Mercoledì 17 settembre 2025, il Senato ha approvato in via definitiva la legge italiana sull’Intelligenza Artificiale. Il pacchetto normativo anticipa l’avvento dell’AI Act europeo, ponendo l’Italia in una posizione di avanguardia amministrativa, con l’intento di stimolare l’innovazione e rafforzare l’economia nazionale. L’opposizione e i difensori dei diritti digitali si ritengono però insoddisfatti del testo della legge, accusandolo di essere privo di mordente, più adatto a garantire al Governo degli strumenti di sorveglianza che a tutelare davvero gli interessi dei cittadini.
Impresa, lavor...
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Dall’alba di oggi, sabato 20 settembre, almeno 51 persone sono state uccise dai raid nella Striscia, tra cui 43 nella città di Gaza. Lo riferiscono le fonti ospedaliere locali e i reporter di Al Jazeera, aggiungendo che gli attacchi israeliani avrebbero colpito anche l’abitazione del fratello di Mohammed Abu Salmiya, direttore del complesso medico al-Shifa, uccidendo l’uomo e molti dei suoi figli, alcuni minori. Riportati anche problemi anche in materia di evacuazione, in quanto l’esercito israeliano avrebbe chiuso via Salah al Din, una strada chiave utilizzata dai palestinesi sfollati in fuga dal nord di Gaza. «La situazione è molto difficile. L’occupazione vuole che tu odi la vita. Non vuole che tu viva», ha riferito un palestinese che dormiva sul ciglio della strada.
La prima cosa che si incontra entrando a Traversara è un semaforo. È uno di quelli che di solito si usano per i sensi unici alternati nei pressi dei cantieri. Ma qui non segnala lavori in corso: divide in due la città. Da una parte le case ancora in piedi, dall’altra quelle totalmente distrutte. Il semaforo, appoggiato a terra, avrebbe dovuto essere provvisorio. In realtà è lì da esattamente un anno. Il 19 settembre 2024, infatti, il fiume Lamone, gonfio fino all’orlo per le piogge torrenziali di quei giorni, ha rotto l’argine, travolgendo il piccolo paese romagnolo. Non era la prima volta. Da maggio 2023, a partire dalla prima grande alluvione che ha devastato la Romagna, Traversara si è allagata quattro volte. Ma l’ultima è stata la più feroce: il fiume ha distrutto le prime trenta abitazioni che ha incontrato sul suo percorso, per poi sommergere l’intera zona abitata.
Il fiume Lamone. Foto di Fulvio Zappatore
Traversara è un borgo di appena cinquecento anime, sprofondato nel cuore della bassa padana, nel comune di Bagnacavallo, provincia di Ravenna. Qui la pianura domina incontrastata. L’unico limite allo sguardo è l’argine del fiume, innalzato negli anni di decine di metri sopra le case per difenderle dalla furia dell’acqua. In via Torri una lunga fila di case è rimasta com’era un anno fa: muri sventrati, stanze a cielo aperto. È la cosiddetta “zona rossa”, tuttora inaccessibile. Dai varchi si scorgono materassi, sedie, termosifoni, biciclette, tavolini. Frammenti di vita quotidiana trasformati in un museo della catastrofe. Chi viveva lì è dovuto scappare senza poter prendere nulla e non è più tornato. A separare le abitazioni dalla strada c’è una recinzione metallica, su cui gli abitanti hanno appeso cartelli che gridano la loro rabbia e la loro frustrazione. Su uno si legge: «Noi viviamo sempre con la valigia pronta». Su un altro: «Voi non avete mosso un dito». Sotto la frase, il dito disegnato è il medio.
«Alle 10.35 del mattino l’argine ha ceduto e siamo stati inondati da cinque metri d’acqua – ricorda Luca Baldi, presidente del comitato Traversara Futura – A quel punto io, mio figlio e mia moglie ci siamo rifugiati sul tetto attendendo i soccorsi. Ora abitiamo a Lugo, in un appartamento in affitto e, dopo 365 giorni esatti, siamo ancora in attesa dell’autorizzazione per rientrare nella nostra casa».
