venerdì 4 Luglio 2025
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In Italia aumenta la retribuzione per il congedo parentale

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famiglia tradizionale

Nel 2025 il congedo parentale italiano sarà più generoso. L’INPS, attraverso una circolare, ha chiarito le modalità di accesso e le novità introdotte dalla legge di bilancio per l’anno in corso. Il cambiamento più rilevante riguarda l’aumento della retribuzione all’80% per i primi tre mesi di congedo facoltativo, fruibile da genitori lavoratori dipendenti entro i primi sei anni di vita del bambino o del suo ingresso in famiglia. Tuttavia, l'Italia si colloca ancora molto lontano dagli standard di buona parte dei Paesi europei, dove spesso i diritti dei neo-genitori in questo ambito sono molto ...

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Gaza: Israele accetta la proposta tregua USA, si attende risposta Hamas

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Secondo quanto riferito dalla portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, Israele avrebbe accettato la proposta di tregua avanzata dagli Stati Uniti, ora al vaglio di Hamas. Tuttavia, non vi sono ancora riscontri sulla posizione di quest’ultimo. “Israele ha firmato la proposta prima che fosse inviata ad Hamas” ha dichiarato la portavoce. “Posso confermare che le discussioi stanno continuando e che speriamo che si possa arrivare a un accordo”.

DL Sicurezza, via libera della Camera dei Deputati

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Con 163 voti favorevoli, 91 contrari e un astenuto, la Camera ha approvato il decreto Sicurezza voluto dal governo Meloni, che inasprisce pene per chi manifesta e introduce oltre dieci nuovi reati e nove aggravanti. Tra le misure: carcere per chi blocca le strade, stretta sulla cannabis light, sgomberi più rapidi, eliminazione del rinvio pena per madri detenute e le cosiddette norme “Anti No-Tav e No-Ponte”. I parlamentari hanno esposto dai banchi delle opposizioni cartelli con scritto «Né liberi, né sicuri», «Decreto paura». Ora la palla passa al Senato per l’approvazione definitiva.

 

 

Betar: il movimento sionista americano che vuole deportare i filo-palestinesi

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Negli Stati Uniti c’è un gruppo espressamente sionista, che si autodefinisce “aggressivo”, il quale intende far deportare tutti gli stranieri che partecipano alle manifestazioni pro-Palestina che si svolgono nel Paese, specie nei campus universitari. Il nome dell’organizzazione è Betar (traducibile in “fortezza”) e i suoi membri dicono di lavorare a stretto contatto con l’amministrazione statunitense, a cui avrebbero fornito una lista di persone da far arrestare e deportare fuori dagli Stati Uniti. Lo scopo di Betar sarebbe quello di «mantenere l’America al sicuro» e di far piazza pulita di quelli che loro definiscono «terroristi». Studenti, professori e intellettuali sono tutti obiettivi di questa organizzazione che persino la Anti-Defamation League, uno dei principali gruppi di lobby pro-Israele negli Stati Uniti, ha aggiunto al suo database di estremisti.

Cos’è Betar?

Il Movimento Betar, scritto anche Beitar, è un movimento giovanile sionista revisionista fondato nel 1923 a Riga, in Lettonia, da Vladimir Jabotinsky, fondatore di varie organizzazioni ebraiche, compresa quella para-militare Irgun. Betar è uno dei numerosi movimenti giovanili di destra che sorsero in quel periodo e che adottarono saluti speciali e uniformi influenzate dal fascismo. Durante la seconda guerra mondiale, Betar reclutò combattenti tanto per i gruppi ebraici alleati degli inglesi quanto per quelli che combatterono contro di loro nella Palestina mandataria. Il gruppo era tradizionalmente collegato al partito Herut e poi al Likud ed è stato affiliato all’Irgun, organizzazione paramilitare che ha operato nella Palestina mandataria dal 1931 al 1949, prima di essere assorbita all’interno dell’apparato statale militare israeliano.

