mercoledì 3 Dicembre 2025
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“Decreto incostituzionale”: il GIP manda alla Consulta la legge sugli appalti per Cortina ’26

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La giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano Patrizia Nobile ha rinviato alla Corte Costituzionale il decreto legge con il quale il Governo ha qualificato la Fondazione Milano-Cortina 2026 come un ente di diritto privato. Nel farlo, la giudice ha accolto in parte la richiesta della Procura di Milano nell’ambito di un fascicolo riguardante un’inchiesta contro l’ex AD Vincenzo Novari, l’ex dirigente Massimiliano Zuco e altre cinque persone; gli indagati erano incaricati dei servizi digitali per i Giochi ed erano accusati di corruzione e turbativa d’asta. La qualifica della Fondazione come ente di diritto privato, però, esclude di fatto le ipotesi di reato perché comporta che le attività della Fondazione non siano disciplinate dalle norme del diritto pubblico. Secondo la gip, la presunta natura privata della Fondazione sarebbe «costituzionalmente illegittima» poiché essa presenterebbe tutti i requisiti fondamentali per essere definita pubblica. Il Governo avrebbe dunque agito «in violazione» delle direttive UE in materia di appalti pubblici.

La scelta della gip è stata resa nota oggi, giovedì 6 novembre. Con essa, la giudice accoglie in parte la richiesta della procura milanese che lo scorso aprile aveva chiesto l’archiviazione delle indagini per turbativa d’asta a carico dei sette indagati, sollevando tuttavia questioni di legittimità costituzionale. La gip sostiene che la Fondazione risponda a tutti i requisiti per essere definita un ente di diritto pubblico. Questi sono stabiliti dalla direttiva UE 2014/24, e recepiti dall’Italia dal Codice degli Appalti. I requisiti per qualificare una realtà come ente di diritto pubblico sono tre, e devono presentarsi tutti insieme: avere un interesse generale; essere dotati di personalità giuridica; essere finanziati per la maggior parte da autorità pubbliche, o gestiti da membri nominati dallo Stato. I criteri, insomma, ci sarebbero tutti. La qualifica come ente di diritto privato sarebbe dunque da considerarsi «costituzionalmente illegittima», poiché viola i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» e dagli «obblighi internazionali».

Definire la Fondazione Milano-Cortina un ente di diritto privato ha avuto un effetto a cascata sulle indagini per corruzione e turbativa d’asta aperte dalla Procura di Milano nei confronti degli incaricati dei servizi digitali per i Giochi. Secondo quanto si è letto nelle carte dell’indagine, al fine di «favorire l’affidamento delle gare relative al cosiddetto ecosistema digitale» alla Vetrya (ora Quibyt), società di Orvieto cui sono stati assegnati i servizi digitali, Novari e Zuco avrebbero ottenuto dal rappresentante legale della società che si aggiudicò gli appalti, Luca Tomassini, «somme di denaro e altre utilità». Tali gare sarebbero state assegnate alla società con fatture emesse per i lavori «da parte di Vetrya e Quibyt», amministrate entrambe da Tomassini, e pagate «per importi complessivamente non inferiori» a quasi 1,9 milioni di euro dalla Fondazione. Se si accetta di considerare la Fondazione come un ente privato, non sussistono più i margini per i reati ipotizzati, perché essa non sarebbe tenuta a rispondere agli obblighi degli enti di diritto pubblico. Con la pronuncia di oggi, la gip ha rinviato la questione alla Corte Costituzionale, che dovrà esprimersi sulla vicenda; se dare ragione alla gip, aprirebbe nuovamente l’inchiesta.

La società civile sfida il governo sulla politica sulle droghe

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Pretendere di fare la “guerra alla droga” arrestando i consumatori, è come pensare di sconfiggere l’obesità arrestando le persone che mangiano troppo: un fallimento annunciato. È quanto sostengono da tempo i movimenti antiproibizionisti, che si sono dati appuntamento a Roma, dal 6 al 9 novembre, per ribattere punto su punto alla Conferenza sulle droghe organizzata negli stessi giorni dal governo Meloni. D’altra parte, fanno notare, l’uso di stupefacenti è presente nelle società umane dalla notte dei tempi, in tutte le società, ecco perché la pretesa di eliminare le droghe dalla società e criminalizzare i consumatori è buona solo per la propaganda politica, ma si rivela controproducente nella pratica. Quello che chiedono è che la politica produca norme, iniziando a inquadrare la questione dal punto di vista sociale, sanitario e dei diritti umani

