Le truppe israeliane hanno effettuato un’incursione nella città di Blida, nel Libano del Sud, uccidendo un impiegato municipale. I media libanesi riportano che il raid è avvenuto nella notte, quando le truppe israeliane sono entrate nel Paese accompagnate da droni e veicoli blindati, prendendo d’assalto l’edificio del municipio. Il presidente del Paese, Joseph Aoun, ha condannato l’attacco israeliano, incaricando il comandante dell’esercito libanese di contrastare attivamente le incursioni israeliane nel Libano meridionale. Nelle ultime settimane, Israele sta intensificando i propri attacchi nel Libano del sud, dove, tuttavia, è in vigore un cessate il fuoco dallo scorso novembre.
Bill Gates fa retromarcia sul clima: “troppi sforzi nella riduzione delle emissioni”
«Sebbene il cambiamento climatico abbia gravi conseguenze, in particolare per le popolazioni dei Paesi più poveri, non porterà all’estinzione dell’umanità». Dopo aver promosso tecnologie pulite e finanziato startup per l’idrogeno e per la decarbonizzazione, Bill Gates – che solo quattro anni fa aveva pubblicato un libro dal titolo Clima. Come evitare un disastro – ridimensiona l’emergenza climatica: la priorità non sarebbe più la drastica riduzione delle emissioni, ma il miglioramento delle condizioni umane nei Paesi più poveri. La sua svolta sul clima più che un cambio di visione somiglia a un adattamento strategico, che sposta il dibattito sul terreno che domina, quello della tecnologia privata e dell’innovazione finanziata dal capitale. Così, Gates rafforza la propria influenza globale e, attenuando l’allarmismo, punta ad accreditarsi come mediatore ideale, tra pragmatismo politico e sostenibilità economica nell’era Trump.
In un lungo articolo su Gates Notes, il fondatore di Microsoft invoca la retromarcia: «C’è una visione apocalittica del cambiamento climatico che recita così: “Tra pochi decenni, un cambiamento climatico catastrofico decimerà la civiltà. Le prove sono ovunque: basta guardare le ondate di calore e le tempeste causate dall’aumento delle temperature globali. Nulla è più importante che limitare l’aumento della temperatura”. Fortunatamente per tutti noi, questa visione è sbagliata». Negli ultimi anni, Gates ha costruito un impero verde, orientando parte delle sue risorse verso startup e fondi che puntano a innovazioni “green”. I suoi investimenti spaziano da soluzioni per l’accumulo di energia, al nucleare di nuova generazione, passando per l’idrogeno e altre tecnologie pulite. La sua iniziativa Breakthrough Energy è diventata veicolo finanziario per tecnologie fotovoltaiche, nucleari di nuova generazione e idrogeno pulito, mentre la startup Koloma sostenuta da Gates ha raccolto 245,7 milioni di dollari per la trivellazione di idrogeno «bianco», estratto da giacimenti naturali, con lo scopo dichiarato di ridurre le emissioni di CO₂.
Oggi, il filantrocapitalista più famoso al mondo imbocca la strada contraria e se la prende con gli allarmisti del clima – che lui stesso aveva ispirato – mettendo in discussione anche il metodo principale adottato per invertire la rotta del surriscaldamento globale: tagliare le emissioni di CO2. Nel novembre prossimo, alla conferenza internazionale sul clima COP30, Gates esorta a un «pivot strategico»: non più solo tagli delle emissioni, ma adattamento, rafforzamento dei sistemi sanitari, accesso all’elettricità pulita e alleviamento della povertà. Gates non nega la crisi climatica, ma ne ridimensiona la portata e accusa le istituzioni internazionali – «spinte da ricchi azionisti» – di aver imposto una guerra ai combustibili fossili che ha peggiorato le condizioni di vita nei Paesi poveri. La temperatura globale «non è il modo migliore per misurare i nostri progressi» e il successo climatico, scrive, si valuta dall’impatto sul benessere umano più che sulla colonnina di mercurio. Un cambio di paradigma che riecheggia la tesi del libro False alarm dell’economista Bjørn Lomborg, secondo cui «L’allarmismo ci rende difficile pensare in modo intelligente a soluzioni climatiche efficaci» e «sposta l’attenzione da altri problemi globali altrettanto importanti».
