mercoledì 14 Maggio 2025
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Strage bus Avellino: condanna definitiva a 6 anni per ex AD Autostrade per l’Italia

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La Corte di Cassazione ha condannato in via definitiva a 6 anni di carcere l’ex AD di Autostrade per l’Italia (ASPI) Giovanni Castellucci, accusato di disastro colposo e omicidio colposo nel procedimento legato alla strage del 28 luglio del 2013, quando un bus precipitò dal viadotto dell’Acqualonga a Monteforte Irpino (Avellino), causando la morte di 40 persone. Per lui si aprono le porte del carcere. I giudici hanno confermato inoltre le condanne a 9 anni per il proprietario del bus, Gennaro Lametta, e a 4 anni per l’allora dipendente della motorizzazione civile di Napoli, Antonietta Ceriola. Diventano definitive anche le condanne per gli altri dirigenti e dipendenti del Tronco.

C’è una crepa nell’esercito israeliano: centinaia di riservisti chiedono la fine della guerra

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Tutto parte da una lettera firmata da quasi mille soldati israeliani, tra riservisti in servizio e in pensione dell’aeronautica militare, in cui si chiede la fine della guerra a Gaza. Il documento esorta il governo a interrompere i bombardamenti, sostenendo che questi rispondano ormai a «interessi politici e personali» più che alla sicurezza nazionale. «La continuazione della guerra non avanza nessuno degli obiettivi dichiarati della guerra e porterà alla morte degli ostaggi, dei soldati dell’IDF e dei civili innocenti», si legge nella missiva. Una frattura evidente all’interno dell’esercito di Tel Aviv, che il governo si è affrettato a ricomporre con fermezza. L’IDF ha infatti annunciato l’immediato licenziamento dei firmatari ancora in servizio, decisione sostenuta dal premier Netanyahu, che ha accusato i militari dissidenti di essere pagati da potenze straniere, un’accusa ricorrente nei regimi autoritari per delegittimare l’opposizione. Ma la crepa sembra destinata ad allargarsi, dal momento che questa mattina è giunto il sostegno ai soldati dissidenti da parte di centinaia di riservisti della famigerata Unità 8200, la divisione d’élite dell’esercito israeliano specializzata nella guerra cibernetica.

La lettera è stata redatta da membri in pensione e riservisti attualmente in servizio dell’aeronautica militare israeliana. Il testo non si spinge a proclamare un rifiuto generalizzato di servire l’esercito, ma esorta il governo a dare priorità al rilascio degli ostaggi rispetto alla prosecuzione della guerra a Gaza. Secondo quanto riportato dal quotidiano Times of Israel, il comandante dell’aeronautica Tomer Bar ha incontrato in settimana diversi riservisti e veterani nel tentativo di bloccare la pubblicazione della lettera. Tutti i firmatari, ad eccezione di cinque, hanno sottoscritto con il proprio nome completo. Si stima che circa il 10% dei firmatari siano riservisti attivi. «Solo un accordo può restituire gli ostaggi in sicurezza. La continuazione della guerra non avanza nessuno degli obiettivi dichiarati della guerra e porterà alla morte degli ostaggi, dei soldati dell’IDF e dei civili innocenti», si legge nella missiva.

Nella lettera non si chiede esplicitamente la fine del conflitto né del genocidio in corso, né si fa riferimento alle sofferenze del popolo palestinese. A parte un vago riferimento ai civili, che non è nemmeno chiaro se si riferisca ai palestinesi, ci si concentra sulla salvezza e la liberazione degli ostaggi israeliani, come da mesi chiedono centinaia di migliaia di cittadini. La differenza sostanziale è che, in questo caso, a formulare tale richiesta è una parte dell’esercito, esercitando una pressione ulteriore sul governo. L’esecutivo ha risposto immediatamente promettendo una reazione dura e annunciando licenziamenti. E così è stato. Secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Haaretz, il capo di stato maggiore dell’esercito, Eyal Zamir, ha approvato il licenziamento di comandanti anziani e di circa 1.000 riservisti per aver chiesto la fine della guerra. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, riferisce il Times of Israel, ha definito quella dei firmatari una piccola minoranza finanziata da organizzazioni che mirano a rovesciare il suo governo. Sul suo profilo X ha inoltre espresso pieno sostegno alla decisione del ministro della Difesa, Israel Katz.