È quello che l’Onu chiede da tempo, da quando a livello internazionale l’approccio proibizionista ha iniziato a perdere consenso. Nel giugno del 2022, in occasione della Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico di droga, l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR) rilasciò una lunga dichiarazione per chiedere di porre fine alla cosiddetta “guerra alla droga” e a promuovere politiche antidroga saldamente ancorate ai diritti umani. I dati e l’esperienza accumulati dagli esperti delle Nazioni Unite hanno dimostrato che la guerra alla droga mina la salute e il benessere sociale e spreca risorse pubbliche senza riuscire a sradicare la domanda di droghe illegali e il mercato delle droghe illegali. Peggio ancora, questa “guerra” ha generato in molti casi narcoeconomie a livello locale, nazionale e regionale, a scapito dello sviluppo nazionale”. In un importante studio pubblicato nel 2021, la stessa agenzia ha rilevato che la “guerra alla droga” ha portato all’incarcerazione di massa attraverso il profiling razziale, le leggi e le procedure di perquisizione e sequestro, l’eccessiva detenzione preventiva, le condanne sproporzionate e la criminalizzazione delle persone che fanno uso di droghe.

Nel settembre 2023, sempre l’OHCHR ha pubblicato uno storico rapporto mettendo in evidenza che la guerra alla droga, è innanzitutto una guerra contro le persone che la utilizzano. Nel 2024 l’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani Volker Türk, ha sottolineato la necessità di un cambiamento di approccio che dia priorità alla salute, alla dignità e all’inclusione: «La criminalizzazione e il proibizionismo non sono riusciti a ridurre l’uso di droga e non sono riusciti a scoraggiare i crimini correlati alla droga. Queste politiche semplicemente non funzionano e stiamo deludendo alcuni dei gruppi più vulnerabili delle nostre società». Ad aprile 2024, durante la 67essima sessione dei lavori della Commission on Narcotics Drug, per la prima volta nella storia la riduzione del danno viene inserita in una risoluzione approvata dalla Commissione stupefacenti dell’Onu.

Eppure l’impostazione che quasi tutto l’Occidente mantiene, è proprio quello della war on drugs lanciata da Nixon nel 1971, quando, con la necessità di compattare le fila dei suoi elettori, identificò negli stupefacenti il nemico numero uno della Nazione. Ecco perché in Italia, dopo che il governo ha convocato la Conferenza nazionale sulle dipendenze per i prossimi 7 e 8 novembre, è stata lanciata, dal basso, una contro-conferenza con appuntamenti previsti per il 6, il 7 e l’8 novembre, quando la Million Marijuana March, storica parata antiproibizionista, tornerà per le strade di Roma dopo la sfilata di aprile, nata per contestare le norme del decreto Sicurezza. «Sulle droghe abbiamo un piano. Fermiamo la guerra alla droga, contro il governo della paura garantiamo diritti civili e sociali» è lo slogan della manifestazione che vede impegnate diverse associazioni promotrici come A Buon Diritto, ARCI, Antigone, Associazione Luca Coscioni, CGIL, CNCA, Forum Droghe, Gruppo Abele, LILA, Meglio Legale, Milion Marijuana March e altri.

«Il 7 e 8 novembre è stata annunciata la Conferenza Nazionale governativa sulle Droghe. Il copione appare già scritto dalle norme repressive approvate da questo governo: dal decreto anti-rave, al decreto anti-giovani (cosiddetto Caivano) che ha riempito di minori le carceri, sino alle norme che trasformano il codice stradale in una legge che criminalizza ulteriormente i consumatori di droghe. Il Decreto Sicurezza che viola, infine, la Costituzione restringendo le libertà individuali e per pura ideologia assimila una sostanza senza effetti psicoattivi, come la cannabis light, alle sostanze psicotrope vietate», raccontano spiegando che: «Nel solco di questa storia già scritta, il Governo ha escluso, nella preparazione alla Conferenza Nazionale, tutte le organizzazioni della società civile esperta e delle Persone che Usano Droghe (PUD). Una scelta che segna una sostanziale differenza con la precedente Conferenza Nazionale del 2021 che aprì il confronto a tutti, approvando documenti innovativi per le politiche sulle droghe ed elaborando il Piano Nazionale sulle Droghe, non a caso ignorato dal governo Meloni». E quindi la volontà è quella di proporre «la nostra strategia e le pratiche necessarie per porre fine alla guerra alle droghe e alle persone che le usano, alle discriminazioni sociali, al razzismo istituzionale e allo stigma, e promuovere politiche attive rispettose delle conoscenze, delle esperienze, dei diritti e della salute».