La solta di Gates arriva in perfetta corrispondenza con il riallineamento dell’élite capitalistica all’era di Donald Trump, una inversione di 180 gradi già compiuta anche dalle big tech statunitensi.
Il “nuovo realismo climatico” di Bill Gates rivela la consueta logica del filantrocapitalismo, quella fusione di profitto e altruismo di facciata che, come spiega Linsey McGoey in No Such Thing as a Free Gift, trasforma la filosofia del dono in un investimento e in uno strumento di pressione. La Gates Foundation, tra i maggiori finanziatori dell’OMS, influenza le agende pubbliche globali, senza rispondere a criteri democratici. Lo stesso schema si ripete su green: miliardi investiti in startup e brevetti producono rendimenti e controllo tecnologico più che un vero e proprio progresso ambientale. McGoey parla di «vincere il paradiso economicamente»: apparire benefattori sul palcoscenico mediatico, mentre si consolidano posizioni dominanti. La svolta climatica di Gates serve così ad allinearsi al nuovo corso energetico, in modo da tutelare i suoi stessi interessi industriali, mantenendo influenza politica e vantaggi economici.
Elezioni in Olanda: risultati sul filo tra nazionalisti e centro-sinistra liberale
Tra ieri sera e oggi, in Olanda, è successo di tutto: le elezioni più al cardiopalma della storia di un paese, dove per decenni il processo elettorale è stato una corsa tra i soliti due o tre partiti, si sono concluse senza che si definisse nulla. Per tutta la notte, i Paesi Bassi sono tornati a essere un partner rispettato dall’establishment europeo, grazie alla vittoria del D66, il partito pro-UE per eccellenza. Non solo ha compiuto una rimonta clamorosa, passando da 9 a 26 seggi, ma ha anche imposto l’agenda al mondo progressista, fermando la sinistra rosso-verde ad appena 20 seggi.
A mezzanotte, quando lo spoglio era appena iniziato, il leader Rob Jetten, 38 anni, volto pulito e incaricato di cancellare due anni di governo di estrema destra, parlava già da premier, mentre gli opinionisti ipotizzavano le possibili coalizioni: liberali più sinistra e liberal-conservatori? Oppure centristi che guardano a destra, con il redivivo partito cristiano democratico CDA che ha quadruplicato i voti, con l’aggiunta dell’estrema destra “presentabile” di JA21, che ha fatto un vero boom passando da 1 a 9 seggi?
Poi, all’alba, con le prime proiezioni, tutto è cambiato: rilevare con precisione il PVV è da sempre un’impresa. Per ora i due partiti finiscono quasi pari: D66 e PVV potrebbero ricevere 26 seggi ciascuno, separati da pochi voti di differenza. Al momento, Wilders ha 1.984 voti in più. Chi ha vinto, insomma?
Il partito con più voti potrà recarsi dal sovrano per ottenere l’incarico di formare il governo, ma probabilmente il risultato definitivo non sarà noto prima di lunedì. Devono ancora essere scrutinate alcune sezioni del voto estero, mancano centinaia di voti da Amsterdam e Almere, e problemi tecnici – compreso un incendio in un seggio – rendono impossibile fornire una risposta immediata.
Inoltre, è necessario distinguere tra piano tecnico e piano politico. Seguendo la legge, se il PVV rimanesse il primo partito, Wilders potrà recarsi dal re per reclamare il diritto di formare la prossima coalizione. Sul piano politico, però, la situazione è diversa: contro il PVV è stato sollevato un vero “cordone sanitario” dopo che il partito aveva fatto cadere il governo. Non si tratta di un accordo formale come in Belgio, dove l’estrema destra è esclusa dagli esecutivi, ma di fatto nessun partito è disposto a entrare in coalizione con Wilders.
Con l’eccezione di alcune formazioni estreme, che complessivamente contano 45-50 seggi su 150, a Wilders manca il cosiddetto “partner junior”: un partito di medie dimensioni che affianchi il vincitore. Il parlamento disegnato dal risultato delle urne, infatti, è composto da cinque partiti di medie dimensioni, ciascuno con meno di 25 seggi, troppo pochi per evitare la necessità di una grande coalizione e senza alcun reale alleato per Wilders. A quel punto, la scelta ricadrebbe sul secondo e la formazione di Jetten non solo può già contare su diverse combinazioni possibili ma il partito liberal-progressista ha una lunga esperienza di governo. Rob Jetten si è mostrato molto più freddo e politico di Sigrid Kaag, la sua predecessora, con una vita all’ONU e un forte idealismo per la causa palestinese e i migranti. Jetten non ha posto paletti, dichiarandosi favorevole a qualche forma di limitazione dell’immigrazione, e ha scelto i temi più gettonati: a destra (stop ai migranti) e a sinistra (case popolari e affitti per la fascia media), unendo a tutto ciò una posizione europeista senza compromessi e un atteggiamento militarista convinto.
