unico. Con l’ingresso di Arabia Saudita, Iran e Emirati Arabi Uniti, il gruppo domina i mercati energetici globali, rafforzando il controllo sul 40% della produzione petrolifera mondiale e gran parte delle riserve di gas. Tuttavia non mancano le sfide politiche da risolvere per rappresentare realmente una sfida geopolitica all’asse americano: se i Paesi occidentali si presentano come una “comunità di destino”, unita da valori politi ed economici comuni, i BRICS ospitano Paesi con sistemi e obiettivi differenti, talvolta in contrasto tra loro. Dalla capacità di mettere l’obiettivo di creare un nuovo ordine globale davanti alle differenze che vi sono tra i membri passerà il successo dell’alleanza.

Russia, crollano due ponti: 7 morti

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Due ponti collocati nelle regioni russe di Bryansk e Kursk, confinanti con l’Ucraina, sono collassati a distanza di poche ore mentre su entrambe transitavano dei treni, causando la morte di 7 persone e il ferimento di altre 69. Secondo il Comitato Investigativo russo, citato da Reuters, a far crollare i ponti sarebbero state due esplosioni. L’Ucraina non ha ancora commentato l’accaduto. I fatti si sono verificati alla vigilia dei colloqui di Instabul, dove dove domani inviati di Mosca e Kiev dovrebbero incontrarsi per discutere della possibilità di un cessate il fuoco.

Francia: due morti e 559 arresti nella notte dopo la finale di Champions

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Sono 559 le persone arrestate e 2 quelle che hanno perso la vita nel corso della notte in Francia, per il caos dei festeggiamenti esploso dopo la vittoria del Paris Saint-Germain nella finale di Champions League. A Parigi un negozio è stato svaligiato, varie auto sono state date alle fiamme e una stazione degli autobus è stata distrutta, mentre a Grenoble un’auto ha investito la folla che festeggiava in strada, ferendo 4 persone. A Dax, nel sudovest del Paese, un ragazzo è stato ucciso a coltellate nel corso di una rissa esplosa durante i festeggiamenti, mentre a Parigi un giovane è morto dopo essere stato investito mentre era alla guida della sua moto.

La Freedom Flotilla per rompere l’assedio di Gaza sta per salpare dalla Sicilia

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Era gremito il piccolo porto di San Giovanni Li Cuti, vecchio borgo marinaro nel cuore di Catania. Centinaia di persone ad affollare la banchina, accorse per accogliere la Freedom Flotilla, l’imbarcazione che salperà oggi – domenica 1 giugno – alla volta di Gaza con l’obiettivo di rompere il blocco israeliano e consegnare aiuti alla popolazione palestinese. I membri della flotta si alternano al microfono, vengono da tutto il mondo: Europa, Brasile, Stati Uniti, Paesi arabi. Tra loro anche l’ambientalista svedese Greta Thunberg e l’attore irlandese Liam Cunningham (il Ser Davos Seaworth della serie Il trono di spade). Parlano in inglese, mentre gli attivisti cittadini traducono alla folla, piena non solo di quei volti che ti aspetti di trovare ai cortei, ma di uomini, donne, anziani e bambini che reggono cartelli in cui esprimono solidarietà ai propri coetanei di Gaza. Una riedizione di quanto accaduto appena una settimana fa, con cinquemila persone in corteo lungo la centrale via Etnea: testimonianza di una città che, come tante altre in Italia e in Europa, non ha più intenzione di assistere inerte di fronte al genocidio

La missione che attende la dozzina di attivisti a bordo della Freedom Flotilla è pericolosa. Non tanto per i sette giorni di navigazione nel Mediterraneo a bordo della piccola imbarcazione a motore, ma per l’elevata probabilità di essere fermati con la forza dall’esercito israeliano. Molti di loro erano a bordo del precedente tentativo di raggiungere Gaza via mare, quando – il primo maggio 2025 – l’imbarcazione venne raggiunta da un drone israeliano mentre si trovava al largo di Malta e colpita con proiettili che ne incendiarono la prua, mettendola fuori uso. Mentre è ancora vivo il ricordo della Mavi Marmara, la nave di attivisti partita dalla Turchia sempre allo scopo di rompere l’assedio di Gaza, che il 31 maggio 2010 venne assaltata da un reparto speciale dell’esercito israeliano che uccise 10 membri dell’equipaggio e ne ferì altri 60. Una strage che il governo israeliano tentò di giustificare con la presunta presenza a bordo di armi destinate alla lotta armata palestinese, una menzogna smentita da successive indagini delle Nazioni Unite.