Il programma è vasto e articolato. Si parte oggi, 6 novembre, con la prima sessione plenaria dalle 17.30, presso la Città dell’altra economia. Si continua il venerdì 7 a partire dalle 9, con dibattiti e convegni. E si continuerà anche l’8 fino alle 14, ora in cui è previsto il ritrovo per la partenza della Million Marijuana March da piazza Ugo La Malfa.

USA, a ottobre licenziamenti record: oltre 150mila

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Nel mese di ottobre, le aziende statunitensi hanno eliminato oltre 150.000 posti di lavoro, registrando la maggiore ondata di licenziamenti da oltre vent’anni, secondo il rapporto della società di outplacement Challenger, Gray & Christmas. Il settore tecnologico è risultato il più colpito, seguito da commercio al dettaglio e servizi. Le motivazioni principali dei tagli riguardano la riduzione dei costi e l’adozione di tecnologie basate sull’intelligenza artificiale, che stanno trasformando i modelli produttivi. Per il 2025, il rapporto individua come causa prevalente dei licenziamenti il cosiddetto effetto “DOGE Impact”, legato a ulteriori ristrutturazioni aziendali.

Spinetta Marengo, vittoria dei cittadini: l’ex Solvay dovrà pubblicare i dati sugli inquinanti

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Una sentenza storica del Tar Piemonte ha sancito il diritto dei cittadini di conoscere i dati completi sulle emissioni inquinanti dello stabilimento Syensqo (ex Solvay) di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria. Il tribunale amministrativo ha dato ragione al Circolo Legambiente Ovadese Valli Stura e Orba, condannando la provincia di Alessandria e la società a rendere pubblici entro 20 giorni tutti i documenti finora secretati con la giustificazione del segreto industriale. La sentenza rappresenta una svolta nella lunga battaglia per la trasparenza ambientale nell’area, dove persiste una delle più gravi emergenze ambientali italiane legata alla presenza di Pfas e altre sostanze pericolose.

Il ricorso era stato presentato dopo che il 20 giugno scorso la direzione ambiente della provincia piemontese aveva respinto la richiesta di accesso agli atti formulata dal Circolo Legambiente. Sul sito della provincia la documentazione relativa all’autorizzazione integrata ambientale – il cui rinnovo era stato chiesto dalla società Solvay Specialty Polymers Italy – era stata pubblicata con importanti omissis riferiti ai dati sulle emissioni. Gli avvocati dell’azienda avevano sostenuto che a giustificazione del riserbo ci sarebbero «ragioni di riservatezza industriale, commerciale e di tutela della proprietà intellettuale», posizione condivisa dalla provincia.

La seconda sezione del Tar del Piemonte ha invece completamente ribaltato questa impostazione, applicando i principi della direttiva europea del 2003 in materia ambientale che sancisce «il principio di massima conoscibilità e trasparenza di tutte le informazioni relative alla materia ambientale». I giudici hanno stabilito che «né la tutela della riservatezza delle informazioni commerciali o industriali, né quella accordata ai dati personali o riguardanti una persona fisica, né la protezione garantita alla proprietà intellettuale possono paralizzare la richiesta di accesso alle informazioni relative alle emissioni nell’ambiente dello stabilimento». Michela Sericano, presidente del Comitato che ha vinto il ricorso, commenta: «Si tratta di un passo importante per contrastare l’atteggiamento colonialista di Solvay-Syensqo nei confronti dei cittadini che da anni si battono per impedire la prosecuzione dagli inquinamenti di ogni tipo (Pfas, ma non solo) generati da questo polo chimico».

