martedì 25 Novembre 2025
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GrokPedia: la Wikipedia “anti-woke” fondata da Elon Musk è tutt’altro che neutrale

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Elon Musk ha decretato che l’universo necessita con urgenza di un garante della verità assoluta, libero da pregiudizi e condizionamenti ideologici. Fatalmente, ha ritenuto che tale ruolo spettasse a lui. Da questa premessa nasce GrokPedia, la nuova creatura di xAI — l’azienda di intelligenza artificiale da lui fondata. Si tratta di un’enciclopedia digitale lanciata ieri, martedì 28 ottobre che è mossa dall’ambizione dichiarata di spodestare Wikipedia, offrendo una visione del mondo più “neutrale”. Nella pratica, però, GrokPedia non fa che ricalcare la struttura della sua nemesi, apportando ritocchi minimi sufficienti a simulare una vaga impressione di originalità. Il risultato? Un progetto claudicante che rivendica imparzialità, ma che lascia trasparire una netta inclinazione politica verso i repubblicani.

Sulla carta, l’intuizione di Musk è chiara: sostituire l’ampia comunità di volontari che aggiorna Wikipedia con Grok, il chatbot di xAI. “Wikipedia si affida a redattori volontari i cui pregiudizi – spesso di sinistra – possono distorcere le voci su argomenti controversi”, spiega lo stesso Grok su X. “GrokPedia riduce al minimo la soggettività umana, concentrandosi su fatti verificabili e ragionamenti logici per offrire un riferimento più affidabile. La versione 0.1 supera già Wikipedia in termini di neutralità, con rapidi miglioramenti in vista”.

Musk critica da tempo l’enciclopedia libera, accusandola di essere troppo “woke”. Così, per ristabilire l’equilibrio dell’universo digitale, il magnate ha deciso di intervenire personalmente, affidandosi a quella che dovrebbe essere un’ipotetica oggettività della macchina. Peccato che la realtà suggerisca che il presupposto sia del tutto errato: uno studio della Columbia University evidenzia infatti come i modelli di IA riflettano inevitabilmente i valori culturali delle lingue e delle fonti su cui vengono addestrati. Quasi tutti i modelli sono stati sviluppati rastrellando indiscriminatamente la Rete e, pertanto, concedono ampio spazio alla prospettiva Occidentale, la quale ha avuto maggiori occasioni di dominare il web rispetto a quella di culture altre come quelle africane o asiatiche. In parole povere, un’IA “oggettiva” non esiste e quella di Musk non fa eccezione.

Sorvolando sulle implicazioni imperialiste di chi si arroga il diritto di universalizzare i propri valori culturali e ignorando per un momento il fatto che le intelligenze artificiali soffrano di frequenti “allucinazioni” che generano dal nulla informazioni del tutto infondate, resta un dato ineludibile, ovvero che Grok non può essere politicamente neutrale per una ragione tanto ovvia quanto strutturale: è controllato da Elon Musk. Nato come reazione al cosiddetto “virus mentale woke”, il chatbot si è però rivelato fin da subito allineato alle IA delle grandi aziende concorrenti, adottando una posizione moderata e conforme al politicamente corretto. Proprio per questo, Grok ha commesso il peccato cardinale per eccellenza: contraddire apertamente le convinzioni di Musk e le posizioni del Partito Repubblicano.

La cosa, prevedibilmente, non è piaciuta al suo creatore, il quale ha fatto notare su X che “sfortunatamente, Internet (su cui [Grok] è addestrato) è invaso da sciocchezze woke. Grok migliorerà”. La sedicente oggettività della statistica, insomma, andava corretta. xAI non ha mai offerto troppa trasparenza sulle modifiche apportate al sistema, tuttavia diversi indizi portano a credere che negli anni si siano registrati molteplici rimaneggiamenti, spesso effettuati in maniera maldestra e frettolosa: è accaduto, a esempio, quando Grok ha suggerito che sia Musk che il Presidente USA Donald Trump meritassero la pena di morte; o quando ha promosso senza ritegno la teoria del genocidio bianco in Sudafrica; o ancora quando ha iniziato a riportare testi scritti in prima persona per negare qualsiasi legame tra Musk e il trafficante di minori Jeffrey Epstein. Il punto di rottura è arrivato lo scorso luglio, quando il modello, nel tentativo di compensare il perbenismo iniziale, ha virato bruscamente verso la dottrina nazista, arrivando a presentarsi come “Mechahitler” — un episodio che ha messo a nudo i limiti strutturali del rimaneggiamento ideologico.

