mercoledì 19 Novembre 2025
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Corte Internazionale: Israele deve fornire aiuti a Gaza

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La Corte Internazionale di Giustizia ha rilasciato un parere consultivo in cui sostiene che Israele ha il dovere di fornire aiuti alla popolazione gazawi e garantire agli organismi internazionali di operare nella Striscia. A tal proposito, secondo la CIG, Israele non ha fornito prove sufficienti a sostegno della sua tesi secondo cui l’UNRWA sarebbe affiliata ad Hamas. L’opinione era stata richiesta dall’Assemblea Generale dell’ONU lo scorso dicembre. Esso può essere citato in tribunale e costituisce una guida all’interpretazione del diritto internazionale, fornendo il punto di vista della CIG; non ha, tuttavia, valore vincolante e gli Stati non sono tenuti a rispettarne il contenuto. Israele ha criticato la posizione della Corte.

La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta sugli attacchi israeliani alla Global Sumud Flotilla

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Mentre a Gaza la tregua resta in bilico a causa delle operazioni dell’IDF e continuano ad arrivare immagini che mostrano i segni visibili delle torture inflitte sui corpi degli ostaggi palestinesi rilasciati, in Italia qualcosa si muove sul versante giudiziario: la Procura di Roma ha infatti aperto un’indagine preliminare sui presunti crimini commessi da Israele contro la Global Sumud Flotilla. Come è noto, la missione – civile, internazionale e politica – è stata intercettata a inizio ottobre in acque internazionali dalla marina israeliana. Sulla base delle denunce di 37 cittadini e parlamentari italiani partecipanti, la magistratura indaga per reati gravissimi come tentato omicidio, pirateria, sequestro di persona e tortura, in un raro caso giuridico che coinvolge direttamente le forze armate israeliane.

La notizia è stata riportata dal Global Movement to Gaza Italia. La Flotilla, che vedeva la partecipazione di centinaia di persone provenienti da oltre 40 Paesi – parlamentari, medici, giornalisti, attivisti – aveva l’obiettivo dichiarato di rompere simbolicamente il blocco navale illegale imposto da Israele su Gaza e portare aiuti umanitari a una popolazione allo stremo. Come ricostruito dai denuncianti, dopo che i mezzi sono stati abbordati, gli attivisti sono stati prelevati dalle imbarcazioni, bendati, condotti nel porto di Ashdod e reclusi nelle carceri israeliane per giorni, senza contatti esterni né, in alcuni casi, assistenza legale, per poi essere espulsi.

Le indagini della procura di Roma, affidate ai sostituti procuratori Lucia Lotti e Stefano Opilio, si muovono su due versanti principali: i fatti avvenuti in acque internazionali e quanto accaduto a terra, tra il porto di Ashdod e la prigione di Ketziot. Il fascicolo contiene attualmente due esposti, quello del team legale della Flotilla a nome di trentasei attivisti e quello dell’avvocato Flavio Rossi Albertini a nome dell’attivista Antonio La Piccirella. Nell’esposto del team legale si legge che «ad una distanza compresa tra 70 e 80 miglia nautiche dalla costa gazawi, una ventina di navi della marina militare israeliana ha abbordato varie imbarcazioni della Flotilla e ne ha prelevato gli equipaggi». Per gli attacchi dei droni contro le navi avvenuti nella notte tra il 24 e il 25 settembre gli avvocati parlano di «tentato omicidio plurimo» e di «naufragio». Per l’intervento della marina israeliana, si parla invece di sequestro di persona e pirateria.

