La Cina ha sospeso il divieto di esportazione di gallio, antimonio e germanio, metalli rari utilizzati nella produzione di semiconduttori, verso gli Stati Uniti. I semiconduttori vengono utilizzati per produrre microchip, componenti fondamentali della maggior parte dei prodotti tecnologici. Il divieto di esportazione era stato disposto dalla Cina nel dicembre del 2024. La sua sospensione rimarrà in vigore fino al 27 novembre 2026. Essa arriva qualche giorno dopo il raggiungimento di una tregua commerciale tra i due Paesi: il 5 novembre, Washington e Pechino hanno stipulato un’intesa per fermare i dazi aggiuntivi sui prodotti in entrata.
Gaza, superate le 69mila persone uccise
Sale a 69mila persone uccise il bilancio del genocidio del popolo palestinese commesso da Israele nella Striscia di Gaza. A riferirlo è l’agenzia di stampa WAFA, citando i dati forniti dalle autorità locali dopo il recupero di molti corpi sotto le macerie. Le vittime continuano a crescere anche a causa delle quotidiane violazioni del cessate il fuoco da parte di Israele, che dall’inizio della tregua raggiunta il 10 ottobre scorso ha ucciso 241 palestinesi, ferendone 614. Le persone ferite nella Striscia negli ultimi due anni salgono così a 170mila.
Cisgiordania, la violenza israeliana non ferma la lotta per il diritto alla terra
BEIT LID, CISGIORDANIA OCCUPATA – Circa duecento palestinesi e solidali internazionali si sono radunati ieri tra le colline palestinesi dei villaggi di Beit Lid e Kufr Qaddum, in protesta contro la recente costruzione di un nuovo avamposto israeliano sulle loro terre. Il 27 ottobre scorso, infatti, alcuni coloni sono arrivati sul posto e hanno iniziato a distruggere ulivi di oltre 70 anni, aggredendo con armi e bastoni chiunque cercasse di fermarli e cercando di bruciare vivo un uomo. E anche la protesta di ieri è stata soffocata con la violenza, tra lacrimogeni, bombe stordenti e manganelli, che hanno provocato diversi feriti tra i quali un giovane con le costole rotte.
«Siamo rimasti scioccati nel vedere come, il 27 dello scorso mese, alcuni coloni siano arrivati e abbiano iniziato ad abbattere ulivi di oltre 70 anni, per poi piantare una tenda al loro posto,» dice Ahmad (nome di fantasia), agricoltore della zona, a L’Indipendente. «Quando siamo andati a chiedere ai coloni cosa stessero facendo, ci hanno aggredito con bastoni, catene e coltelli. Hanno brutalmente aggredito un cittadino palestinese fino a ridurlo in fin di vita e hanno cercato di bruciarlo mentre era nella sua auto. Da allora è ricoverato in coma all’ospedale Najah di Nablus. Hanno anche distrutto molte auto e, allo stesso tempo, hanno attaccato il villaggio di Beit Lid, bruciando vari trattori e veicoli».
Il nuovo insediamento è figlio della colonia israeliana di Kedumim; dal 2023 gli avamposti stanno crescendo a dismisura in tutta la Cisgiordania occupata, e i villaggi di Kufr Qaddum e Beit Lid ne sono testimoni. Secondo l’ultimo rapporto della Commissione per la Colonizzazione e la Resistenza (CWRC), dal 7 ottobre 2023, Israele ha legalizzato 11 colonie già esistenti e 13 quartieri coloniali, ha autorizzato la costruzione di altre 22 colonie e ha istituito 114 nuovi avamposti. Cifre che non si vedevano dagli anni ‘80, e che testimoniano la velocizzazione del processo di occupazione territoriale e la pulizia etnica sempre più violenta in corso in Cisgiordania.
«Ci sono circa 400 agricoltori provenienti da Kafr Qaddum, 400 da Deir Sharaf e 400 da Beit Lid, oltre ad altri provenienti dal villaggio di Qusin. La zona è classificata come Area B e collega tre bacini regionali,» continua Ahmad. «Il loro obiettivo [degli israeliani, ndr] è quello di prenderne il controllo e dominare l’area in cui ci troviamo attualmente, allontanando i contadini dalle loro terre».
La pratica è spesso la stessa: i coloni occupano un nuovo pezzo di terra e installano una tenda, un caravan, iniziano a costruire una tettoia. Vengono a pascolarci con le pecore. Poi mettono delle barriere, sorge la prima baracca. E l’avamposto diventa velocemente un nuovo insediamento israeliano, nato rubando terre, e vita, alle comunità palestinesi della zona. «Siamo rimasti qui con determinazione dal 27 dello scorso mese fino ad oggi. Abbiamo organizzato un’attività che continuerà a svolgersi settimanalmente nella zona fino a quando questo avamposto dell’insediamento non sarà rimosso. A qualsiasi costo», conclude Ahmad.
