Il governo del Perù ha interrotto le relazioni diplomatiche con il Messico dopo che l’ex prima ministra peruviana Betssy Chávez, sotto processo per incitamento alla ribellione per il tentato golpe del 2022 di Pedro Castillo, ha ottenuto asilo nell’ambasciata messicana a Lima. Chávez, già arrestata nel 2023 e poi rilasciata, rischia fino a 25 anni di carcere. Il ministro degli Esteri peruviano ha definito l’asilo «un atto ostile», mentre il presidente José Jerí ha accusato il Messico di interferenze politiche. Città del Messico ha replicato di aver agito nel rispetto del diritto internazionale.
Eolico fermo, trivelle avanti: il paradosso della transizione nell’Adriatico
Quando si parla di parchi eolici in Italia, emergono due principali obiezioni. La prima riguarda il possibile impatto paesaggistico, ossia i cambiamenti che l’installazione delle turbine potrebbe comportare sul territorio. La seconda critica riguarda invece i progetti promossi da società estere, accusate di sfruttare le risorse locali senza generare benefici concreti per la comunità. Esiste però un progetto interamente sostenuto da investitori italiani, che punta a realizzare uno dei più grandi hub energetici dedicati alle rinnovabili nel mare Adriatico, a circa 12 miglia dalla costa di Ravenna, dove le pale eoliche non avrebbero alcun impatto sul paesaggio. Tuttavia, la costruzione dell’impianto è ferma da mesi a causa dell’indecisione del governo, che ne rallenta l’avvio operativo. Si tratta del progetto AGNES Romagna, due impianti eolici offshore da 600 megawatt in totale integrati da un parco fotovoltaico galleggiante. L’obiettivo è costruire nel mare Adriatico un polo energetico completamente rinnovabile, capace di fornire energia pulita a circa 500mila famiglie. Un contributo più che rilevante per la Regione Emilia-Romagna, che punta a raggiungere 6,3 gigawatt di energia rinnovabile entro il 2030.
Eppure, a più di un anno dall’autorizzazione ambientale ottenuta nel luglio 2024, tutto è ancora fermo. «Abbiamo ricevuto la Valutazione di Impatto Ambientale, ma il sistema delle aste non è partito – ha spiegato all’Indipendente Alberto Bernabini, amministratore delegato di AGNES – Ci sono stati 130 progetti in Italia, ma solo quattro sono stati autorizzati. Senza aste non possiamo procedere, perché i passi successivi sono molto costosi. Quindi aspettiamo di capire cosa vuole fare il governo».
Alla base dello stallo c’è il meccanismo delle aste pubbliche, gestito dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica. Il sistema funziona così: lo Stato fissa un prezzo di riferimento per l’energia prodotta da fonti rinnovabili, e i progetti che partecipano alla gara competono offrendo un prezzo inferiore. Vince chi propone di fornire energia al costo più basso.
Questo meccanismo garantisce che i progetti più efficienti e competitivi ottengano il sostegno economico necessario per avviare la costruzione. Tuttavia, le ultime due aste nazionali non hanno incluso l’eolico offshore. «Il risultato – osserva Bernabini – è che tutto il settore è in stallo. La nostra tecnologia è matura, ma senza la possibilità di partecipare alle aste non possiamo ottenere la tariffa che ci permetterebbe di partire. In altri Paesi, come il Regno Unito, le aste vengono differenziate tra impianti a fondazioni fisse e galleggianti, con tariffe calibrate sui costi reali. In Italia, invece, questo processo non è nemmeno iniziato».
Manca una legge, sostiene il governo, per poter introdurre tariffe differenziate tra impianti a fondazioni fisse e galleggianti. Una distinzione che in molti Paesi europei è già realtà, ma che in Italia non ha ancora nemmeno avviato il suo iter normativo. «Per modificare la legge – spiega Bernabini – servirebbe almeno un anno, ma al momento non ci risulta che sia partito nulla. È assurdo: su 133 progetti presentati, solo due riguardano impianti fissi come il nostro, entrambi in Emilia-Romagna. Cambiare la normativa per due progetti non dovrebbe essere un problema, eppure tutto resta fermo».
