Ai Campionati mondiali di Singapore, l’Italia ha vinto la medaglia d’argento nella staffetta 4×1500 metri mista, con la squadra composta da Barbara Pozzobon, Ginevra Taddeucci, Marcello Guidi e Gregorio Paltrinieri. L’oro è andato alla squadra tedesca, mentre il terzo posto è andato all’Ungheria e il quarto alla Francia.
Gaza, Israele compie l’ennesimo massacro: 200 uccisi dagli attacchi e dalla fame in due giorni
Continua il massacro di civili nella Striscia di Gaza, con circa 200 persone uccise in appena due giorni nell’enclave da parte delle forze armate israeliane (IDF). Di queste, oltre un centinaio sono state uccise mentre si trovavano in attesa degli aiuti umanitati nei siti della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), 38 nella giornata di sabato e altri 78 dall’alba di oggi, domenica 20 luglio. Per la prima volta dall’inizio dell’aggressione militare, nel 2023, Israele ha emesso oggi un ordine di evacuazione forzata nella zona di Deir el-Balah, annunciando l’espansione delle proprie operazioni di terra. I bombardamenti continuano a non risparmiare le tende dei rifugiati e le abitazioni, in quelle che le forze armate israeliane insistono nel definire operazioni «contro i terroristi».
Almeno due persone, delle quali un bambino di un mese di eta, sono morti di stenti ieri nell’ospedale di Al-Shifa a causa della mancanza di cibo, per i blocchi imposti da Tel Aviv. A questi si aggiunge una bambina di 4 anni, morta di fame questa mattina nell’ospedale di Al-Aqsa. Altri 8 palestinesi sono stati uccisi nelle prime ore di questa mattina nel nord della Striscia, a Gaza City. Due di questi si trovavano in coda per gli aiuti umanitari, secondo quanto riferito a Quds Netword da fonti locali. Secondo quanto riprotato da Al Jazeera, il ministero della Salute di Gaza ha riferito che gli ospedali stanno facendo i conti con un numero senza precedenti di persone in fin di vita a causa della mancanza di cibo. A queste si aggiungono le 900 persone uccise dagli attacchi israeliani mentre si trovavano ai punti di distribuzione del cibo della GHF – 4 in tutto, che hanno sostituito i precedenti 400 punti di distribuzione degli aiuti umanitari gestiti dalle Nazioni Unite e da altri enti internazionali. Solamente una settimana fa, l’ONU aveva confermato che fossero almeno 800 le persone uccise durante la distribuzione degli aiuti umanitari nei siti della GHF.
L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) ha dichiarato che sono almeno un milione i bambini che Israele sta portando a una morte lenta per mancanza di cibo negando l’accesso al cibo, su una popolazione di poco più di 2 milioni di persone. «L’UNRWA ha scorte di cibo sufficienti per l’intera popolazione di Gaza per oltre tre mesi nei magazzini» all’esterno della Striscia, ha fatto sapere l’agenzia, ma Israele non ne permette l’ingresso nell’enclave. La Gaza Humanitarian Foundation, dal canto suo, ha apertamente definito il cibo come un’arma all’interno della Striscia, dichiarando che «A Gaza il cibo è potere» e che «Hamas si sta dando da fare» per far chiudere i siti di distribuzione dell’agenzia proprio perchè la distribuzione «funziona». Hamas «sta diffondendo disinformazione, incitando alla violenza e spingendo per deviare tutti gli aiuti verso le Nazioni Unite e altri i cui modelli sanno di poter sfruttare».