Assieme a lui altre 50 persone vivono la stessa situazione: «Io abitavo nella casa che si vede bene dalla strada – racconta Gianfranco Bernardi – quella con la parete sventrata e il termosifone che penzola dal soffitto. L’acqua è salita a una velocità impressionante, dopo pochi minuti ci arrivava già al ginocchio. Così ho preso mia mamma e siamo scappati».
La casa di Gianfranco Bernardi con la parete sventrata e il termosifone che penzola dal soffitto. Foto di Fulvio Zappatore
Anche chi non ha avuto la casa distrutta ma “soltanto” allagata non se l’è passata meglio: «L’acqua è arrivata a 180 cm di altezza – racconta Alfio, che abita a pochi metri dalla zona rossa –. Abbiamo dovuto rifare tutto il primo piano e ricomprare macchine e motorini che erano in garage. In tutto, 180mila euro di danni. Però almeno abbiamo ancora la nostra casa».
Passata l’emergenza chi è rimasto nella propria abitazione ha ricevuto i 5mila euro del “Contributo di immediato sostegno” e, per il resto, ha dovuto mettere mano al portafoglio per sistemare i danni. Ora aspetta i rimborsi attraverso la piattaforma Sfinge, con i fondi messi a disposizione da Regione e Governo. Chi invece non è ancora potuto rientrare percepisce il “Contributo di autonoma sistemazione” per coprire le spese d’affitto: circa 300 euro al mese per un singolo, che aumentano in base al numero dei componenti del nucleo familiare. Un sostegno utile, ma che difficilmente compensa la precarietà di vivere lontano da casa propria, senza certezze sui tempi della ricostruzione.
In molti, tra gli sfollati, raccontano di una quotidianità sospesa: valigie sempre pronte, documenti e foto salvati all’ultimo minuto, la sensazione di essere “ospiti” in un luogo che non è il loro. «Io so solo che non ho più la mia casa – racconta Attilia Alboni – e ora qua è un degrado totale». La casa di Attilia, detta “Lia”, era proprio sotto l’argine che ha ceduto. Di tutto l’edificio restano solo il pavimento e i primi tre gradini delle scale.
La signora Lia dietro le macerie. Foto di Fulvio Zappatore
Ora però c’è una nuova, difficile decisione che gli abitanti di Traversara dovranno affrontare: provare a ricostruire tutto o abbandonare per sempre la propria casa, cercando una sistemazione altrove. È questo, infatti, il cuore del decreto sulle delocalizzazionivarato dal commissario straordinario Fabrizio Curcio, con l’intesa della Regione e il via libera della Corte dei Conti. L’ordinanza prevede contributi fino a 2.200 euro al metro quadro per chi non potrà più ricostruire nello stesso sito, giudicato troppo a rischio. Le famiglie coinvolte avranno diverse possibilità: costruire su un altro terreno di proprietà, acquistare un’area edificabile, comprare un immobile già pronto oppure acquistarne uno da ristrutturare. Non si tratta solo di una questione economica, ma di identità. Chi accetterà la delocalizzazione dovrà lasciare per sempre l’area alluvionata: i terreni e le case demolite diventeranno patrimonio del Comune. «L’obiettivo è comunque quello di mantenere le persone a Traversara – ha spiegato a L’Indipendente il sindaco Matteo Giacomoni – puntando a ricostruire quello che si può».