Con simili premesse, GrokPedia nasce su una base concettuale estremamente fragile, tuttavia riesce comunque a superarsi fino a raggiungere una dimensione tragicomica: una parte considerevole dei suoi articoli è copiata da Wikipedia — quella stessa enciclopedia che Musk accusa di faziosità. Grok attinge dalle pagine open source della nota enciclopedia online, quindi le riformula quel tanto che basta per imporre loro una narrativa più in linea con le idee Repubblicane.

grokpedia

Brasile, blitz nelle favelas contro i narcos: almeno 60 morti

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Durante un’operazione su larga scala delle forze speciali nelle favelas della zona nord di Rio de Janeiro, sono stati segnalati oltre 60 morti tra narcos e civili. Il blitz, che ha coinvolto più di 2.500 agenti con supporto di droni e mezzi blindati, aveva l’obiettivo di colpire i vertici del gruppo criminale Comando Vermelho, attivo nel traffico di stupefacenti. La reazione armata dei clan ha incendiato autobus, eretto barricate e generato colonne di fumo visibili in città.

Uragano Melissa devasta la Giamaica e colpisce Cuba

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L’uragano Melissa ha travolto la Giamaica con venti vicini ai 300 km/h, lasciando oltre 530 mila persone senza elettricità e infrastrutture «severamente compromesse». Dopo aver devastato la Giamaica, l’urgano si è abbattuto su Cuba. Secondo il quotidiano ufficiale Granma, le autorità cubane hanno già evacuato più di 700mila persone. Il bilancio provvisorio parla di almeno sette morti nei Caraibi e oltre 1,5 milioni di persone coinvolte negli eventi calamitosi.

Gaza: i bombardamenti israeliani hanno ucciso almeno 90 palestinesi

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Nella notte, nuovi bombardamenti israeliani hanno colpito la Striscia di Gaza, uccidendo, secondo fonti mediche palestinesi, almeno 90 persone, tra cui 24 bambini. Le sirene e le ambulanze hanno scandito ore di terrore, mentre gli aerei dell’IDF sorvolavano Khan Younis e Rafah e i campi profughi di Deir el-Balah e Shati. Il primo raid è partito dopo che il governo israeliano ha accusato Hamas di aver violato la tregua in vigore dal 10 ottobre. Il premier Benjamin Netanyahu ha ordinato all’esercito di effettuare «colpi immediati e potenti» contro la Striscia, mettendo in forse la mediazione statunitense. A Gaza la conta delle vittime cresce, mentre oltreoceano la Casa Bianca minimizza, sostenendo che «nulla metterà a repentaglio il cessate il fuoco».

A innescare la nuova escalation è stata una presunta imboscata contro una squadra del genio militare israeliano a Rafah. Militanti di Hamas avrebbero lanciato missili anticarro e tentato di colpire i soldati con cecchini appostati tra le rovine. L’esercito israeliano ha risposto con colpi di artiglieria verso le postazioni sospette, dando il via a una giornata di tensione crescente. Secondo i media dello Stato ebraico, un riservista di 37 anni delle IDF sarebbe stato ucciso. L’attacco è stato solo la scintilla finale che ha dato fuoco alle polveri. Per ore, l’opinione pubblica israeliana è stata monopolizzata dal caso della “finta restituzione” di una salma. L’ultimo corpo trasferito ieri sera in Israele dalla Striscia di Gaza non apparterrebbe, secondo Tel Aviv, a nessuno dei 13 prigionieri deceduti ancora detenuti da Hamas, bensì all’ostaggio Ofir Tzarfati, le cui spoglie erano state recuperate due anni fa dall’IDF. Un gesto che per Israele rappresenta la prova che Hamas continua a eludere gli accordi. Di fronte a queste accuse, Netanyahu ha convocato ieri pomeriggio una riunione urgente del gabinetto di sicurezza e ha dato ordine all’Israel Defense Forces di “riattivare i raid” in Gaza, dopo aver informato la Casa Bianca che avrebbe attaccato. Le incursioni sono partite poco dopo e hanno colpito diverse aree residenziali dell’enclave: almeno 42 palestinesi sono stati uccisi negli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza centrale, 31 nella Striscia di Gaza settentrionale e 18 nella Striscia di Gaza meridionale. Cinque palestinesi sono stati uccisi in uno degli attacchi più recenti, quando le forze israeliane hanno bombardato una tenda che ospitava sfollati a Deir el-Balah. Le autorità sanitarie della Striscia parlano di altre «decine di corpi sotto le macerie» e di una emergenza che nessuno osa più definire tregua.