Secondo varie inchieste giornalistiche di media internazionali, dietro il piano di distribuzione degli aiuti umanitari della statunitense GHF, appoggiato da Israele, vi sarebbe il tentativo di sfollare i civili dalla Striscia, spingendo almeno 600 mila persone nella zona di Rafah – che diventerebbe così una maxi area umanitaria – al fine di liberare l’enclave e trasformarla finalmente nella “Riviera del Medio Oriente”, come nei piani di Trump e Netanyahu. Tanto la deportazione quanto la costruzione di maxi aree umanitarie sono due pilastri dell’operazione Carri di Gedeone, inaugurata da Israele lo scorso maggio. Proprio la centralizzazione della distribuzione degli aiuti umanitari nelle mani di Tel Aviv era uno dei punti centrali per il buon fine delle operazioni. Lo “spostamento volontario” dei palestinesi era stato annunciato dallo stesso ministro della Difesa israeliano Israel Katz, che auspicava di riuscire a incoraggiare i palestinesi a «emigrare volontariamente» dalla Striscia di Gaza verso altri Paesi.
Nel frattempo, dopo che l’attacco dell’IDF a una chiesa cattolica nella Striscia, lo scorso venerdì, ha scatenato l’indignazione delle massime cariche italiane e messaggi di solidarietà da tutte le principali autorità del globo, con l’ambasciatore statunitense in Israele che ha definito l’azione un «atto di terrorismo» da parte dell’esercito israeliano, non una parola (come di consueto) è stata spesa a seguito delle stragi commesse ieri e continuate stamattina.
In 425 Comuni italiani non esiste più nemmeno un negozio di alimentari
425 Comuni italiani, dove in totale abitano 170mila persone, non hanno alcun negozio di generi alimentari sul proprio territorio. 206 Comuni sono invece privi di qualsiasi attività di commercio al dettaglio. Soltanto il 44% della popolazione italiana può accedere a un panificio entro 15 minuti, il 35% a una pescheria, il 60% a un fruttivendolo. A fotografare lo stato di salute della distribuzione dei servizi commerciali essenziali in Italia è Unioncamere che, con l’ausilio dei dati elaborati dal Centro studi Tagliacarne, ha restituito l’immagine di un Paese diseguale, diviso tra il sovraffollamento e il turismo di massa dei grandi centri e lo spopolamento delle aree interne. Una situazione con implicazioni dirette soprattutto per la popolazione anziana, le famiglie prive di automobile e le persone fragili che abitano nei piccoli Comuni sempre più sprovvisti dei servizi essenziali.
Il tessuto urbano italiano riflette la sua storia fatta di divisioni e realtà politiche frammentate, di cui l’esperienza comunale sorta nel XIII secolo è simbolo. Nel nostro Paese si contano 7896 Comuni. Di questi ben 5523 registrano un massimo di 5mila residenti (i cosiddetti piccoli Comuni), per un totale di quasi 10 milioni di abitanti che popolano quindi le aree interne e non le grandi città, da cui per definizione distano. Qui Unioncamere ha fotografato un accesso disomogeneo ai servizi commerciali essenziali. Nei piccoli Comuni, si registrano 9,24 negozi ogni 1000 abitanti. Si tratta del 12,8% in meno rispetto alla media nazionale, pari a 10,42 negozi ogni 1000 abitanti. Le medie nascondono i casi estremi, come i 206 Comuni (205 dei quali con meno di mille residenti) privi di qualsiasi esercizio di commercio al dettaglio, per un coinvolgimento di oltre 51mila persone. In 170mila vivono invece in centri abitati, 425 in tutto, privi di esercizi alimentari. Sono 1124 i Comuni — con una popolazione complessiva di 630mila abitanti — dove è presente al massimo un’attività commerciale alimentare.
In tutti questi casi, l’indice di vecchiaia è nettamente superiore alla media nazionale. L’invecchiamento non è però l’unico fattore che incide sull’evoluzione del tessuto urbano italiano. Va tenuto conto ad esempio delle esigenze didattiche e lavorative che portano a trasferirsi dai centri minori spesso senza farvi ritorno. Pesano anche le politiche pubbliche inefficaci o controproducenti, incapaci di invertire la rotta dello spopolamento e del declino. Di recente ha fatto discutere il Piano Strategico Nazionale Aree Interne (PSNAI) 2021-2027 elaborato dal governo Meloni. Nel documento, che dovrebbe stabilire una gestione organica delle risorse per le aree più distanti dai servizi essenziali, si legge che alcune di queste «non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma nemmeno essere abbandonate a se stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento». Qualche giorno dopo, l’esecutivo ha annunciato i tagli delle risorse destinate alle province per la rete stradale, nonostante la sua centralità nel collegamento e quindi nella sopravvivenza dei piccoli centri urbani italiani.