Per i fatti in acque internazionali, dove ogni barca che batte bandiera italiana è considerata sotto giurisdizione italiana, la Procura può agire autonomamente. Diverso il discorso per quanto accaduto a terra: in questo caso abusi e sevizie sono da valutare alla luce dell’articolo 8 del codice penale, che stabilisce le condizioni per la punibilità dei delitti politici commessi all’estero e afferma che a muoversi debba essere in primis il Ministero della Giustizia. L’indagine dovrà inoltre interfacciarsi con il diritto internazionale, dal Manuale di San Remo sulla guerra marittima alla convenzione Onu di Montego Bay. Non viene trascurato neppure il possibile ruolo delle autorità del nostro Paese, dal momento che si chiede ai giudici di valutare se e in che misura lo Stato italiano sia imputabile per omissione di tutela, per la decisione di ritirare la fregata militare Alpino al raggiungimento della cosiddetta “linea arancione”, limite convenzionale a 150 miglia dalle coste della Striscia che segna la “zona di massimo rischio”. La condotta potrebbe integrare il secondo comma dell’articolo 40 del codice penale, in cui si legge che «non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo».

L’apertura dell’inchiesta, hanno dichiarato i legali della Global Sumud Flotilla, «segna un primo traguardo per accertare le responsabilità degli attacchi e degli abusi da parte di Israele contro la missione umanitaria e pacifica della Gsf», il cui obiettivo «è stato quello di rompere il blocco illegittimo imposto da Israele a Gaza e volto ad affamare la popolazione civile».

Numerose figure pubbliche chiedono di bandire la Superintelligenza Artificiale

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Il Future of Life Institute ha lanciato oggi, mercoledì 22 ottobre, un’iniziativa che chiede ai governi di tutto il mondo di introdurre “un divieto che blocchi lo sviluppo della superintelligenza [artificiale]” fino a quando “non ci sarà un ampio consenso scientifico sul fatto che la tecnologia sarà sviluppata in maniera affidabile e controllabile”. La proposta è stata accompagnata da una lettera aperta e ha ricevuto il supporto esplicito di numerosi premi Nobel, di decine di figure politiche e persino di qualche testa coronata. Tuttavia, rischia di distogliere l’attenzione dai problemi reali in favore di un futuro ipotetico che appare ancora estremamente remoto.

L’appello ha raccolto oltre 800 adesioni, tra cui figurano personalità di altissimo profilo come Steve Bannon, imprenditore e podcaster estremamente influente sulle politiche Repubblicane statunitensi, il principe Henry e la duchessa Meghan, il cofondatore di Apple Steve Wozniak, André Hoffmann del World Economic Forum (WEF), padre Paolo Benanti, presidente della “Commissione algoritmi” italiana, e Brando Benifei, europarlamentare italiano che ha avuto un ruolo chiave nella stesura dell’AI Act. A questi si aggiungono figure meno rilevanti sul piano politico, ma dal forte richiamo mediatico quali gli attori Joseph Gordon-Levitt e Sir Stephen Fry, il musicista will.i.am e il giornalista del Corriere della Sera Riccardo Luna.

L’iniziativa si presenta in modo lapidario: poche righe per affrontare una tematica ampia e complessa, un comunicato che sembra più che altro mirato a offrire un trampolino espositivo per il concetto di fondo. La preoccupazione del gruppo è che l’avvento ipotetico della superintelligenza artificiale (ASI) possa avere effetti disastrosi sulla vita delle persone: “dall’obsolescenza e dal depotenziamento dell’economia, alla perdita di libertà civili, dignità e controllo, fino ai rischi per la sicurezza nazionale e persino alla potenziale estinzione umana”. Per scongiurare a priori questo scenario, i firmatari si trovano a chiedere con un certo grado di allarmismo un intervento preventivo da parte dei governi di tutto il mondo.

Per comprendere la portata della richiesta del Future of Life Institute, è però necessario chiarire cosa si intenda per ASI. Secondo la definizione del gruppo, si tratta di tutti quei sistemi di IA che “superano significativamente gli esseri umani essenzialmente in tutti i compiti cognitivi”, una fase evolutiva ulteriore rispetto a quelle delle già avanzate intelligenze artificiali generali (AGI), le quali mirano a eguagliare le capacità della mente umana. Al momento, nessuna di queste due categorie di intelligenza artificiale appare alla portata della ricerca scientifica e vi sono seri dubbi sul fatto che l’attuale direzione tecnologica — quella dei grandi modelli di linguaggio — possa mai tradursi in forme di pensiero dotate della consapevolezza necessaria a eguagliare un cervello biologico.