Foto di Fulvio Zappatore
C’è però il problema della sicurezza, in un territorio che in appena due anni ha subito quattro alluvioni. E non è un dettaglio: senza interventi strutturali il rischio di nuove esondazioni resta alto. Per questo, accanto al decreto sulle delocalizzazioni, il cuore del dibattito è la messa in sicurezza del fiume Lamone. Sono già partiti i lavori di ripristino e consolidamento dell’argine sinistro all’altezza di Villanova di Bagnacavallo: un intervento da 7,5 milioni di euro, primo passo di un piano più ampio. In parallelo sono stati finanziati e in gran parte conclusi lavori urgenti sugli argini nei comuni di Ravenna, Russi e Bagnacavallo, per oltre 5 milioni di euro, mentre un cantiere da 1,7 milioni è in corso proprio nel tratto che attraversa Traversara.Ma non basta. Gli esperti sottolineano da tempo che la vera sfida è creare spazi dove il fiume possa sfogarsi senza travolgere i centri abitati. Da qui il progetto delle vasche di laminazione, bacini artificiali in grado di contenere milioni di metri cubi d’acqua nei momenti di piena. L’Emilia-Romagna ne ha già attivate alcune, ma sul Lamone se ne progettano di nuove, ritenute indispensabili per ridurre il rischio idraulico in pianura.
Foto di Fulvio Zappatore
Intanto a Traversara sta tornando l’autunno, anche se il tempo sembra essersi fermato. Le case sventrate lungo via Torri restano lì, come un promemoria costante dell’alluvione. Un anno dopo, il semaforo all’ingresso del paese resta acceso. Non regola il traffico: scandisce una attesa. E Traversara, ferita e divisa, aspetta ancora di tornare a vivere.
Sono più di 10.000 i chilometri che separano il Medio Oriente dal Sud America, ma nonostante questa distanza (geografica, storica e culturale), il calcio, come molte volte è accaduto, riesce a stringere due popoli, davanti a un goal o a una parata all’ultimo minuto. Nonostante i business milionari al quale questo sport ci ha abituato, in questo caso specifico, il pallone ha creato un ponte che ha unito e unisce ancora oggi la Palestina e il Cile.
Le relazioni tra questi due Paesi si sviluppano in un asse temporale ormai plurisecolare: i primi migranti lasciarono la Palestina all’epoca sotto dominazione ottomana e raggiunsero il Paese latino-americano durante gli ultimi anni del XIX secolo. Le prime comunità provenivano dalle aree di Betlemme, Bayt Jala e Beit Sahour e durante gli anni di crisi dell’impero intrapresero un viaggio che li condusse dall’Europa, all’Argentina e infine al Cile.
Queste comunità rappresentarono il punto di arrivo per molte delle persone palestinesi che, in varie ondate, emigrarono dalla Palestina con la caduta dell’impero ottomano alla fine del primo conflitto mondiale o per le migliaia di palestinesi che si videro obbligati a fuggire in seguito alla costituzione dello Stato di Israele e alla conseguente Nakba. A oggi, la comunità palestinese in Cile conta all’incirca 500.000 persone ed è la più grande al di fuori del mondo arabo.
La storia del Deportivo Palestino affonda le sue radici nella comunità palestinese di Recoleta, quartiere a sud della capitale, Santiago. L’associazione nasce nel 1920 e pochi anni dopo si fonde con il Club Palestino, trasformandosi così in una società polisportiva. Tuttavia, sarà solo nel 1950 che, in occasione delle Primeras Olimpiadas Palestinas, farà il suo debutto la squadra di calcio che dopo aver vinto il torneo procede con l’iscrizione del team nella seconda divisione del campionato cileno.
Raggiunta rapidamente la competizione massima, il Palestino ottiene negli anni successivi i risultati più importanti, tra cui la vittoria del campionato di prima divisione nel 1955 e nel 1978, della Copa Chile nel 1975, 1977 e 2018 e varie partecipazioni alla Copa Libertadores e alla Copa Sudamericana.