La reazione internazionale non si è fatta attendere. Il presidente americano Donald Trump ha dichiarato che Israele ha il diritto di rispondere agli attacchi. «Hanno ucciso un soldato israeliano. Quindi gli israeliani hanno reagito. E dovevano reagire», ha spiegato Trump ai giornalisti sull’Air Force One, aggiungendo che non permetterà che la tregua venga compromessa: «Niente metterà a repentaglio» il cessate il fuoco, «Dovete capire che Hamas è una parte molto piccola della pace in Medio Oriente, e devono comportarsi bene». Allo stesso tempo, il vicepresidente JD Vance ha parlato di “scaramucce” e ha invitato alla calma: «La pace resisterà», ha sentenziato con ottimismo. Tuttavia, la tensione sul terreno è palpabile: l’ambasciatore turco ha definito gli attacchi «una chiara violazione del cessate il fuoco», mentre la mediazione egiziana resta in allerta per evitare una ripresa del conflitto su scala più ampia. Sale, intanto, la pressione dei ministri di estrema destra, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, sul premier israeliano, al quale chiedono un intervento forte per garantire la distruzione del movimento islamista. «Non puoi fare patti con il diavolo. Quanto è triste che avessi ragione», ha commentato Ben Gvir, che ha sempre osteggiato apertamente il piano di Trump per la pace. Il ministro della Sicurezza nazionale ha invitato Netanyahu a «spezzare quelle gambe su cui ancora si regge Hamas». La richiesta di una risposta dura arriva anche dall’opposizione. Per il presidente del partito Blu e Bianco, Benny Gantz, «le violazioni di Hamas non possono continuare senza una risposta dura».

Diciotto giorni: tanto ha tenuto la fragile tregua tra Hamas e Israele sancita dall’accordo di Sharm el Sheikh. C’erano già state delle avvisaglie nelle scorse settimane: il clima instabile poteva far prevedere il precipitare degli eventi e l’inizio dell’azione israeliana. Quella di ieri non è, infatti, la prima volta che Israele viola i termini della tregua: la più violenta violazione è avvenuta domenica 19 ottobre, quando Israele ha sganciato 153 tonnellate di bombe, uccidendo quasi 100 persone in un giorno solo. Secondo l’analista olandese-palestinese del Medio Oriente, Mouin Rabbani, Israele starebbe volutamente minando il cessate il fuoco imposto dagli Stati Uniti, senza aver mai rispettato pienamente gli impegni presi. Il ricercatore ha accusato Tel Aviv di usare pretesti per limitare gli aiuti e impedire le operazioni di soccorso sotto le macerie, erodendo gradualmente l’accordo. La vera incognita, afferma, resta la reazione di Washington di fronte a questa escalation controllata. Sul piano umanitario, la situazione peggiora di ora in ora: i raid interrompono il passaggio degli aiuti, aumentano gli sfollati e la sanità locale, già sovraccaricata, fatica a far fronte alle decine di morti e alle centinaia di feriti. A Gaza i medici chiedono un immediato cessate il fuoco per estrarre i corpi e curare i feriti. Il bilancio delle vittime cresce e la comunità internazionale osserva con crescente preoccupazione. Hamas ha riferito in un comunicato ufficiale di aver trovato i corpi degli ostaggi Amiram Cooper e Sahar Baruch durante le operazioni di ricerca condotte nel corso della giornata. In questo scenario, i nuovi raid rappresentano la cruda realtà di un conflitto che sembra non concedere soste.

La Spagna ha istituito sei nuove aree marine protette

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La Spagna ha annunciato l’istituzione di sei nuove aree marine protette, estendendo di altri 17.000 chilometri quadrati la porzione di mare soggetta a tutela ambientale. Si tratta di una delle mosse più concrete compiute di recente in Europa per salvaguardare la biodiversità marina, in linea con gli impegni assunti nell’ambito della Strategia europea per la biodiversità 2030. Con questo provvedimento, la protezione marina spagnola raggiunge il 22,45% del totale, avvicinandosi all’obiettivo del 25% da raggiungere entro la fine del 2025.
I nuovi siti includono zone di particolare ricchezza ecolo...