Trump fa causa al Wall Street Journal chiedendo 10 miliardi
Il presidente americano Donald Trump ha citato in giudizio il Wall Street Journal, Rupert Murdoch e altri dirigenti del gruppo editoriale per almeno 10 miliardi di dollari, accusandoli di averlo diffamato con un articolo che lo collega a Jeffrey Epstein. Il pezzo, pubblicato dal giornale, sostiene che l’ex presidente avesse firmato nel 2003 un biglietto di auguri per Epstein, contenente riferimenti sessualmente allusivi e “segreti condivisi”. Secondo la denuncia, l’articolo sarebbe falso, privo di prove e motivato da intento lesivo. «Abbiamo appena intentato una causa POWERHOUSE», ha scritto Trump su Truth Social, promettendo battaglia legale. Dow Jones & Company, d’altra parte, ha dichiarato che si difenderà con fermezza.
Anche gli scimpanzè seguono le mode? La curiosa scoperta in un nuovo studio
Questa volta, non si tratta di strumenti per rompere noci o estrarre insetti, né di altri comportamenti già osservati legati alla sopravvivenza: alcuni scimpanzé hanno iniziato ad infilarsi fili d’erba o bastoncini nelle orecchie e in altre parti del corpo in quella che viene definita una vera e propria “tendenza virale”. È quanto emerge da un nuovo studio condotto da un team internazionale di ricercatori, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Behaviour. Analizzando il comportamento di 147 individui in otto gruppi sociali all’interno del Chimfunshi Wildlife Orphanage Trust in Zambia, gli scienziati hanno stabilito che questa “moda” si è diffusa tramite apprendimento sociale e senza alcuna funzione apparente: «È più una questione di moda tra gli scimpanzé», secondo il coautore e ricercatore Jake Brooker. Secondo i colleghi, inoltre, la scoperta metterebbe in discussione l’idea che le tradizioni arbitrarie siano esclusive degli esseri umani, visto che gli scimpanzé, in cattività e con molto tempo libero, sembrano adottare e trasmettere comportamenti simbolici simili a quelli culturali. Tutte caratteristiche che, secondo gli autori, potrebbero avere profonde implicazioni sul modo in cui si concepiscono le origini della cultura umana.
Per anni l’apprendimento sociale negli animali è stato studiato in relazione a pratiche utili: l’uso di utensili, la caccia, le tecniche di foraggiamento. Il nuovo studio, quindi, pubblicato sulla rivista Behaviour con il sostegno della Templeton World Charity Foundation, si è concentrato in maniera innovativa su tradizioni non funzionali. Le osservazioni risalgono al 2010, quando al Chimfunshi Wildlife Orphanage una femmina di scimpanzé fu vista indossare fili d’erba dall’orecchio. Ben presto, altri membri del gruppo iniziarono a imitarla e, il comportamento, apparentemente privo di utilità pratica, è stato associato a momenti di relax e gioco, e si manifestava inoltre in un ambiente privo di predatori o competizione alimentare. Una dinamica simile, poi, è riapparsa oltre dieci anni dopo in un gruppo diverso, situato quindici chilometri più a nord. Secondo Ed van Leeuwen, autore principale e professore all’Università di Utrecht, è probabile che il secondo gruppo sia stato influenzato dagli stessi tutori umani, che nella prima area erano soliti pulirsi le orecchie con fiammiferi o rametti. L’ipotesi, quindi, è che gli scimpanzé abbiano appreso il comportamento dai custodi, prima di trasmetterlo tra loro. Un vero e proprio caso di copia interspecie, che secondo la ricercatrice Elodie Freymann dell’Università di Oxford, «è davvero sconvolgente».
