mercoledì 22 Ottobre 2025
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Tifone Ragasa devasta Taiwan: almeno 14 morti e 124 dispersi

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Il super tifone Ragasa ha flagellato l’isola di Taiwan con piogge torrenziali e venti devastanti, provocando finora 14 vittime, 18 feriti e 124 dispersi, secondo le autorità locali. Nella contea orientale di Hualien, la rottura di una vecchia barriera lacustre ha scatenato inondazioni che hanno travolto infrastrutture, distruggendo un ponte e sommergendo interi quartieri della cittadina di Guangfu. Circa 100 persone risultano intrappolate e le squadre di soccorso sono al lavoro per accedere alle zone isolate. Le operazioni sono rese difficili da strade logisticamente compromesse e dal perdurare delle precipitazioni. Il tifone ha colpito lunedì con piogge torrenziali le Filippine settentrionali e Taiwan, costringendo migliaia di persone a evacuare.

L’Australia inaugurerà una nuova importante riserva marina

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protezione fauna marina

Il Golfo di Exmouth,  uno dei sistemi marini più ricchi del pianeta situato nella parte occidentale dell’Australia, diventerà presto un’area protetta. Lo ha annunciato il governo dell’Australia Occidentale, che ha deciso di istituire un parco marino esteso a tutto il golfo, in risposta alle raccomandazioni della Taskforce locale e alla crescente pressione ambientale che interessa la zona. Si tratta di un’area di circa 2.600 chilometri quadrati, strettamente collegata alla barriera corallina di Ningaloo, patrimonio mondiale dell’UNESCO. Qui si incontrano praterie sommerse, mangrovie, aree ripar...

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Maltempo anche in Campania: a Ischia nubifragi e allagamenti

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Un violento nubifragio ha colpito Ischia, causando allagamenti diffusi, auto sommerse e gravi disagi. In un’ora, a Casamicciola sono caduti 76 millimetri di pioggia, un quantitativo simile a quello che precedette la frana del 2022. A Ischia Porto la pioggia ha invaso la scuola dell’infanzia Marconi, costringendo all’evacuazione dei bambini, e allagato diverse aule del liceo Buchner. Strade, abitazioni e uffici comunali sono stati invasi dall’acqua in vari comuni, spingendo il sindaco di Forio a chiudere uffici e impianti pubblici. Disagi, seppur minori, anche a Procida. Squadre di soccorso sono ancora al lavoro.

Roma rompe la collaborazione con Mekorot, l’azienda israeliana che ruba l’acqua ai palestinesi

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Il 18 settembre il Consiglio Comunale di Roma ha approvato una mozione inaspettata. In appena due righe si è sancito il più grande atto di boicottaggio istituzionale che si è visto in Italia ai danni dello Stato di Israele dall’inizio del genocidio in corso: la rottura della collaborazione tra l’azienda municipalizzata dell’acqua, Acea, e Mekorot, l’azienda israeliana complice dell’apartheid idrico in Palestina. 

Tra le due società era in vigore un accordo dal 2013 che riguarda uno scambio di conoscenze nel settore delle risorse idriche, con possibilità di scambio di expertise specifiche  e sperimentazione di tecnologie, in quello che viene definito un Memorandum of Understanding (MoU). L’Assemblea capitolina ha votato a maggioranza la cessazione di questo accordo e quindi Acea, che è controllata al 51% da Roma Capitale, ha ricevuto mandato di interrompere immediatamente la partnership. 

I dettagli dell’accordo in vigore tra Acea Spa e Mekorot Water Company Ltp e il valore economico della collaborazione non sono mai stati resi pubblici ma solo citati in un documento ufficiale e in passato i tentativi di accesso agli atti effettuati da alcuni consiglieri municipali della città sono caduti nel vuoto. Quello che è noto è invece l’azione di Mekorot sulla vita dei palestinesi. L’azienda israeliana, società a totale monopolio ministeriale israeliano, è infatti uno strumento di pressione bellica e di controllo sociale sulla vita di migliaia di palestinesi, basti sapere che già dal 1967 una combinazione di controllo regolatorio, permessi e gestione centralizzata ha consolidato quello che molte analisi definiscono «colonialismo idrico» evoluto in un regime di apartheid come denuncia anche l’ultimo rapporto di Francesca Albanese Dall’economia di occupazione, all’economia di genocidio.

Israele detiene le leve principali su estrazione, stoccaggio e distribuzione delle risorse idriche tanto nelle città israeliane quanto negli insediamenti nei Territori palestinesi occupati, condizionando quotidianità, sviluppo e salute delle comunità palestinesi. L’insicurezza idrica in cui vivono i gazawi è testimoniata da tempo e già nel 2018, in un rapporto di Rand Corporation, (tra l’altro Think Thank statunitense finanziato dallo stesso Dipartimento della Difesa) si è affermato come tra le principali cause di mortalità infantile nella Striscia vi erano le malattie causate dall’inquinamento idrico. Ma è la divulgazione di un report, appartenente a un gruppo di ricerca indipendente chiamato Zenobia, il giorno prima della liberazione, a generare la spinta propulsiva per un’azione concreta. 

Dai simbolismi alle azioni concrete

Insediamento israeliano visto dal villaggio di Umm al Kheir, Credits Lorenzo Ianiro

I precursori della mozione, appartenenti alla lista civica territoriale Aurelio in Comune, si erano sollevati in un consiglio municipale della Capitale, nel XIII Municipio, già appena pochi mesi dopo il 7 ottobre 2023, seguiti da Roma Futura e SCE  nei Municipi XV e VIII.  Un gesto che ha fatto seguito a un’inchiesta avviata da un collettivo indipendente, progetto Zenobia, che ha dato i suoi frutti alla fine dell’estate del 2025.