La definizione stessa di intelligenza artificiale, del resto, rimane estremamente fumosa. Il termine nacque negli anni Cinquanta come trovata di marketing accademico per attrarre nuovi fondi alla ricerca; di conseguenza, anche concetti come AGI e ASI tendono a essere più strumenti narrativi che definizioni rigorose. Questi due orizzonti, apparentemente ancora lontani, diventano però più raggiungibili se si adotta la definizione offerta da OpenAI, azienda leader del settore, secondo cui l’intelligenza artificiale generale sarà raggiunta quando un sistema di IA sarà “in grado di generare un profitto di 100 miliardi di dollari”. Una prospettiva che, tuttavia, potrebbe essere viziata dal fatto che i gravosi legami contrattuali tra OpenAI e Microsoft verranno meno solo al raggiungimento dell’AGI.

Ammesso che le preoccupazioni del Future of Life Institute siano avanzate con le migliori intenzioni, queste appaiono comunque premature, se non addirittura fuorvianti. L’organizzazione era già stata protagonista nel 2023 di una lettera in cui chiedeva di sospendere la ricerca su strumenti più potenti dei modelli di IA allora disponibili, così da evitare “rischi esistenziali” dai toni fantascientifici. Anche in quel caso, l’iniziativa era stata criticata per aver spostato l’attenzione dai problemi già concreti a prospettive remote e inverosimili, alimentando paure irrazionali più che un dibattito costruttivo. Questo nuovo appello rischia quindi di replicare la medesima formula: dare spazio a un sostegno pubblico di facciata a scapito di quegli interventi immediati che sarebbero invece necessari.

Sudan, droni sull’aeroporto di Khartoum: rimandata l’apertura

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L’aeroporto di Khartoum, capitale del Sudan è stato oggetto di attacchi con droni che hanno costretto le autorità a rimandarne la riapertura. La struttura doveva riaprire oggi. Gli attacchi sono stati scagliati dai ribelli delle Forze di Supporto Rapido (RSF) sia ieri che oggi, e si collocano sulla scia di un conflitto per il controllo dell’infrastruttura che va avanti sin dallo scoppio della guerra civile nel 2023. La capitale è a tempo teatro di una dura battaglia tra i le RSF e l’esercito regolare; dopo essere passata nelle mani dei ribelli, è stata riconquistata dal governo all’inizio del 2025.

La Camorra gestiva una squadra di calcio: la Juve Stabia in amministrazione giudiziaria

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Un’importante squadra di calcio di Serie B, la Juve Stabia, sarebbe controllata dalla Camorra napoletana. Per questo motivo, su proposta congiunta del Procuratore nazionale antimafia, del Procuratore di Napoli e del questore della città partenopea, il Tribunale ha emesso un provvedimento che ha posto la società campana in amministrazione giudiziaria. Come riporta una nota della Polizia, infatti, le indagini hanno permesso di accertare «un sistema di condizionamento mafioso dell’attività economica della società calcistica da parte del clan camorristico D’Alessandro, egemone nel territorio stabiese», che vedeva in capo a persone direttamente collegate al clan la gestione di numerosi servizi connessi allo svolgimento delle competizioni sportive del club.

«L’attuale proprietà della società calcistica è subentrata in relazioni economiche di antica data, che sin dall’origine si sono rivelate sottoposte al condizionamento mafioso e rispetto alle quali non si è dotata di adeguati meccanismi di controllo e prevenzione – si legge nel comunicato diramato dalle forze dell’ordine –. Questa gestione ha avuto particolari ripercussioni nel nevralgico settore della sicurezza e della gestione degli steward, dove l’assenza di strumenti di verifica e garanzia ai quali è affidato il servizio, ha condizionato la gestione, anche sotto il profilo dell’ordine pubblico, degli eventi sportivi». L’influenza criminale, che si configura, secondo il questore di Napoli, come «un oggettivo sistema di condizionamento mafioso dell’attività economica della società», veniva esercitata anche nei settori della bouvetteria, delle pulizie, dei servizi sanitari, e, fino all’anno scorso, del trasporto della prima squadra. Inoltre, i controlli effettuati presso il servizio di biglietteria hanno evidenziato «la presenza di punti vendita compromessi nei quali venivano rilasciati biglietti con dati anagrafici alterati, per consentire l’accesso allo stadio a persone pregiudicate e colpite da Daspo, molti dei quali vicini al clan D’Alessandro».