In totale, la nuova ricerca ha documentato due tradizioni bizzarre all’interno di uno degli otto gruppi analizzati: cinque scimpanzé hanno adottato la pratica di infilare bastoncini nelle orecchie, sei quella di inserirli nel retto. Le due tendenze si sono diffuse rapidamente nel giro di poche settimane, senza coinvolgere altri gruppi del santuario, a eccezione di due individui legati a una tradizione simile osservata nel passato. Van Leeuwen cita anche un episodio analogo osservato nei Paesi Bassi, in cui una femmina in uno zoo ha iniziato a camminare come se trasportasse un cucciolo. Lo stesso stile di camminata, poi, è diventato la norma tra le femmine del gruppo, al punto che quelle che lo adottavano venivano persino integrate più rapidamente. Per gli autori, questi comportamenti “di moda” non sono semplici bizzarrie, ma strumenti di coesione sociale: come negli esseri umani, imitare uno stile condiviso può favorire l’integrazione e le relazioni: «È una tendenza che diventa virale attraverso l’apprendimento sociale», commenta Van Leeuwen, aggiungendo che il prossimo obiettivo sarà indagare se gli scimpanzé siano in grado di innovare tecniche di foraggiamento sempre più complesse, ponendo così le basi per una cultura cumulativa. Nel frattempo però, gli autori concordano sul fatto che si tratti comunque di una scoperta che apre una nuova prospettiva sul confine tra natura e cultura, dimostrando che il desiderio di appartenere a un gruppo e condividere simboli potrebbe non essere un’esclusiva umana.
La Siria annuncia il cessate il fuoco tra le milizie, ma il sud del Paese è ancora nel caos
Nonostante i diversi annunci di cessate il fuoco in Siria, il sud del Paese è ancora nel pieno caos. Dallo scoppio delle violenze, secondo alcune ricostruzioni innescate da rapimenti di persone della comunità drusa da parte delle tribù beduine, nel Governatorato di Suwayda, principale sede degli scontri, sono morte oltre 700 persone. Dopo gli attacchi israeliani lanciati per «difendere i fratelli drusi», gli Stati Uniti hanno annunciato il raggiungimento di un accordo di tregua tra Israele e Siria, che permetterebbe al presidente siriano Al Sharaa di dispiegare le proprie forze di sicurezza nell’area colpita dai combattimenti. Parallelamente, Al Sharaa ha annunciato un cessate il fuoco nel Governatorato, il terzo in meno di una settimana, che pare essere stato accettato dalle tribù druse più separatiste. I rappresentanti di Israele e Siria non hanno ancora confermato di avere raggiunto un accordo, ma Damasco ha iniziato a muovere le proprie forze verso Suwayda, e Tel Aviv ha criticato il presidente siriano.
Il cessate il fuoco a Suwayda è stato annunciato la mattina di oggi, sabato 19 luglio, dal presidente Al Sharaa. Qualche ora dopo, i media hanno riportato che il cessate il fuoco sarebbe stato accettato tanto dall’Esercito Tribale Arabo, fazione beduina attiva nel Governatorato di Daraa, quanto dalla comunità drusa che fa capo allo sceicco Hikmat al-Hijri, la guida drusa più critica verso il presidente Al Sharaa sin dalla cacciata di Assad. Poco dopo, l’ambasciatore statunitense in Turchia Tom Barrack ha annunciato il raggiungimento di una intesa tra i vertici di Israele e Siria. Un presunto accordo era già uscito sui media israeliani nella giornata di ieri; da quanto scrive il Times of Israel, Israele avrebbe concesso alla Siria di entrare nel Governatorato di Suwayda e operare per 48 ore. Secondo ulteriori indiscrezioni uscite su media indipendenti, l’accordo prevedrebbe l’istituzione di posti di blocco di sicurezza all’esterno dei confini amministrativi del Governatorato di Suwayda, per controllare gli scontri; l’abbandono in sicurezza dell’area da parte delle tribù beduine; e la creazione di corridoi umanitari. Le forze siriane, intanto, sono entrate nelle aree dei combattimenti.