Dopo una spinta del Movimento 5 Stelle a inizio estate, con una mozione urgente che proponeva diverse azioni di solidarietà e scelte operative (tra cui l’esposizione della bandiera Palestinese in Campidoglio e la sospensione della collaborazione con le aziende israeliane coinvolte nell’occupazione), e a seguito di un’ulteriore mozione depositata da SCE, che chiedeva espressamente l’interruzione dei rapporti Acea-Mekorot e Teva-Farmacap, tra astensioni e rinvii, lo scorso 18 settembre dal Campidoglio è stata approvata una proposta omnibus, a prima firma della capogruppo del PD Baglio, che prevede tre operazioni:

Con oggetto. «Mozione Ex. Art. 58 Impegno per la Pace, i diritti umani e la soluzione dei due Stati nel conflitto Israele – Palestina, alla luce delle recenti iniziative ONU della Flotilla e dell’offensiva su Gaza City» si richiede al Sindaco e alla Giunta:

  • Di impegnarsi per il riconoscimento dello Stato Palestinese;
  • L’esposizione della bandiera Palestinese fuori dal Campidoglio;
  • «Ad adottare, infine,» e cito testualmente nelle poche righe che chiudono la mozione «ogni utile iniziativa finalizzata a non dare seguito al Memorandum stipulato nel 2013 tra Acea Spa e Mekorot Water Company Ltd fino al superamento della drammatica crisi».

Per la prima volta la mozione vede tutti e tutte d’accordo con 31 favorevoli e un astenuto di Fratelli D’Italia.

Un’accelerazione che nasce dal basso e fuori le aule del Campidoglio. All’alba dell’approvazione della mozione dove la bandiera sembra aver preso il primo piano nella discussione mediatica, dall’altra parte della città, in una fattoria metropolitana e durante una festa di quartiere promossa dalla lista civica Aurelio in Comune nel XIII municipio, era in corso un dibattito intitolato Roma contro il Genocidio. Due giovani attivisti del collettivo Zenobia presentavano un dossier inedito a testimonianza dell’urgenza della mozione Acea – Mekorot intitolato Colonialismo idrico. Le complicità di Acea con il sistema israeliano di controllo dell’acqua.

Questo documento ora pubblico, frutto di due anni di lavoro dal basso e realizzato sul campo in collaborazione con importanti ONG palestinesi è diventato uno strumento per esortare i Consiglieri Comunali presenti al dibattito, rispettivamente Ferdinando Bonessio di Europa Verde e Alessandro Luparelli di SCE, a compiere un atto politico dai risvolti economici per agire in modo concreto contro l’impunità sionista: chiedere una mozione condivisa per interrompere la collaborazione tra Acea a Mekorot. Lo stesso strumento utilizzato due anni prima dal collettivo per spingere ad approvare analoghe mozioni nei Municipi è così servito a fare pressioni per tradurre la battaglia in Aula Giulio Cesare.

Impianto di estrazione di minerali nei pressi della colonia di Mishor Adumim. Credits Lorenzo Ianiro

Zenobia è un collettivo nato da alcuni under 30 tra i quali Iacopo Smeriglio, portavoce di GazaFreestyle e Lorenzo Ianiro, consigliere del XIII Municipio e attivista per l’area MENA. Il rapporto si basa sul lavoro di inchiesta portato avanti sul campo da Al Haq, la prima ONG palestinese per la difesa dei diritti umani. Con uno status consultivo speciale presso il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, la ONG, che ogni anno promuove anche una scuola di diritto sul campo aperta a tutti e tutte per dare massima diffusione alle violazioni subite dai civili palestinesi, lo scorso 5 settembre è stata sanzionata dagli Stati Uniti per aver collaborato all’istruzione delle indagini della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra condotti da esponenti del Governo Israeliano. 

Il documento fa leva sui rischi che corre Acea nel collaborare con una società direttamente coinvolta nell’infrastruttura coloniale in Cisgiordania, come dimostra la presenza di esponenti di Mekorot nel think tank deputato alla redazione dell’ultimo Masterplan per l’espansione delle colonie in Cisgiordania nel 2020. Rischi, dunque, etici, reputazionali ma anche legali, vista l’aperta violazione che gli insediamenti illegali rappresentano nei termini del diritto internazionale istituito con la IV Convenzione di Ginevra.

Il logo del progetto Zenobia sulla maglia di un educatore palestinese intento a riparare una cisterna dell’acqua. Credits Lorenzo Ianiro

Un’indagine su cui i due attivisti hanno continuato a dare battaglia negli anni, raccogliendo il testimone dai movimenti per l’acqua pubblica e dal Comitato contro l’accordo Acea-Mekorot sorto nel 2013, contribuendo a portare in Campidoglio la vertenza.