Alcuni dei politici più importanti di Israele sono stati membri di Betar in gioventù, in particolare i primi ministri Yitzhak Shamir e Menachem Begin. Il gruppo ha affrontato polemiche sul suo sostegno al terrorismo sionista e al Kahanismo, un movimento che chiede la segregazione dei non ebrei. Il gruppo Betar US, la costola Nnordamericana di Betar, sta lavorando a stretto contatto con l’amministrazione Trump, preparando file su migliaia di figure filo-palestinesi con l’intenzione di farle deportare fuori dagli Stati Uniti.

Betar US: “aggressivi e senza scuse sionisti”

Sul sito dell’organizzazione statunitense, in cui si rivendica e si sottolinea una «resurrezione» dopo una «riforma» avvenuta nell’estate 2024, si trova scritto: «Betar è qui per reclutare, sviluppare e responsabilizzare gli ebrei ad essere leader e difensori di Zion, la nazione di Israele, nei campus, nelle città, nei media, nelle comunità imprenditoriali e per le strade. Siamo rumorosi, orgogliosi, aggressivi e senza scuse sionisti».

Il profilo X di Betar US è pieno zeppo di video d’odio nei confronti dei palestinesi e di tutti coloro che sostengono la causa palestinese. Betar ha rivendicato la sua responsabilità nell’arresto e nella detenzione di Mahmoud Khalil, il leader delle manifestazioni studentesche nazionali antigenocidio iniziate alla Columbia University lo scorso anno e che poi si sono diffuse in quasi tutti i campus universitari statunitensi. «Abbiamo fornito centinaia di nomi all’amministrazione Trump, tra titolari di visto, mediorientali naturalizzati e stranieri che non hanno libertà di parola nei loro Paesi, e che poi vengono in Occidente per infuriare contro l’America e sostenere le organizzazioni terroristiche designate dagli Stati Uniti», ha detto il portavoce di Betar, Daniel Levy, a The National. Levy ha poi detto che Betar sostiene le iniziative dell’amministrazione Trump per «mantenere l’America al sicuro» e ha detto «l’America è in guai seri a causa dei terroristi in mezzo a noi».

Durante la campagna presidenziale del 2024, Trump ha ripetutamente promesso di deportare gli studenti stranieri coinvolti nelle proteste filo-palestinesi nei campus universitari e ha spesso definito le manifestazioni contro le azioni di Israele a Gaza come espressioni di sostegno a Hamas. Alla metà di marzo, Tufts Rumeysa Ozturk, nella lista di Betar, era stata arrestata rischiando la deportazione. L’accusa a lei rivolta era quella di essere stata coautrice di un editoriale pro-palestinese su un giornale studentesco pubblicato lo scorso anno. Per questo era stata segnalata per attivismo anti-israeliano. Il 28 marzo scorso, Mosab Abu Toha, scrittore e poeta palestinese che si trova negli Stati Uniti con un visto dell’Università di Syracuse, ha comunicato su X di aver annullato tutti i suoi eventi perché si sente in pericolo, «soprattutto dopo aver visto studenti e professori universitari rapiti per strada proprio di fronte ad altre persone».

Gli obiettivi di Betar non sono soltanto stranieri pro-palestinesi ma anche ebrei statunitensi.  Nel febbraio scorso, Betar ha attaccato lo scrittore ebreo Peter Beinart, collaboratore del New York Times, definendolo «traditore» per aver criticato Israele. Stessa cosa è accaduto con il politologo ebreo Norman Finkelstein, da sempre critico nei confronti dello Stato ebraico e del sionismo. Il gruppo ha più volte contestato Finkelstein durante le sue conferenze. Betar è anche ferocemente contro Hareetz, il giornale israeliano che molto spesso espone i crimini di Israele nei confronti dei palestinesi. Come riporta il Jerusalem Post, il gruppo è così esplicito nel suo odio per i palestinesi che, nel febbraio scorso, persino la Anti-Defamation League, uno dei principali gruppi di lobby pro-Israele negli Stati Uniti, ha aggiunto Betar US al suo database di estremisti.

