Torna ad aggravarsi il bilancio delle vittime del sisma che venerdì scorso ha colpito la Birmania. Il numero dei morti è salito a 3.085, con 4.715 feriti e 341 dispersi, ha reso noto la giunta al potere nel Paese. Nel frattempo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha segnalato un rischio crescente di colera e di altre malattie nelle aree più colpite, come Mandalay, Sagaing e la capitale Naypyitaw, predisponendo aiuti umanitari per un valore di 1 milione di dollari, tra cui sacchi per cadaveri. Il pericolo è ulteriormente aggravato a causa dei danni subiti da circa la metà delle strutture sanitarie nelle zone colpite.
Orban riceve con tutti gli onori il criminale di guerra Netanyahu: Bruxelles rimane muta
Oggi il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha steso il tappeto rosso per accogliere, con tutti gli onori del caso, il proprio omologo israeliano Benjamin Netanyahu, violando il mandato d’arresto internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale. Poco dopo il suo arrivo, il portavoce del governo ungherese ha annunciato che il Paese si ritirerà dalla CPI, confermando le voci che giravano da giorni sui media ungheresi. Il tutto avviene nel pieno silenzio di quelle stesse istituzioni europee che hanno ripetutamente condannato, e talvolta sanzionato, Orbán per le più disparate questioni, accusandolo di violare lo stato di diritto: il 17 luglio 2024, il Parlamento europeo approvava una risoluzione per condannare una visita di Orbán a Putin, giudicandola come una «palese violazione dei trattati dell’UE». Oggi, invece, nessuno commenta la violazione delle leggi internazionali e di un mandato di cattura da parte di un’istituzione di giustizia che tutti i Paesi europei, e ancora per poco anche la stessa Ungheria, riconoscono.
Netanyahu è arrivato in Ungheria su invito dello stesso Orbán. È atterrato ieri notte attorno alle 2:30 e si fermerà nel Paese per quattro giorni. Ieri è stato accolto sulla pista dell’aeroporto dal ministro della Difesa Kristof Szalay-Bobrovniczky e oggi, attorno alle 10, è stato ricevuto da Orbán. Qualche minuto dopo è arrivato l’annuncio di Zoltán Kovács, portavoce governativo. Kovács, nello specifico, annuncia che «il processo di ritiro inizierà giovedì, in linea con gli obblighi giuridici costituzionali e internazionali dell’Ungheria». Questo significa che, teoricamente, l’Ungheria non solo doveva arrestare Netanyahu al suo arrivo, ma che sarebbe ancora tenuta a farlo. Contro la decisione di Orbán di invitare Netanyahu si sono schierate diverse organizzazioni internazionali, nonché la stessa Corte, che ha ricordato al primo ministro ungherese che i mandati d’arresto internazionali, almeno in teoria, sono vincolanti. Quando venne emanato lo scorso novembre, Orbán aveva annunciato che non avrebbe arrestato Netanyahu, invitandolo a Budapest, annuncio a cui si sono accodati in molti. Nonostante ciò, questa risulta essere la prima visita di Netanyahu a un Paese firmatario dello Statuto di Roma, con cui venne istituita la stessa CPI e di cui l’Ungheria risulta una delle fondatrici.
Mentre Netanyahu viene accolto in aperta violazione del diritto internazionale, in patria i suoi alleati di governo si danno da fare per ampliare il progetto di occupazione coloniale di Israele. Il 1° aprile, Israel Katz e Bezalel Smotrich, rispettivamente ministro della Difesa e ministro delle Finanze israeliani, hanno visitato la Cisgiordania assieme ad altri alti funzionari del Paese, rilasciando una dichiarazione congiunta in cui annunciano apertamente la loro intenzione di occupare l’intera area e cacciare i palestinesi dalla zona. «Il governo israeliano sta lavorando per sviluppare insediamenti in Giudea e Samaria [ndr. il nome israeliano per la Cisgiordania] e non permetterà la dilagante costruzione araba illegale, che è diventata una piaga dello Stato negli ultimi decenni», si legge nel comunicato. La Cisgiordania è definita «culla della nostra patria, la terra della Bibbia», e i ministri scrivono che gli israeliani «sono qui per restare». Si rovesciano, insomma, le prospettive: sono i palestinesi che si «impadroniscono dei territori di Giudea e Samaria danneggiando l’insediamento ebraico», e non, come sancito svariate volte dall’ONU e da organizzazioni internazionali, viceversa.