Malgrado gli annunci di intesa, non risulta ancora chiaro quale sia la attuale situazione nella regione colpita dagli scontri. L’accordo tra Israele e Siria non è infatti stato confermato dalle parti, e dopo l’annuncio di cessate il fuoco tra drusi e beduini rilasciato da Al Sharaa, il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Saar, ha criticato aspramente le parole del presidente siriano: «Una giustificazione delle violenze jihadiste», ha detto Saar. Gli scontri dopo tutto sembrano continuare. Secondo fonti locali, nella mattina le tribù beduine avrebbero attaccato le aree occidentali del Governatorato di Suwayda e quelle nordoccidentali della Siria tanto che avrebbero reclamato di avere catturato la località di Al-Khalidiyah, nel Governatorato di Hama. Sempre nella mattina, i drusi avrebbero continuato a prendere prigionieri esponenti delle milizie beduine e reclamato la riconquista di alcune località a Suwayda. A partire dalle 13 di oggi, gli scontri si sarebbero concentrati nella stessa città di Suwayda, mentre la tensione nelle aree attorno al capoluogo, sebbene alta, non sembra stare portando a ulteriori combattimenti.
Gli scontri in Siria sono scoppiati lo scorso venerdì 11 luglio, quando si sono verificati episodi di violenza tra la popolazione drusa e quella beduina. Secondo una delle varie ricostruzioni, i combattimenti sarebbero scoppiati a causa di una ondata di rapimenti, tra cui quello di un noto mercante druso del posto. Gli scontri tra i gruppi armati drusi e quelli beduini sono continuati tutto lo scorso fine settimana, così lunedì il governo centrale ha deciso di inviare l’esercito nella regione. In risposta, tuttavia, Israele ha bombardato aree del sud della Siria, con l’obiettivo dichiarato di impedire all’esercito di Damasco di raggiungere la zona, «per difendere i fratelli drusi». Martedì, il governo siriano ha annunciato un cessate il fuoco, che tuttavia è stato smentito dai leader dei gruppi drusi separatisti. Mercoledì, Israele ha bombardato Damasco, colpendo la sede del ministero della Difesa del Paese, e si è ripetuto lo stesso schema: è stato annunciato un secondo cessate il fuoco, che tuttavia non è stato confermato dalle fonti ufficiali del Paese, e che è stato smentito dal Consiglio Militare di Suwayda, una delle milizie druse del Governatorato. Scontri e reciproci rapimenti sono continuati sia giovedì che venerdì. Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, dall’escalation di settimana scorsa, sarebbero state uccise almeno 715 persone.
Venezuela e Stati Uniti si sono scambiati oltre 200 prigionieri
Dieci cittadini statunitensi detenuti in Venezuela sono stati ufficialmente rilasciati in cambio di 252 migranti venezuelani espulsi dagli Stati Uniti e trasferiti nei mesi scorsi nel supercarcere Cecot di El Salvador. Lo hanno annunciato alle agenzie internazionali e sui post social le autorità di Washington, Caracas e San Salvador, aggiungendo che la trattativa era iniziata da maggio. Il segretario di Stato Marco Rubio ha dichiarato che i cittadini statunitensi «sono stati arrestati e incarcerati in Venezuela senza un adeguato processo», mentre d’altra parte viene denunciato che l’amministrazione Trump avrebbe accusato i 252 venezuelani di essere pericolosi criminali e membri di una banda senza aver fornito prove solide a riguardo.