Lista per la deportazione

Il gruppo ha compilato una cosiddetta «lista di deportazione» in cui sono riportate le persone che ritengono siano negli Stati Uniti con un visto e che hanno partecipato a proteste pro-palestinesi, sostenendo che questi individui «terrorizzano l’America» e che per questo debbano essere espulsi dal Paese. Levy ha fornito una dichiarazione al The Guardian dicendo che la sua organizzazione ha fornito all’amministrazione Trump «migliaia di nomi» di studenti e docenti della Columbia University, dell’Università della Pennsylvania, della UCLA, della Syracuse University, e di altre istituzioni universitarie, che ritengono essere colpevoli di lesa maestà nei confronti di Israele per le proteste di massa che hanno attraversato, e attraversano tutt’ora, i campus statunitensi da un anno a questa parte. Nello specifico, si tratterebbe di circa 1.800 persone che secondo Betar andrebbero espulse dagli Stati Uniti.

Ross Glick, amministratore delegato del gruppo fino al mese scorso, come mostrano alcuni video sul suo profilo Instagram, ha incontrato alcuni legislatori tra cui il senatore democratico John Fetterman e i repubblicani Ted Cruz e James Lancford, i quali hanno tutti sostenuto la campagna «Beitar Stati Uniti» per «liberare il paese da migliaia di sostenitori del terrorismo». Poco dopo la visita di Glick a Washington, D.C., Trump ha firmato un ordine esecutivo intitolato «Misure aggiuntive per combattere l’antisemitismo» che prometteva di «espellere gli stranieri residenti che violano le nostre leggi», nel tentativo di «sopprimere atti di sovversione e intimidazione pro-Hamas» e «indagare e punire il razzismo antiebraico nei college e nelle università antiamericane di sinistra».

Trump stesso ha dichiarato che l’arresto di Khalil, è stato «il primo di molti arresti imminenti». E così è stato. «A seguito dei miei ordini esecutivi precedentemente firmati, l’ICE ha orgogliosamente arrestato e detenuto Mahmoud Khalil, uno studente radicale straniero pro-Hamas nel campus della Columbia University [..] Sappiamo che ci sono più studenti alla Columbia e ad altre università in tutto il paese che si sono impegnati in attività pro-terroristiche, antisemite e antiamericane, e l’amministrazione Trump non lo tollererà [..] Troveremo, arresteremo e deporteremo questi simpatizzanti terroristi dal nostro paese – per non tornare mai più. Se sostieni il terrorismo, incluso il massacro di uomini, donne e bambini innocenti, la tua presenza è contraria ai nostri interessi di politica nazionale e estera, e non sei il benvenuto qui. Ci aspettiamo che tutti i college e le università americane siano conformi», ha scritto Trump sul suo social Truth. E il gruppo ultra-sionista Betar non può che essere d’accordo.

Con le mani contro il muro: la tradizione basca nel gioco della pelota

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Una mano colpisce con forza una pallina facendola impattare su un muro. Lo schiocco risuona nel campo, e, sotto gli occhi attenti degli spettatori seduti sulle gradinate, l’avversario risponde colpendo nuovamente la palla. Nel Paese basco è possibile assistere a una scena simile praticamente ovunque: nelle piazze principali dei paesi e delle città basche, come in apposite strutture al coperto, si trovano i pilotaleku, i muri, tradotti in italiano con il termine «frontoni», dove si svolgono le partite della euskal pilota, la palla basca. 

L’origine di questo sport risulta complessa da decifrare. Sono presenti in varie parti del mondo testimonianze che dimostrano come questo gioco, per certi versi semplice, sia stato praticato fin dall’antichità in varie forme e con vari strumenti. Secondo gli storici, però, la diffusione di una versione embrionale di questo sport risale all’epoca romana, quando la pila giunse nell’attuale territorio francese. Le fonti attestano che in epoca medievale in tutta la Francia era praticato uno sport simile, nel quale si utilizzavano diversi strumenti per colpire la palla, che con il tempo avrebbe poi dato vita alla pallacorda e al Jeu de Paume. Altre testimonianze invece confermano che già dal XIII secolo il gioco della pilota era estremamente rilevante nel Regno di Navarra, dove la pratica includeva, oltre all’uso dei guanti in vimini, anche le mani. Nel corso dei secoli, a causa della colonizzazione delle Americhe protratta anche dai coloni provenienti dalle province basche, lo sport raggiunse il continente sudamericano, suscitando rapidamente grande interesse nella popolazione. 