Nonostante nella squadra della stagione attuale non faccia parte alcun giocatore di origine palestinese, dalla sua fondazione il club è sempre stato fortemente legato alla questione palestinese, schierandosi apertamente a sostegno delle popolazioni gazawi e cisgiordana. All’interno del quartiere nel quale sorge lo stadio di casa, La Cisterna, il momento delle partite è un’occasione per vivere a pieno la cultura palestinese: attraverso il cibo, la musica o la politica, la comunità ricrea una porzione di Palestina nel luogo che ha accolto la sua gente. All’ingresso dello stadio vengono distribuite bandiere palestinesi e keffyahe, sia sul campo da gioco che sugli spalti, squadra e tifoseria hanno espresso nettamente più volte la propria condanna contro il genocidio che Israele sta commettendo a Gaza.
Questa squadra, che può superficialmente sembrare un’anomalia calcistica, in Cile oltrepassa la fede sportiva e crea un legame indissolubile tra due popoli. «¡Más que un equipo, todo un pueblo!» (Più che una squadra, un popolo intero) è lo slogan che rappresenta una squadra che più volte ha attirato le attenzioni internazionali, grazie ad alcune azioni dentro e fuori dal campo.
La maglia della squadra richiama esplicitamente i colori della bandiera e alcuni dei simboli della resistenza palestinese. Nel 2014, il club ha deciso di adottare una maglia che utilizzava la forma della Palestina storica al posto del numero 1. Le reazioni non si sono fatte attendere: la comunità ebraica cilena ha mosso ricorsoall’Associazione Nazionale di Football Professionale (ANFP) che ha successivamente multato la squadra per irregolarità nelle misure dei numeri e per espressione di contenuto politico. La notizia è rimbalzata rapidamente tra i giornali, scatenando il plauso e il sostegno di una parte della comunità internazionale.
Fuori dal terreno di gioco il club si è mobilitato per contribuire attivamente ai progetti sportivi in Palestina; nel 2020, dopo un viaggio che ha permesso alla squadra di rafforzare ulteriormente i legami in Cisgiordania, il Deportivo Palestino ha aperto tre scuole calcio in Palestina per mantenere vivo il sogno del calcio tra i bambini e le bambine palestinesi. Queste azioni hanno segnato ulteriormente la relazione del club con la Palestina, spingendo anche il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas a ringraziare apertamente la squadra per il suo impegno nel portare alti i colori del popolo palestinese. Dall’inizio del genocidio il club non ha perso occasione per denunciare i crimini israeliani a Gaza e ha aperto varie campagne di raccolta fondi per sostenere la popolazione gazawi e donare alimenti destinati alla Striscia.
Nel 2009 nasce la squadra femminile del club che nel 2015 vince il Campionato Clausura di prima divisione; attualmente, l’undici del Palestino vanta la presenza della giocatrice Rania Sansur, che oltre a essere la prima giocatrice con ascendenza palestinese nel team, è la prima giocatrice del club a essere stata convocata nella selezione nazionale assoluta della Palestina.
Se la squadra femminile ha potuto vantare il recente successo nel campionato cileno, l’undici maschile manca all’appuntamento dal 1978: quest’anno, però, sembrano esserci valide speranze per credere al miracolo. Al di là della competizione sportiva, due squadre portano con orgoglio la bandiera di un popolo che davanti all’indifferenza della comunità internazionale subisce quotidianamente l’annichilimento da parte dello Stato genocida di Israele.
A più di 10.000 chilometri di distanza e legata più che mai alla sua terra d’origine, in Cile una comunità sogna mentre vede i colori della sua bandiera muoversi nello stadio de La Cisterna. In mezzo al dolore di un intero popolo, il Deportivo rappresenta la resistenza della Palestina e il sogno di chi conserva il ricordo della propria terra d’origine.
La Bielorussia ha reagito con una mossa diplomatica contro la Repubblica Ceca: ha ordinato a un diplomatico ceco di lasciare il Paese entro 72 ore, in risposta alle accuse di Praga che avrebbero svelato un presunto giro di spionaggio orchestrato dal KGB bielorusso. Secondo l’agenzia di intelligence ceca (BIS), la Bielorussia è riuscita a creare una tale rete di spionaggio perché i suoi diplomatici possono viaggiare liberamente attraverso i Paesi europei. Le autorità ceche, insieme a Polonia, Ungheria e Romania, avevano già espulso diplomatici bielorussi, sostenendo che agenti sotto copertura operavano in diversi Stati europei. Il governo di Minsk ha definito le accuse “preconcette” e parte di una campagna tesa a screditare il Paese.