Le tensioni sociali del momento, a quanto pare, hanno aperto ampi spazi per i partiti centristi e per proposte pragmatiche e non ideologiche: in un sistema rigidamente proporzionale come quello olandese, quello di ieri si è delineato come un referendum di fatto su Wilders. E il ruolo di antagonista, vista la scarsa incisività di Pvda-GL, lista unica laburisti-verdi con appena 20 seggi e un leader ormai consumato come Timmermans – e della destra liberale VVD, con la successora di Mark Rutte, Dilan Yeşilgöz-Zegerius, poco convincente, è toccato a un politico giovane, moderno e pragmatico. Rob Jetten si propone come un nuovo Mark Rutte: liberale, ragionevole e cinico al punto giusto da abbracciare una sorta di nazionalismo – prima vero tabù per il D66 – e da ammorbidire anche quei pochi principi su cui il partito, membro di Renew Europe al Parlamento Europeo, non aveva mai fatto passi indietro, come le porte aperte a migranti e richiedenti asilo.
La BCE ha mantenuto invariati i tassi di interesse
La Banca Centrale Europea ha mantenuto invariati i tassi di interesse per la terza volta di fila dopo otto riduzioni consecutive. I tassi di interesse sui depositi presso la banca centrale, sulle operazioni di rifinanziamento principali e sulle operazioni di rifinanziamento marginale rimarranno fissi al 2,00%, 2,15% e 2,40%, si legge in un comunicato della BCE. La notizia arriva il giorno dopo l’annuncio Federal Reserve degli Stati Uniti, l’omologo istituto finanziario della BCE negli USA, che ha tagliato i tassi statunitensi di 25 punti base.
Camerun in rivolta: migliaia nelle strade, la polizia arresta e uccide
Il 27 ottobre il Consiglio Costituzionale del Camerun ha annunciato i risultati definitivi delle elezioni presidenziali, che hanno decretato il 92enne e presidente del Camerun dal 1982 Paul Biya, ancora una volta vincitore delle elezioni con il 53,6% dei voti. Il risultato, dall’esito quasi scontato, ha scatenato la rabbia dei cittadini camerunensi che, già prima dell’annuncio ufficiale, si sono riversati nelle piazze delle principali città per denunciare i brogli e contestare il governo del vecchissimo presidente. La risposta delle forze di polizia nei confronti dei manifestanti è stata spietata: lacrimogeni ad altezza d’uomo, proiettili di gomma, ma anche proiettili veri. Un bilancio conclusivo degli effetti della repressione non è possibile ma, secondo quanto riportato dal movimento Stand up for Cameroon, sarebbero almeno 23 i dimostranti uccisi dagli agenti.
Secondo il governo le vittime erano tra i manifestanti che hanno attaccato una brigata di gendarmeria e stazioni di polizia in due distretti. Ma la repressione del Governo era già in atto, prima del fine settimana, con il divieto di assembramento e l’inizio di arresti arbitrari, fino al fermo di venerdì sera di Anicet Ekane e Djeukam Tchameni, due figure di spicco della piattaforma politica dell’Unione per il Cambiamento che ha appoggiato il candidato Issa Tchiroma Bakary. Nelle settimane precedenti sono stati diversi gli arresti tra chi protestava contro la rielezione di Biya. A dirlo è lo stesso Ministro per l’Amministrazione Territoriale, Paul Atanga Nji, che ha dichiarato sabato ai giornalisti che il governo ha arrestato diverse persone perché sospettate di aver pianificato attacchi violenti con il pretesto delle proteste, senza però dare ulteriori informazioni. Dopo la riconferma di Biya annunciata lunedì, il nuovo e vecchio Presidente ha dichiarato su X che «i miei primi pensieri vanno a tutti coloro che hanno perso la vita inutilmente, così come alle loro famiglie, a causa della violenza post-elettorale».