La situazione è tanto più paradossale se si considera che, mentre il progetto AGNES attende un segnale politico, il governo ha riaperto le licenze per nuove trivellazioni di gas in mare, mentre pochi mesi fa, proprio al largo di Ravenna, è stato installato il rigassificatore, anche questo approvato a tempo di record: «Non siamo contrari alle trivelle in sé — chiarisce Bernabini — ma non ha senso rallentare la transizione energetica per tornare al gas. I consumi di gas in Italia sono in calo costante da vent’anni: la gente passa alle pompe di calore, le industrie cambiano processi, e la domanda diminuisce ogni anno. Investire su nuove estrazioni significa guardare al passato». Dietro la prudenza dell’esecutivo si nasconde anche un problema di strategie altalenanti: «Ogni tre o quattro anni il governo cambia gli obiettivi e questo è devastante per chi lavora in un settore che richiede pianificazioni a dieci anni. Non si può investire miliardi se le regole cambiano di continuo».
Eppure, l’impianto ravennate potrebbe rappresentare un tassello fondamentale nella corsa italiana alla neutralità climatica. Secondo Legambiente, l’Italia dispone di un potenziale eolico offshore elevatissimo, in particolare per quanto riguarda la tecnologia galleggiante: uno studio citato dall’associazione stima fino a 20 GW installabili entro il 2050. Peccato che al momento ci sia solo un impianto operativo: il parco near-shore di Taranto entrato in funzione nel 2022.
Un dato che mostra con chiarezza il ritardo italiano in un settore che, altrove in Europa, è ormai una colonna portante della transizione energetica. Il risultato è un paradosso tutto nazionale: un Paese circondato dal mare, con la tecnologia e le risorse per produrre energia pulita, che continua a tenere ferme le pale mentre riaccende le trivelle.
Israele: procuratrice dell’esercito arrestata per aver denunciato le torture sui palestinesi
La polizia israeliana ha arrestato, nella notte di lunedì 3 novembre, la procuratrice generale dell’esercito, Yifat Tolmer-Yerushalmi. La militare si era dimessa lo scorso 31 ottobre, dopo aver ammesso di aver autorizzato la diffusione, lo scorso anno, di un video nel quale si vedono alcuni soldati israeliani che torturavano un detenuto palestinese nella prigione di Sde Teiman, nel deserto del Negev. Secondo le prime informazioni, la diffusione delle immagini avrebbe avuto lo scopo di difendere l’operato dell’ufficio che stava indagando sugli abusi commessi nel penitenziario, mentre l’estrema destra israeliana negava che questi fatti fossero mai avvenuti. La donna è scomparsa domenica per alcune ore, ma è stata successivamente arrestata a seguito di una imponente operazione di ricerca che ha coinvolto polizia, esercito e soccorsi.
Le indagini sulla diffusione del video sono iniziate l’ultima settimana di ottobre. Secondo quanto riferito dal media israeliano Times of Israel, queste avrebbero preso il via dopo che un ufficiale dell’ufficio del procuratore generale avrebbe fallito un test di routine con la macchina della verità, durante il quale erano state effettuate domande proprio in merito alla diffusione del video. Poco dopo, il 31 ottobre, Tomer-Yerushalmi ha consegnato una lettera di dimissioni nella quale ha scritto esplicitamente di aver autorizzato la diffusione del video: «ho approvato la divulgazione del media nel tentativo di contrastare la falsa propaganda diretta contro le autorità militari preposte all’applicazione della legge», riportano i media israeliani. Poco dopo, il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato che la militare non sarebbe tornata al suo incarico e assicurato che sarà «fatta giustizia» contro chiunque abbia «contribuito alla calunnia» contro i soldati israeliani.
Il video era stato trasmesso dal canale di informazione israeliano Channel 12 nell’agosto del 2024, ma i fatti sono avvenuti il mese precedente. In esso si vedevano i soldati dell’IDF prelevare un detenuto sdraiato a terra a faccia in giù e, mentre alcuni di essi coprivano la scena con gli scudi antisommossa, altri abusavano di lui. Successivamente, era emerso che il detenuto era stato torturato e violentato e che aveva riportato fratture e gravi lesioni interne. I fatti avevano portato all’incriminazione di cinque soldati israeliani, ma i politici di estrema destra avevano avanzato l’ipotesi che il video fosse falso e che nella prigione non avvenissero abusi: proprio per evitare che il proprio dipartimento, che stava conducendo le indagini, fosse screditato, Tomer-Yerushalmi avrebbe diffuso il video.