Nel frattempo, l’esercito israeliano ha ampliato l’operazione terrestre a Gaza. L’attacco è su larga scala e coinvolge ampie aree del Governatorato di Rafah, all’estremo sud della Striscia, quello di Khan Younis, che confina con Rafah, diverse aree centrali della Striscia e le zone di confine nel Governatorato di Nord Gaza. Lo scopo dichiarato è quello di «catturare un vasto territorio» da aggiungere alle zone cuscinetto nella Striscia, si legge in un comunicato di Katz. Secondo i media israeliani, l’obiettivo sarebbe annettere parte del territorio e creare un corridoio aggiuntivo tra Rafah e Khan Younis, il cosiddetto corridoio di Morag, per isolare Rafah. Il piano non si discosta da quello annunciato da Netanyahu, che propone di prendere in mano la gestione della Striscia e portare avanti il progetto di deportazione dei palestinesi promosso da Trump.
Continuano intanto anche i bombardamenti. Dall’alba di stamattina Israele ha ucciso almeno 41 persone in tutta la Striscia, attaccando anche cliniche e aree umanitarie, come successo a Jabaliya. In totale, dall’escalation del 7 ottobre, l’esercito israeliano ha ucciso direttamente almeno 50.423 persone, anche se il numero totale dei morti potrebbe superare le centinaia di migliaia, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet e da una lettera di medici volontari nella Striscia. Dalla ripresa delle aggressioni su larga scala del 18 marzo, invece, Israele ha ucciso almeno 1.066 persone.
I dazi di Trump: colpiti oltre cento Paesi, anche “i ladri europei” nel mirino
Dopo mesi di attese, annunci e minacce, ieri è andato in scena quello che Trump ha definito Liberation Day (Giorno della Liberazione), in cui il presidente degli Stati Uniti ha illustrato i dazi rivolti a quasi tutti i Paesi del mondo. Gli occhi dei Paesi europei si sono concentrati sulla voce relativa all’Unione Europea, che, secondo Trump, «truffa» gli Stati Uniti, e per tale motivo sarà oggetto di una tariffa del 20% su tutti i prodotti esportati nel Paese. La tariffa base valida per tutti gli Stati è del 10%, ma per alcuni i dazi saranno molto più elevati, come nel caso della Cina, a cui Trump ha imposto dazi del 34%. In generale, le tariffe arriveranno fino al 50%. La misura è pensata per rispondere alle tariffe che gli altri Paesi impongono agli Stati Uniti, tanto che Trump ha preferito parlare di «dazi reciproci». L’UE, per ora, ha offerto una risposta molto vaga, dicendo di essere «pronta a rispondere», ma lanciando un possibile tavolo di negoziazioni.
I dazi di Trump sono arrivati dopo settimane di annunci generici, che hanno gettato nel panico i mercati globali. La misura impone una tariffa base del 10% per quasi tutti i Paesi del mondo, ad eccezione di una manciata di Stati africani (come Burkina Faso, Eritrea e Repubblica Centrafricana), di piccoli Paesi come Andorra e, soprattutto, della Russia, che tuttavia è già soggetta a sanzioni e dazi mirati. In aggiunta, Trump ha dichiarato che, almeno per ora, le misure non colpiranno Canada e Messico, anch’essi già colpiti da tariffe mirate. La tariffa del 10% entrerà in vigore il 5 aprile, e si applicherà a tutti i prodotti importati dagli Stati Uniti, escludendo quelli già soggetti a dazi, sia generalizzati che specifici per Paese. A livello globale, restano in vigore i dazi del 25% su acciaio e alluminio, nonché sulle automobili; verso maggio dovrebbero entrare in vigore ulteriori tariffe del 25% sulle componenti del settore automotive.
All’Unione Europea è stata imposta una tariffa generalizzata del 20% su tutti i prodotti. Essa, come quella destinata ai Paesi a cui verrà applicata una tariffa superiore a quella standard del 10%, entrerà in vigore il 9 aprile. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha commentato la misura poche ore dopo l’annuncio di Trump, mentre si trovava a Samarcanda, in Uzbekistan, dicendo in modo molto generico che l’Europa è pronta a rispondere, ma anche a negoziare. In precedenza, l’UE aveva già risposto all’annuncio di dazi su acciaio e alluminio, applicando una tariffa sui medesimi prodotti provenienti dagli Stati Uniti, entrata in vigore il 1° aprile. Nel corso del mese di marzo, i funzionari dell’Unione hanno condotto delle riunioni con azionisti e parti chiamate in causa per concordare una possibile seconda tornata di dazi. Anche la premier Meloni si è espressa sulla scelta di Trump, giudicandola «sbagliata», ma predicando moderazione e dialogo: «L’introduzione da parte degli USA di dazi verso l’Unione Europea è una misura che considero sbagliata e che non conviene a nessuna delle parti. Faremo tutto quello che possiamo per lavorare a un accordo con gli Stati Uniti, con l’obiettivo di scongiurare una guerra commerciale che inevitabilmente indebolirebbe l’Occidente a favore di altri attori globali. In ogni caso, come sempre, agiremo nell’interesse dell’Italia e della sua economia, anche confrontandoci con gli altri partner europei», recita il comunicato del governo, riportato integralmente.