Fu nel secolo XX che la euskal pilota sfociò nel professionismo. Rese ormai ufficiali le quattro versioni, differenziate dall’utilizzo degli strumenti, le competizioni si diffusero in tutto il mondo, la pilota entrò a far parte dell’edizione dei Giochi Olimpici del 1900 (per poi uscirne a causa del divieto olimpico di ospitare sport professionistici) e nel 1952 viene istituito il campionato del mondo, che nel 2030 celebrerà la sua XXI edizione tra le città di Bilbo e Gernika. 

Sebbene la versione più diffusa sembri essere quella con il jai alai (o zesta-punta), una cesta concava in vimini con la quale si raccoglie la palla al volo per poi scagliarla contro il muro, la modalità di gioco più rappresentativa e sentita dal popolo basco è sicuramente quella con le mani, la esku-huskako pilota.

La palla, colpita rigorosamente con le mani nude, è composta da tre strati, il primo di gomma, il secondo di lana e il terzo di cuoio. Durante la partita si possono affrontare due contendenti in singolo o quattro in due coppie, che, senza limiti di tempo, devono colpire la pallina con la mano, senza trattenerla, verso il muro. Se la pallina rimbalza due volte o viene colpita in punti specifici del muro, il punto va alla squadra avversaria. 

La società basca è strettamente legata alla tradizione della pilota, tanto che tutti gli atleti e le atlete che nel corso dei decenni hanno portato ai titoli vinti dalla nazionale spagnola, vantano origini basche. A riguardo, nel dicembre del 2024 la Federazione Internazionale della Palla Basca ha riconosciuto, scatenando non poche polemiche da parte di alcuni settori della politica spagnola, l’ufficialità della selezione nazionale di Euskal Herria, che per il campionato mondiale del 2030, oltre a ospitare la competizione, potrà vedere per la prima volta in campo i giocatori e le giocatrici vestire la maglia con i colori della ikurrina, la bandiera basca. 

Nel corso dei decenni i pilotaleku sono stati teatro di contestazioni politiche. Nel settembre del 1970, a Donostia si inaugurava il campionato mondiale di Palla Basca, con la presenza del dittatore spagnolo Francisco Franco; un uomo, Joseba Elosegi, si lanciò dagli spalti avvolto dalla bandiera basca in fiamme, prontamente spenta da uno dei giocatori presenti in campo. Elosegi, poi divenuto consigliere del Partito Nazionalista Basco (PNV-EAJ), spiegò che quel gesto, che lo portò a scontare sette anni di carcere, voleva portare il fuoco che distrusse Gernika davanti agli occhi di chi lo provocò. Nel 1978, invece, durante l’inaugurazione del campionato mondiale di Biarritz, nel Paese basco del nord (situato nel territorio francese), la delegazione dell’Unidad Popular, esiliata durante gli anni di Augusto Pinochet a Parigi, promise un’azione di boicottaggio nel caso in cui la nazionale del Cile avesse sfilato con la propria bandiera. Per risolvere il contenzioso l’organizzazione del mondiale proibì l’utilizzo di ogni bandiera nazionale, eccetto quella dello Stato ospitante. A sventolare nel campo di Biarritz, però, invece del tricolore francese, fu l’ikurrina basca.

La palla basca è un gioco teoricamente semplice. Anche grazie alla sua immediatezza, nel corso dei secoli ha appassionato e avvicinato sempre più persone, dando vita a varianti e modalità peculiari diffuse oggi in tutto il mondo. Nella cultura popolare è stato raccontato svariate volte, dalle serie televisive al cinema mainstream, nonostante sia indubbiamente un gioco «di nicchia», lontano dai business milionari presenti in altri sport. Per il paese basco, però, la pilota rappresenta molto di più. Lontano dalle prime pagine dei giornali e dai notiziari generalisti, questo sport è il legame tra un popolo e la sua storia millenaria. Lo sguardo dei tifosi sugli spalti che segue con attenzione la palla schiantarsi più volte sul muro è stato incorniciato da vari contesti sociopolitici, dalla colonizzazione della Corona spagnola del territorio basco, agli eccidi delle milizie franchiste, per passare poi agli anni delle stragi, del terrorismo di Stato e dell’eroina. Poter finalmente vedere i giocatori e le giocatrici con la maglia con i colori dell’ikurrina, è indubbiamente il sogno di un’indipendenza ottenuta al momento solo tra i campi di questo sport. Nonostante il passare dei secoli, il suono dello schiocco della palla sul muro è sempre lo stesso, il suono della libertà basca.