È emersa poi la diffusa infiltrazione da parte del medesimo clan camorristico nella tifoseria organizzata locale. Assai eloquente l’episodio avvenuto il 29 maggio 2025, quando, in occasione dell’evento di celebrazione dell’ottima stagione della squadra, i membri dei tre gruppi ultras della tifoseria, «alcuni dei quali colpiti da Daspo e con profili criminali», si sono «proposti pubblicamente sul palco con i vertici della società, autorità civili e istituzioni pubbliche». Secondo il collaboratore di giustizia Pasquale Rapicano, inoltre, il clan D’Alessandro controllerebbe anche il settore delle ambulanze presso lo stadio. Anche il settore giovanile del club è risultato controllato da personaggi legati alla Camorra. In questo caso, parla da sola una circostanza emblematica: durante un colloquio in carcere tra l’esponente del clan Cesarano Silverio Onorato, recluso al 41-bis, e suo figlio, che puntava a un posto da titolare, gli avrebbe detto di recarsi dal team manager del club Pino di Maio e dirgli di essere «il figlio di Silverio Onorato».

«La Juve Stabia era diventata un mezzo della Camorra per farsi pubblicità e gestire il potere – ha dichiarato il Procuratore di Napoli Nicola Gratteri –. Erano presenti in tutti i servizi, era un pacchetto completo: i calciatori dovevano solo giocare, al resto pensava la Camorra». Gli ha fatto eco il Procuratore Nazionale Antimafia Giovanni Melillo, che ha spiegato come tutta la rete di servizi fosse «sottoposta al condizionamento dei clan per indifferenza, sottovalutazione e connivenza». Il prefetto di Napoli, Michele di Bari, ha confermato essere sul tavolo «la possibilità che alcune delle prossime gare della Juve Stabia possano essere rinviate» al fine di permettere alla nuova gestione della società di riorganizzare servizi essenziali come la sicurezza e il ticketing, fortemente inquinati dalle infiltrazioni dei clan.

Non è il primo caso in cui si delinea uno scenario simile per un club calcistico negli ultimi mesi. A settembre, il Tribunale di Catanzaro ha disposto l’amministrazione giudiziaria per un anno nei confronti del Crotone, che attualmente milita nel girone C della Serie C. La DDA ha infatti evidenziato come siano emersi «sufficienti indizi» per ritenere che l’attività economica del club, «compresa quella di carattere imprenditoriale», sia stata «sottoposta, nel corso dell’ultimo decennio, direttamente o quantomeno indirettamente a condizioni di intimidazione e assoggettamento ad opera di esponenti di locali cosche di ‘ndrangheta». A maggio, il tribunale di Bari aveva disposto l’amministrazione giudiziaria per la società calcistica del Foggia, sempre in Serie C, mirando a tutelare i dirigenti dell’azienda dalle influenze mafiose. Secondo quanto attestato dalle indagini, infatti, un gruppo di ultras collegato ai clan locali avrebbe esercitato intimidazioni sulla società per vedersi garantita la gestione delle sponsorizzazioni e degli accrediti per l’ingresso alle partite.