La Cina ha chiesto agli Stati Uniti di rivedere le tariffe, minacciando risposte. In generale, la risposta all’annuncio di Trump è stata di condanna, condita da richieste di dialogo e minacce di ritorsione. Negli ultimi mesi, Trump ha usato i dazi come strumento politico per spingere i Paesi a negoziare, tanto che in alcune occasioni li ha annunciati per poi ritirarli nel giro di poche ore. Non è da escludere che anche a questa tornata vengano rivisti in base alla reazione dei Paesi. Intanto, anche i mercati hanno reagito agli annunci. Il dollaro è calato rispetto alle altre valute, mentre i mercati azionari asiatici sono crollati rapidamente. Tutti i più importanti indici giapponesi sono scesi di almeno un punto percentuale, i titoli dei gruppi di estrazione mineraria australiani hanno perso tra il 2% e il 3%, e anche i futures sulle azioni statunitensi sono diminuiti. La borsa di Milano è aperta in calo.
Haiti, protesta dei cittadini contro la presenza di bande armate
Ieri a Port-au-Prince, capitale di Haiti, migliaia di cittadini sono scesi in piazza per protestare contro la presenza delle bande armate che da mesi hanno preso il controllo della città e contro l’incapacità del governo di contenerle. Gli abitanti hanno riempito le strade della capitale esibendo striscioni e foglie di palma. Nel corso della protesta si sono verificati spari di arma da fuoco, che hanno costretto la folla a fuggire. La protesta arriva pochi giorni dopo un’evasione di massa dalla prigione nella città centrale di Mirebalais.
Congo, commutate in ergastolo tre pene di morte per cittadini USA
La Repubblica Democratica del Congo ha commutato la pena di morte inflitta a tre cittadini statunitensi coinvolti in un tentativo di golpe, convertendola in ergastolo. I tre erano stati condannati con l’accusa di aver partecipato a un fallito colpo di Stato, durante il quale erano stati attaccati il palazzo presidenziale e l’abitazione di un alleato del presidente Félix Tshisekedi. Tra loro figura anche Marcel Malanga, figlio di Christian Malanga, l’organizzatore del golpe, ucciso negli scontri. L’annullamento delle condanne arriva poco prima della visita nella Repubblica Democratica del Congo del neo-nominato consigliere degli Stati Uniti per l’Africa, Massad Boulos.
Birmania, anche la giunta annuncia il cessate il fuoco
La giunta birmana ha annunciato un cessate il fuoco temporaneo nelle operazioni contro i gruppi ribelli armati. Il cessate il fuoco entrerà in vigore oggi stesso, mercoledì 2 aprile, e durerà fino al 22 aprile. L’annuncio di deposizione temporanea delle armi arriva il giorno dopo l’analogo annuncio dell’Alleanza delle Tre Fratellanze, una coalizione che riunisce i gruppi ribelli dell’Esercito dell’Alleanza Democratica Nazionale del Myanmar, dell’Esercito di Liberazione Nazionale di Ta’ang e dell’Esercito di Arakan. La tregua intende facilitare l’entrata e la distribuzione di aiuti umanitari dopo il terremoto che ha colpito il Paese.