Parole che, se pronunciate da un quarantennale dittatore, sembrano più lacrime di coccodrillo. In sette mandati presidenziali la costante è stata la repressione nei confronti del dissenso e l’uso della violenza come risoluzione dei problemi. Ne è un esempio il modo in cui viene affrontata una delle questioni più importanti del Camerun e cioè la situazione delle minoranze anglofone del nordovest e sudovest.
Una questione che ha le radici nel periodo coloniale, durante il quale, dopo la Prima Guerra Mondiale, il Camerun fu diviso tra francesi e inglesi. Raggiunta l’indipendenza nel 1960, l’anno successivo venne instaurata la Repubblica Federale del Camerun. Fino al 1972 le differenze e le spinte secessioniste non si fecero sentire, anche perché fu lasciata un discreta autonomia alle minoranze anglofone, ma tutto cambiò quando vennero scoperti diversi giacimenti di petrolio proprio al largo delle coste camerunensi. Dopo che un referendum aveva abolito la Repubblica Federale per concentrare i poteri nel governo centrale la pressione e la discriminazione sulle minoranze anglofone iniziò a farsi sentire come mai prima. Così, dal 2016 si combatte una sanguinosa guerra tra i gruppi secessionisti anglofoni e le Forze Armate Camerunensi. In questi anni la repressione delle forze governative ha portato a migliaia di morti, centinaia di villaggi rasi al suolo e più di un milione di sfollati.
L’ esercito è accusato di esecuzioni extragiudiziali, arresti arbitrari, sparizioni, prigionia illegale, tortura, nonché distruzione di case, scuole e centri sanitari. Su questa questione e sulla guerra aperta ai gruppi jihadisti nel nord est del Paese, sulle sponde del lago Ciad, si è giocata molta della campagna elettorale. Ma sia da una parte che dall’altra Biya nei suoi più di 40 anni di governo non ha trovato soluzioni se non repressive e di censura, un punto che ha spinto in piazza la giovane popolazione del Camerun, che vede l’età media dei suoi cittadini attestarsi a 24 anni, non più rappresentata da un presidente 68 anni più vecchio. Come se non bastasse, il 37% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e il 23% in povertà assoluta. I camerunensi lamentano una corruzione dilagante e una gestione clientelare delle importanti e redditizie risorse del Paese, come petrolio e cacao, affiancate a un tasso di disoccupazione anche al 13,7% tra i giovani delle grandi città.
Issa Tchiroma Bakary, insieme alla maggior parte dei candidati perdenti hanno denunciato elezioni fraudolente e rigettato il risultato elettorale. Il governo però ha negato le accuse definendole «infondate e provocatorie» e dichiarando che più di 5.000 osservatori internazionali e nazionali hanno monitorato le elezioni. Se da una parte l’Unione Europea, tramite un suo portavoce, si dice «profondamente preoccupata della violenta repressione delle piazze», dall’altra accetta senza riserve il risultato elettorale. L’Unione Africana (UA) invece, per voce del Presidente della Commissione, Mahmoud Ali Youssouf, si congratula con Biya, mentre gli osservatori dell’UA hanno affermato che le elezioni sono state «condotte in larga parte in conformità con gli standard regionali, continentali e internazionali».
Ad oggi, la tensione rimane elevata. Le strade riprendono lentamente una certa normalità, ma l’atmosfera resta carica di sfiducia. Le forze di sicurezza continuano a pattugliare i punti-critici mentre i giovani delusi da decenni di governo unico chiedono un cambiamento. Questo ottavo mandato del 92enne Biya dovrà rispondere alle istanze di un futuro possibile per i giovani. Se questo non succederà, le proteste appena iniziate potrebbero segnare solo l’anticamera di rivolte generalizzate.
Il Senato approva in via definitiva la separazione delle carriere
Trump ha avviato la riduzione delle truppe americane in Europa
Il processo di ridimensionamento delle forze militari statunitensi in Europa, annunciato da Donald Trump all’inizio del suo mandato, ha cominciato a concretizzarsi con il ritiro di centinaia di soldati dal fianco orientale del continente. Secondo quanto reso noto dal ministero della Difesa rumeno, Washington ha comunicato agli alleati la decisione di «sospendere la rotazione in Europa di una brigata che aveva elementi in diversi paesi della Nato». In Romania, dove erano presenti circa 1.700 militari americani, ne rimarranno schierati tra i 900 e i 1.000. Analoga riduzione coinvolgerà Bulgaria, Ungheria e Slovacchia, mentre Polonia e Paesi baltici non risultano toccati dalla misura.