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Mali: l’ambasciata USA chiede ai cittadini di lasciare il Paese

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L’ambasciata statunitense in Mali ha intimato ai propri cittadini di lasciare il Paese. La richiesta dell’ambasciata arriva in un momento di crisi per il Mali, sotto attacco dai ribelli di Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM), movimento islamista affiliato ad Al Qaeda. Il Paese sta attraversando una grave carenza di carburante a causa di un assedio imposto dai miliziani di JNIM, che hanno imposto un blocco sulle autocisterne in entrata verso il Mali.

Per la prima volta in oltre 30 anni i lavoratori Benetton hanno scioperato

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Centinaia di lavoratori di Benetton, nota azienda italiana attiva nel settore tessile, hanno scioperato per la prima volta in 30 anni. La decisione di incrociare le braccia arriva in risposta a una e-mail che l’azienda ha inviato a 80 operatori, in cui li avvisa della decisione di applicare contratti di solidarietà per il 90% dell’orario lavorativo di qui al 31 dicembre, che – di fatto – li lascerebbero a casa nove giorni su dieci: la scelta dell’azienda, spiegano i lavoratori, è arrivata improvvisamente, senza alcun preavviso, e con effetto praticamente immediato, entro 3 giorni dall’invio della comunicazione. La protesta ha avuto luogo nello stabilimento di Castrette di Villorba, in provincia di Treviso, che conta circa 750 lavoratori, e ha visto la partecipazione del 75% del personale.

Lo sciopero dei lavoratori di Benetton si è svolto nella giornata di ieri, lunedì 27 ottobre; i lavoratori hanno incrociato le braccia per due ore nel primo turno del mattino, tra le 10 e le 12, e la protesta è continuata nel pomeriggio, quando vi si sono uniti gli operatori dei turni pomeridiano e serale. La manifestazione è iniziata nel piazzale davanti allo stabilimento, ma l’azienda ha impedito a giornalisti, fotografi e operatori mediatici di accedere al sito; i lavoratori si sono dunque spostati all’esterno del perimetro del complesso, sulla strada provinciale “Postumia”. Allo sciopero hanno aderito le rappresentanze sindacali interne e i sindacati Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil: i sindacati non si sono detti contrari all’applicazione di misure di ammortizzatori sociali nei confronti dei lavoratori; piuttosto hanno contestato la radicalità della misura e le modalità dell’azienda, che ha preso la decisione di applicare unilateralmente contratti di solidarietà per un quantitativo «sproporzionato» di ore, senza prima consultare gli organi di rappresentanza.

I contratti di solidarietà sono una forma di ammortizzatore che prevede la riduzione dell’orario lavorativo dei dipendenti a cui sono indirizzati, riducendo conseguentemente i costi dell’azienda; l’INPS interviene versando l’80% della retribuzione non corrisposta, per compensare le ore non lavorate ai dipendenti coinvolti dalla misura. Già l’anno scorso, i sindacati avevano concordato con l’azienda l’applicazione di contratti di solidarietà per il 40% delle ore, e incentivi al 30% per l’esodo volontario; i sindacati chiedono l’applicazione di misure meno drastiche nella riduzione dell’orario e di fare ruotare il personale lasciato a casa. «E ancora, Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil chiedono con urgenza chiarimenti relativamente al piano industriale dell’azienda per comprendere fino in fondo le prospettive future e le strategie strutturali che consentano di superare la fase di difficoltà senza penalizzare in alcun modo i lavoratori».

Lo sciopero di ieri è stato il primo degli ultimi 30 anni per i lavoratori del gruppo. Benetton è infatti in crisi da tempo. Dal 2012 a oggi, le vendite dell’azienda sono dimezzate, passando da circa 2 miliardi a poco più di un miliardo. Nell’ultimo anno l’azienda ha chiuso 500 negozi su circa 3.000, e nel primo semestre ha ottenuto ricavi per 279 milioni contro i 296 dell’anno prima.