«Molti pensano che siamo degli eroi, ma non lo siamo. Per vivere oggi a Gaza serve essere eroi – afferma Thiago Avila, attivista brasiliano e tra gli organizzatori della Freedom Flotilla – ho una bambina di un anno e penso che non si possa stare a guardare mentre migliaia di bambini a Gaza muoiono sotto le bombe e vivono nel terrore. Noi vogliamo dimostrare che la solidarietà e la coscienza internazionalista sono armi che possono battere l’oppressione».

A portarmi con un piccolo gommone a bordo della nave della Freedom Flotilla, ormeggiata un centinaio di metri oltre gli scogli del porticciolo, è Yazan Eissa, un ragazzo palestinese che è il tuttofare della ciurma. A bordo ci sono altri tre membri dell’equipaggio, rimasti a sorvegliare l’imbarcazione in attesa della partenza. Tra loro il dottor Mohammed Mustafa, che a lavorare come volontario a Gaza c’è già stato e ora prova a tornarci perché «ci sono migliaia di bambini da curare, e quelli che non sono morti sotto le bombe sono completamente traumatizzati e stanno vivendo un inferno che è impossibile da descrivere». Sul ponte della nave, e anche sottocoperta, tolto lo spazio strettamente necessario per dormire e cucinare, ogni angolo è pieno di viveri da portare a Gaza: succhi di frutta, latte, riso, cibo in scatola, barrette proteiche. Sono state donate da centinaia di cittadini catanesi e di tutto il mondo. Yazan sa benissimo che, se riusciranno ad arrivare a Gaza, basteranno a sfamare solo pochi tra i due milioni di palestinesi allo stremo, ridotti alla fame da mesi di crimini di guerra da parte del governo israeliano che, attraverso il blocco di ogni aiuto umanitario e la distruzione sistematica dei campi agricoli, sta usando la fame come arma per costringere la gente di Gaza ad andarsene dalla propria terra: «Il nostro è un aiuto simbolico, serve innanzitutto a testimoniare alla gente di Gaza che i cittadini del mondo sono con loro», afferma.

E visto dal porto di San Giovanni Li Cuti appare evidente che Yazin abbia ragione. I cittadini sono con loro e sopra i tavoli dei ristoranti ci sono palloncini rossi, neri, verdi e bianchi: i colori che compongono la bandiera palestinese. Mentre i passanti si fermano ad ascoltare ed applaudire. «Hanno ragione, è ora di fare qualcosa per fermare Israele», dice ai clienti il ragazzo che lavora al chiosco mentre serve caffè e birre. Tanti chiedono cosa possono fare dei semplici cittadini per fermare tutto questo. «La storia dimostra che l’azione collettiva è il vero motore dei cambiamenti reali», risponde Thiago dal palco: «partecipate alle proteste, attuate il boicottaggio verso i marchi complici del genocidio, supportate i gruppi che sabotano le industrie di armi e bloccano il loro trasporto dai porti, informatevi e invitate gli altri a fare lo stesso tra i vostri amici e su internet. Tutte le azioni sono parte della battaglia per fermare Israele. La grande maggioranza dei cittadini in Europa e nel mondo sta con la Palestina. Il problema è che i governi non rispettano la volontà dei cittadini che li hanno eletti, ma se saremo uniti e determinati dovranno farlo».

Gaza, strage di civili in coda per gli aiuti umanitari a Rafah

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Alle 6 di questa mattina l’esercito israeliano ha aperto il fuoco contro i civili palestinesi in fila per ricevere gli aiuti umanitari in due dei centri di distribuzione della ONG statunitense Gaza Foundation, situati nella zona orientale di Rafah. Secondo i bollettini sanitari locali sarebbero almeno 26 le vittime e 125 i feriti trasportati d’urgenza presso l’ospedale civile della Croce Rossa Internazionale e il centro medico pubblico Naser. Il direttore del centro medico, Mahmoud Afsh, ha dichiarato che l’IDF starebbe impedendo alle poche ambulanze attive di raggiungere tutti i feriti. 4 giorni fa, sempre a Rafah, l’IDF aveva aperto il fuoco sui civili durante la distribuzione fallimentare di aiuti umanitari di Gaza Foundation, ferendo almeno 46 civili.

Hamas avanza una controproposta al piano di cessate il fuoco, per gli USA è “inaccettabile”

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Il gruppo palestinese Hamas ha risposto alla proposta di cessate il fuoco elaborata dagli Stati Uniti e sottoscritta da Israele lo scorso giovedì 29 maggio, chiedendo di apportare alcune modifiche. Secondo quanto riportato da Reuters, che cita un comunicato del gruppo, questi avrebbe dichiarato che rilascerà 10 ostaggi vivi e 18 cadaveri in cambio del rilascio di un certo numero di ostaggi palestinesi da parte di Israele. Hamas ha però aggiunto la richiesta di giungere a un cessate il fuoco permanente, del ritiro completo di Israele dalla Striscia e di garantire un adeguato flusso di aiuti umanitari alla popolazione dell’enclave. La risposta è arrivata dopo un ciclo di «consultazioni nazionali». Tuttavia, l’inviato speciale degli Stati Uniti Witkoff l’ha definita «inaccettabile».