Ma la lettera dei riservisti dell’aeronautica potrebbe essere stata solo la prima goccia. Come riporta oggi il Jerusalem Post, centinaia di ufficiali riservisti, soldati in servizio attivo e ufficiali in pensione dell’Unità 8200 hanno firmato una lettera analoga, con l’intenzione di renderla pubblica. «Ci identifichiamo con la grave e preoccupante affermazione che, in questo momento, la guerra serve principalmente interessi politici e personali, non interessi di sicurezza», hanno dichiarato gli ufficiali. Parallelamente, secondo quanto riferisce The New Arab, oltre 150 ex ufficiali navali israeliani hanno aggiunto la loro voce al crescente dissenso, chiedendo la fine immediata degli attacchi a Gaza e sollecitando la protezione dei prigionieri israeliani ancora detenuti nella Striscia, in mezzo a una nuova ondata di bombardamenti. Il governo Netanyahu manterrà la linea dura per spezzare il dissenso o dovrà scendere a compromessi per soddisfare la parte dell’esercito che vuole la fine delle ostilità? Ancora presto per dirlo e, aldilà delle dichiarazioni risolute di Netanyahu, è probabile che molto dipenderà da quante firme si aggiungeranno nei prossimi giorni. Di certo, dopo mesi di manifestazioni da parte della società civile (numerose ma sistematicamente ignorate), è ora parte dell’esercito a esercitare una nuova, e decisamente più forte, pressione sul governo israeliano.

Estonia, fermata una presunta nave russa

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La marina militare estone ha annunciato di avere fermato e abbordato una petroliera diretta in Russia, presente nell’elenco delle navi sanzionate dall’Unione Europea. Le autorità hanno accusato la nave, chiamata “Kiwala”, di navigare illegalmente senza una bandiera nazionale valida. La Kiwala è entrata nella lista delle navi sanzionate dall’Unione lo scorso febbraio, in quanto farebbe parte della cosiddetta “flotta ombra” russa, il gruppo di navi che la Federazione utilizzerebbe per aggirare le sanzioni internazionali. La nave batte bandiera del Gibuti, ma, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Reuters citando un funzionario del Paese, non risulterebbe immatricolata lì.

La multinazionale petrolifera Chevron è stata condannata per gravi danni ambientali in Louisiana

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Una giuria statunitense ha condannato la multinazionale petrolifera Chevron a pagare oltre 744 milioni di dollari per gravi danni ambientali causati dalla controllata Texaco in una zona paludosa della Louisiana. La somma comprende risarcimenti per degrado generalizzato, inquinamento e infrastrutture abbandonate. Le accuse erano sono state mosse dalla contea di Plaquemines, secondo cui le aree paludose danneggiate nella zona di Pointe à la Hache giocavano un ruolo determinante per la protezione del litorale e la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici. Il colosso fossile ha contestato la decisione e annunciato ricorso, sostenendo la sussistenza di «numerosi errori giudiziari che hanno portato alla sentenza». Questo procedimento è solo il primo di ben 42 azioni legali simili che potrebbero costare alla compagnia miliardi di dollari.

Secondo l’accusa, i progetti di estrazione di petrolio e gas condotti dal marchio Texaco, di proprietà di Chevron, hanno violato le normative statali sulle risorse costiere. Tra le attività contestate figurano lo scavo di canali, la perforazione di pozzi e lo scarico di enormi quantità di acque reflue nelle paludi. Queste pratiche avrebbero accelerato l’erosione delle coste e compromesso la capacità naturale delle zone umide di proteggere il territorio dagli uragani. La giuria ha riconosciuto alla contea di Plaquemines, che aveva avviato la causa nel 2013 chiedendo inizialmente 2,6 miliardi di dollari, vari indennizzi: 575 milioni per la perdita di territorio, 161 milioni per la contaminazione e 8,6 milioni per l’abbandono di attrezzature industriali. La contea si è in particolare appellata ad una una legge statale del 1978 che impone alle aziende petrolifere, al termine delle loro operazioni, di ripristinare le aree utilizzate verso una condizione «il più possibile simile a quella originaria». Ma Chevron, che non hai mai mosso un dito in fatto di ripristino ecologico e bonifica, ha contestato la legittimità della sentenza dato che le attività contestate risalirebbero a un’epoca anteriore all’introduzione della legge.