È appena finita la preghiera del venerdì, che i residenti hanno voluto simbolicamente svolgere qui, sulla collina che domina la vallata dietro la quale è installato il nuovo avamposto. Le comunità non sono nuove nella resistenza: da anni, infatti, subiscono la sottrazione di ettari di terra, limitazioni al movimento, distruzione dei propri uliveti e violenze di ogni genere da parte di coloni e militari. Gli abitanti di Kufr Qaddum scendono in protesta proteste ogni fine settimana dal 2010, contro l’esproprio di quasi 1.000 acri (405 ettari) di terra, rubati per far posto ad un insediamento israeliano. Una colonia che si è anche privatizzata la strada principale che dal paese portava a Nablus, bloccando il transito ai palestinesi. Dal 7 ottobre 2023 le settimanali proteste del venerdì erano molto limitate data l’enorme repressione dell’esercito. Ma ora – probabilmente – torneranno a farsi sentire con forza per bloccare sul nascere l’ennesimo tentativo coloniale.
In lontananza, due jeep israeliane stanno risalendo la strada agricola che si avvicina alla collina. Scendono vari militari. Non passa molto tempo che iniziano a sparare lacrimogeni e bombe stordenti nel tentativo di disperdere la folla, che si allontana, ma poi torna. I lacrimogeni vengono rispediti indietro, i militari ne lanciano altri. Si continua così finché, a causa del fumo tossico, si è obbligati ad arretrare e i soldati, fucili in mano, avanzano. Sparano anche proiettili di gomma, un uomo viene ferito ed è portato via in barella verso l’ospedale. Si scoprirà dopo che ha una frattura in una gamba. Si arriva di fatto al contatto fisico; i militari prendono a calci e spintoni alcuni attivisti rimasti davanti, poi provano ad arrestare un palestinese “colpevole” di avergli rimandato addosso un lacrimogeno, o una pietra. Gli altri manifestanti fanno scudo, non lo lasciano prendere. I militari scaricano raffiche di mitra in aria, ma sono costretti ad arretrare. A mani vuote.
Vari i feriti, un giovane finisce all’ospedale con tre costole rotte a causa dei colpi ricevuti dal calcio del fucile usato come manganello. La protesta continua, arrivano altri soldati ma si tengono lontani. Ricominciano a sparare qualche lacrimogeno, anche tramite l’uso di un drone. Sulla collina, qualche solidale italiano presente intona Bella ciao. La resistenza, sulle colline tra Beit Lid e Kufr Qaddum, continua.
L’USB lancia lo sciopero generale per il 28 novembre, CGIL e CISL boicottano
È svanita l’idea di uno nuovo sciopero generale e generalizzato, capace di seguire le orme della mobilitazione del 3 ottobre scorso, quando oltre due milioni di persone hanno manifestato in tutta Italia contro il genocidio in Palestina, l’assalto israeliano alla Flotilla e le politiche del governo Meloni. A nulla sono infatti serviti gli appelli provenienti dal mondo sociale: allo sciopero generale convocato da USB e gli altri sindacati di base per il 28 novembre contro la manovra dell’esecutivo non parteciperà la CGIL, che ha preferito indire una mobilitazione analoga per il 12 dicembre. Il giorno dopo scenderà invece in strada la CISL, contro una legge di bilancio «sbagliata, ingiusta, che non aumenta i salari». Non è ancora chiara la posizione della UIL, anch’essa critica verso la manovra. Se dalla spaccatura del fronte sindacale ne escono indeboliti i lavoratori, perdendo l’occasione di una rappresentanza unitaria, l’esecutivo gongola e Giorgia Meloni ironizza: «Nuovo sciopero generale della CGIL contro il Governo annunciato dal segretario generale Landini. In quale giorno della settimana cadrà il 12 dicembre?», rispolverando la retorica che declassa lo sciopero da strumento di pressione a gita fuori porta.