«Ho ricevuto la risposta di Hamas alla proposta degli Stati Uniti – ha scritto Witkoff in un post su X – È totalmente inaccettabile e ci fa solo fare un passo indietro. Hamas dovrebbe accettare la proposta quadro che abbiamo avanzato come base per i colloqui di prossimità, che potremo avviare immediatamente la prossima settimana. Questo è l’unico modo in cui potremo concludere un accordo di cessate il fuoco di 60 giorni nei prossimi giorni, in cui metà degli ostaggi viventi e metà di quelli deceduti torneranno a casa dalle loro famiglie e in cui potremo avere, nei colloqui di prossimità, negoziati sostanziali e in buona fede per cercare di raggiungere un cessate il fuoco permanente».

L’agenzia di stampa palestinese QNN riferisce che la risposta di Hamas include un calendario per il rilascio dei prigionieri ancora vivi – 4 il primo giorno del cessate il fuoco, 2 il trentesimo e 4 il sessantesimo. Secondo l’agenzia, i corpi dei deceduti sarebbero invece consegnati al decimo, trentesimo e cinquantesimo giorno. La risposta di Hamas comprenderebbe anche la richiesta di iniziare negoziati per giungere a un cessate il fuoco permanente.

Il quotidiano di informazione israeliano Times of Israel, citando un funzionario del governo israeliano, riporta che il governo starebbe trattando la risposta del gruppo palestinese come un «effettivo rifiuto» e che, nonostante Hamas abbia presentato la sua risposta ufficiale alla proposta di Witkoff, i mediatori starebbero ancora lavorando per «ammorbidire alcune delle richieste». Dopo l’annuncio di giovedì da parte della Casa Bianca, che sosteneva che Israele avesse firmato la proposta di cessate il fuoco elaborata dall’inviato speciale USA Witkoff, il premier Netanyahu ha sottolineato quanto già affermato in precedenza, ovvero che la guerra non terminerà prima della «sconfitta di Hamas».

La proposta dell’inviato speciale USA, Witkoff, sottoscritta da Israele, prevede un cessate il fuoco di 60 giorni con il rilascio di 10 ostaggi israeliani vivi e 18 deceduti entro il settimo giorno del cessate il fuoco, oltre all’immediata distribuzione di aiuti umanitari (organizzata da Nazioni Unite e Mezzaluna Rossa) a Gaza nonappena Hamas avesse sottoscritto la proposta. Inoltre, la proposta avrebbe compreso la cessazione di tutte le attività militari offensive israeliane dalla Striscia e una cessazione dei movimenti aerei per 10/12 ore al giorno. La proposta prevedrebbe inoltre una «ridistribuzione» dell’IDF, insieme a ulteriori colloqui per un cessate il fuoco permanente e un eventuale ritiro dell’esercito dall’enclave.

Nel frattempo, il massacro nell’enclave non accenna a fermarsi, mentre la distribuzione degli aiuti umanitari organizzata da USA e Israele continua a rivelarsi un completo fallimento. L’esercito israeliano ha bombardato 60 abitazioni nel nord della Striscia in meno di 48 ore, intensificando ulteriormente l’offensiva contro i civili. Sono oltre 54 mila le morti accertate per gli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza a partire dal 7 ottobre 2023, 61.700 per il governo dell’enclave (ma, secondo alcune stime, il numero reale potrebbe essere circa il triplo). Non c’è pace nemmeno nella Cisgiordania occupata, dove l’esercito israeliano ha fatto oggi irruzione nelle città di Tubas e Tulkarem, istituendo altri posti di blocco militari e aggredendo civili nel sud di Hebron.

Tumori, sale la spesa per farmaci: 4,7 miliardi in Italia

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Grazie a terapie sempre più efficaci, in Italia oltre 3,7 milioni di persone vivono dopo una diagnosi di tumore. Tuttavia, il costo dei farmaci oncologici è in aumento e solleva allarmi sulla sostenibilità del Servizio Sanitario. È l’allarme lanciato da Francesco Perrone, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom), nella conferenza stampa della società scientifica al Congresso dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO), che si è aperto a Chicago. Nel 2023 i farmaci oncologici sono costati 4,77 miliardi di euro, ovvero il +9,6% rispetto all’anno precedente, e il tutto mentre solo il 2,3% dei posti letto è in oncologia. «La spesa deve essere “governata”, dando la priorità ai farmaci davvero innovativi», commenta Perrone.