«Nessuna illusione» – dichiarano gli attivisti del progetto Zenobia in un comunicato – «sappiamo che gran parte di questo spazio è dettato da opportunismo legato al consenso, ma, come a Roma, è il caso di coglierne il valore tattico e realizzare avanzamenti che rimarranno effettivi anche quando l’attenzione della politica istituzionale tornerà a concentrarsi altrove. C’è voluto un allineamento fortunato per rompere quel blocco granitico che solitamente si compatta a difesa degli interessi israeliani. La battaglia non è finita, ma l’atto approvato in Assemblea Capitolina è decisivo e dovrà essere fatto rispettare ad Acea, di cui il 51% di quote societarie sono detenute dal Comune di Roma, che ne nomina la maggioranza dei membri del Consiglio di Amministrazione. La partita, dunque, si sposta dentro ad Acea, e può finalmente servirsi di una leva politica importante e vincolante».

San Marino ha riconosciuto lo Stato di Palestina

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Dopo gli annunci di Canada, Francia, Regno Unito e altri sette Paesi, anche la Repubblica di San Marino ha annunciato il proprio riconoscimento formale allo Stato di Palestina. L’annuncio di San Marino arriva in occasione di una seduta del Congresso di Stato, nella quale la Repubblica del Monte Titano ha riconosciuto la Palestina «quale Stato sovrano e indipendente, entro i confini internazionalmente riconosciuti e nel rispetto delle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite». Sabato, il ministro degli Esteri del Paese riferirà la scelta presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e comunicherà il riconoscimento alle autorità palestinesi.

A Napoli i ritardi processuali hanno rimesso in libertà i vertici di un clan della camorra

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Sono accusati di essere a capo di uno dei più potenti clan di Camorra, ma a causa della lentezza del processo che li riguarda e la decorrenza dei termini di custodia cautelare sono a piede libero. È la storia che riguarda i 15 imputati al processo contro la famiglia Moccia, su cui ha messo il timbro il Tribunale del Riesame di Napoli, respingendo l’appello dei pm. Tra gli scarcerati ci sono anche i fratelli Antonio, Luigi e Gennaro Moccia, che secondo la Procura siederebbero ai vertici del clan di Afragola. Il processo, avviato nel 2022 con 48 imputati, ha accumulato lunghi ritardi: questioni di competenza territoriale, sospensioni e oltre 60 udienze hanno impedito di arrivare a una sentenza nei tre anni previsti dalla custodia cautelare. Il dibattimento proseguirà dunque con i suoi più importanti protagonisti in libertà.

In seguito al rinvio a giudizio del luglio 2022, il procedimento contro il clan Moccia, inizialmente assegnato al tribunale di Aversa, è stato trasferito a Napoli per incompetenza territoriale nel gennaio 2023. Da allora, il processo è progredito lentamente presso la settima sezione penale napoletana, con decine di udienze celebrate e un enorme volume di atti da esaminare. Il nodo cruciale riguarda il computo della durata della custodia cautelare, già sospesa a giugno 2023. La difesa ha sollevato la questione della sua scadenza, sostenendo che il termine massimo di tre anni sia scaduto il 25 luglio 2024, calcolato a partire dal decreto di giudizio immediato. La sesta sezione penale, competente per il periodo feriale, ha accolto questa tesi in due provvedimenti, ritenendo il tetto dei tre anni «insuperabile».

La Procura ha impugnato la decisione, avanzando un’interpretazione differente: il termine dovrebbe decorrere non dalla data iniziale, ma dal successivo trasferimento degli atti a Napoli (gennaio 2023), il che posticiperebbe la scadenza al 2026. Tuttavia, il Tribunale del Riesame ha respinto questo ricorso. Alcuni imputati restano sottoposti a misure restrittive come il divieto di dimora in Campania e Lazio, aree ritenute cruciali per gli affari del clan. In attesa delle motivazioni formali, la Procura sta ora valutando di presentare un ricorso alla Corte di Cassazione. Nel frattempo, il collegio della settima sezione penale, nell’udienza del 16 settembre, ha stabilito di celebrare quattro udienze a settimana per i prossimi due mesi – 32 udienze in 60 giorni – per evitare ulteriori cambi di collegio dopo il trasferimento del giudice Michele Ciambellini alla Procura generale della Cassazione.

Il clan Moccia è descritto come un’élite della camorra, una dinastia criminale potentissima le cui radici risalgono agli anni ’70. A differenza dei clan dediti a una violenza plateale, i Moccia hanno evoluto il loro potere, basandolo non sulla ferocia (pur avendo alle spalle una lunga e sanguinosa faida familiare) ma su un’enorme disponibilità di capitali liquidi e sulla capacità di infiltrare l’economia legale. La loro forza risiede in una solida struttura familiare: non sono un semplice clan, ma una confederazione camorristica con un vastissimo territorio di influenza che si estende dalla cintura nord di Napoli fino a Roma, dove riciclano capitali in attività di lusso. Sono specializzati in settori ad alto reddito come gli appalti pubblici a livello nazionale e, come dimostra l’inchiesta “Petrol-mafie Spa”, nel business dei carburanti, dove hanno costruito un impero economico basato su frodi fiscali.