Il polo chimico di Spinetta Marengo è da anni al centro di emergenze ambientali riconducibili a PFAS, cromo esavalente e altri contaminanti. Le analisi pubbliche e indipendenti hanno rilevato Pfas nelle falde, nei terreni e in prodotti locali, e studi hanno identificato tracce nei sangue di residenti e lavoratori. Sta proseguendo inoltre il processo penale per disastro ambientale che vede coinvolta l’azienda e due ex direttori dello stabilimento, con la prossima udienza fissata al 12 marzo 2026. L’inchiesta ha accelerato significativamente nel febbraio 2021, quando il NOE condusse una vasta operazione di perquisizione presso lo stabilimento. Azioni che, nell’agosto 2023, portano le autorità giudiziarie a disporre il sequestro preventivo di due discariche di gessi appartenenti al gruppo Solvay. Secondo gli inquirenti, queste strutture — che avrebbero dovuto essere dismesse — erano state illegalmente rimesse in funzione. Poi, nel 2024, la Provincia di Alessandria ha emesso due diffide ufficiali nei confronti di Solvay, imponendo all’azienda di rispettare rigorosamente i limiti per gli scarichi di PFAS e ordinando la sospensione delle attività produttive per 30 giorni.

Nel frattempo, la Regione Piemonte ha avviato un biomonitoraggio su 414 volontari residenti entro i 3 chilometri dal polo chimico alessandrino, e dalla ricerca è emerso che circa l’87,2% delle persone riporta nel sangue concentrazioni di Pfas tra 2 e 20 ng/ml, superiori quindi al limite di 2 ng/ml; circa l’8,9% presenta una concentrazione di Pfas maggiori di 20 ng/ml, 10 volte la soglia di 2 ng/ml. Insomma, oltre il 96% della popolazione sottoposta al monitoraggio registra nel sangue valori di inquinanti Pfas potenzialmente dannosi per la salute.

“Chi non vota muore prima”: il paradossale studio che trova spazio sui media mainstream

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“Rischio morte più alto per chi non va a votare”, “Chi non vota muore prima”, “Astensionismo e rischio di morte”. In poche ore, questi titoli hanno invaso agenzie di stampa, siti di informazione e sono rimbalzati sui social network, imponendo un messaggio tanto netto quanto infondato: non votare accorcerebbe la vita. Tutto nasce da uno studio osservazionale condotto in Finlandia, che analizza dati statistici, ma che non consente in alcun modo di stabilire un rapporto di causa-effetto tra astensione e mortalità. Eppure, nel passaggio dai numeri di un’osservazione statistica alla narrazione giornalistica, la prudenza è svanita, lasciando spazio al sensazionalismo. La complessità della ricerca si è ridotta a slogan moralistici, trasformandosi in un verdetto esistenziale.

La ricerca, pubblicata sul Journal of Epidemiology & Community Health, ha esaminato l’intero elettorato finlandese delle elezioni parlamentari del 1999, composto da cittadini con più di trent’anni, seguendone la sopravvivenza fino al 2020. In totale, circa 3,18 milioni di persone – 1,51 milioni di uomini e 1,68 milioni di donne – sono state seguite per oltre vent’anni, dal giorno del voto fino al 2020. L’obiettivo era verificare se esistesse una relazione tra la partecipazione elettorale e la sopravvivenza nel lungo periodo. I risultati hanno mostrato che chi non aveva votato nel 1999 presentava un rischio di morte più alto: circa il 73% in più per gli uomini e il 63% per le donne rispetto a chi aveva votato. Anche dopo aver corretto i dati per livello d’istruzione – un indicatore spesso correlato alla salute e allo status socioeconomico – la differenza restava marcata, attestandosi su un incremento di mortalità del 64% negli uomini e del 59% nelle donne. Gli autori hanno sottolineato come la distanza tra votanti e non votanti fosse persino maggiore di quella riscontrata tra persone con basso livello di istruzione e laureati, ipotizzando che il comportamento elettorale possa riflettere un diverso grado di “capitale sociale”, ovvero di partecipazione e integrazione nella vita comunitaria. Siamo, però, nel campo delle speculazioni: lo studio è di natura puramente osservazionale e gli stessi ricercatori mettono in guardia da interpretazioni eccessive: «Una limitazione di questo studio è che non può distinguere in modo adeguato la direzione del rapporto di causalità tra lo stato di salute e il rischio di morte». Il fatto che chi non vota muoia più spesso non significa che l’astensionismo causi la morte, come invece alcuni media italiani hanno lasciato intendere. L’ipotesi di fondo è che è i soggetti in condizioni di salute peggiori, più isolati o socialmente vulnerabili, tendano anche a partecipare meno alla vita politica. La correlazione, quindi, riflette uno squilibrio sociale e sanitario preesistente, non un legame diretto tra voto e longevità.