La Finlandia abbandona la Convenzione sulle mine antiuomo e aumenta la spesa militare
La Finlandia, entrata nell’Alleanza Atlantica nel 2023, ha annunciato che intende abbandonare la Convenzione di Ottawa che vieta l’uso, la produzione e lo stoccaggio delle mine antiuomo. Allo stesso tempo, ha reso noto che aumenterà le spese per la difesa portandole al 3% del Pil entro il 2029. Entrambe le decisioni dovrebbero servire a fronteggiare quella che la nazione nordeuropea considera la crescente minaccia militare proveniente dalla Russia. «Il ritiro dalla Convenzione di Ottawa ci darà la possibilità di prepararci ai cambiamenti nell’ambiente della sicurezza in modo più versatile» ha affermato il primo ministro Petteri Orpo, il quale però ha anche precisato che non esiste una minaccia militare immediata, pur ribadendo che la Russia rappresenta una minaccia a lungo termine per tutta l’Europa. La decisione non riguarda solo la Finlandia: si tratta, infatti, di un approccio che accomuna diversi Paesi europei, tra cui gli Stati Baltici e la Polonia, che già il mese scorso avevano annunciato di volere uscire dalla convenzione che vieta le mine antiuomo. Il tutto avviene in un clima di crescente bellicismo che sta caratterizzando l’intera UE, mentre gli Stati Uniti di Donald Trump stanno lavorando a un cessate il fuoco che però al momento si profila ancora lontano.
In merito all’aumento delle spese per la difesa, il presidente Alexander Stubb ha scritto in un post su X che «Questo è un aspetto del contributo della Finlandia affinché l’Europa si assuma una maggiore responsabilità per la propria difesa». Allo stesso tempo, il primo ministro finlandese ha specificato che Helsinki stanzierà tre miliardi di euro aggiuntivi, aumentando il livello di spesa militare dal 2,41% del 2024 al 3% del prodotto interno lordo entro il 2029. Per quanto riguarda il ritiro dalla Convenzione di Ottawa, il ministro dell’Agricoltura e delle Foreste, Sari Essayah, ha voluto rassicurare l’opinione pubblica asserendo che «La Finlandia utilizzerà le mine in modo responsabile, ma è un deterrente di cui abbiamo bisogno». Gli annunci arrivano in un momento in cui gli Stati Uniti sembrano intenzionati a non fornire più il loro ombrello di difesa alle nazioni europee creando un divario tra le due sponde dell’Atlantico. Circostanza che ha spinto l’Ue a intensificare i piani di riarmo fomentando anche un clima di isteria bellicista ai vertici della comunità europea.
La Finlandia, che ha aderito alla NATO nel 2023 abbandonando la sua storica neutralità, ha cominciato a considerare la possibilità di ritirarsi dal trattato internazionale sulle mine antiuomo quando i vertici militari hanno allertato il governo sulla questione, facendo notare l’uso di tali ordigni da parte della Russia in Ucraina. La Russia, infatti, insieme a Stati Uniti e Cina, non ha aderito alla Convenzione di Ottawa del 1997. Secondo Amnesty International, le mine antiuomo sono state utilizzate regolarmente in Ucraina in seguito allo scoppio della guerra nel 2022, rendendola uno dei più grandi campi minati al mondo. Secondo il Landmine Monitor 2023, l’Ucraina ha registrato 608 vittime di mine nel 2022. Un maggior numero di vittime per questo tipo di ordigni si registra solo in Siria (834). Da parte sua, la Finlandia è stato l’ultimo Stato dell’Ue a firmare la Convenzione, ratificata o sottoscritta da oltre 160 Paesi, e dal 2012 ha distrutto oltre un milione di mine antiuomo. Queste ultime sono progettate per essere nascoste nel terreno e detonare automaticamente quando qualcuno ci cammina sopra o passa nelle loro vicinanze. La maggior parte delle vittime delle mine sono spesso proprio i civili che continuano a morire anche una volta terminate le guerre, in quanto i terreni spesso non vengono bonificati.
Per abbandonare il trattato contro le mine antiuomo, Helsinki dovrà avere l’approvazione del parlamento finlandese e si prevede che non vi saranno difficoltà in tal senso, dato l’ampio sostegno alla proposta dei partiti di maggioranza e di opposizione. La Finlandia, come gli altri Paesi europei, ha deciso di armarsi e di prepararsi per una guerra contro la Russia, nonostante l’inversione di tendenza degli Stati Uniti, piuttosto che intraprendere la via della diplomazia. La strada del riarmo è quella privilegiata dalle nazioni europee anche per riconvertire la loro industria, provata da una profonda crisi economica. In questa cornice, in cui spicca in particolare la Germania, gli Stati baltici e i Paesi nordici come la Finlandia non fanno eccezione e sono anzi quelli più propensi al riarmo, spinti dalla loro storica ostilità verso Mosca.