Non è la prima volta che mafiosi di calibro riescono a uscire di galera per decorrenza dei termini. Nell’ottobre del 2024 era toccato a Giuseppe Corona, 56 anni, noto come “il re delle scommesse” di Palermo, condannato in appello a 15 anni e 2 mesi per riciclaggio e intestazione fittizia. Era stato arrestato sette anni fa e ritenuto parte del vertice dei mandamenti di San Lorenzo e Resuttana, riciclando capitali in centri scommesse, compro oro e pegni. Detenuto al 41-bis, è stato scarcerato dopo che la corte d’Appello ha accolto la richiesta dei suoi difensori, con divieto di dimora in Sicilia. Pochi giorni prima, nonostante le condanne non definitive subìte, per la scadenza dei termini di custodia cautelare erano stati scarcerati 11 fedelissimi di Matteo Messina Denaro. Tra loro, anche due boss che erano reclusi al 41 bis, ovvero Nicola Accardo (condannato a 10 anni) e Vincenzo La Cascia (condannato a 9 anni e 8 mesi). Più di recente, nel maggio di quest’anno, a essere liberati per decorrenza dei termini sono stati due imputati del maxi-processo Rinascita-Scott, il più grande procedimento mai celebrato contro la ’ndrangheta vibonese, ovvero Andrea Prestanicola e Gregorio Gasparro, ritenuto esponente apicale della ‘ndrina di San Gregorio d’Ippona. Anche lui era recluso al 41-bis.

I ministri europei delle finanze si sono accordati sull’euro digitale

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I ministri delle Finanze dell’Unione europea hanno raggiunto un’intesa politica sulla tabella di marcia per l’introduzione dell’euro digitale. Si tratta di un progetto che Bruxelles porta avanti da anni, con l’obiettivo di creare una Central Bank Digital Currency (CBDC) emessa direttamente dalla Banca Centrale Europea (BCE). L’accordo fissa i tempi e le modalità di sperimentazione, indicando il 2028 come data ipotetica per un primo lancio operativo, se i test in corso daranno risultati positivi. La decisione arriva in un contesto di crescente competizione internazionale: la Cina ha già introdotto il proprio yuan digitale, rilasciato dalla Banca Centrale Cinese, mentre altre banche centrali si muovono nella stessa direzione. Per i governi europei, la creazione di un euro digitale risponde all’esigenza di mantenere la sovranità monetaria in un mondo sempre più orientato verso pagamenti dematerializzati e controllati da operatori privati. Per Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea, la moneta unica digitale è «una dichiarazione politica sulla sovranità dell’Europa», similmente per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti si tratta di «uno strumento a difesa della nostra sovranità finanziaria». L’euro digitale non sostituirebbe immediatamente il contante, ma si affiancherebbe ad esso come strumento di pagamento elettronico ufficiale, garantito dalla BCE.

Secondo i ministri, l’euro digitale dovrebbe offrire un’alternativa sicura e accessibile rispetto ai circuiti gestiti da colossi internazionali come Visa, Mastercard o le piattaforme fintech (Financial Technology). L’obiettivo è quello di garantire pagamenti rapidi, a basso costo e in tutta l’area euro, senza dipendere dall’infrastruttura tecnologica di attori esterni. Il regolamento in discussione presso Parlamento e Consiglio europeo fissa alcuni limiti, tra cui un tetto massimo di utilizzo per prevenire fenomeni di concentrazione e garantire la stabilità del sistema bancario. La moneta digitale della BCE non sarà concepita come uno strumento di investimento, ma come mezzo di pagamento quotidiano. Tra i punti sottolineati vi è la necessità di mantenere la fiducia dei cittadini, assicurando un livello adeguato di protezione dei dati e la compatibilità con il quadro normativo già esistente. Non mancano però tensioni istituzionali. Alcuni governi e parlamentari hanno espresso dubbi sul conferire alla BCE un potere così esteso, soprattutto dopo il blackout che ha colpito il sistema Target2 lo scorso mese, paralizzando per un’intera giornata i regolamenti interbancari. L’incidente ha mostrato la vulnerabilità di un’infrastruttura centralizzata e ha riacceso il dibattito sulla sicurezza dei sistemi digitali.

Se da un lato il progetto è presentato come una modernizzazione necessaria, dall’altro emergono interrogativi di fondo sui rischi legati all’euro digitale. Lagarde ha provato a liquidare come “teorie del complotto” i timori di controllo pervasivo, assicurando che «l’obiettivo è proteggere la privacy, non l’anonimato» e ha respinto l’immagine di un Grande Fratello digitale, pronto a decidere cosa e quando i cittadini debbano acquistare, ma resta il fatto che la natura stessa di una CBDC attribuirebbe alle istituzioni un potere senza precedenti. A differenza del contante, che garantisce anonimato e libertà d’uso, la valuta digitale sarebbe tracciabile in ogni transazione. Ciò aprirebbe alla possibilità di una sorveglianza capillare: governi e BCE avrebbero accesso a dati dettagliati sulla vita economica delle persone, con conseguenze significative per la privacy finanziaria. La centralizzazione comporterebbe inoltre la facoltà di limitare o vietare alcune tipologie di spesa, introducendo forme di censura economica: ad esempio, un governo potrebbe decidere di impedire transazioni verso organizzazioni considerate politicamente scomode, oppure potrebbe limitare le spese per determinati beni e servizi ritenuti dannosi o non prioritari. Questo tipo di controllo finanziario potrebbe trasformarsi in un meccanismo di coercizione sociale, minando la libertà individuale e il diritto alla proprietà privata. Se la BCE e i governi nazionali avessero accesso in tempo reale ai dati finanziari, potrebbero utilizzarli per tracciare il comportamento economico degli individui, individuare potenziali “comportamenti sospetti” e persino punire chiunque si discosti dalle norme stabilite.