Gli autori stessi riconoscono i limiti metodologici e l’impossibilità di trarre conclusioni di tipo causale dal loro lavoro, invitando a non interpretare i risultati come prova che l’astensionismo “causi” una maggiore mortalità: «Futuri studi longitudinali, che includano misurazioni ripetute della partecipazione a più elezioni e dello stato di salute, potrebbero stabilire meglio eventuali associazioni causali e ridurre l’incertezza nell’individuare abitudini di voto stabili», scrivono. Lo studio, semmai, osserva che le persone più vulnerabili, socialmente o fisicamente, votano di meno: «Alcuni individui possono incontrare ostacoli che impediscono loro di votare o scegliere di non farlo in una determinata elezione». Una distinzione essenziale che, però, è andata perduta nelle versioni diffuse da agenzia di stampa e da testate italiane, da Agi ad Adnkronos fino al Quotidiano Nazionale, con titoli che trasformano una correlazione in un destino biologico. Il cortocircuito comunicativo nasce qui: una ricerca descrittiva diventa, per effetto di titoli sensazionalistici e sintesi superficiali, un dogma sociologico. Il problema non è lo studio in sé, che ha un suo valore accademico e propone una riflessione interessante sul legame tra capitale sociale e salute, quanto la sua traduzione giornalistica, che semplifica fino all’assurdo, diventando la formula perfetta per le prime pagine e per acchiappare click.

“Tregua a Gaza: narrazione e realtà”: il nuovo numero del mensile de L’Indipendente

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È da oggi disponibile il nuovo numero del mensile de L’Indipendente, la rivista rilegata e da conservare al cui interno troverete 80 pagine di contenuti esclusivi, tra inchieste e approfondimenti riguardanti ambiente, diritti, consumo critico e molto altro. Notizie che non troverete altrove, perchè noi non ospitiamo pubblicità e non siamo dunque influenzabili da poteri politici e interessi economici, come accade per la maggior parte degli altri mezzi di informazione. Questo mese, la nostra inchiesta di copertina mette nero su bianco i numeri della distruzione prodotta dall’aggressione militare di Israele in Palestina, tra la devastazione a Gaza e l’assalto senza precedenti in Cisgiordania. E anche grazie al racconto della realtà dei combattimenti in corso a Gaza svela una verità scomoda e inconfessabile: in due anni, nonostante tutto, Israele ha fallito nel suo obiettivo di sconfiggere Hamas.

Il mensile de L’Indipendente ha come sottotitolo i tre pilastri che ne definiscono la cifra giornalistica: inchieste, consumo critico, beni comuni. Ogni parola è stata scelta con cura, racchiudendo ciò che vogliamo fare e che, a differenza di altri media, possiamo fare, perché non abbiamo padroni, padrini o sponsor da compiacere.

Questi tre punti cardinali rappresentano il nostro impegno per il giornalismo che crediamo necessario: inchieste (per svelare i lati nascosti della politica e dell’economia), consumo critico (per vivere meglio, certo, ma anche per promuovere scelte consapevoli capaci di colpire gli interessi privilegiati) e beni comuni (perché la nostra missione è quella di leggere la realtà nell’interesse dei cittadini e non delle élite oligarchiche che controllano i media dominanti). Al suo interno ci saranno poi, naturalmente, approfondimenti sull’attualità e sui temi che caratterizzano da sempre la nostra agenda: esteri, geopolitica, ambiente, diritti sociali.

Questi sono solamente alcuni dei contenuti che potrete ritrovare nel nuovo numero:

  •  la mafia ucraina ingrassa la guerra – la guerra tra Mosca e Kiev ha trasformato la mafia ucraina, che ha saputo sfruttare il caos bellico per generare nuovi mercati, dal traffico dei renitenti alla leva al commercio di armi e droga per i soldati;
  • Sardegna: transizione verde o colonialismo energetico? – la popolazione sarda accusa lo Stato di colonialismo energetico e teme di vedere la propria terra trasformata ancora una volta per soddisfare le esigenze della Penisola, ma non dei sardi;
  • la via italiana agli psichedelici – l’Italia ha lanciato il suo primo studio clinico per il trattamento con psilocibina (il principio attivo dei funghi allucinogeni) dei pazienti con depressione resistente: un passo importante per superare i pregiudizi ed espandere le possibilità di cura per i pazienti;
  • le menzogne dell’industria agroalimentare sull’agricoltura biologica – spesso si sente dire che l’agricoltura biologica rappresenti un’utopia irrealizzabile su larga scala, ma si tratta di menzogne diffuse da chi trae profitto dalla Grande Distribuzione.