Un attacco informatico ha colpito un fornitore di servizi esterno che gestisce i sistemi di check-in e imbarco, portando gravi disagi negli aeroporti di Bruxelles, Berlino-Brandeburgo e Londra Heathrow. I sistemi automatizzati sono andati offline, costringendo il personale a passare alle procedure manuali, con conseguenti ritardi e cancellazioni di voli. Bruxelles segnala già nove partenze cancellate e una quindicina di voli in ritardo oltre un’ora; l’operatore coinvolto dichiara di lavorare al più presto per ripristinare la normalità. Le autorità aeroportuali invitano i passeggeri a contattare le compagnie aeree prima di recarsi in aeroporto.
L’ennesima scintilla accesa sul fronte orientale d’Europa arriva dall’Estonia: Tallinn ha accusato la Russia di aver violato il proprio spazio aereo contre jet da combattimento MiG-31. I caccia, secondo la versione estone, avrebbero sorvolato l’isola di Vaindloo, nel Golfo di Finlandia, restando all’interno dello spazio nazionale per circa dodici minuti, senza piani di volo registrati, con i transponder spenti e senza comunicazioni con il controllo aereo, costringendo due F-35 italiani dispiegati nelle basi sul Baltico per il dispositivo “Sentinella dell’Est” ad alzarsi in volo per intercettarli e respingerli. Una dinamica che, per le autorità baltiche, rappresenta un atto deliberato di provocazione. Immediata la reazione del ministero degli Esteri, che ha convocato l’ambasciatore russo, denunciando l’episodio come «una grave violazione della sovranità nazionale e del diritto internazionale». Mosca ha respinto l’accusa con fermezza. Il ministero della Difesa russo ha dichiarato che i jet stavano effettuando un volo programmato da Carelia verso Kaliningrad, lungo rotte internazionali sopra le acque neutrali del Mar Baltico: «Durante il volo, gli aerei russi non si sono discostati dalla rotta aerea concordata e non hanno violato lo spazio aereo estone», ha dichiarato il ministero, precisando che i jet hanno sempre mantenuto una distanza superiore ai tre chilometri dall’isola di Vaindloo.
La smentita netta da parte di Mosca non è bastata per placare l’ira di Tallinn che denuncia «un’audacia senza precedenti», specificando che si tratterebbe della quarta violazione russa registrata dall’inizio del 2025. Il ministro degli Esteri estone Margus Tsahkna ha condannato la violazione come “totalmente inaccettabile”. Seguendo l’esempio della Polonia di dieci giorni fa, Tallinn ha formalmente invocato l’Articolo 4 del Trattato della NATO, chiedendo consultazioni immediate, che il Consiglio Nordatlantico ha già convocato per l’inizio della settimana prossima. Dall’Unione Europea, sono arrivate reazioni forti a poche ore dall’adozione del diciannovesimo pacchetto di sanzioni alla Russia: l’Alto Rappresentante per la politica estera, Kaja Kallas, ha definito la violazione come una “provocazione estremamente pericolosa”, sottolineando che Mosca sta testando i limiti di risposta dell’Occidente. Ursula von der Leyen ha assicurato che l’Europa “risponderà a ogni provocazione”. Anche il Presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, ha promesso che le azioni di Mosca saranno affrontate collettivamente al prossimo incontro informale del Consiglio, a Copenaghen del primo ottobre. Quella in Estonia «è stata una inaccettabile violazione dello spazio aereo di un Paese europeo, quindi dell’Unione Europea e della NATO», ha commentato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, mentre il ministro della Difesa Guido Crosetto ha chiarito che «a un passo dalla follia un ministro della Difesa deve sempre pensare al peggio» e ha deciso di avviare piani logistici di contrasto per evenienze belliche. Un progetto riservato che guarda anche alla guerra ibrida, ora che la Difesa italiana potrà ingaggiare esperti di cybersicurezza. Per il presidente americano Donald Trump, la violazione russa dello spazio aereo dell’Estonia «potrebbe essere un grosso problema».