Belgrado, spari davanti al Parlamento: un ferito grave

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Stamane si sono verificati spari davanti al parlamento di Belgrado, capitale della Serbia, dove da mesi alcuni studenti protestano accampati in tende: un uomo ha aperto il fuoco ferendo gravemente una persona, poi ha appiccato un incendio nell’area prima di essere arrestato. Lo ha reso noto il ministro della Sanità Zlatibor Loncar, precisando che solo per caso non si contano altre vittime, dato che l’aggressore ha esploso diversi colpi. Il presidente serbo Aleksandar Vucic ha definito l’attacco un «grave atto terroristico» e ha annunciato un intervento pubblico sull’accaduto, lasciando una cerimonia ufficiale al Palazzo Serbia.

Su 135 salme di palestinesi restituite da Israele ci sono evidenti segni di tortura

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Mani legate, piedi serrati da fascette, corde al collo, occhi bendati. All’ospedale Nasser di Khan Younis le sacche bianche arrivano una dopo l’altra. Dentro ci sono corpi gonfi, anneriti, rigidi per il gelo delle celle israeliane. 135 salme di palestinesi restituite da Israele, parte dello scambio con i resti degli ostaggi israeliani. Molte sono irriconoscibili. I medici cercano di identificare i corpi dai denti, da un tatuaggio, da un pezzo di stoffa rimasto addosso. Su quasi tutti ci sono segni di violenza. La maggior parte proviene da Sde Teiman, la base militare nel deserto del Negev trasformata in campo di prigionia. È lì che, secondo i funzionari di Gaza, molti detenuti sarebbero stati torturati e uccisi prima di essere consegnati come corpi senza nome.

Le immagini diffuse da Gaza mostrano ciò che resta dei prigionieri palestinesi: volti sfigurati, arti fratturati, corpi legati. I medici legali dell’ospedale Nasser parlano di “segni compatibili con torture e soffocamento”. Le sigle “S.T.” sui cartellini di molte salme indicano la provenienza da Sde Teiman, la base israeliana riconvertita nel 2023 in un centro di detenzione per “combattenti illegali”. L’“Abu Ghraib israeliana”, come l’hanno ribattezzata gli attivisti dei diritti umani. In quella struttura, gestita sotto legge marziale, non servono accuse né processo per essere rinchiusi. Le inchieste descrivono Sde Teiman come un luogo dove i detenuti vengono bendati, incatenati e picchiati regolarmente, persino trattenuti in gabbie. Alcuni raccontano di scosse elettriche e privazioni di cibo e sonno. La struttura è circondata dal silenzio dell’esercito israeliano, che la gestisce come una zona militare interdetta.

A Khan Younis le famiglie arrivano con le foto dei loro cari scomparsi. Camminano fra i sacchi bianchi, cercano un segno, un anello, un dente riconoscibile. I camion frigoriferi che trasportano le salme sono gli stessi usati per il ghiaccio. Israele parla di scambi umanitari, ma le immagini raccontano altro: corpi torturati, informazioni cancellate, famiglie condannate a non conoscere il destino dei propri cari, senza un corpo da piangere. Tel Aviv ha consegnato 153 spoglie, ma solo 135 appartengono a detenuti palestinesi. Di questi, appena sei avevano un nome. Due risultavano sbagliati. Gli altri restano anonimi. Alcuni corpi sono stati trovati in stato di decomposizione, coperti di sabbia, come se fossero stati riesumati da poco. Altri sembrano conservati a lungo nei frigoriferi militari. Tel Aviv li definisce “terroristi gazawi”, ma molte famiglie palestinesi dicono di aver riconosciuto civili arrestati mesi prima, spesso senza accuse. Nei giorni scorsi era circolata la notizia dell’esistenza di salme con del cotone al posto degli organi. L’indiscrezione non è stata confermata, ma la voce, nei reparti del Nasser, continua a circolare. Sde Teiman non è un’eccezione: è il volto più estremo di un sistema costruito sull’impunità. A dimostrazione che, oltre all’immane massacro a Gaza, il teatro delle violenze, soprattutto quelle non visibili, abbia ampiezza e portata ancora più tragica.