Uno degli aspetti più controversi dell’euro digitale è proprio la sua natura centralizzata. A differenza delle criptovalute decentralizzate, come Bitcoin, che consentono agli utenti di detenere e trasferire fondi senza l’intermediazione di un’istituzione centrale, l’euro digitale sarebbe controllato direttamente dalla BCE. Questa centralizzazione potrebbe significare che i cittadini perderebbero la sovranità sui propri risparmi e sulle proprie transazioni. In caso di crisi economiche, la BCE potrebbe teoricamente imporre tassi di interesse negativi sui depositi digitali, forzando le persone a spendere anziché risparmiare. Inoltre, potrebbe introdurre meccanismi di scadenza della moneta, limitando la capacità di accumulare risorse nel tempo o legando la moneta ai crediti di carbonio. Accanto al rischio di un controllo statale totale, si somma la vulnerabilità informatica: un attacco hacker a un sistema così vasto e centralizzato potrebbe provocare danni miliardari e mettere in crisi l’intero circuito dei pagamenti. Non meno rilevante è il pericolo di fughe di dati, che potrebbero essere sfruttati da aziende private per profilazioni e pratiche invasive. Infine, l’euro digitale accelererebbe la spinta verso una società senza contanti. Questo scenario, presentato come moderno ed efficiente, eliminerebbe però una valvola di libertà concreta e creerebbe un potenziale strumento di coercizione mai sperimentato nella storia. Il dibattito è appena iniziato, ma i nodi politici e democratici che circondano l’euro digitale restano irrisolti.

Haiti, attacco con droni: 13 morti

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Dei droni esplosivi hanno preso di mira una persona accusata di essere a capo di una banda armata in una città nei pressi della capitale di Haiti, uccidendo almeno 13 persone di cui 8 bambini e ferendone altri 6. La notizia è stata data dalle famiglie delle vittime alla stampa. Le famiglie attribuiscono l’attacco con droni alle forze di polizia del Paese; da quanto riportano, l’offensiva sarebbe avvenuta a Cité Soleil, controllata da una coalizione di bande. Uno dei vertici della coalizione ha annunciato che risponderà all’attacco. Haiti è da tempo nel caos a causa dei sempre più violenti scontri tra governo centrale e bande armate, che si concentrano proprio nell’area della capitale.

Pfizer punta 4,9 miliardi sul mercato delle cure contro l’obesità

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Pfizer ha deciso di investire 4,9 miliardi di dollari per acquisire Metsera, una biotech con una linea di produzione focalizzata sull’obesità e le malattie metaboliche. La società americana dispone già di programmi avanzati: quattro molecole in fase clinica, sia orali sia iniettabili, la maggior parte basata su meccanismi innovativi come gli agonisti del GLP-1 e altri ormoni correlati come l’amilina. Per Pfizer è una strategia per entrare in un mercato in forte espansione, dove finora aveva contribuito poco, rispetto a concorrenti che già offrono farmaci antiobesità approvati. Quest’operazione non è isolata: segue una tendenza consolidata nelle grandi aziende farmaceutiche, che puntano su molecole che migliorano la sazietà, riducono l’appetito o modulano segnali metabolici, intervenendo non solo sul peso, ma sulle complicazioni sanitarie che accompagnano l’obesità. Le prospettive economiche spiegano perché l’industria stia puntando così forte su questo settore: è un business che promette margini elevati, specie nei Paesi con sistemi sanitari disposti a rimborsare, e nei mercati privati dove i pazienti sono pronti a pagare.

Negli ultimi anni il mercato degli agonisti del recettore GLP-1 ha conosciuto un’espansione senza precedenti, trainato da molecole come Ozempic e Wegovy, diventate non solo farmaci, ma veri e propri fenomeni di costume. Nati come trattamenti per il diabete di tipo 2, sono stati rapidamente adottati come strumenti per dimagrire, anche da persone che non soffrono di obesità clinica. L’Ozempic, in particolare, è entrato nell’immaginario collettivo grazie all’utilizzo da parte di star di Hollywood, influencer e manager che ne hanno alimentato la domanda esplosiva. L’idea di perdere peso in modo rapido e senza sforzo ha reso questi prodotti oggetti di desiderio, al punto da generare carenze nelle farmacie e la nascita di un mercato parallelo fatto di vendite online e perfino di versioni contraffatte. Il risultato è un business fuori controllo, dove i numeri parlano chiaro: Goldman Sachs stima che il mercato globale dei farmaci antiobesità, attualmente valutato 28 miliardi di dollari, possa salire a 95 miliardi entro il 2030. Ancora più ottimista Morgan Stanley, che proietta una crescita fino a 150 miliardi di dollari entro il 2035. A fronte di queste cifre, restano però questioni aperte e rischi evidenti: l’uso estetico e non terapeutico, i costi proibitivi, la dipendenza da trattamenti cronici e le incognite sugli effetti collaterali a lungo termine. In molti casi, i pazienti interrompono la cura dopo pochi mesi, recuperando rapidamente il peso perso, mentre il sistema sanitario e i consumatori hanno già sostenuto spese enormi. Dietro l’entusiasmo e la moda globale, il nodo centrale è che questi farmaci rischiano di essere percepiti come scorciatoie miracolose, oscurando la necessità di affrontare le cause profonde dell’epidemia di obesità: cattiva alimentazione, sedentarietà, stress e disuguaglianze sociali. Altri elementi di criticità emergono dalla sicurezza: ci sono segnalazioni di effetti indesiderati rari ma gravi, come patologie oculari con alcuni farmaci a base di semaglutide (neuropatia ottica ischemica) o rischi cardiovascolari da monitorare. Studi clinici e post-marketing stanno evidenziando che, pur se i benefici sono reali, non si conoscono ancora pienamente gli effetti a lungo termine, soprattutto su popolazioni diverse da quelle dei trial (anziani, comorbidità, uso prolungato).