Nel fitto intreccio di accuse e smentite, il clima di tensione tra Russia e NATO si fa sempre più incandescente. Da un lato, l’Estonia e gli altri Paesi baltici si percepiscono come la prima linea dell’Alleanza, costantemente esposta a sconfinamenti e provocazioni; dall’altro, Mosca denuncia un’operazione orchestrata dall’Occidente per costruire artificialmente un nuovo scenario da guerra fredda. Non è un meccanismo nuovo: negli ultimi giorni, diverse denunce rivolte alla Russia si sono rivelate fragili o infondate. È il caso dei presunti droni russi che avrebbero attraversato lo spazio aereo polacco, salvo poi scoprire che alcuni dei rottami che hanno colpito il tetto di una abitazione a Wyryki-Wola, nella regione di Lublino, appartenevano a un missile difettoso lanciato dalle stesse forze di Varsavia. O ancora, l’episodio del presunto sabotaggio GPS all’aereo di Ursula von der Leyen, inizialmente dipinto come un atto ostile di “guerra ibrida” del Cremlino, che successivamente si è scoperto non essere mai avvenuto. In questo contesto, ogni episodio diventa immediatamente la prova di un’aggressione imminente, utile a rafforzare la narrazione di una minaccia russa costante. La ripetizione di accuse prive di solide evidenze rischia di erodere la credibilità dell’Occidente e, soprattutto, di alimentare una spirale pericolosa: più si accumulano sospetti, meno conta verificarli, perché ciò che prevale è la “percezione”. L’incidente denunciato da Tallinn si inserisce in una catena di episodi che da mesi spinge l’Europa orientale verso una crescente militarizzazione, trasformando ogni possibile incidente in un casus belli. La nuova accusa rischia così di diventare l’ennesimo tassello di una strategia comunicativa che esaspera lo scontro e allontana ogni prospettiva di pace, trascinando l’opinione pubblica in una guerra permanente fatta di accuse mediatiche e verità parziali.
L’agenzia Fitch ha migliorato il giudizio sull’Italia, portandolo da BBB a BBB+ con outlook stabile, grazie a una maggiore fiducia nel percorso di finanze pubbliche. Per il biennio 2025-2027 è prevista una riduzione graduale del deficit, che quest’anno dovrebbe attestarsi al 3,1% del PIL. Il debito pubblico è stimato in crescita fino al 137,6% del PIL nel 2026, pur restando significativamente superiore alla media dei paesi con rating BBB. Politica stabile e riforme in corso concorrono al miglioramento degli indicatori di credito.
Continuano le mobilitazioni in Francia, dove la crisi politica e socioeconomica ha innescato animate proteste da parte dei cittadini, soprattutto contro i tagli alla spesa pubblica proposti dal governo. Ieri centinaia di migliaia di persone hanno partecipato allo sciopero nazionale in tutta la Francia contestando le politiche di austerità e chiedendo l’annullamento dei piani fiscale del precedente governo, l’aumento della spesa pubblica, una tassazione maggiore per le fasce ricche della popolazione e l’annullamento di una modifica che prevede l’estensione degli anni lavorativi per andare in pensione. Giovedì è stata la seconda giornata di ampie proteste negli ultimi dieci giorni, dopo la manifestazione organizzata lo scorso 10 settembre che ha dato vita al movimento “Bloquons tout” (“Blocchiamo tutto”). Insieme alla mobilitazione contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente Emmanuel Macron, quelle attuali sono state le manifestazioni di contestazione più partecipate degli ultimi due anni e si sono svolte in forma prevalentemente pacifica.