Il nuovo numero del mensile de L’Indipendente è acquistabile (in formato cartaceo o digitale) sul nostro shop online, ed è disponibile anche tramite il nuovo abbonamento esclusivo alla rivista, con il quale potreste ricevere la versione cartacea a casa ogni mese per un anno al prezzo di 90 euro, spese di spedizione incluse. Per consultare le modalità dell’abbonamento ed, eventualmente, sottoscriverlo potete cliccare qui: lindipendente.online/abbonamenti.

Roma, è morta l’ex brigatista Anna Laura Braghetti

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È morta a 72 anni, dopo una lunga malattia, Anna Laura Braghetti, ex militante della colonna romana delle Brigate Rosse e figura chiave del sequestro di Aldo Moro. Fu lei ad affittare e abitare l’appartamento di via Montalcini, a Roma, dove il presidente della Democrazia Cristiana fu tenuto prigioniero per 55 giorni nel 1978. Dopo la morte di Moro, Braghetti partecipò a diverse azioni armate, tra cui l’uccisione dei poliziotti Antonio Mea e Piero Ollanu e dell’allora vicepresidente del CSM Vittorio Bachelet. I funerali si terranno in forma privata, come comunicato dalla famiglia.

A Tulkarem, tra i 40.000 palestinesi a cui Israele impedisce di tornare a casa da 9 mesi

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TULKAREM – Palestina occupata. «La mia casa è stata completamente demolita, e non me l’hanno nemmeno detto. Non ho potuto recuperare nulla», dice Amira a L’Indipendente, mentre decine di persone del campo profughi di Nur Shams si radunano nell’area di Jabal al-Nasr per iniziare la protesta in direzione del campo profughi, sgomberato e occupato dai militari israeliani da inizio febbraio. È mezzogiorno del 5 novembre, l’ora che molti residenti si sono dati per incontrarsi e tornare a pretendere i propri diritti. «Sono qui per stare con la mia gente, per lottare insieme affinché possano tornare alle proprie case. Molte abitazioni sono state distrutte, ma altre no, e le persone non possono permettersi di pagare l’affitto, l’acqua, l’elettricità. Vogliamo tornare a casa».

Nur Shams è uno dei due campi profughi di Tulkarem, nel nord della Cisgiordania occupata. Dal 27 gennaio l’esercito israeliano ha cominciato una violenta aggressione ai campi profughi della città, obbligando decine di migliaia di persone a lasciare le proprie case, in quella che Israele ha dichiarato essere un’operazione antiterrorismo che doveva durare pochi giorni. Sono passati oltre 9 mesi e i profughi dei tre refugee camp occupati – Tulkarem Camp, Nur Shams e Jenin Camp – sono almeno 40mila; centinaia le case totalmente o parzialmente distrutte, così come negozi, scuole, tutte le strade e molte delle infrastrutture elettriche e idriche.

La piccola manifestazione parte in direzione del campo; nemmeno trecento metri dopo, due jeep militari ci vengono incontro e scendono vari soldati. Dai mezzi un militare tiene il fucile puntato sulla folla. Il messaggio è chiaro: se continuate a camminare, spariamo. Il gruppo, si ferma. «Quella è la mia casa» una donna indica la prima abitazione che sorge davanti a noi, dietro la linea degli israeliani. Gli occhi, neri, sono pieni di tristezza. «L’hanno resa una delle loro basi militari».

Il campo profughi sembra essere diventato un terreno di esercitazione per i soldati di Tel Aviv: a parte qualche centinaia di persone che continuano a vivere ai bordi estremi del campo, non c’è più nessun residente, forzato dietro la minaccia delle armi ad andarsene. Eppure si sentono quotidianamente centinaia di spari. Secondo la testimonianza di alcuni ex prigionieri, varie case vengono utilizzate come caserme dove i militari detengono e interrogano le persone arrestate.

I soldati minacciano di aprire il fuoco se non si torna indietro. Pretendono che solo tre uomini rimangano a parlamentare con loro. La piccola folla arretra di una cinquantina di metri; tre persone restano a discutere con i soldati.