Pfizer non ha ancora alcun trattamento per l’obesità disponibile sul mercato, ma alcuni candidati sono in fase di sviluppo clinico. All’inizio del 2025 l’azienda ha scelto di interrompere il progetto di una pillola da assumere una volta al giorno, rinviando i test di fase avanzata, la più costosa e delicata dell’intero iter. L’ingresso nel settore arriva mentre il governo statunitense esercita una pressione crescente sulle case farmaceutiche: a luglio il presidente Trump ha inviato lettere a 17 produttori, intimando di ridurre i prezzi dei farmaci entro settembre e lasciando trapelare l’ipotesi di dazi commerciali. In questo clima, la sfida per Pfizer sarà trasformare l’acquisizione di Metsera in una strategia sostenibile, capace di coniugare profitti e accessibilità. Il terreno su cui la multinazionale si muove è segnato da contraddizioni profonde. Negli Stati Uniti la malnutrizione da eccesso, fatta di fast food e alimenti ultra-processati, ha prodotto una popolazione in cui un terzo degli adulti è obeso. Secondo il Centers for Disease Control and Prevention, oltre 100 milioni di americani sono obesi e più di 22 milioni soffrono di obesità grave, con un indice di massa corporea pari o superiore a 40. Ma come spesso accade nel modello capitalistico, il problema di salute pubblica viene affrontato agendo sul sintomo anziché sulla causa. Il sistema che ha contribuito a generare obesità di massa, finisce per arricchirsi di nuovo vendendo la cura, l’ennesima scorciatoia che alimenta il business senza intaccare le vere radici del problema.

Le verità poco conosciute sul tonno in scatola

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Il tonno è un alimento ricco di nutrienti quali omega-3, proteine e sali minerali, che contribuiscono a prevenire malattie cardiovascolari e tenere sotto controllo i grassi nel sangue. Ma cosa cambia quando viene consumato nelle formulazioni in vetro o in lattina?

Le carni del tonno sono un’ottima fonte di proteine ad elevato valore biologico. Le proteine non sono infatti tutte uguali: la scienza le differenzia in base al loro valore, o qualità nutritiva, che viene definito in gergo tecnico e nutrizionale valore biologico delle proteine. Il tonno è inoltre una ricca fonte di grassi buoni, in particolare di quelli appartenenti alla classe degli omega-3, riconosciuti per la loro funzione antinfiammatoria e protettiva per le cellule dell’organismo. È anche ricco di micronutrienti, ovvero vitamine e minerali. Per quanto riguarda le sostanze minerali, è buono l’apporto di calcio, fosforo e selenio. Anche il rame, il magnesio, il ferro e lo iodio sono presenti in quantità significative: in genere, 150 grammi di tonno forniscono selenio e iodio in quantità sufficienti a soddisfare il fabbisogno giornaliero di un adulto. Il contenuto vitaminico è consistente per le vitamine B1, B2, B3 e B12, ma il tonno è un importante e quasi esclusivo vettore di vitamine A e D, presenti tal quali e non nella forma di pro-vitamine, come in altri alimenti (ad es. il betacarotene è una pro-vitamina A e si trova nei cibi vegetali, ma non è la stessa cosa della vitamina A tale e quale, presente solo ed esclusivamente nei prodotti di origine animale). Tutte queste straordinarie virtù non vengono meno né con la surgelazione né con la cottura a vapore. Pertanto, sia il pesce congelato che quello cotto a vapore (come è tipicamente il tonno in scatola) sono alimenti ricchi di nutrienti al pari del pesce fresco. 

Come acquistare un prodotto di qualità 

La prima cosa importante, quando acquistiamo tonno in scatola, è capire di che tonno si tratta. Questo perché non tutto il tonno presente in commercio è uguale. Ne esistono almeno quattro specie principali: pinna gialla, obesus, striato e tonno rosso. Dal 2014, però, i regolamenti UE impongono obbligatoriamente ai produttori di tonno di indicare sulla confezione del prodotto la specie usata, con tanto di nome scientifico del pesce. La più pregiata è il tonno rosso (Thunnus Thynnus), molto difficile da trovare in scatola in quanto molto costoso. Sono invece più diffuse le specie tonnetto striato (Katsuwonus pelamis) e tonno pinne gialle (Thunnus Albacares): la prima è più economica, ha un sapore meno intenso e una carne più chiara, mentre la seconda è più costosa e pregiata. 

Vetro o scatoletta? 

La seconda cosa che bisogna sapere riguarda il tipo di confezionamento: in vetro o in lattina. Si sente spesso dire che il tonno in vetro sia più pregiato e di migliore qualità rispetto a quello in lattina: sebbene questo sia vero il più delle volte, può succedere anche il contrario. Solitamente il prodotto in vetro è da preferire, in quanto vi troviamo quasi sempre filetti di tonno integri, mentre nella scatoletta di latta vi sono per lo più pezzi misti e resti di lavorazione dei filetti. I filetti interi sono più magri e pregiati rispetto ai pezzi misti, i quali possono includere qualsiasi parte del pesce. Solitamente, anche il prezzo dei due prodotti è differente, dal momento che il tonno in vetro costa di più. Non si tratta, a ogni modo, di regole sempre valide. Inoltre è possibile trovare barattoli di vetro con tonno pinne gialle ma non in filetti, bensì in ritagli e pezzi misti: in questi casi, il valore dei grassi nella tabella nutrizionale è alto proprio perché i pezzi misti non sono magri come i filetti interi. Per questo motivo è necessario prestare attenzione anche ai valori di grassi e proteine che leggete sulla tabella nutrizionale della confezione. Il valore di proteine deve aggirarsi attorno ai 26-27 grammi (può arrivare fino a 31 grammi, in alcuni casi), mentre quello di grassi varia a seconda che si tratti di filetti interi o di pezzi misti: quello all’olio varia dai 7 grammi per i filetti a circa 13-14 grammi per i pezzi misti. 