Secondo la confederazione di sindacati CGT, alle proteste hanno preso parte un milione di persone, mentre secondo le autorità i partecipanti sarebbero stati circa la metà. I disordini hanno coinvolto anche le città di Nantes, di Rennes e di Lione. Sebbene siano state mobilitazioni prevalentemente pacifiche, si sono verificati alcuni scontri con le forze dell’ordine a margine delle manifestazioni e il ministero dell’Interno ha riferito di 181 persone arrestate, di cui 31 nella capitale. Sono stati circa 80.000 i poliziotti e i gendarmi schierati nel corso della giornata, insieme a unità antisommossa, droni e veicoli blindati. A Parigi, la polizia ha lanciato gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti che lanciavano loro lattine di birra e pietre ed è intervenuta anche per impedire che alcuni dimostranti prendessero di mira le banche. Il livello di violenza è stato comunque contenuto rispetto a quanto aveva ipotizzato il ministro dell’Interno Bruno Retailleau, ma l’ira dei francesi è incontenibile: «La rabbia è immensa, così come la determinazione. Il mio messaggio al signor Lecornu oggi è questo: sono le strade a dover decidere il bilancio», ha affermato Sophie Binet, presidente del sindacato CGT.
I settori più colpiti dagli scioperi sono stati quelli dell’istruzione e del trasporto pubblico, ma anche dell’elettricità: secondo il sindacato FSU-SNUipp, un insegnante di scuola primaria su tre era in sciopero in tutto il paese e quasi uno su due ha abbandonato il lavoro a Parigi. I treni regionali, invece, hanno subito interruzioni, mentre la maggior parte delle linee ferroviarie ad alta velocità TGV del Paese è rimasta in funzione. Gran parte delle farmacie è rimasta chiusa e la società energetica EDF ha avvisato di un calo nell’erogazione di energia elettrica di circa 4000 megawatta a causa dello sciopero del personale in alcune centrali del paese. Nei settori dell’elettricità e del gas, dove il sindacato CGT ha indetto uno sciopero dall’inizio di settembre per chiedere salari più alti e tasse sull’energia più basse, il sindacato ha segnalato una «forte mobilitazione». Alcuni manifestanti si sono inoltre radunati per rallentare il traffico su un’autostrada vicino alla città sudorientale di Tolone.
Le proteste si inseriscono in un clima politico caratterizzato da crisi e tensioni parlamentari: la scorsa settimana, l’8 settembre, l’ex primo ministro François Bayrou, è stato sfiduciato dal parlamento proprio a causa del suo piano di bilancio lacrime e sangue, pensato per fare risparmiare alle casse statali quasi 44 miliardi di euro. È proprio l’austerità di Bayrou che ha innescato le ampie proteste degli ultimi giorni. Da parte sua, il nuovo primo ministro voluto da Macron, Sebastien Lecornu, in un post sulla piattaforma X ha promesso di incontrare nuovamente i sindacati «nei prossimi giorni». Questa mattina i dirigenti delle otto principali organizzazioni sindacali francesi si sono incontrati per redigere una dichiarazione congiunta, in base alla quale se Lecornu non fornirà una risposta adeguata alle aspettative dei lavoratori entro il 24 settembre, i sindacati inviteranno nuovamente la popolazione a scendere in piazza e a scioperare. Secondo il quotidiano francese Le Monde, il titolo del comunicato stampa menziona anche l’invio di un “ultimatum” al capo del governo.
Macron e Lecornu si trovano sotto pressione da parte di due fronti opposti tra loro: da un lato, i manifestanti e i partiti di sinistra contrari al taglio della spesa pubblica; dall’altro, la finanza e gli investitori preoccupati dal possibile sforamento del deficit della seconda economia dell’eurozona. La situazione attuale vede la Francia in una crisi politica e sociale senza precedenti, in cui allo scontento popolare si aggiunge la profonda divisione parlamentare: nessuno dei tre partiti principali, infatti, ha la maggioranza.