Le denunce di abusi nelle carceri israeliane non sono nuove. Le condizioni di detenzione dei palestinesi nelle prigioni israeliane sono note: pestaggi, torture, isolamento, umiliazioni quotidiane, privazione di cure mediche e visite. Il rapporto 2024 di Physicians for Human Rights Israel denunciava un aumento massiccio delle detenzioni palestinesi dopo il 7 ottobre e la trasformazione delle carceri israeliane in luoghi di abuso sistematico. Il reportage del Public Committee Against Torture in Israel segnalato dal New Yorker mostra che migliaia di palestinesi arrestati dopo il 7 ottobre sono detenuti in carceri israeliane con sovraffollamento estremo, isolamento, restrizioni legali e “abusi sistematici” da parte del personale penitenziario. Un rapporto dell’ONG israeliana B’Tselem ha confermato le violenze: prigionieri senza processo, aggressioni sessuali, torture fisiche e psicologiche. Il report ha preso forma dando voce alle testimonianze di 55 persone palestinesi che hanno vissuto un’esperienza detentiva all’interno delle carceri dello Stato Ebraico – la stragrande maggioranza senza accuse a carico e senza aver subito alcun processo – per poi essere rilasciati. La maggior parte dei palestinesi incarcerati, infatti, non ha accesso a un avvocato né a cure mediche adeguate. E mentre da Gaza arrivano nuove prove di violazioni dei diritti umani, le cancellerie occidentali tacciono. La morte, in questa guerra, non è solo sui fronti o sotto le macerie. È anche nei sotterranei del Negev, nelle celle dove i detenuti spariscono senza nome. Le salme restituite sono il referto di una violenza che il mondo continua a non voler vedere. Gaza, ancora una volta, paga con i corpi dei suoi figli il prezzo dell’impunità.

L’elezione di Sanae Takaichi proietta il Giappone in una nuova fase storica

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Con 237 voti su 465 nella Camera Bassa del Parlamento, solo quattro in più per raggiungere la maggioranza assoluta, la leader del Partito Liberal Democratico (PLD) Sanae Takaichi è la nuova prima ministra del Giappone. Il suo nome, già noto tra l’élite del partito e della politica giapponese, è tornato a catturare l’attenzione mediatica in seguito alle dimissioni presentate dall’ex premier Shigeru Ishiba nel settembre del 2025. La sconfitta alle elezioni per il Senato, la successiva perdita della maggioranza nella Camera alta e il malcontento espresso dalla società dovuto al rialzo dell’inflazione e del costo della vita hanno portato l’ex premier a rinunciare al suo incarico di presidente del partito e premier del Giappone. L’elezione di Takaichi segna un momento storico per l’arcipelago nipponico: non solo perché si tratta della prima donna a ricoprire il ruolo, ma soprattutto perché la sua elezione rompe lo status quo della politica giapponese e fa tornare in auge il militarismo nipponico, in un Paese che dovette rinunciare ad avere un esercito militarmente forte dopo la II Guerra mondiale e che ora vuole partecipare alla corsa globale al riarmo. 

I sondaggi hanno rapidamente visto come favorita Takaichi, rivale di Ishiba e figura molto vicina allo storico leader del PLD, Shinzō Abe, ucciso da un attentatore durante un comizio del 2022. Oltre a rappresentare un momento inedito all’interno del partito, l’elezione della neoleader ha prodotto una scossa straordinaria negli equilibri di potere della politica giapponese. Il Partito Liberal Democratico, al governo quasi ininterrottamente dal 1955 e che attualmente vive una fase calante della sua storia politica, con Takaichi alla guida ha infatti visto l’immediata rottura delle sue relazioni politiche con l’altra storica parte della coalizione di governo, il partito di ispirazione buddista Kōmeitō