Nel tonno al naturale, invece, i valori dei grassi sono molto più bassi. Questo ci fa capire che non è il vetro di per sé a rendere il tonno di qualità superiore, ma è il tipo di tonno (striato o pinne gialle) e la tipologia di taglio delle carni del pesce che viene utilizzata (filetti o pezzi misti). 

Un discorso a parte va fatto per quanto riguarda la salubrità e l’impatto ambientale delle confezioni in lattina e in vetro. Chiaramente il vetro è meglio, non rilascia alcuna sostanza nel prodotto e ha costi ambientali molto minori rispetto alle latte in alluminio, che sono rivestite di una patina di plastiche industriali, che comprendono sostanze tossiche come i bisfenoli (sia il famigerato bisfenolo A che altri).  

La zona di pesca (Zone FAO)

Dopo l’incidente di Fukushima del 2011, la zona FAO 61, relativa al Mar del Giappone, desta preoccupazione per i livelli di radioattività

Un altro aspetto importante da considerare per i consumatori è la zona di pesca, ovvero da quale mare proviene il tonno che stiamo acquistando. Per saperlo è sufficiente leggere l’etichetta e le scritte sulla confezione del prodotto. Per legge è infatti obbligatorio indicare anche la zona FAO di pesca del pesce in vendita al supermercato o in pescheria, seguita dal numero che identifica la zona di provenienza. Le zone FAO della pesca sono aree oceaniche e marine, suddivise dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), per facilitare la gestione sostenibile delle risorse ittiche e per la tracciabilità dei prodotti. Ogni zona è identificata da un codice numerico e serve a monitorare le attività di pesca e gli stock ittici. Ad esempio, la pesca nel Mar Mediterraneo è indicata con la zona FAO 37. 

Per legge la zona di pesca deve essere riportata su tutti i prodotti venduti, compreso il tonno in scatola

Che zone FAO dobbiamo scegliere come consumatori? Bisognerebbe evitare il pesce che proviene da mari e zone oceaniche notoriamente molto inquinati o contaminati, come ad esempio le zone FAO 61, 67 e 71. La zona FAO 61 in particolare (Mar del Giappone), desta molte preoccupazioni a causa dell’esplosione di ben 4 reattori nucleari nella centrale di Fukushima Daiichi, a seguito dello tsunami del marzo 2011. Gli studi condotti nella zona circostante hanno confermato livelli di radiazione nucleare alti abbastanza da contaminare la vita nei mari e quindi la salubrità dei pesci che ci vivono. Sebbene la pesca sia consentita in questi mari, è dunque tuttavia preferibile, in via precauzionale, non acquistare il pesce radioattivo che arriva dalla zona FAO 61.

La composizione del prodotto

Anche nella scelta di questo alimento vale la regola aurea che consigliamo per ogni prodotto: meno ingredienti ci sono, meglio è. Tipicamente, le conserve di tonno si compongono solo di 3 ingredienti: tonno, olio, sale (se è al naturale, tonno, acqua e sale). Il consumo del tonno sott’olio comporta naturalmente una maggior quantità di calorie e grassi nel piatto rispetto a quello al naturale e questo vale anche se dovessimo scolare ed eliminare tutto l’olio del vasetto, in quanto una parte di esso penetra comunque nelle carni. Tra olio extravergine di oliva, olio d’oliva e olio di girasole, le tre varianti presenti nel tonno in scatola, è da preferire il primo: gli altri due sono infatti oli raffinati con un profilo di acidi grassi non salutare. 

Sostenibilità ambientale 

Dal punto di vista ambientale i prodotti più sostenibili sono quelli con la dicitura “pescato a canna”, che indica che non vengono utilizzate le enormi reti a strascico tipiche della pesca industriale selvaggia e indiscriminata. Questa comporta infatti la cattura di specie protette come i delfini, che spesso possono finire per sbaglio dentro le grandi reti. A tale proposito, un altro bollino e certificazione che troveremo spesso sulle confezioni al supermercato è “Dolphin Safe”, a indicare un metodo di pesca che riduce (ma non elimina del tutto) la cattura dei delfini. Oggi questa certificazione risulta superata, in quanto non più sufficiente a garantire la sostenibilità della pesca, ed è stata sostituita da altre certificazioni come la MSC, la principale a livello internazionale. MSC è un’organizzazione internazionale no-profit nata per promuovere una pesca sostenibile. 

La dicitura “prima scelta” che troviamo in alcune scatolette di tonno, si può ignorare in quanto non corrisponde a nessuna indicazione concreta, si tratta di un semplice claim pubblicitario. 