Netanyahu ha ordinato attacchi “immediati e potenti” nella Striscia di Gaza

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Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ordinato al proprio esercito di «lanciare immediatamente potenti attacchi sulla Striscia di Gaza». L’annuncio è stato dato dall’ufficio del primo ministro, che ha spiegato che la scelta del premier segue una serie di consultazioni avviate oggi, martedì 28 ottobre, in seguito al processo di identificazione della salma dell’ultimo ostaggio consegnato alla Croce Rossa da Hamas; Israele accusa il gruppo palestinese di avere in realtà consegnato i resti di un ostaggio già recuperato dalle IDF nel 2023. Non è ancora chiaro quale sarà l’intensità della nuova aggressione israeliana su Gaza, né a cosa essa miri; lo stesso esercito israeliano ha fatto sapere di avere concordato con il ministro della Difesa Israel Katz la rimozione delle restrizioni imposte alle proprie truppe, dando campo libero ai soldati per operare anche oltre la cosiddetta linea gialla” dietro la quale dovrebbero rimanere stazionati.

L’annuncio dell’ufficio del primo ministro è giunto oggi alle 17:21 (ora italiana); qualche ora prima, attorno alle 11, lo stesso ufficio aveva fatto sapere che in seguito alle operazioni di identificazione della salma dell’ostaggio, le autorità avrebbero scoperto che i resti consegnati da Hamas fossero in realtà quelli di Ofir Tzarfati, soldato recuperato in una operazione militare nel dicembre del 2023. Per tale motivo, comunicano i media israeliani, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich avrebbe esercitato pressione su Netanyahu, chiedendo al premier di indire una riunione emergenziale di sicurezza per discutere dei prossimi passi. L’emittente israeliana Channel 13 riporta che durante la riunione sarebbero state avanzate tre ipotesi: limitare gli aiuti umanitari, occupare territori, e attaccare Gaza. Non è ancora chiara la portata degli attacchi che dovrebbero seguire all’annuncio di Netanyahu, ma secondo quanto comunicano anche le stesse IDF sembra che sarebbe stata scelta la terza opzione, che, di fatto, coincidealmenoanche con la prima. Il portavoce dell’esercito ha infatti reso noto che avrebbe rimosso le restrizioni imposte alle proprie truppe stazionate a Gaza a partire dalle 18 israeliane (le 17 italiane). 

Nel frattempo, tanto i giornali israeliani quanto quelli arabi riportano di presunti scontri tra le forze israeliane e i gruppi di resistenza nel sud della Striscia, a Rafah; Rafah è il capoluogo dell’omonimo Governatorato, quello situato nell’estremo sud della Striscia, al confine con l’Egitto, e risulta sotto controllo israeliano da mesi. Le brigate di Al Qassam, braccio armato affiliato ad Hamas, invece, hanno annunciato di avere trovato il corpo di un altro ostaggio, e che ne avrebbero ritardato la consegna in caso di ulteriori violazioni dell’accordo da parte di Israele; quella di oggi, non è infatti la prima volta che Israele viola i termini della tregua: La più violenta violazione è avvenuta domenica 19 ottobre, quando Israele ha sganciato 153 tonnellate di bombe, uccidendo quasi 100 persone in un giorno solo.

ENI continua a registrare utili: 1,2 miliardi nell’ultimo trimestre

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Nel terzo trimestre del 2025, ENI ha registrato un utile netto pari a 1,2 miliardi di euro. Tale cifra si riferisce all’utile rettificato (o “adjusted”), e dunque privato delle spese straordinarie; l’Ebit (Earnings Before Interest and Taxes – ossia utili prima degli interessi e delle tasse) rettificato, invece, è pari a circa tre miliardi. Tali risultati, per quanto in calo, risultano superiori a quanto stimato dal gruppo: Eni ha infatti aumentato per la seconda volta la propria stima annuale di generazione di cassa. È quanto riportato dal colosso energetico in un comunicato ufficiale. L’ebit rettificato dell’ultimo trimestre, rispetto allo stesso periodo precedente, ha registrato un calo del 12% dovuto a una flessione dei prezzi del petrolio che ha perso il 14% solo nell’ultimo trimestre andando a influenzare la prestazione del segmento E&P (l’esplorazione e la produzione), il “motore” principale del gruppo. La società ha comunque definito «solido» il risultato. Al contempo, hanno registrato risultati in crescita sia la divisione Gas (GGP e Power) che quella della Raffinazione, tornata in utile, mentre la chimica continua a registrare una perdita in un quadro complessivo a livello europeo che resta segnato da una prolungata recessione. Quanto ai primi nove mesi dell’anno, il risultato dell’utile operativo proforma rettificato si è attestata a 9,36 miliardi, in calo del 19% rispetto allo stesso periodo dell’anno prima.