Yousef ha dodici anni. La sua famiglia ha dovuto lasciare la propria casa nell’ottobre del 2024, perché troppo danneggiata da uno dei numerosi raid israeliani che quasi settimanalmente invadevano il campo profughi distruggendo strade, case e infrastrutture. Si era trasferita in un’area del campo più sicura, fino a quando è cominciata l’operazione Iron Wall. «Ci hanno sgomberato il 29 gennaio, e da allora siamo senza casa» dice a L’Indipendente. «Siamo qui per chiedere i nostri diritti e per poter tornare a casa. La sofferenza è enorme, soffriamo ogni giorno fuori dalle nostre case». Migliaia di famiglie, ritrovatesi per strada, sono state ospitate prima dai parenti, in moschee e scuole; poi, hanno dovuto trovare alloggi in affitto. Le difficoltà economiche sono evidenti, soprattutto in un periodo in cui il lavoro scarseggia e i prezzi non fanno che aumentare.

Sono almeno 10mila le persone sgomberate dal campo profughi di Nur Shams; 15mila quelle sfollate da Tulkarem Camp, e almeno altrettante coloro che hanno dovuto lasciare la propria casa a Jenin refugee camp. L’Operazione Iron Wall è cominciata a Jenin il 21 gennaio, appena tre giorni dopo il primo cessate-il-fuoco, ed è stata allargata a Tulkarem il 27 gennaio. L’occupazione di Nur Shams è iniziata qualche giorno dopo. In questi 9 mesi sono almeno 600 le case distrutte nei due campi di Tulkarem, e 2573 quelle parzialmente danneggiate. 14 le persone uccise in città, tra cui un bambino e due donne, una delle quali incinta di otto mesi. Decine i feriti e centinaia le persone arrestate.

Israele giustifica l’operazione come antiterrorismo e da due anni impegna centinaia di uomini per eliminare ogni forma di resistenza armata che si è sviluppata nel cuore dei campi profughi del nord della Cisgiordania occupata. Le Brigate cittadine di Tulkarem e Jenin, nate per opporsi alle violente incursioni israeliane nei propri quartieri e all’avanzare dell’occupazione sionista, avevano visto aumentare i propri effettivi proprio come risposta al genocidio in corso a Gaza e ai continui attacchi dei militari di Tel Aviv in Cisgiordania. Come risposta, Israele ha voluto “punire” tutta la popolazione che aveva osato resistere e ospitare la resistenza armata. Rendendo inabitabili i campi profughi, e causando una nuova, piccola Nackba. Pochi giorni fa Tel Aviv ha dichiarato che l’Operazione continuerà fino al 31 gennaio 2026.

I tre uomini rimasti a discutere con i soldati tornano, la folla si avvicina ad ascoltare. I militari dicono che non se ne andranno finché l’UNRWA – la stessa agenzia dell’ONU per i profughi palestinesi contro cui Israele sta lottando da anni – non sarà nel campo e finché l’Autorità palestinese non ricostruirà le strade. Una nuova presa in giro, che nessuno ha voglia di assecondare. Piano piano il gruppo si disperde. Ma tornerà a manifestare.

Em Muhanna, la “madre di Muhanna”, riassume così la storia: «Quello che è successo è che i giovani del campo hanno deciso di stare al fianco delle persone di Gaza, come ogni essere umano libero farebbe. L’occupazione israeliana ha deciso di scatenare una punizione collettiva per tutte le persone del campo; stiamo pagando un prezzo molto alto per essere stati al fianco di Gaza. Ci hanno distrutto le case, le strade, le infrastrutture, hanno ucciso molte persone e ne hanno arrestate moltissime altre. Ma comunque, il prezzo pagato non è comparabile con il sangue pagato dalle persone di Gaza, che Dio le protegga. Vogliamo tornare alle nostre case. Abbiamo sempre lavorato per la nostra sopravvivenza: non vogliamo la carità di nessuno. Vogliamo solo poter tornare a casa».

Sciopero nazionale dei farmacisti dipendenti

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Oggi, 6 novembre 2025, circa 60.000 farmacisti e dipendenti delle farmacie private convenzionate incrociano le braccia per 24 ore, aderendo allo sciopero nazionale indetto da Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs. La protesta riguarda il mancato rinnovo del contratto collettivo nazionale, scaduto il 31 agosto 2024, e la richiesta di un adeguamento salariale considerato insufficiente rispetto alle responsabilità e al ruolo professionale svolto. I sindacati denunciano la chiusura di Federfarma e chiedono maggior riconoscimento del valore dei farmacisti dipendenti, migliori condizioni di lavoro e formazione, e una reale evoluzione verso la “farmacia dei servizi”. Garantiti i servizi minimi nelle farmacie di turno.