La crisi della Francia non è però un problema solo nazionale, ma riflette in modo marcato la divisione sociopolitica, la crisi economica e lo scollamento tra governo e cittadini delle nazioni europee. Al momento Lecornu, messo all’angolo dalla collera popolare, ha manifestato la volontà di scendere a compromessi.
O’scià vuol dire respiro. È il saluto che accoglie chi arriva a Lampedusa, l’isola-frontiera che da anni porta sulle spalle il peso delle rotte migratorie del Mediterraneo.
Insieme a Giulia Cicoli, cofounder di Still I Rise, siamo andate a Lampedusa a fine luglio con un obiettivo preciso: guardare da vicino un luogo che troppo spesso viene raccontato solo nei momenti di tragedia e provare a capire cosa significa vivere e arrivare su questa soglia d’Europa.
Dal primo giorno abbiamo visto che Lampedusa è un paradosso. Qui non si nasce: non ci sono ostetriche né ospedale e le residenti devono spostarsi a Palermo o Agrigento per partorire. Gli unici bambini che oggi nascono davvero sull’isola sono quelli delle donne migranti, venuti alla luce durante gli sbarchi. Se nascere è raro, morire è purtroppo frequente — come ci ricordano anche le notizie di naufragi di questo agosto. Al cimitero abbiamo trovato tombe senza nome, vite custodite in celle frigorifere in attesa di trasferimento, storie che non diventano notizia ma che restano incise nella memoria dell’isola.
Abbiamo assistito anche agli sbarchi. In pochi minuti uomini, donne e bambini vengono condotti al molo, sotto lo sguardo delle forze dell’ordine e degli operatori. La prima richiesta è sempre la stessa: «Avete Wi-Fi?». Non è un dettaglio, ma il segno che il bisogno più urgente, dopo la paura e il silenzio del mare, è dire a casa: «Sono vivo». Accanto a loro la società civile offre ciabatte, tè caldo, piccoli gesti di umanità. Ma tutto avviene in fretta: in 24 ore le persone vengono trasferite altrove. Come è possibile, in così poco tempo, informare sui diritti, garantire cure, riconoscere vulnerabilità? È la crepa che più ci interroga, perché qui la frontiera non è mai neutra: è un dispositivo che seleziona, incasella, esclude.
Eppure Lampedusa non è solo dolore. Abbiamo incontrato Agricola Mpidusa, una cooperativa che pianta semi in una terra difficile, creando lavoro e comunità. È la dimostrazione che anche su quest’isola di passaggi e partenze ci sono energie che resistono, che costruiscono futuro. Il nostro viaggio si è concluso alla Porta d’Europa, il monumento che guarda al mare e che ricorda a tutti che da qui tutto comincia e tutto finisce. Ed è proprio lì che abbiamo capito perché eravamo arrivate: per raccogliere un filo che non può spezzarsi.
Come Still I Rise, vogliamo seguire le traiettorie delle migrazioni lungo tutto il loro percorso. Da Lampedusa, punto di approdo e di transito, continueremo a osservare cosa accade dopo: nei centri di accoglienza in Sicilia, nelle città italiane dove i migranti cercano di ricostruire la propria vita, lungo le rotte europee che troppo spesso si trasformano in muri invisibili.
Perché la migrazione non è un episodio isolato, non è “un’emergenza”: è un fenomeno strutturale, che attraversa i confini e ci riguarda tutti. Raccontarla significa restituire un’immagine reale e onesta di questo sistema, significa sottolineare i successi ma anche le mancanze, che non colpiscono solo i migranti ma raccontano molto anche dell’Italia, delle sue fragilità e delle sue contraddizioni.
Lasciamo Lampedusa con più domande che risposte, ma con la certezza di un compito: continuare a guardare, ascoltare, testimoniare. Perché finché ci sarà chi attraversa il mare, ci dovrà essere chi sceglie di non voltarsi dall’altra parte. E questo è solo l’inizio.
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