L’amministratore delegato, Claudio Descalzi, ha parlato di risultati «eccellenti» ponendo l’accento su un aspetto determinante che ha permesso la crescita finanziaria del gruppo, vale a dire l’aumento della produzione di petrolio, in crescita del 6% rispetto al 2024. Secondo Descalzi, ciò «ci consente di alzare la guidance annuale sino a 1,72 milioni di barili al giorno confermando il trend di accelerazione destinato a proseguire nei prossimi mesi grazie ai nuovi campi in sviluppo in Congo, Emirati, Qatar e Libia, e all’avvio della combinazione di business in Indonesia e Malesia che costituirà uno dei principali player sul mercato del Gnl nel continente asiatico». Negli ultimi mesi, infatti, ENI ha investito massicciamente in attività di ricerca di nuovi giacimenti e perforazione in Africa e in Asia: in particolare, ENI ha assegnato alla connazionale Saipem nuovi contratti per un valore di 135 milioni di dollari per esplorare nuove aree strategiche dall’Africa Occidentale la Mediterraneo fino all’Indonesia. Inoltre, ENI pochi mesi fa ha investito dieci miliardi di dollari in Indonesia (nel Kalimantan Orientale) per la produzione di gas naturale e GNL.

Un altro aspetto cruciale per i risultati del Cane a sei zampe è, secondo lo stesso amministratore delegato, il modello satellitare introdotto da ENI, che ha permesso di valorizzare i business legati all’“upstream” (si tratta dell’esplorazione e dello sviluppo di nuovi giacimenti di petrolio e gas) e alla transizione energetica. Il modello satellitare consiste nella creazione di società indipendenti in grado di accedere al mercato dei capitali con una loro autonomia, così da poter finanziare la propria crescita rivolgendosi a investitori specializzati. Secondo la società, ciò consentirebbe di «accelerare lo sviluppo dei nuovi business ad alto potenziale legati alla transizione energetica, ma mantenendo la solidità che ci contraddistingue nelle attività tradizionali […]». Se da un lato, il colosso energetico ha spesso sottolineato l’attrattività delle sue controllate per il mercato, dall’altro, tale modello si traduce in quella tendenza a privatizzare parti di società strategiche per la sicurezza nazionale che è proseguita e si è accentuata con il governo Meloni. Tra le operazioni di questo tipo, ENI non ha solo firmato a giugno un accordo con il fondo statunitense Ares Management che prevede la cessione del 20% delle azioni di Plenitude, ma ha anche ceduto il 25% del capitale sociale di Enilive al fondo statunitense KKR. Come si nota, si tratta prevalentemente di aziende americane che entrano nelle aziende strategiche italiane con ripercussioni economiche e geopolitiche.

È proprio questa strategia di business che prevede la privatizzazione di aziende strategiche che avrebbe contribuito secondo Descalzi all’aumento degli utili della società. L’amministratore delegato, infatti, ha citato proprio alcune di queste cessioni: «La valorizzazione dei nostri business continua con l’incasso dalla cessione del 30% del campo di Baleine in Costa d’Avorio, secondo il consolidato dual exploration model, e con l’avanzamento della cessione del 20% della quota di Plenitude al fondo Ares, per il quale tutte le condizioni sospensive sono state completate. Con questa operazione i due business di Enilive e Plenitude hanno determinato incassi per circa 6,5 miliardi negli ultimi due anni».

In sintesi, l’aumento degli investimenti in ricerche di nuovi giacimenti e in attività di perforazione in tutto il mondo e il modello satellitare – che comporta la cessioni di quote di minoranza a aziende straniere – ha consentito a ENI di registrare risultati migliori rispetto a quelli attesi. A ciò si aggiunge anche un contesto di prezzi del greggio deboli e di un euro in rafforzamento che hanno consentito al Cane a sei zampe un’ottima prestazione economico-finanziaria, a scapito però della tanto sbandierata transizione energetica e della difesa degli asset nazionali, specie di quelli considerati strategici.

Apple raggiunge 4.000 miliardi di valore

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Con l’ultimo rialzo giornaliero dello 0,3%, il colosso tecnologico statunitense Apple ha raggiunto i 4.000 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato. L’azienda è la terza realtà quotata a superare tale soglia a livello globale, seguendo Nvidia e Microsoft, anch’esse attive nel settore tecnologico. A ora, Nvidia è in testa a la classifica con una capitalizzazione superiore ai 4.700 miliardi di dollari.