Le attività che hanno colpito gli ecosistemi in questione erano state avviate dall’azienda Texaco, acquistata nel 2001 da Chevron per la cifra record di oltre 38 miliardi di dollari. La procedura legale fu però avviata 12 anni dopo, motivo per cui a risponderne oggi è la multinazionale con sede in California. Ad ogni modo, la vicenda sottolinea ancora una volta la noncuranza e la negligenza tipiche dell’operato dell’industria fossile a spese dell’ambiente naturale e della salute pubblica. Secondo i dati del US Geological Survey, dal 1932 al 2016 la Louisiana ha perso circa 4.833 chilometri quadrati di territorio costiero, il che equivale ad una riduzione del 25%. Le cause principali sarebbero da ricondurre anche alla costruzione di canali per facilitare il trasporto da e verso le piattaforme petrolifere, che nel tempo ha alterato i flussi naturali d’acqua e favorito l’intrusione dell’acqua salata durante le tempeste. Nel frattempo, la Louisiana Coastal Protection and Restoration Authority avverte: nei prossimi 50 anni, lo stato rischia di perdere altri 7.700 chilometri quadrati di territorio costiero. Il caso di Chevron potrebbe ora aprire la strada a nuove sentenze e accordi extragiudiziali con le altre compagnie coinvolte nelle cause ancora in sospeso.

Hanno la guerra nel cervello

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Ventitré pagine per delineare un futuro di pallottole e fango, di centinaia di miliardi da destinare al settore militare, di profitti da capogiro per la lobby delle armi e di un immaginario collettivo da riempire con il terrore che le libertà democratiche siano minacciate da nemici esterni fortissimi e con un unico chiodo fisso: distruggere l’Europa. È il delirio messo nero su bianco nel Libro bianco congiunto per la preparazione della Difesa europea al 2030, il manifesto militarista pubblicato dalla Commissione Europea per giustificare ideologicamente il piano di riarmo dell’Europa con il quale si punta a spendere 800 miliardi di euro in munizioni, artiglieria, missili, droni, infrastrutture e tecnologia militare.

A leggerlo si ha l’impressione di vivere sull’orlo della catastrofe, cittadini di un continente assediato: «Le minacce alla sicurezza europea si stanno moltiplicando in un modo che rappresenta una grave minaccia per il nostro modo di vivere», la Russia è una «grave minaccia strategica», mentre «Stati autoritari come la Cina cercano sempre più di affermare la propria autorità e controllo sulla nostra economia e società». Ampio è anche il ricorso alla fomentazione di paure e a vere e proprie fake news per giustificare la corsa alle armi. Si ribadisce il concetto secondo cui la Russia sarebbe pronta a invadere militarmente i Paesi europei, perché «se le sarà consentito di raggiungere i suoi obiettivi in Ucraina, la sua ambizione territoriale si estenderà oltre» e si rilancia la bufala secondo cui i Paesi europei spendano troppo poco nella difesa, al punto che — secondo i cervelli che hanno redatto il documento per conto della Commissione UE — la spesa per la difesa europea rimane «molto inferiore a quella della Russia o della Cina». Un punto su cui l’UE dovrebbe mobilitare una delle divisioni contro la disinformazione inventate a Bruxelles negli ultimi anni per auto flagellarsi, visto che la spesa dei Paesi dell’UE nella difesa nel 2024 è stata di 326 miliardi di euro contro i 235 miliardi della Cina e i 146 della Russia.

La furia militarista europea non è rinchiusa nelle stanze di Bruxelles. La corsa alla guerra è viva in quasi tutti i Paesi europei che sembrano correre alle armi come se si fossero svegliati di colpo all’alba di una nuova guerra mondiale. La Francia ha rilanciato la produzione nazionale di polvere da sparo e annunciato un esercito di riservisti da centomila uomini; la Germania ha modificato la propria Costituzione per permettere di rendere l’esercito «pronto per la guerra»; la Polonia ha lanciato un piano per l’addestramento militare rivolto a tutti gli uomini adulti; in Svezia sono passati direttamente a distribuire tra la popolazione un kit di sopravvivenza in caso di conflitto nucleare. In Italia, il ministro Urso, ha annunciato un piano per collegare l’industria automobilistica a quella militare: nessuno ha capito bene cosa voglia dire ma, visto il clima generale, il bisogno di fare qualcosa era evidentemente insopprimibile, anche se agendo a caso come da tradizione politica italiana.