«Aumento vertiginoso delle spese militari, il solito pacchetto di aiuti alle imprese, oboli in più in busta paga attraverso il versante fiscale per un ceto medio i cui salari sono stati letteralmente mangiati dall’inflazione e il nulla cosmico per i pensionati» e coloro che vivono in condizioni di povertà assoluta. Con queste parole i sindacati di base (CUB, USB, COBAS, ADL, CLAP, SIAL, SGB) hanno riassunto la nuova legge di Bilancio, convocando in risposta uno sciopero generale per il 28 novembre, accompagnato il giorno seguente da una giornata di mobilitazione a Roma, in solidarietà al popolo palestinese. La mediazione con la CGIL per uno sciopero generale e generalizzato come quello del 3 ottobre scorso è fallita tra accuse reciproche, nonostante gli appelli provenienti da più direzioni. Relativamente all’idea di indire un ulteriore sciopero per il 12 dicembre i lavoratori Ex-GKN hanno ad esempio avanzato una doppia critica, «perché non puoi seriamente pensare di cambiare la manovra del Governo il 12 dicembre» — dal momento che deve ricevere l’approvazione dal Parlamento entro la fine dell’anno — e «perché dimostri di non aver tratto alcun insegnamento dal passato», in riferimento all’elevata partecipazione agli appuntamenti congiunti, a partire dal 3 ottobre scorso.
Poche ore dopo l’annuncio della CGIL, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ironizzato sulla scelta della data (un venerdì), rispolverando una retorica che declassa lo sciopero da strumento di pressione a scusa per allungare il fine settimana, dimenticando che l’astensione dal lavoro comporta una riduzione dello stipendio, non proprio l’ideale in un Paese coi salari bloccati da 30 anni.
È morto Peppe Vessicchio
Peppe Vessicchio è morto all’età di 69 anni. Il celebre direttore d’orchestra era stato ricoverato a Roma, all’ospedale San Camillo, a causa di una polmonite. Nato a Napoli il 17 marzo 1956, Vessicchio ha esordito nel mondo della musica collaborando con diversi artisti, tra cui Gino Paoli ed Edoardo Bennato. Negli ultimi anni era diventato noto ai più per le trenta partecipazioni al Festival di Sanremo, dove ha vinto quattro volte come direttore d’orchestra.
Trentino, l’orso M90 fu ucciso «con crudeltà»: a processo il presidente Fugatti
Il presidente della Provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti, dovrà rispondere in tribunale per l’uccisione dell’orso M90, avvenuta il 6 febbraio 2024 in Val di Sole. Il giudice per le indagini preliminari di Trento, Gianmarco Giua, ha infatti respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura, disponendo l’imputazione coatta per il governatore, accusato del reato di uccisione di animale con crudeltà. Secondo il Gip, l’esemplare di due anni e mezzo «fu ucciso in modo crudele» e morì «dopo una lunga agonia». Oltre a Fugatti, sono stati iscritti nel registro degli indagati il capo del Corpo forestale, Raffaele De Col, e il dirigente del Servizio foreste e fauna, Giovanni Giovannini. La decisione segue l’opposizione presentata da associazioni animaliste, in particolare l’Enpa.
L’episodio risale ai primi giorni del febbraio scorso, quando l’orso M90 aveva seguito una coppia di escursionisti per circa settecento metri lungo un sentiero nei boschi di Mezzana, in Val di Sole. Poche ore dopo la firma del decreto di abbattimento da parte del presidente Fugatti, l’esemplare è stato ucciso. Tuttavia, le modalità dell’intervento sono al centro delle accuse: l’orso, dotato di radiocollare e quindi facilmente rintracciabile, non è stato narcotizzato prima di essere colpito. Secondo quanto emerge dall’ordinanza del Gip, l’animale è stato raggiunto da due colpi di fucile, che non ne hanno però provocato la morte immediata. «L’autopsia ha evidenziato che l’orso morì dissanguato per un’emorragia interna dopo una lunga agonia. Nessun veterinario era presente, contrariamente al protocollo Pacobace», si legge all’interno della pronuncia. Queste circostanze hanno portato il giudice a ritenere «già sufficiente la base probatoria» per procedere per il reato di uccisione con crudeltà. Con l’imputazione coatta, la Procura di Trento dovrà ora formalizzare l’accusa entro dieci giorni. Si aprirà quindi la fase dell’udienza preliminare, in cui il giudice deciderà se procedere con il rinvio a giudizio.
La decisione del Gip ha accolto l’opposizione presentata da diverse associazioni animaliste, in primo luogo l’Ente Nazionale Protezione Animali (Enpa), che si erano costituite parte civile contro la richiesta di archiviazione. La presidente nazionale Enpa, Carla Rocchi, ha commentato: «Questa ordinanza segna un momento storico per la tutela della fauna selvatica in Italia. M90 è morto tra atroci sofferenze, senza una vera giustificazione. Oggi, finalmente, qualcuno è chiamato a risponderne». Dal canto suo, il presidente Fugatti ha fatto sapere di prendere «atto del provvedimento» e di confermare «di essere pronto a presentarsi dinanzi al giudice per difendere le proprie posizioni». Sottolineando di aver agito in «piena legittimità», il governatore ha affermato che la decisione di abbattere l’orso è stata adottata «sulla base degli elementi tecnici e delle competenze attribuite alla Provincia, con l’obiettivo prioritario di tutelare l’incolumità pubblica e garantire la sicurezza del territorio». Al suo sostegno è arrivata anche la «convinta solidarietà» da parte della Lega, forza politica cui appartiene.