Che all’interno delle carceri israeliane i palestinesi siano sistematicamente sottoposti a torture e trattamenti inumani è ormai un fatto accertato. Nell’ambito dello scambio di ostaggi concordato nell’ambito del cessate il fuoco tra Hamas e Israele, sui corpi di almeno 135 palestinesi (quasi tutti provenienti proprio dalla prigione di Sde Teiman) sono state rinvenute fratture, segni di corde al collo, occhi bendati, mani e piedi legati. Molti dei sopravvissuti alla detenzione nel carcere hanno raccontato di essere stati sottoposti a pestaggi regolari, scosse elettriche, privazione di cibo e sonno e svariati altri tipi di tortura. Anche i casi di violenza sessuale (compresa quella di gruppo) sono diffusi. In questo contesto, guardie carcerarie e personale medico si rifiutano puntualmente di prestare soccorso, anche quando è a rischio la sopravvivenza stessa dei soggetti.
Si tratta di una prassi perfettamente in linea con la linea definita dal ministero della Sicurezza Nazionale di Itamar Ben-Gvir: al momento del suo insediamento nel 2024, infatti, il nuovo commissario del Servizio carcerario israeliano, il tenente generale Koby Yaakoby, ha dichiarato che la propria priorità è proprio il peggioramento delle condizioni di detenzione dei detenuti palestinesi. Dopo il 7 ottobre, il numero dei detenuti nelle carceri israeliane è aumentato esponenzialmente: secondo l’ONU, sono almeno 75 i palestinesi morti durante la detenzione in carcere dall’inizio dell’aggressione israeliana nel 2023 al 31 agosto 2025. L’ente ha quindi intimato Israele di «porre fine con urgenza alla tortura sistematica e ad altri maltrattamenti nei confronti dei palestinesi detenuti». L’ennesimo appello caduto nel vuoto.
Roma, morto un operaio coinvolto nel crollo della Torre dei Conti
È deceduto l’operaio che ieri, dopo il crollo della Torre dei Conti, a Roma, era rimasto intrappolato per ore sotto le macerie. Si tratta di Octay Stroicu, lavoratore romeno di 66 anni, il quale era giunto in arresto cardiocircolatorio al Policlinico Umberto I dopo essere stato estratto dai detriti. Sul crollo, che ieri mattina ha coinvolto 4 dei 9 operai impiegati nel restauro della torre, indagano i Carabinieri del Comando di Piazza Venezia e della Compagnia di Roma Centro, insieme al Nucleo Ispettorato del Lavoro Carabinieri e Asl. La Procura capitolina ha aperto un’inchiesta per omicidio e disastri colposi.
Sciopero dei bancari in Tunisia: bloccate le transazioni
Oggi, lunedì 3 novembre, i dipendenti di banca tunisini hanno lanciato uno sciopero di due giorni. Durante lo sciopero, i bancari hanno interrotto l’erogazione dei servizi di transazione, bloccato gli sportelli di prelievo e disertato dal lavoro. Lo sciopero, spiega il sindacato UGTT, che ha organizzato la protesta, mira a chiedere un aumento salariale, in un contesto di difficoltà economica per i cittadini del Paese; il costo della vita, ha spiegato il sindacato, sta aumentando troppo velocemente, e gli stipendi non starebbero aumentando di pari passo.
Dal 7 ottobre Israele ha condotto quasi 40 mila attacchi in Cisgiordania
In questi ultimi due anni di genocidio, mentre Israele bombardava a tappeto la Striscia di Gaza, le violazioni del diritto internazionale in Cisgiordania da parte dello Stato ebraico non si sono mai arrestate; secondo un ultimo rapporto della Commissione per la Colonizzazione e la Resistenza (CWRC), dal 7 ottobre 2023, Israele ha condotto 38.359 attacchi e aggressioni nei confronti della popolazione palestinese cisgiordana; questi non contano le centinaia di incendi e migliaia di strutture demolite che hanno portato allo sfollamento di intere comunità. Le aggressioni si collocano all’interno di un progetto coloniale che, «approfittando delle circostanze belliche», punta a «rimodellare sistematicamente la geografia palestinese». In soli due anni Israele ha eretto 243 nuove barriere militari, legalizzato un totale di 46 entità coloniali, istituito 114 avamposti, creato 25 zone cuscinetto, e sequestrato 5.500 ettari ai palestinesi, con l’obiettivo di «trasformare la presenza militare dell’occupazione in una presenza civile permanente».