La guerra si insinua anche nei cervelli più insospettabili, come quelli di molti presidi delle scuole italiane, dove negli ultimi mesi si sono moltiplicati corsi tenuti dai soldati, gite d’istruzione nelle basi militari, addirittura messinscene come i bambini di una scuola elementare messi a fare il passo dell’oca in cortile sulle note dell’inno di Mameli. Un clima talmente assurdo che un gruppo di maestri, professori e operatori scolastici ha sentito il bisogno di riunirsi nell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole per cercare di contrastare il clima guerrafondaio che le istituzioni scolastiche stanno fomentando nelle nuove generazioni.

«Nessuno ha dichiarato guerra all’Europa, Russia e USA stanno trattando la pace in Ucraina, non abbiamo neanche nessuna notizia di una possibile invasione aliena»: è dimostrato che faccia bene chiudere gli occhi e ripetere lentamente queste tre frasi, specie dopo aver visto un telegiornale o essere caduti ancora una volta nella tentazione di aprire il sito della Repubblica o del Corriere. Facciamo in modo che il clima di guerra non si impossessi anche della nostra mente.

Migranti, partita una nave per l’Albania

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Questa mattina, venerdì 11 aprile, la nave Libra della marina militare è partita da Brindisi per trasportare 40 migranti nel centro di Gjader, in Albania. Il centro di Gjader ha una capienza di 48 persone, ma secondo i progetti governativi dovrebbe venire ampliato. Con un decreto di fine marzo, la struttura è stata convertita in un centro di permanenza per il rimpatrio dove ospitare le persone che hanno già ricevuto un ordine di espulsione da parte delle autorità. Risulta questo il primo tentativo di trasferire i migranti dall’emissione del decreto.

Sulle spiagge italiane ci sarebbero in media 892 rifiuti ogni cento metri

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In Italia si trovano in media 892 rifiuti ogni cento metri lineari di spiaggia. È il dato che emerge dal dossier Beach Litter 2025, pubblicato negli scorsi giorni da Legambiente, che ha monitorato 63 spiagge su tutto il territorio nazionale. Una fotografia che mostra come il problema dell’inquinamento costiero resti tutt’altro che risolto, a dispetto degli sforzi e delle normative europee che puntano alla riduzione dei rifiuti marini entro il 2030. Sono oltre 56mila i rifiuti censiti su quasi 197mila metri quadrati di arenile. La stragrande maggioranza, quasi l’80%, è composta da plastica e polimeri artificiali, seguiti da vetro e ceramica (8,31%) e carta e cartone (4,31%). Una presenza invasiva che non risparmia alcun tratto di costa, dalle aree più urbanizzate alle riserve naturali.

Utilizzando il Clean Coast Index, uno strumento di classificazione internazionale, Legambiente ha potuto stimare all’interno del suo report il “grado di pulizia” delle spiagge, peggiorato rispetto allo scorso anno: solo il 27% può essere definito “molto pulito”, mentre un altro 14% rientra nella categoria “pulito”. Tuttavia, il 30% risulta “abbastanza pulito”, il 17% “sporco” e ben l’11% “molto sporco”, con punte particolarmente critiche in alcune località. Analizzando la top ten degli specifici oggetti rinvenuti sulle spiagge italiane, spiccano i pezzi di vetro o ceramica non identificabili (13,2%), seguiti da frammenti di plastica di dimensioni comprese tra 2,5 e 50 centimetri (13%) e da tappi e coperchi (8,2%). Preoccupante anche la diffusione di cotton fioc in plastica (5,6%), polistirolo (6,9%) e mozziconi di sigarette (7,5%), a testimonianza di abitudini scorrette ancora radicate tra i frequentatori delle spiagge. Non meno rilevante il ruolo dei prodotti in plastica monouso (Single Use Plastic o SUP), come bottiglie e contenitori, cannucce, agitatori per cocktail, posate e piatti. Nonostante l’entrata in vigore della Direttiva SUP che ne vieta la commercializzazione, questi oggetti continuano a rappresentare una quota significativa del litter marino. Ad esempio, sono stati trovati oltre 7.500 articoli tra bottiglie, tappi e anelli di plastica e più di 4.200 mozziconi di sigaretta. «I dati confermano quanto ancora ci sia da fare per proteggere i nostri litorali», sottolinea Legambiente, che rinnova l’invito a rafforzare le politiche di prevenzione e raccolta, ma anche a promuovere una cultura della responsabilità individuale. L’associazione partecipa infatti alla Missione dell’UE Restore our Ocean and Waters, che punta a ripristinare la salute di mari e acque europee entro il 2030. In questo scenario preoccupante, c’è però spazio per la speranza: l’aumento delle spiagge classificate come “molto pulite” rispetto agli anni precedenti suggerisce che l’impegno civico, se sostenuto da misure adeguate, può dare risultati.