UE, 3,5 miliardi all’Ucraina
La Commissione Europea ha approvato il terzo pagamento con lo strumento per l’Ucraina, fornendo 3,5 miliardi di euro in aiuti a Kiev. Il finanziamento, si legge nel comunicato della Commissione, serve a mantenere la stabilità macrofinanziaria dell’Ucraina, sostenere la sua pubblica amministrazione e promuovere le riforme del Paese. Questa terza erogazione porta il sostegno totale dell’UE a Kiev nell’ambito dello strumento per l’Ucraina a circa 19,6 miliardi di euro, su un totale previsto di 50 miliardi. Complessivamente, l’UE ha fornito circa 143 miliardi di euro in aiuti al Paese.
Per la prima volta in assoluto sono state osservate le aurore di Nettuno
Già da tempo si sa che il nostro pianeta non ha certamente il monopolio delle aurore. Tuttavia, la concorrenza potrebbe essere stata eccessivamente sottovalutata perché quelle spettacolari luci brillano anche nel pianeta più distante dal nostro sole, Nettuno, e lo fanno in un modo alquanto unico. A rivelarlo sono recenti osservazioni effettuate grazie al telescopio James Webb e dettagliate in un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature. Secondo la ricerca, a differenza di quelle terrestri, le aurore di Nettuno non si concentrano ai poli ma si manifestano alle medie latitudini e ciò, secondo i ricercatori, potrebbe persino permettere di studiare e capire la forma del campo magnetico del pianeta. «Tutti sono molto entusiasti di dimostrare che c’è, proprio come pensavamo», commentano i coautori anche se, d’altra parte, la scoperta ha anche sollevato un nuovo enigma che andrà indagato negli studi successivi: la temperatura dell’atmosfera superiore di Nettuno è drasticamente calata rispetto alle misurazioni precedenti, rendendo le aurore insolitamente deboli.
Le aurore si formano quando particelle cariche, spesso provenienti dal vento solare, interagiscono con il campo magnetico di un pianeta e colpiscono la sua atmosfera, emettendo luce. Su Terra, Giove e Saturno, queste luci danzano intorno ai poli, guidate dalla struttura magnetica. Tuttavia, Nettuno si distingue per un campo magnetico fortemente inclinato, scoperto da Voyager 2 nel 1989, che devia l’aurora verso latitudini intermedie. Per decenni, gli astronomi hanno cercato di rilevare il fenomeno, ma senza successo visto che nemmeno il telescopio Hubble era riuscito a confermarne la presenza. Il problema, secondo quanto riportato, risiedeva nella debolezza delle emissioni aurorali, che solo la sensibilità agli infrarossi del telescopio Webb ha potuto finalmente rilevare.

Le osservazioni del telescopio hanno rivelato dettagli inaspettati sull’atmosfera di Nettuno: non solo è stata confermata la presenza di H3+ – uno ione legato alle aurore su tutti i giganti gassosi – ma si è scoperto che la temperatura dell’atmosfera superiore è drasticamente diminuita rispetto ai dati raccolti da Voyager 2. Se nel 1989, infatti, la temperatura era di circa 900 gradi Fahrenheit (482 °C), nel 2023 è scesa a soli 200 gradi Fahrenheit (93 °C). Questa variazione, mai osservata prima su un gigante di ghiaccio, potrebbe spiegare perché le aurore di Nettuno siano rimaste invisibili fino ad ora, secondo i ricercatori. «Mentre guardiamo avanti e sogniamo le future missioni su Urano e Nettuno, ora sappiamo quanto sarà importante avere strumenti sintonizzati sulle lunghezze d’onda della luce infrarossa per continuare a studiare le aurore. Questo osservatorio ha finalmente aperto la finestra su quest’ultima ionosfera precedentemente nascosta dei pianeti giganti», ha commentato Leigh Fletcher dell’Università di Leicester, co-autore dell’articolo. Tuttavia, rimane ancora un mistero cosa abbia causato un raffreddamento così drastico negli ultimi decenni. Secondo gli autori il fenomeno potrebbe essere legato a interazioni complesse tra il campo magnetico del pianeta e il vento solare, ma sicuramente serviranno ulteriori studi per comprendere appieno questo meccanismo. Nel frattempo, concludono gli scienziati, la scoperta apre una nuova finestra sulla scienza atmosferica dei pianeti giganti, con implicazioni non indifferenti per future missioni di esplorazione: «Le aurore sono come uno schermo televisivo. Ci stanno “permettendo di osservare la delicata danza dei processi nella magnetosfera, il tutto senza essere realmente lì», ha concluso Fletcher.
[di Roberto Demaio]