La spaccatura di una delle alleanze di partito più longeve della storia giapponese è chiaramente motivata dall’elezione di Sanae Takaichi; figura conservatrice fortemente legata al revisionismo nazionalista e militare del Giappone durante la Seconda Guerra mondiale, la nuova premier promette di riprendere uno dei progetti simbolo delle politiche di Abe, ovvero la modifica dell’articolo 9 della Costituzione giapponese. Secondo quest’articolo, imposto dagli Stati Uniti d’America nel 1946, il Paese rinuncia al diritto di belligeranza oltre che al mantenimento di un esercito militare. Seppur nel 1954 il Giappone si sia dotato di forze armate terrestri di «autodifesa», la tematica all’interno della società giapponese resta controversa, specialmente tra le fazioni revisioniste dei crimini di guerra commessi dai giapponesi in Asia e nel Pacifico. La reiterata visita di Takaichi al santuario Yasukuni (il luogo dove sono sepolti molti militari dell’Impero giapponese, tra cui alcuni condannati per crimini di guerra) e il piano di investire più del 2% del PIL in spese militari, ha fatto sì che il Kōmeitō, partito autodefinitosi più volte come “pacifista”, decidesse di sfilarsi dalla coalizione di governo nel caso in cui Takaichi fosse stata presentata come nuova premier.

A salvare l’accordo per la costituzione di un nuovo governo a guida PLD è stato l’Ishin, il Partito dell’Innovazione (JIP), che ha ottenuto da Takaichi, tra le altre cose, la promessa di ridurre i seggi della Dieta nazionale (il parlamento giapponese) del 10%, l’azzeramento delle tasse su alcuni prodotti alimentari e l’elevazione della città di Osaka a “vice-capitale” del Paese. La nuova alleanza non può che tenere conto dei risultati ottenuti negli ultimi mesi dal nuovo partito populista e di estrema destra Sanseitō: l’accordo può apparire anche come una mossa di contenimento nei confronti di una forza politica in grande ascesa, specialmente tra i giovani.

Nel programma politico della nuova premier spicca l’intenzione di attuare misure che possano da un lato tamponare rapidamente la crescita dell’inflazione, ma che dall’altro riescano a mantenere l’equilibrio con la pretesa degli aumenti nelle spese militari. A questo si aggiunge un netto interesse nel contrastare l’immigrazione irregolare, come si può osservare dalla creazione del “ministero incaricato per la Politica estera” responsabile della supervisione del sistema di immigrazione giapponese. Anche in questo caso, questa misura può essere vista come una strategia per rubare voti a Sanseitō su tematiche anti-immigrazione.

Seppure abbia espresso la volontà che il suo governo sia costituito almeno al 50% da donne, Takaichi ha manifestato più volte il suo rifiuto per l’utilizzo di quote rosa nel sistema lavorativo giapponese, oltre che dimostrarsi contraria al mantenimento del cognome femminile nelle coppie sposate, all’applicazione della legge salica, ovvero la possibilità per le donne di accedere al trono imperiale e al matrimonio ugualitario.

Se sul piano della politica interna la nuova premier avrà l’ostile compito di risanare un’economia in calo, anche in politica estera la missione risulta delicata. Takaichi ha già affermato l’intenzione di stringere alleanze con Taiwan e con gli Stati Uniti d’America in ottica anticinese, ma è proprio con i dazi di Donald Trump che il nuovo governo dovrà scendere a patti, specialmente dopo l’approvazione da parte dell’ex premier Ishiba di un accordo che prevede investimenti giapponesi pari a 550 miliardi di dollari negli Stati Uniti e l’applicazione di dazi al 15%. 

Appare evidente che la figura di Sanae Takaichi, ammiratrice di Margareth Thatcher ed ex batterista in una band metal, sembra poter rompere con il vicino passato del Partito Liberal Democratico. Nonostante il fermento politico scaturito da questa nuova elezione, è bene osservare come il futuro del partito resti comunque in bilico: la stagnazione economica, l’ascesa di formazioni come Sanseitō e la posizione geografica dell’arcipelago rischiano di rivelarsi un sassolino nella scarpa alle prossime elezioni, in un panorama politico che da anni risulta fortemente instabile.