Il rapporto della CRWC è uscito lo scorso 5 ottobre e non tiene conto delle ultime violazioni dei coloni e dell’esercito israeliano in Cisgiordania; va a tal proposito rimarcato che a ottobre è iniziata la tradizionale raccolta delle olive, su cui il CRWC ha redatto un ulteriore documento: dall’inizio della stagione di raccolta, nella prima settimana di ottobre, Israele ha condotto 259 attacchi contro la popolazione palestinese. Dal 7 ottobre 2023 al 5 ottobre 2025, invece, le aggressioni sono state 38.359: il Governatorato in cui sono stati condotti più attacchi è Hebron, con 6.451 violazioni; seguono Ramallah con 5.684 e Gerusalemme con 4.915. Delle quasi 40.000 aggressioni, 7.154 sono state effettuate da coloni: in cima a questa lista figurano Nablus con 1.688 violazioni ed Hebron con 1.504. Agli attacchi si devono aggiungere anche gli incendi: dal 7 ottobre, Israele e i coloni hanno appiccato 767 incendi, di cui 221 su proprietà dei cittadini e 546 su campi e terreni agricoli; la maggior parte dei roghi – 244 – sono stati appiccati a Ramallah. Gli incendi hanno causato lo sfollamento di 33 comunità beduine, composte da 455 famiglie e un totale di 3.853 persone; hanno inoltre distrutto o danneggiato 48.728 alberi, di cui 37.237 ulivi.
Secondo il CRWC le violazioni e aggressioni israeliane vanno inquadrate alla luce del progetto coloniale di Tel Aviv. «Il governo israeliano sta sfruttando la guerra e il genocidio in corso contro il nostro popolo nella Striscia di Gaza e in tutti i territori palestinesi per imporre nuove realtà sul territorio e frammentare la geografia palestinese», si legge nel rapporto. L’obiettivo è «annettere il territorio, cancellare l’identità palestinese e privare il popolo palestinese dei suoi diritti fondamentali». A tal proposito, il rapporto si sofferma proprio su tutte quelle iniziative del governo israeliano volte – da una parte – a limitare la presenza palestinese in Cisgiordania e – dall’altra – a consolidare quella israeliana. Sul primo versante, negli ultimi due anni, Israele ha portato avanti 1.014 operazioni di demolizione che hanno coinvolto un totale di 3.679 strutture, la maggior parte delle quali a Gerusalemme(880), a Hebron (529) e a Tulkarem (464).
Parallelamente, lo Stato ebraico ha eretto 243 nuove barriere e posti di blocco militari nella regione, portando il totale delle strutture di tale genere a 916. Tel Aviv ha sequestrato 5.500 ettari di terra ai palestinesi, e ha avanzato 355 piani regolatori per costruire 37.415 edifici e unità coloniali che interessano altri 3.800 ettari palestinesi; la maggior parte dei piani (148) ha interessato il Governatorato di Gerusalemme, che si trova inoltre al centro del piano di insediamento E1, progetto con l’obiettivo dichiarato di spaccare in due la Cisgiordania. Israele ha inoltre creato 25 nuove zone cuscinetto, legalizzato 11 colonie già esistenti e 13 quartieri coloniali, ha autorizzato la costruzione di altre 22 colonie e ha istituito 114 nuovi avamposti, di cui 30 a Ramallah, 25 a Hebron e 18 a Nablus. Ha anche potenziato gli insediamenti già esistenti, approvando la costruzione di infrastrutture per 68 colonie. Visti in termini generali, i dati forniti dal CRWC mostrano come negli ultimi due anni, Israele ha aumentato le iniziative volte a confiscare e distruggere proprietà ai palestinesi, costruire avamposti coloniali e militarizzare la Cisgiordania, accelerando al contempo il processo di approvazione formale per tali operazioni.
OpenAI-Amazon: accordo da 33 miliardi
I colossi della tecnologia OpenAI (azienda proprietaria della chatbot ChatGPT) e Amazon hanno firmato un accordo da 33 miliardi di dollari. Di preciso Amazon Web Service (AWS), la divisione della multinazionale che fornisce servizi informatici di cloud, ha concesso a OpenAI di accedere ai servizi del gruppo per sette anni. L’accordo ha effetto immediato.
Neo Robot: l’assistente domestico che promette libertà ma vende sorveglianza
L’immaginario della fantascienza utopistica è popolato da mondi in cui robot e androidi si fanno carico dei mestieri più usuranti e umili, così che i loro padroni umani possano condurre vite più serene. Negli ultimi anni, diverse aziende sembrano intenzionate a tradurre questo ideale in realtà, annunciando la produzione di assistenti meccanici umanoidi destinati a entrare, entro pochi anni, tanto nelle fabbriche quanto nelle abitazioni private. Questo destino si dimostra però più vicino di quanto non sia lecito pensare: nei giorni scorsi l’azienda 1X ha presentato alla stampa il Neo Robot, un automa già in prevendita che, secondo le promesse, potrà essere utilizzato dai normali cittadini entro il 2026. Tuttavia, dietro l’apparente sogno virtuoso si celano molte ombre che, invece di essere limate, rischieranno di diventare le fondamenta della tecnologia di domani.