Nicoletta Dosio torna libera dopo un anno di domiciliari per la lotta NO TAV

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Martedì 27 maggio, con un giorno di ritardo rispetto a quanto previsto, Nicoletta Dosio, storico volto dell’attivismo NO TAV, è tornata in libertà dopo un anno di domiciliari passati presso la propria abitazione a Bussoleno. «Ai domiciliari fai i conti con l’ingiustizia sociale», ci dice l’ex insegnante. «Psicologicamente è stato tutto molto pesante, ma pensavo a chi deve vivere condizioni più precarie delle mie». Quella di Dosio, 79 anni, è una vicenda di lotta e resistenza iniziata nel 2015, quando a causa di alcuni tafferugli con le forze dell’ordine le vennero contestati reati di violenza contro pubblico ufficiale e devastazione e applicate misure cautelari di restrizione della libertà personale. Lei, in un atto di disobbedienza civile, decise di non rispettarli, uscendo comunque di casa. Malgrado l’anno dopo la Cassazione le diede ragione, le 130 “evasioni” messe in atto dalla donna durante i mesi in cui avrebbe dovuto scontare le misure cautelari le valsero una condanna di un anno e nove mesi di domiciliari, poi diventato uno, appena terminato.

Nicoletta Dosio doveva venire liberata lunedì 26 maggio, ma i domiciliari le sono stati revocati il giorno dopo perché le autorità non si sono presentate a casa sua. La sua vicenda risale al luglio 2015, quando si svolse una grande manifestazione in Val di Susa, per ricordare la “riconquista” da parte del Movimento della baita della Maddalena, avvenuta il 3 luglio 2011. Nel 2015 la manifestazione partì da Exilles con l’obiettivo di attraversare le vigne, passare davanti ai cancelli della centrale idroelettrica, dai quali si accedeva all’area del cantiere (distante circa un chilometro e mezzo), e arrivare infine a Chiomonte, dove si sarebbero tenuti concerti e altre iniziative. Una volta arrivato davanti ai cancelli, il corteo si trovò la strada sbarrata da un gran numero di jersey e agenti in tenuta antisommossa, che iniziarono a lanciare lacrimogeni verso i manifestanti. Investito da un’ondata di lacrimogeni, il corteo decise di tornare indietro e provare ad arrivare a Chiomonte passando dalla statale, ma anche per quella via la strada era sbarrata dai jersey, che vennero tirati giù da un gruppo di anziani tra cui era presente proprio Dosio. Alla riuscita di quel gesto seguì qualche momento di concitazione, che si concluse con una ventina di denunciati, tra i quali Dosio, per violenza contro pubblico ufficiale, devastazione e altri reati, per i quali furono disposte le misure cautelari – in misura diversa per ciascuno.

La comunicazione le arrivò un anno dopo, quando la Digos le entrò in casa perquisendola e riferendole di un obbligo di firma quotidiano, che lei decise di violare. Dalle firme si passò così all’obbligo di dimora, anch’esso scientemente violato dalla donna per protestare contro delle misure preventive ritenute ingiuste, perché mosse senza che fosse aperto un processo contro di lei e disposte sulla base della presunzione dei reati contestatile. Reati che, ammise la stessa Cassazione, Dosio non commise. Il 30 dicembre del 2016, infatti, a seguito del ricorso presentato dai suoi avvocati, la Cassazione stabilì, in prima istanza, che non vi fossero prove sufficienti a sostegno delle accuse di violenza per i fatti del 2015 e decretò la revoca delle misure cautelari. L’accusa venne alla fine derubricata a danneggiamento, con una multa di 800 euro.