L’operazione interessa in particolare la 2nd Infantry Brigade Combat Team della 101st Airborne Division, che «verrà ridistribuita, come da programma, nella propria unità di base in Kentucky, senza sostituzioni». Si tratta di un’unità di circa 4.500 uomini che era stata dispiegata dall’amministrazione Biden in risposta all’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Le truppe in partenza dalla Romania erano di stanza nelle basi di Mihail Kogălniceanu, Deveselu e Câmpia Turzii, quest’ultima considerata un snodo cruciale per la difesa della regione del Mar Nero. Sia l’esercito americano che la Nato si sono affrettati a sminuire la portata della decisione. In una nota ufficiale, l’U.S. Army Europe ha precisato che «questo non è un ritiro americano dall’Europa né un segnale di minore impegno nei confronti della Nato e dell’Articolo 5», ma un «adeguamento dell’assetto delle forze» che «non cambierà il contesto di sicurezza in Europa». Un funzionario dell’Alleanza Atlantica, intervistato dall’AFP, ha aggiunto che «anche con questo adeguamento, la presenza delle forze americane in Europa rimane più importante di quanto non sia stata per molti anni, con molte più forze sul continente rispetto a prima del 2022».
Tuttavia, osservatori ed esperti di politica internazionale leggono la mossa come l’inizio concreto della “dottrina Trump”, che privilegia il teatro asiatico e il contenimento della Cina rispetto all’impegno in Europa. Già ad aprile, un rapporto del Pentagono consultato dalla NBC prefigurava un possibile ritiro di circa 10.000 unità dal continente europeo. La reazione delle istituzioni UE è stata cauta. Un portavoce della Commissione UE ha dichiarato: «Non parlerei di sorpresa o non sorpresa. Non sorprende quanto sia importante per noi la sorveglianza del fianco orientale». Thomas Regnier, portavoce dell’esecutivo comunitario, ha aggiunto che i piani europei per il potenziamento della difesa procedono secondo la tabella di marcia prestabilita: «Vogliamo iniziare il lancio entro il primo trimestre del 2026 del prossimo anno, e entro la fine del 2026 vogliamo che i primi servizi iniziali di questa sorveglianza del fianco orientale siano già operativi». Il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto, intervenuto sulla questione, ha evidenziato come «il disimpegno militare americano in Europa non è iniziato con Trump, ma già con Obama e Biden» e che «l’Europa deve abituarsi a garantirsi la difesa da sola».
Non mancano le voci critiche. George Scutaru, co-fondatore del think tank rumeno New Strategy Center, ha commentato: «È un segnale sbagliato da mandare a Mosca. Mille unità in più o in meno non fanno la differenza, ma si tratta di un gesto politico chiaro». Ad oggi gli Stati Uniti hanno circa 84mila militari attivi in Europa, secondo recenti dati del Comando americano in Europa con sede a Stoccarda – anche se i numeri oscillano in base a esercitazioni e rotazioni di truppe. Da anni però gli USA lasciano intendere di voler ridurre il loro impegno militare in Europa per concentrarsi in particolare sulla sfida strategica di lungo termine con la Cina. Donald Trump ha cavalcato ruvidamente questo tema – caro al mondo MAGA – sia in occasione della campagna elettorale verso la rielezione che una volta tornato alla Casa Bianca. Il progetto va d’altronde di pari passo a quello di «asciugare» il sostegno militare e finanziario all’Ucraina.
Cina e USA hanno raggiunto un accordo su dazi, terre rare e cooperazione in Ucraina
Il faccia a faccia a Busan, in Corea del Sud, tra Donald Trump e Xi Jinping ha segnato una svolta inattesa nelle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Le due superpotenze, in un vertice durato meno di due ore e senza conferenza stampa congiunta, hanno annunciato un’intesa che tocca tre pilastri dell’attuale confronto: dazi, terre rare e la cooperazione in Ucraina. Negli ultimi mesi, i rapporti commerciali si erano fatti sempre più tesi, con dazi unilaterali e restrizioni all’export delle terre rare da Pechino, una mossa giudicata “ostile” da Washington. Alla vigilia dell’incontro, Trump aveva minacciato misure fino al 100% sui dazi, mentre Xi aveva annunciato limitazioni all’export dei minerali critici. L’accordo raggiunto, che potrebbe essere firmato a breve, prevede una riduzione dei dazi per le merci cinesi importate negli USA e un impegno cinese a garantire l’export globale delle terre rare. Contemporaneamente, è emersa l’intesa a collaborare anche sul dossier Ucraina, segnando una convergenza che fino a poco tempo fa sembrava impensabile.