L’Italia rifiuta l’ampliamento dei poteri dell’OMS: “nessuna modifica al Regolamento”
«Per mezzo di questa lettera le notifico il rifiuto da parte italiana di tutti gli emendamenti adottati dalla 77° assemblea mondiale della sanità». In una mossa destinata a lasciare il segno nella politica sanitaria internazionale, il ministro alla Salute Orazio Schillaci ha scritto al direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, per ufficializzare che l’Italia rigetta gli emendamenti proposti al Regolamento Sanitario Internazionale (RSI), adottati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Schillaci ha notificato il rifiuto del nostro Paese in una lettera, esercitando il diritto sovrano riconosciuto dall’art. 61 dello stesso regolamento.
La decisione italiana, presa in extremis, sul filo del termine ultimo previsto per l’opting-out – il 19 luglio – rappresenta una chiara presa di distanza da un percorso che, a giudizio del governo Meloni, minaccia la sovranità sanitaria nazionale. Una presa di posizione netta che segna un’ulteriore frattura tra Roma e Ginevra, dopo l’astensione dell’Italia sul controverso Trattato pandemico globale. Al centro del rifiuto vi sono preoccupazioni concrete: gli emendamenti introdurrebbero una definizione più ampia e opaca di «emergenza pandemica», conferendo poteri straordinari al direttore generale dell’OMS, tra cui la possibilità di dichiarare uno stato di emergenza anche in assenza del consenso dello Stato interessato.
Il passo dell’Italia segue quello degli Stati Uniti, dove la nuova amministrazione a guida Trump, con Marco Rubio al Dipartimento di Stato e Robert F. Kennedy alla Sanità, ha rigettato gli emendamenti in nome della «difesa della sovranità nazionale» e contro le «interferenze dei burocrati internazionali nelle politiche interne». Anche Roma – che solo pochi mesi fa, nel Parlamento europeo, sembrava orientata a sostenere le modifiche – cambia rotta, segnando una svolta clamorosa in politica estera sanitaria: nessuna delega a un organismo sovranazionale in grado di intervenire sulle decisioni interne in ambito sanitario.
Il senatore Claudio Borghi, tra i promotori della linea del rigetto, non ha esitato a rivendicare il risultato su X, anticipando la notizia, apparsa questa mattina nelle rassegna stampa. Da parte sua, la Commissione Medico-Scientifica indipendente (CMSi) – che da mesi sollecitava il governo a respingere gli emendamenti – ha salutato la decisione come una risposta coraggiosa e necessaria a fronte di un processo negoziale opaco e di contenuti potenzialmente lesivi delle libertà fondamentali. Proprio la CMSi aveva inviato al governo Meloni una lettera, per invitarlo a rifiutare le modifiche al Regolamento Sanitario Internazionale: «Gli Emendamenti, benché molto mitigati rispetto a versioni precedenti che l’OMS aveva ripetutamente presentato, contengono comunque molte insidie per la sovranità nazionale», si spiegava nella missiva.
Tra le disposizioni più controverse contenute nella risoluzione WHA77.17, figura il rafforzamento del ruolo del Direttore Generale dell’OMS, cui si estendono di fatto poteri straordinari nella gestione delle emergenze sanitarie, senza adeguati contrappesi democratici. A seguire, l’inclusione dei “prodotti genici” tra le contromisure sanitarie, senza però definire criteri chiari di sicurezza, efficacia e consenso informato. Si prevedono, inoltre, forme di obbligo vaccinale legate non solo alla salute pubblica, ma anche a generici «obiettivi sociali ed economici», un’impostazione che solleva interrogativi costituzionali. Ancora più preoccupante, secondo la CMSi, è l’introduzione di clausole che impegnano formalmente gli Stati membri a contrastare la «disinformazione e misinformazione» secondo definizioni potenzialmente arbitrarie, demandando alla stessa OMS – o a soggetti sovranazionali – il potere di stabilire quali contenuti siano accettabili. Una deriva censoria che rischia di sopprimere il dibattito scientifico indipendente e marginalizzare le voci critiche all’interno della comunità medica, già perseguitate tramite la criminalizzazione del dissenso in epoca pandemica.