«Da trentacinque anni Legambiente, grazie ai volontari e alle volontarie dei Circoli e alla collaborazione con associazioni, istituzioni, cittadini e imprese, realizza un importante lavoro di citizen science, raccogliendo, monitorando e classificando i rifiuti dispersi sulle nostre spiagge, un lavoro che ha anticipato e contribuito a far nascere i monitoraggi istituzionali in Italia e nel Mediterraneo – ha dichiarato Giorgio Zampetti, direttore generale dell’organizzazione –. Ma il nostro impegno va anche oltre, con tante iniziative di raccolta dei rifiuti per contrastare i loro effetti negativi sull’ecosistema marino costiero e sensibilizzare verso stili di vita più sostenibili e comportamenti responsabili. Particolarmente importante è, in tal senso, che tutti noi facciamo la nostra parte per ridurre l’utilizzo di prodotti usa e getta». Lo scorso fine settimana, nei giorni tra il 4 e il 6 aprile, è andata infatti in scena la storica campagna di Legambiente “Spiagge e fondali puliti”, dedicata al monitoraggio e alla pulizia dei rifiuti abbandonati lungo le coste dello Stivale. Nella cornice di oltre 90 iniziative in tutta Italia organizzate in 17 regioni dall’associazione, centinaia di volontari tra società civile, scuole, aziende e amministrazioni comunali si sono dati da fare per ripulire mari, fiumi e laghi dai rifiuti.

Gaza, proseguono i raid israeliani nella Striscia: ancora morti e feriti

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Fonti mediche della Striscia di Gaza hanno riferito che almeno 13 persone sono state uccise negli attacchi sferrati da Israele nell’enclave dall’alba, mentre si rincorrono segnalazioni di ulteriori raid e vittime. Lo rende noto Al Jazeera, aggiungendo che gli abitanti di Beit Lahiya, nel nord di Gaza, segnalano «esplosioni continue» mentre Israele lavora alla demolizione degli edifici e all’espansione della “zona cuscinetto”. Le Nazioni Unite hanno condannato i continui raid, affermando che «tra il 18 marzo e il 9 aprile 2025 si sono verificati circa 224 attacchi israeliani contro edifici residenziali e tende per sfollati», aggiungendo che «in circa 36 attacchi le vittime registrate sono state solo donne e bambini».

La Cina rialza i controdazi sui beni Usa dall’84% al 125%

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La Cina ha stabilito un rialzo dei suoi controdazi sulle importazioni dei beni statunitensi dall’84% al 125%. Lo ha reso noto il ministero delle Finanze di Pechino, spiegando che le nuove misure entreranno in vigore domani, il 12 aprile. Nelle ultime ore, un portavoce del ministero del Commercio cinese ha dichiarato che gli USA devono «assumersi la piena responsabilità» per le «turbolenze» economiche globali seguite all’offensiva tariffaria di Trump, aggiungendo che i dazi annunciati da Washington hanno causato «gravi shock e forti turbolenze» anche «ai sistemi commerciali multilaterali».

La maggioranza approva la mozione per riarmare l’Italia senza mai nominare il riarmo

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La Camera dei deputati ha approvato la mozione della maggioranza sul Piano di riamo europeo con 114 sì. C’è, però, un grande paradosso: il testo non cita mai il piano ReArmEurope di Ursula von der Leyen, che ha già ottenuto il via libera di Consiglio e Parlamento Europeo, evitando addirittura il termine «riarmo». Frutto di mediazione tra i partiti di centro-destra, il testo sostiene l’urgenza di un rafforzamento militare e l’appoggio all’Ucraina nella cornice del conflitto con la Russia. Dure le critiche delle opposizioni – sia dell’ala più progressista del Parlamento, contraria al piano, sia dei centristi, che sono invece fortemente favorevoli – le quali hanno denunciato il mancato rispetto del tema all’ordine del giorno, parlando di «una presa in giro».