Secondo quanto trapelato, gli Stati Uniti ridurranno i dazi sui prodotti cinesi più colpiti, dal 57% al 47%, e abbasseranno al 10% quelli sul fentanyl. Washington ha inoltre sospeso l’introduzione di nuovi dazi aggiuntivi, inizialmente previsti come ritorsione. Pechino, da parte sua, si è impegnata ad aumentare l’acquisto di soia e altre materie prime americane, garantendo un flusso stabile di scambi. L’obiettivo è allentare un conflitto commerciale che, negli ultimi anni, ha destabilizzato le catene globali di approvvigionamento. L’intesa prova a restituire fiducia ai mercati e a dare ossigeno a due economie interdipendenti ma rivali. Si tratta di un compromesso che offre sollievo a imprese e investitori, ma che necessita di verifiche puntuali. Resta, infatti, aperta la fase di controllo, durante la quale le delegazioni dei due Paesi dovranno definire le modalità operative e monitorare l’attuazione delle clausole.
Uno dei punti centrali dell’accordo riguarda le cosiddette “terre rare”, minerali essenziali per semiconduttori, veicoli elettrici e tecnologie militari. La Cina, che detiene oltre il 70% dell’estrazione mondiale e circa il 90% della lavorazione, ha accettato di mantenere aperte le esportazioni, in un quadro annuale rinegoziabile. In cambio, gli Stati Uniti rinunciano a nuove restrizioni e a un inasprimento dei dazi nel settore. “Tutte le terre rare sono state colonizzate, e questo vale per il mondo”, ha dichiarato Trump, annunciando che ora “l’ostacolo è stato rimosso”. Il patto riconosce implicitamente il peso strategico di Pechino e tenta di evitare che il controllo dei minerali diventi un’arma geopolitica. La stabilità delle forniture rappresenta un segnale importante per le industrie tecnologiche e per la transizione energetica globale. Tuttavia, gli analisti avvertono: la tregua non elimina il rischio di tensioni future, che potrebbero riemergere in caso di nuove restrizioni o squilibri di mercato.
Trump e Xi hanno annunciato la volontà di “lavorare insieme” sulla crisi ucraina, senza fornire, però, dettagli su tempi o modalità. L’impegno rappresenta un cambio di tono nella politica estera di entrambe le potenze. La vigilia dell’incontro è stata, però, segnata da un messaggio di Trump sul suo social Truth, in cui ordinava la ripresa dei test nucleari dopo trent’anni di sospensione. “Fanno tutti test nucleari, penso sia giusto che lo facciamo anche noi”, ha spiegato il presidente americano, alimentando le tensioni internazionali. La notizia ha inevitabilmente gravato sul vertice di Busan, dove il tema della deterrenza è rimasto in filigrana dietro gli intenti di cooperazione. Queste esternazioni giungono a margine dei test condotti mercoledì dal Cremlino sul siluro a propulsione nucleare Poseidon. Appena tre giorni prima, la Russia aveva eseguito il test di un missile da crociera a propulsione nucleare Burevestnik. Nelle intenzioni dichiarate, Trump auspica una futura “denuclearizzazione”, da negoziare con Mosca e Pechino, ma il linguaggio resta quello della pressione e della politica muscolare. Nonostante ciò, l’accordo con Xi segna un primo passo verso un riequilibrio tattico tra le due maggiori economie del pianeta. Il dossier di Taiwan resta fuori dal tavolo, ma incombe sul futuro delle relazioni bilaterali. Il vertice di Busan, più che una pace, segna una tregua strategica. Le prossime mosse, tra cui la visita di Trump in Cina in aprile e la contro-visita di Xi a Washington, diranno se la distensione potrà trasformarsi in un equilibrio duraturo.