In parallelo, l’OMS avrebbe potuto stipulare accordi sanitari bilaterali non trasparenti e rafforzare un meccanismo di risposta pandemica globale che sottrae progressivamente margini decisionali ai singoli governi. A ciò si aggiungono dubbi sul reale impatto finanziario delle nuove disposizioni e sulla sostenibilità economica per i Paesi firmatari.
Con il rigetto degli emendamenti, l’Italia resta formalmente all’interno del sistema OMS e continuerà ad applicare il Regolamento Sanitario Internazionale del 2005, ancora pienamente valido. Tuttavia, questa scelta potrebbe comportare problemi di compatibilità, ad esempio nei confronti del nuovo certificato internazionale di vaccinazione, che verrà adottato da altri Stati. Viaggiatori italiani potrebbero incontrare ostacoli nei controlli sanitari internazionali in caso di emergenze future, ma per il governo Meloni i rischi di «abdicazione alla sovranità» sono ben maggiori di quelli operativi.
Cinque semplici cose che l’Italia potrebbe fare (e non fa) per sanzionare Israele
Dopo quasi due anni di massacri e oltre 50.000 persone uccise, Giorgia Meloni e Antonio Tajani si sono resi conto che Israele – forse – sta esagerando. Ci è voluto un colpo di carro armato su una chiesa cattolica, l’unica della Striscia di Gaza, a scatenare una reazione da parte della «madre cristiana» e del «ministro degli Esteri più sfigato della storia»: condotta «ingiustificabile», ha detto la presidente del Consiglio, attacchi «inammissibili» per Tajani. Parole dure, a cui tuttavia non sono seguite azioni altrettanto concrete per impedire che quello che hanno condannato si verifichi. Eppure, la lista di cose che il governo potrebbe fare per esercitare una reale pressione su Tel Aviv è interminabile: riconoscere lo Stato di Palestina, sospendere i trattati con Israele, sanzionare i ministri israeliani, i coloni, le entità che collaborano con il genocidio. Tutte misure che non solo il governo non ha preso, ma che ha ostacolato in ogni sede.
Gli strumenti che l’Italia avrebbe a disposizione per fare la sua parte per fermare il genocidio in Palestina sono diversi e di diversa natura. Sul versante politico e diplomatico, l’Italia potrebbe in primo luogo riconoscere lo Stato di Palestina, come in Europa hanno già fatto Irlanda, Norvegia, Slovenia e Spagna. Il riconoscimento della Palestina è stato proposto svariate volte dai partiti di opposizione, ma le iniziative politiche più coraggiose sono arrivate da circuiti esterni al Parlamento, come dall’Associazione Schierarsi; malgrado la proposta abbia in più occasioni raggiunto i banchi del parlamento, il governo vi si è opposto ogni volta, l’ultima delle quali a maggio; in generale, l’esecutivo si è limitato ad approvare misure per il riconoscimento nel contesto di «soluzioni negoziate», con Israele a ricoprire una posizione di forza.
L’Italia potrebbe anche sospendere il memorandum d’intesa con Israele in materia di cooperazione militare, come già era stato chiesto da diversi giuristi e associazioni. I promotori della misura hanno ricordato che la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha riconosciuto la plausibilità del genocidio in atto contro il popolo palestinese; in tal senso, la sospensione del memorandum rispetterebbe gli obblighi italiani ai sensi della cosiddetta “Convenzione Genocidio”, che chiede a tutti i firmatari di prevenire che tale crimine venga commesso. Nonostante le richieste, il memorandum è stato rinnovato, e mezz’ora dopo le dichiarazioni di condanna di Meloni e Tajani per il bombardamento della Chiesa della Sacra Famiglia di Gaza, il parlamento ha bloccato una mozione per sospendere l’accordo. Allo stesso modo, l’Italia potrebbe muoversi per chiedere la sospensione dell’Accordo di associazione UE-Israele, come già fatto da Irlanda, Slovenia e Spagna. L’interruzione dei rapporti tra Unione Europea e Stato ebraico sarebbe giustificata dagli stessi contenuti dell’Accordo, che si fonda sul rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, come sancito dalle premesse e dall’articolo 2 del testo. Malgrado ciò, il governo italiano si è sempre opposto a una simile misura, e martedì 15 luglio, l’UE ha deciso di non rivederlo.