Il Neo Robot ha iniziato a far parlare di sé nel settore a partire dall’ultima settimana di ottobre, ovvero da quando Joanna Stern del Wall Street Journal ha pubblicato un approfondimento dedicato al prodotto, corredandolo con un’intervista al CEO di 1X, Bernt Bornich. Visto che l’azienda promette una macchina capace di accogliere gli ospiti alla porta, pulire casa usando scope e detergenti, piegare la biancheria e molto altro, la testata ha ben pensato di verificare la veridicità di tali ambizioni trascorrendo del tempo con l’automa. Nonostante il tono positivo – è un po’ promozionale – del servizio, il responso finale evidenzia tutti i limiti di uno strumento che funziona poco e male.
Durante la dimostrazione, Neo Robot si è limitato a spostare oggetti di piccole dimensioni e, cosa più interessante, a caricare una lavastoviglie. Nonostante sia lecito pensare che l’azienda abbia imbastito l’esperienza per mostrare i punti forti del suo prodotto, tutte le azioni sono state compiute con estrema lentezza e una certa goffaggine. Resta comunque innegabile che un simile passo rappresenti un traguardo tecnico interessante — se solo non fosse fondato su un grande equivoco. L’androide, infatti, non è autonomo, bensì viene “assistito”, se non addirittura teleoperato, da un tecnico munito di visore per la realtà virtuale. Sebbene l’azienda assicuri che in futuro un’intelligenza artificiale potrà autogestirsi “nella maggior parte dei casi”, il sistema prevederà comunque la possibilità per gli utenti di prenotare fasce orarie in cui un operatore umano potrà connettersi da remoto per eseguire compiti complessi.
Al “modico” prezzo di 20.000 dollari, l’acquirente potrà dunque dotarsi di uno strumento che registra costantemente tutto ciò che viene custodito tra le mura di casa, offrendo in cambio la possibilità — non proprio rassicurante — di essere osservato nella propria intimità da uno sconosciuto privo di volto. “Se compri questo prodotto, significa che accetti questa forma di contratto sociale”, ha dichiarato senza girarci attono Bornich. “Se non abbiamo i dati, non possiamo migliorare il prodotto.” 1X assicura inoltre che, sul modello degli assistenti vocali come Alexa, “nessun dipendente dell’azienda può ascoltare o visionare i dati raccolti” dai Neo Robot. La storia recente ci ricorda che Alexa registrava conversazioni anche non sollecitate, condividendole poi con aziende esterne, spesso all’insaputa degli utenti.
Al di là dell’incubo di dover sacrificare la privacy in nome di un’ipotetica comodità, il Neo Robot evidenzia con chiarezza le insidie dell’“aiwashing”: la pratica di presentare come autonomi prodotti che dipendono in realtà da un intervento umano costante. Anche i robot Optimus di Tesla, per esempio, sono tuttora controllati da uno staff umano, mentre i robotaxi dell’azienda vengono “assistiti” da tecnici pronti a intervenire in qualsiasi momento. Tornando indietro nel tempo, è noto che i presunti negozi automatici di Amazon Go fossero in realtà supportati da operatori indiani e che molti sistemi di intelligenza artificiale oggi in voga siano stati perfezionati grazie al lavoro sottopagato di subappaltatori in Paesi come Venezuela, Kenya e Uganda.
Il rischio, dunque, è che, incapaci di mantenere le promesse di efficienza, le aziende dell’IA si trasformino in realtà ibride in cui i modelli vengono “assistiti” da esseri umani reclutati nelle aree più vulnerabili del pianeta. Una forma di esternalizzazione invisibile dei lavori a basso valore, che consentirebbe alle imprese di ridurre costi e tutele, trasferendo i lavori di fatica a chi ha meno diritti. Non a caso, la parola “robot” deriva dal termine ceco robota, traducibile come “corvée”: prestazioni di lavoro gratuito dovute dai servi ai propri signori feudali. Un concetto preoccupantemente vicino a quello di schiavitù.