In parallelo, tuttavia, si svolse il processo per le “evasioni” commesse da Dosio durante il periodo in cui avrebbe dovuto osservare le misure cautelari. Il 6 giugno dello scorso anno venne condannata a un anno e nove mesi di domiciliari, poi diventato uno. Questa volta Dosio decise di rispettare la misura, rimanendo a casa per restare al fianco del marito, Silvano Giai, anche lui storico attivista del movimento NO TAV, deceduto l’anno scorso a causa di una grave malattia. Proprio nello stesso periodo in cui perse il marito, le arrivò un richiamo formale da parte dei carabinieri. Le sue colpe risiedevano in una mancata risposta al campanello alle 2 di notte: gli agenti si presentarono infatti a casa sua per verificare che si trovasse in casa. «Hanno citofonato ma non ho risposto, perché Silvano era morto da appena un’ora. La mia testa era altrove», ci dice l’attivista. «La repressione è anche questa».

In questo anno Dosio è stata «strettamente controllata». Ogni volta che doveva fare qualcosa «anche per andare dal medico o in Comune» (cosa dovuta, visto che ricopre la carica di consigliera comunale), era tenuta a chiedere l’autorizzazione in Tribunale. Nessuno è potuto andare a trovare né lei, né il marito Silvano quando stava male. «Ai domiciliari non ci sono solo i diretti interessati», ricorda infatti la donna, «ma anche tutta la famiglia, che non può ricevere nessuno». «In carcere quantomeno si crea un minimo di comunità, per quanto distorta. Ai domiciliari sei completamente solo», aggiunge l’attivista. Questo «rinnova con forza la mia idea che il carcere andrebbe abolito e, che andrebbe sostituito con la giustizia sociale», ci dice. «Lo Stato deve smettere di mandare in prigione i poveri perché cercano di sopravvivere».

Siria, accordo energetico da 7 miliardi con un consorzio

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La Siria ha firmato un memorandum d’intesa del valore di 7 miliardi di dollari con un consorzio di aziende internazionali guidato dalla qatariota UCC Holding, per aumentare gli investimenti esteri nel settore dell’energia. Il memorandum prevede la costruzione di quattro centrali elettriche a ciclo combinato con turbine a gas per una capacità totale di 4.000 megawatt, e di un impianto solare da 1.000 MW nella Siria meridionale. L’inizio dei lavori è previsto dopo la firma degli accordi definitivi, e il loro completamento è previsto entro tre anni per gli impianti a gas ed entro due anni per l’impianto solare.

Boeing non sarà processata per aver causato 346 vittime in due disastri aerei

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Tra il 2018 e il 2019, due gravi incidenti aerei che hanno coinvolto velivoli Boeing hanno causato la morte di 346 persone. All’origine delle tragedie, le modifiche apportate dall’azienda ai propri aeromobili con l’obiettivo di contenere i costi. A poche settimane dall’apertura del processo che dovrebbe giudicare le responsabilità dell’impresa, tuttavia, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti sembra essere pronto a siglare un accordo per chiudere la questione, il quale eviterebbe a Boeing qualsiasi conseguenza penale per i crimini commessi.

A rivelare la possibilità dell’intesa è stata inizialmente Reuters, seguita poi dalla pubblicazione di documenti datati 23 maggio che confermano il raggiungimento di un accordo tra il Governo e l’azienda. In base ai termini stabiliti, Boeing non dovrà dichiararsi colpevole per le stragi, ma si limiterà ad ammettere di aver ostacolato le indagini. A ciò si aggiunge l’impegno a “pagare o investire” 1,1 miliardi di dollari, oltre a organizzare un incontro con i familiari delle vittime, affinché questi possano esprimere direttamente alla dirigenza l’impatto umano delle loro scelte aziendali. La formalizzazione dell’accordo è attesa nei prossimi giorni, con la conseguente “pronta” archiviazione del procedimento penale, un iter che anticiperebbe così l’apertura ufficiale del processo, prevista per il 23 giugno.