Una iniziativa solida e motivata da diversi trattati internazionali è quella di impedire il transito portuale e aeroportuale di armi destinate a Israele. A farlo in Europa sono già state il Belgio e in numerose occasioni la Spagna. Il commercio e il transito di armi verso un Paese accusato di commettere crimini contro l’umanità vanno contro le disposizione della CIG e il Trattato sul commercio di armi (ATT), che prevede l’interruzione del commercio diretto e indiretto di attrezzature e tecnologie militari, comprese parti e componenti, «qualora vi sia il rischio concreto che tali attrezzature e tecnologie possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto umanitario internazionale o del diritto internazionale dei diritti umani». L’Italia tuttavia non ha mai impedito il transito di carichi di armamenti verso Israele, come successo a Venezia e in numerosi altri porti.
Un’altra misura possibile e dai risvolti concreti è quella di interrompere il commercio con le colonie, come richiesto da 9 Paesi europei. Tale misura andrebbe incontro al parere consultivo espresso dalla CIG nel luglio dell’anno scorso, secondo cui gli Stati avrebbero l’obbligo di astenersi da relazioni contrattuali, commerciali, diplomatiche, e politiche con Israele in tutti i casi in cui esso agisca nei territori occupati, o in cui farlo potrebbe consolidare la sua presenza nelle colonie. La presenza coloniale israeliana è stata dichiarata più volte illegale da risoluzioni vincolanti e non: tra le prime, si ricordi la risoluzione 446 del Consiglio di Sicurezza del 1979 che definisce gli insediamenti privi di «validità giuridica», sostiene che la pratica costituisce una «flagrante violazione del diritto internazionale», e chiede a Israele di interromperla. La risoluzione 2334 del 2016, la più recente tra le vincolanti, reitera questi stessi punti.
Ultime, ma non meno importanti, le sanzioni. In Europa, il Regno Unito ha approvato sanzioni contro colonie e coloni israeliani, Irlanda e Spagna hanno annunciato analoghe misure, mentre la Slovenia ha sanzionato e dichiarato personae non gratae i ministri estremisti Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir. Possibile oggetto di sanzioni sono anche Netanyahu e il suo ex ministro Yoav Gallant, verso cui la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati d’arresto internazionali; a invitare gli Stati a prendere in considerazione l’emissione di sanzioni è stata a più riprese anche la Relatrice Speciale per i territori palestinesi occupati, Francesca Albanese. L’Italia, tuttavia, si è sempre pubblicamente opposta a tale misura bloccando mozioni che chiedevano di metterla in atto. È successo lo scorso maggio, mentre a giugno Tajani ha definito l’ipotesi di sanzionare Israele una misura «velleitaria».
Gaza, strage di persone in fila per gli aiuti: 32 morti
Non si arresta la campagna genocidaria di Israele contro la popolazione civile di Gaza. Secondo i primi dati forniti dal ministero della Sanità di Gaza, da giornalisti attivi sul posto e da fonti ospedaliere locali, nella sola giornata di oggi, sabato 13 luglio, l’esercito israeliano avrebbe ucciso almeno 50 persone. Di queste, almeno 32 sarebbero state uccise in un punto di distribuzione di aiuti umanitari a Rafah, in quello che viene descritto come uno dei peggiori massacri dall’apertura dei centri. Intanto, si aggrava anche la situazione umanitaria: le morti dovute alla carestia stanno aumentando vertiginosamente, e gli ospedali riportano di essere sempre più affollati di persone affette da problemi di malnutrizione.