La contaminazione da metalli pesanti

Il tonno, come molti pesci di grossa taglia, accumula nelle carni grandi quantità di metalli pesanti come mercurio e piombo

Altra questione molto dibattuta negli ultimi anni è quella relativa ai contaminanti tossici come mercurio, piombo, cadmio, presenti nelle acque degli oceani a causa del crescente inquinamento di navi merci, navi da crociera e navi per trasporto passeggeri, oltre a tutti gli scarichi che da terra le attività civili e industriali dell’uomo riversano in mare.

Queste sostanze passano dalle acque dei mari alle carni dei pesci e alla fine della catena giungono nei nostri piatti (in aggiunta alle microplastiche, altro contaminante marino). Ad accumularne nell’organismo grandi quantità, soprattutto di mercurio e piombo, sono soprattutto i pesci di grossa taglia, quali tonni e pesci spada. Inevitabilmente, di conseguenza, li assumiamo anche noi consumatori. Si tratta di metalli estremamente pericolosi, tali da essere definiti neurotossine in grado di danneggiare il cervello e da destare anche le preoccupazioni del massimo ente a tutela della salute pubblica mondiale, l’OMS. I pesci di grossa taglia vivono per più tempo in mare e dunque incamerano quantitativi maggiori di questi metalli tossici, rispetto ai pesci di piccola taglia.

L’OMS suggerisce alle donne incinte e ai bambini di non consumare più di 170 grammi di tonno in scatola alla settimana, a causa dei potenziali danni a cervello e sistema nervoso causati da mercurio, piombo, cadmio e altri metalli pesanti. Pensiamo solo al fatto che a Minamata, una piccola cittadina del Giappone, l’intossicazione da mercurio nel pesce ha ucciso e reso cognitivamente instabili numerosi soggetti negli anni ’50.

Asta al mercato del tonno di Nachikatsuura, sulla penisola di Kii, in Giappone

In Italia, i consumi di tonno in scatola costituiscono il 20-25% del consumo complessivo di pesce. Alcune persone mangiano solo tonno in scatola quando si tratta di pesce, ma in realtà il consumo di questo alimento costituisce un aspetto da ponderare e tenere sotto attento controllo nella nostra dieta, non superando le dosi massime consigliate dall’OMS per scongiurare i pericoli della tossicità del mercurio e degli altri metalli pesanti. Per gli adulti, le dosi massime consigliate dall’OMS per un consumo settimanale sono di 340 grammi circa, il doppio di quelle consigliate per i bambini e le donne incinte. Da sottolineare un aspetto importante: nel mare esistono anche tonni e tonnetti di piccola taglia, come ad esempio la palamita o il tombarello (che raggiungono al massimo 1,5 kg di peso), e di taglia media, come il tonno alalunga e il tonno alletterato (che arrivano al peso massimo di 15-25 kg e 1 metro di lunghezza). Questi pesci incamerano meno metalli pesanti del loro cugino tonno a pinna gialla di grossa taglia e hanno una vita media più breve. Ciò significa che quando li troviamo dal pescivendolo possono essere acquistati e consumati come qualsiasi altro pesce di piccola taglia, come lo sgombro, anche perché tutti i tonni appartengono alla categoria del pesce azzurro e sono pertanto ricchi di grassi buoni omega-3, a noi favorevoli.

Per quanto concerne la tossicità da mercurio e piombo nelle carni dei pesci, va detto che essa è mitigata e tenuta sotto controllo da un altro minerale prezioso e importante per la salute umana: il selenio. Questo minerale per fortuna è presente in elevata quantità nei pesci marini, perché si trova nell’acqua di mare e pertanto viene incamerato dai pesci. Il selenio è un minerale con un’azione antagonista nei confronti del mercurio. Questo significa che il selenio può legarsi al mercurio, riducendone la tossicità e proteggendo l’organismo dai suoi effetti dannosi. Sono diversi gli studi scientifici che mostrano come il selenio sia in grado di neutralizzare il mercurio e i suoi effetti tossici, anche per quanto riguarda il consumo di pesci come il tonno o il pesce spada, che sono quelli con i più alti quantitativi di mercurio. In realtà, il pesce che accumula più mercurio nelle sue carni è lo squalo, di cui esistono vari esemplari e alcuni li mangiamo sotto forma di tranci, ad esempio come la verdesca. Secondo il Prof. Nicholas Ralston, biochimico e biologo presso l’università del Nord Dakota negli USA, il selenio ha una speciale affinità di legame con il mercurio, che gli permette di attaccarsi a quest’ultimo in un rapporto di uno a uno, in modo che le molecole di mercurio, che altrimenti causerebbero danni, risultino in vece virtualmente “ammanettate” e quindi impossibilitate a reagire con l’organismo umano. Nel corso di una importante conferenza internazionale sul selenio tenutasi a Stoccolma nel 2017, il Prof. Ralston ha riferito che «il mercurio prende di mira proprio il selenio e distrugge delle selenoproteine importanti, per questo è fondamentale mantenere dei quantitativi adeguati di selenio nell’organismo». Vi sono chiaramente anche altre ricerche scientifiche dove si spiega il ruolo protettivo del selenio nei confronti del mercurio, in riferimento al consumo di pesce.

Palamite (Sarda Sarda), che, insieme ad altri pesci azzurri, sono una valida alternativa al tonno

In conclusione, appare importante conoscere questi aspetti al fine di poter continuare a mangiare con serenità un alimento così prezioso come il pesce e in particolare il tonno, ricco di vitamina D, iodio, selenio, proteine di alto valore biologico e grassi antinfiammatori come gli omega-3.