Crosetto spinge sul riarmo: “Servono una riforma dell’esercito e 30mila soldati in più”

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Per garantire un’adeguata difesa del Paese servirebbe disporre di un esercito con un contingente di almeno 200 mila uomini, ma in Italia ve ne sono “solamente” 170 mila. È quanto ha dichiarato il ministro della Difesa Crosetto durante una puntata della trasmissione 5 minuti, in onda su RAI 1. Secondo il ministro, infatti, l’Italia si trova ad affrontare scenari di rischio che fino a cinque anni fa «non erano prevedibili» e, per tale motivo, vanno aumentate le risorse destinate alla Difesa, anche in termini di uomini.

Secondo quanto dichiarato dal ministro, «il modello della legge 244 prevede 170 mila uomini» ed è stato pensato «in uno scenario dove l’Italia avrebbe al massimo partecipato a missioni internazionali, come quella in Afghanistan». Tuttavia, «la situazione che stiamo vivendo adesso ci impone a prepararci a scenari che fino a cinque anni fa non erano prevedibili: questo vuol dire avere più personale, perchè serve anche capacità di farlo ruotare, e servono regole diverse di reclutamento». La legge alla quale fa riferimento il ministro è la n. 244 del 2012 (la cosiddetta “legge Di Paola”), emanata dunque appena 13 anni fa, la quale puntava a ridimensionare notevolmente le dimensioni dell’apparato generale italiano entro il 2024, tanto in termini di personale – civile e militare – quanto in quelli delle strutture. L’obiettivo esplicito era quello di «realizzare uno strumento militare di dimensioni più contenute, ma più sinergico ed efficace nell’operatività e pienamente integrato e integrabile nel contesto dell’Unione Europea e della NATO». Così, oltre a una riduzione complessiva del 30% di tutte le strutture logistiche, operative, territoriali e periferiche, e un riequilibrio generale del Bilancio della Funzione Difesa, era prevista anche una riduzione del personale militare (da 190 mila a 150 mila unità) e di quello civile (da 30 mila a 20 mila unità).

Già a partire dal 2020 (in piena pandemia da Covid 19), tuttavia, era in preparazione un processo di riforma della legge che puntava ad aumentare l’organico, in ragione «dell’aumento degli impegni che le Forze Armate devono sostenere in Italia e all’estero», e il differimento della scadenza al 2024, secondo quanto dichiarato nella relazione della Corte dei Conti sul rendiconto generale dello Stato. Il tutto, nonostante «le necessità generate dalla situazione economica radicalmente mutata nel 2020 per la pandemia da Covid 19». Attualmente, secondo il ministro, l’incremento necessario sarebbe «di 30 mila unità in più», tenendo anche conto del fatto che «i tedeschi ne hanno 260-280 mila».

Le risorse, dunque, sembrano non bastare mai, anche se nel 2026 l’Italia spenderà la cifra più alta di sempre per la Difesa: 34 miliardi di euro complessivi, con un incremento di 1 miliardo in un solo anno e del 45% in appena 10 anni. E la cifra, calcolata in base alle stime dell’Osservatorio MilEx, non tiene conto delle uscite per la sicurezza nazionale in senso più ampio, la quota complementare che la NATO inserisce nel target complessivo del 5% del PIL (cybersicurezza, sicurezza infrastrutturale, mobilità militare e così via). Nel frattempo, gli altri capitoli di spesa vedono effettuati tagli netti, col governo che cerca dichiaratamente di assecondare i parametri europei per uscire dalla procedura d’infrazione per l’eccessivo disavanzo finanziario. Così, in Italia la spesa sanitaria è ben al di sotto della media UE, collocando il nostro Paese all’ultimo posto tra quelli del G7 e al 14° tra i Paesi OCSE. Un discorso analogo vale per l’istruzione, con l’Italia che (secondo le elaborazioni della FLC CGIL su dati Eurostat) si qualifica come il Paese UE che ha la spesa più bassa in assoluto rispetto alla spesa pubblica totale (il 7,3%, rispetto alla media UE del 9,6%) e terz’ultima rispetto al PIL (3,9%, rispeto alla media UE del 4,7%).