Ma c’è di più: l’importo pattuito non andrà interamente a risarcire i danni causati. Dei 1,1 miliardi di dollari, 444 milioni saranno destinati a un fondo da distribuire tra le famiglie delle vittime, 243 milioni rappresenteranno una sanzione versata allo Stato, mentre i restanti 455 milioni verranno reinvestiti da Boeing in programmi interni di sicurezza e controllo qualità. In altre parole, una quota significativa della somma discussa tornerà direttamente nelle casse dell’azienda stessa, sotto forma di miglioramento operativo.

Facendo riferimento ai carteggi, le famiglie delle vittime sembrano aver abbracciato con decisione questa soluzione, tuttavia le testimonianze raccolte dalla BBC raccontano una scena diversa, descrivendo insoddisfazione e frustrazione. Un senso di impotenza e fatalismo che è ben comprensibile: la saga di Boeing è lunga e torbida, tuttavia la vicenda giuridica si prestava a una soluzione netta, creando un contrasto con la decisione di intraprendere un accordo tanto accomodante.

Boeing è in attesa di giudizio per la caduta di due velivoli 737 MAX. Il primo incidente, avvenuto il 29 ottobre 2018, ha mietuto 189 vite, il secondo, del 10 marzo 2019, ne ha reclamate altre 157. Dalle indagini è emerso che il 737 MAX era stato costruito male, con un sistema di assistenza al pilotaggio difettato e con l’intenzione esplicita di circumnavigare controlli e obblighi di legge. Nonostante le smentite dell’impresa, i dipendenti hanno ammesso in molteplici occasioni di aver eseguito forme di frode criminale su pressioni della dirigenza. “Dio non mi ha perdonato per l’insabbiamento che ho fatto l’altra sera”, si legge in una delle email analizzate dagli investigatori.

L’intera faccenda è inoltre ammantata di profondi conflitti di interessi. Boeing è tra le molteplici realtà che hanno simbolicamente sostenuto l’insediamento del Presidente USA Donald Trump con una donazione di un milione di dollari. Più recentemente, il CEO dell’azienda, Kelly Ortberg, è stato al centro di un accordo per la vendita di 160 jet a Qatar Airways, inoltre l’azienda è stata in qualche modo coinvolta anche nella donazione, proprio da parte del Qatar, di un nuovo Air Force One, il quale ha preso la forma di un Boeing 747-8 ultra accessoriato.

Più significativamente, Boeing è un’azienda che ha in atto appalti miliardari con la Difesa statunitense. Il suo ruolo, seppur a tratti deludente, viene considerato cruciale per i programmi spaziali a stelle e strisce, inoltre lo scorso marzo è stato siglato un nuovo contratto per la progettazione dei jet militari di prossima generazione. In questa prospettiva, bisogna dunque rimarcare che una condanna criminale può giustificare la sospensione o la cancellazione dei contratti governativi.

Corea del Sud, si schianta aereo della Marina: 4 morti

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Un aereo da pattugliamento marittimo sudcoreano si è schiantato stamane poco dopo il decollo nei pressi di una base militare nella città meridionale di Pohang. La Marina ha riferito che sono rimasti uccisi tutti e quattro i membri dell’equipaggio. Il velivolo è precipitato circa sei minuti dopo aver lasciato l’aeroporto per una missione di addestramento. I filmati dei testimoni trasmessi dalla televisione YTN mostrano l’aereo virare a bassa quota, poi una colonna di fumo e fuoco dopo lo schianto. I resti dei membri dell’equipaggio sono stati recuperati e non sono state segnalate vittime civili. Sull’incidente è stata aperta un’indagine.

Il governo Meloni dice no alle sanzioni contro Israele e conferma la cooperazione militare

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Mentre l’Unione Europea, tra forti frizioni e con immani ritardi, cerca di passare dalle parole ai fatti per fermare la carneficina a Gaza, il governo italiano continua a tenere una posizione sempre più ipocrita e isolata nei confronti del genocidio in atto. A parole, Antonio Tajani invoca il cessate il fuoco, esprime «indignazione» per i civili uccisi, condanna l’espulsione dei palestinesi da Gaza. Ma nei fatti non cambia nulla: l’Italia è tra i pochissimi Paesi europei – insieme all’Ungheria – che non ha mai pronunciato un atto concreto di rottura con il governo Netanyahu. Nessuna sanzione, nessun ritiro dell’ambasciatore, nessun riconoscimento dello Stato palestinese. Anzi, mentre Bruxelles alza finalmente la voce, l’Italia rinnova tacitamente il Memorandum militare con Tel Aviv, piazzandosi accanto all’Ungheria tra i più tenaci sostenitori di Israele in Europa.