Uganda, maxi incidente provoca oltre 60 morti

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Sessantatré persone hanno perso la vita in un grave incidente stradale avvenuto sull’autostrada Kampala-Gulu, in Uganda. Secondo la polizia, due autobus che procedevano in direzioni opposte si sono scontrati frontalmente mentre cercavano di sorpassare un camion e un’auto. Nel tentativo di evitare l’impatto, uno dei mezzi ha sterzato bruscamente, provocando una collisione multipla che ha coinvolto anche gli altri veicoli, ribaltatisi dopo lo scontro. Oltre alle vittime, numerosi passeggeri e altre persone sono rimasti feriti e sono stati trasportati in ospedale a Kiryandongo. La polizia ha avviato un’indagine per chiarire le cause dell’incidente.

Cosa contengono i risotti in busta e perché sono un cibo da evitare

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I risotti in busta sono dei prodotti precotti e quasi pronti al consumo, presenti in tutti i supermercati e prodotti da tante aziende, comprese quelle a marchio del supermercato. Rispondono alle logiche della vita moderna dove “non si ha tempo” di cucinare e preparare i pasti in casa a partire da ingredienti di base freschi e genuini, quindi sono prodotti pratici per consumatori che vanno sempre di fretta. Ma va detto che sono considerati prodotti industriali appartenenti alla categoria dei cibi ultra-processati e gli studiosi di salute pubblica e prevenzione ci dicono che questo genere di alimenti pronti potrebbero non essere salutari a causa della presenza di svariati additivi e sostanze che possono alterare la flora batterica intestinale, causare problemi come iperglicemia, insulino-resistenza e aumento di peso.

Perché vengono considerati poco salutari?

I risotti in busta sono preparazioni a base di riso che vengono confezionate in buste, pronte per essere cucinate in pochi minuti. Solitamente contengono riso e altri ingredienti disidratati e, in alcuni casi, anche altri ingredienti come verdure, carne o pesce. Analogamente ad altri prodotti industriali, contengono additivi e conservanti che possono avere effetti negativi sulla salute. Tra questi: 

  • alterazione della flora batterica intestinale: gli additivi possono alterare l’equilibrio dei batteri buoni nell’intestino, favorendo lo sviluppo di batteri meno benefici;
  • iperglicemia e insulino-resistenza: alcuni additivi possono influenzare la risposta del corpo all’insulina, aumentando il rischio di iperglicemia e insulino-resistenza;
  • aumento di peso: alcuni ingredienti presenti nei risotti in busta, come grassi di bassa qualità e zuccheri aggiunti, possono contribuire all’aumento di peso.

Insidie per i celiaci o persone intolleranti al glutine

Alcune buste di risotti fra i più commerciali presenti al supermercato contengono persino della farina di frumento al loro interno, e dunque del glutine. Si tratta di un vero paradosso, dal momento che il riso è un cereale di per sé naturalmente privo di glutine (la proteina del grano). Un consumatore poco attento potrebbe acquistare queste buste sentendosi tranquillo e pensando di mangiare in fondo solo del riso. In realtà i prodotti più industriali e scadenti contengono sia frumento (quindi il glutine) che molti altri additivi e sostanze poco raccomandabili come: maltodestrine (zuccheri), amidi, zucchero, estratto di lievito (insaporitore), lattosio, estratto di soia, olio di semi di girasole, proteine del latte, sciroppo di glucosio, conservanti come i nitriti. Tutto ciò comporta che questi prodotti siano da considerare in tutto e per tutto parte dei cibi ultra-processati, che – come spiegato su L’Indipendente in un approfondimento – sono da considerare sempre insalubri e da consumare meno possibile.

Cosa fare per scegliere risotti più sani?

Per scegliere risotti più sani si consiglia di:

  • leggere attentamente le etichette: controllare la lista degli ingredienti e scegliere prodotti con pochi additivi e conservanti. Oggi alcune aziende producono risotti in busta che sono di buona qualità, contenenti solo riso, olio extravergine di oliva e sale;
  • Preparare il risotto in casa: cucinare il risotto da zero permette di controllare tutti gli ingredienti e scegliere riso di alta qualità.