Effettivamente, l’ordine del giorno della seduta di ieri, giovedì 10 aprile, era molto chiaro: “Mozioni in ordine al piano di riarmo europeo”, ovvero il programma con cui la presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen intende aumentare la spesa per la difesa dei Paesi membri di almeno 800 miliardi di euro. Eppure, la parola «riarmo» è scomparsa dalla mozione di maggioranza. Nel testo approvato dalla Camera si legge che «il contesto internazionale attuale richiede un rafforzamento della capacità di difesa e deterrenza dell’Italia e dei suoi alleati, nell’ambito di un sistema multilaterale fondato sul rispetto del diritto internazionale e della sovranità degli Stati» e che «la partecipazione dell’Italia alle alleanze internazionali, con particolare riferimento all’Alleanza Atlantica (Nato), costituisce un pilastro della politica estera e di sicurezza nazionale», impegnando il nostro Paese «al rispetto degli obblighi derivanti, anche in termini di investimenti e sviluppo di capacità».

Date le premesse, il testo impegna il governo a «proseguire nell’opera di rafforzamento delle capacità di difesa e sicurezza nazionale al fine di garantire, alla luce delle minacce attuali e nel quadro della discussione in atto in ambito europeo in ordine alla difesa europea, la piena efficacia dello strumento militare, secondo i compiti stabiliti dall’ordinamento, a salvaguardia delle libere istituzioni, della democrazia, dell’integrità e della sicurezza dei cittadini e del territorio nazionale, come presupposto per l’esercizio universale dei diritti fondamentali», nonché a «confermare gli impegni assunti dall’Italia negli ultimi dieci anni, nelle alleanze internazionali di cui fa parte, in particolare in ambito Nato, rispettando i requisiti di investimento e di sviluppo delle capacità necessarie a garantire all’Alleanza una postura credibile e una reale deterrenza». Si legge inoltre che l’esecutivo dovrà «operare, in ogni sede internazionale e con ogni strumento diplomatico, affinché si giunga nel più breve tempo possibile a un cessate il fuoco e a una pace duratura sul territorio ucraino», ma contestualmente lo si impegna a «continuare, nel rispetto degli indirizzi del Parlamento, a sostenere l’Ucraina per tutto il tempo necessario». La mozione chiede al governo di favorire, dopo un’eventuale tregua, «la costituzione di una forza multinazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite, subordinata a una deliberazione del Consiglio di sicurezza, al fine di garantire un processo di pace stabile, condiviso ed irreversibile».

E se il governo sulla questione russo-ucraina appare frastagliato – come dimostra il compromesso al ribasso sfociato in questo testo – l’opposizione va in ordine sparso. Le forze di minoranza hanno presentato sei differenti mozioni, tutte bocciate dall’aula di Montecitorio. I più ostili al “ReArm” si dimostrano il M5S e AVS, che invitano il governo a «non proseguire nel sostegno al piano di riarmo europeo», concentrandosi invece su sanità, welfare e incentivi all’occupazione. Il PD non ha espresso un no lapidario al piano, ma ha invitato l’esecutivo a lavorare a una sua «radicale revisione» per «assicurare investimenti comuni effettivi non a detrimento delle priorità sociali», riaffermando «la ferma condanna della grave, inammissibile e ingiustificata aggressione russa contro l’Ucraina». Favorevole al riarmo +Europa, che chiede al governo di attivarsi nelle sedi opportune «affinché le risorse messe in campo siano orientate fin da subito alla realizzazione di una difesa comune europea». Dice sì al riarmo anche Italia Viva, che chiede all’esecutivo di «favorire le sinergie industriali europee verso lo sviluppo di piattaforme militari comuni». Ok al riarmo anche da Azione, che invita il governo a «cooperare con gli altri Paesi europei “volenterosi” e con il Regno Unito» affinché «le forniture di munizioni di artiglieria di grosso calibro e di missili, che l’ultimo Consiglio europeo ha individuato come necessarie per corrispondere alle pressanti esigenze militari dell’Ucraina, siano assicurate tempestivamente alle forze di difesa ucraine».

Su un unico punto convergono le opposizioni: il fatto che la maggioranza abbia scelto di non nominare il riarmo all’interno della mozione è la prova lampante delle tensioni covate al suo interno sul tema del riarmo e del conflitto russo-ucraino. Secondo M5S e AVS è un «insulto al Parlamento» e «una presa in giro», mentre Italia Viva parla di un «gioco delle tre carte» e della recita di «più parti in commedia» interno al centro-destra e al governo Meloni.