Le parole di Tajani – ed è tutto dire – sono state ad oggi le più critiche pronunciate dal governo italiano nei confronti di Israele. Ma sono rimaste parole. Anzi, l’Italia continua ad opporsi a tutte le misure proposte dall’UE e agli appelli lanciati da frange sempre più ampie della società civile. In Parlamento, Tajani ha enunciato la lista degli aiuti umanitari offerti dall’Italia alla popolazione palestinese: pacchi alimentari, evacuazioni, cure per i bambini. Ma tutto questo, sottolineano le opposizioni, suona come un alibi. Peppe Provenzano (PD) ha parlato di «parole buone 50mila morti fa», mentre Ricciardi (M5S) ha accusato frontalmente Meloni, Tajani e Salvini di essere «complici di uno sterminio». Il ministro degli Esteri ha affermato che «è essenziale mantenere aperto ogni canale con le autorità israeliane»: più che una posizione di equilibrio, la linea del governo appare come un equilibrismo a senso unico. Come da copione, nel corso dell’audizione Tajani si è giocato anche la solita carta del pericolo antisemita: «Dico a chi fomenta l’antisemitismo per piccole, miopi convenienze di bottega “Fermatevi ora!”», ha affermato.

La contraddizione più evidente resta quella del Memorandum d’intesa con Israele, che stabilisce una fitta rete di cooperazione tra l’Italia e lo Stato Ebraico nel comparto militare e della difesa. Nonostante la devastazione in corso a Gaza, l’Italia conferma che l’accordo con Israele non solo non sarà sospeso, ma sarà automaticamente rinnovato nell’aprile 2026. La linea ufficiale, espressa nel question time del pomeriggio dal ministro per i rapporti con il parlamento Ciriani, è quella del mantenimento di uno «strumento di dialogo». Un punto su cui l’opposizione fa sentire la sua voce, ricordando che il commercio di armi tra Italia e Israele nel 2024 è quintuplicato. «Ci parlate dell’assistenza ai bambini palestinesi, poi fornite supporto militare e logistico a chi li bombarda», ha attaccato in Aula il leader dei Verdi Angelo Bonelli.

La spaccatura tra Roma e il resto dell’Europa si fa ogni giorno più evidente, in particolare da quando Israele ha manifestato il piano di occupazione della Striscia di Gaza. Con grave ritardo, ora la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen si è decisa a parlare di azioni «abominevoli» perpetrate da Israele, mentre Kaja Kallas, commissaria UE agli esteri, ha denunciato la sproporzione dell’uso della forza e la strage di civili. La Spagna, assieme a Irlanda, Belgio e Olanda, è in Europa il Paese più critico nei confronti delle azioni del governo Israeliano. Madrid spinge per sanzioni, embargo sulle armi e sospensione dell’accordo commerciale. Ma Germania, Italia e Polonia frenano. Il risultato è un’Europa divisa, paralizzata da chi – in particolare il governo Meloni – preferisce preservare i «canali di dialogo» piuttosto che difendere il diritto internazionale.

Nel frattempo, la scorsa settimana un gruppo di 10 giuristi italiani ha presentato una diffida formale al governo Meloni, sollecitando l’interruzione del rinnovo automatico del Memorandum di cooperazione militare con lo Stato Ebraico. Secondo i firmatari –  tra cui Ugo Mattei, Fabio Marcelli e Domenico Gallo – l’accordo rischia infatti di violare numerosi articoli della Costituzione italiana, oltre a rappresentare un sostegno implicito a crimini internazionali. Eppure, stando alle reazioni del governo, tale appello è destinato a rimanere lettera morta.