Nonostante i numerosi ricorsi e contro-ricorsi finiti davanti ai giudici amministrativi, sono stati tre gli esemplari abbattuti nel corso del 2024 nella provincia di Trento. Oltre a M90, era stata uccisa anche l’orsa KJ1, eliminata dal Corpo forestale poco dopo la firma di un decreto di abbattimento da parte di Fugatti, che aveva fatto seguito alla revoca di due precedenti ordinanze sospese dal TAR. A nulla era valso il tentativo delle associazioni animaliste di avanzare immediatamente un’istanza cautelare contro la misura a margine della decisione del presidente della provincia di Trento. L’orsa KJ1 era ritenuta responsabile di vari contatti con l’uomo, tra cui l’aggressione nei confronti di un turista francese di 43 anni verificatasi a Dro lo stesso mese. A fine novembre era poi stato abbattuto l’orso M91, classificato come «pericoloso» ai sensi del Piano di conservazione dell’orso nelle Alpi Centro e l’operazione aveva anche l’appoggio dell’ISPRA. L’ordinanza, tuttavia, era stata firmata dal presidente Maurizio Fugatti la sera del 30 novembre, poche ore prima dell’abbattimento. Per le associazioni ambientaliste si è trattato di un metodo «antidemocratico», che ha reso «impossibile rivolgersi al Tar», che spesso in passato aveva bloccato gli abbattimenti disposti da Fugatti, «per chiedere la sospensione di un decreto tanto sanguinario quanto assurdo».
Ucraina, raid russi contro complesso militare e impianti energetici
Il Ministero della Difesa russo ha annunciato di aver condotto un massiccio attacco contro obiettivi in Ucraina in risposta ai raid effettuati dall’esercito di Kiev. Lo ha riportato l’agenzia Tass. L’offensiva, effettuata con missili a lungo raggio e alta precisione lanciati da aria, terra e mare – inclusi i missili ipersonici Kinzhal e droni d’attacco – ha colpito imprese del complesso militare-industriale ucraino e impianti di gas ed energia che, secondo Mosca, sostenevano le operazioni ucraine. Il Ministero ha affermato che tutti i bersagli sono stati centrati e gli obiettivi dell’operazione pienamente raggiunti.
La vera libertà è il vagabondaggio
Queste parole stavano su un piccolo manifesto trovato molti anni fa in un paesino sui Pirenei francesi. Motto perfetto per un camperista come me, che da quasi quarant’anni attraversa l’Europa.
Tutti abbiamo una qualche idea di che cosa sia un popolo ma che cosa sia davvero la gente pochi lo sanno veramente. Girare in camper ti permette di fartene un’idea, anzi tante idee, e le più varie, perché la folla è più o meno anonima ma le persone no, le persone se le fai parlare in condizioni informali ti regalano spezzoni di film, inquadrature, scene, sequenze di una fiction. Ognuno è irripetibile ma nello stesso tempo è rappresentante di qualcosa.
Il contadino a Cabo Espichel, Portogallo, che all’alba portava la sua frutta e verdura in quel posto sperduto e rimpiangeva con me di non aver studiato, perché avrebbe voluto scrivere qualcosa anche lui sullo sfruttamento delle maestranze in Alentejo come aveva fatto il grande Saramago.
La ciclista nella Vandea, Francia, che aveva lasciato la bici fuori dalla chiesa sperduta. Saint-Révérien abbazia cluniacense del XII secolo. Eravamo arrivati lì quasi per sbaglio, sul Cammino francese di Santiago, io e Ave, appassionata e studiosa fra l’altro di arte medievale, e anche lei pilota indomabile. Appena entrati una commozione speciale: i capitelli tutti intatti, che non avevano subito l’oltraggio delle truppe napoleoniche. Una enciclopedia di simboli. E la ciclista che aveva appena deposto dei fiori di campo su una spalliera, stava disegnando una di quelle sirene di pietra.
A proposito di fiori, per par condicio, indimenticabile il busto di Karl Marx nel parco cittadino di Neubrandenburg, Pomerania, Germania dell’Est, e quell’ombra indistinta che si allontana nella nebbia della sera dopo aver lasciato dei garofani bianchi.
E sul Baltico, Rostock, i musicisti di strada che eseguono brani folclorici con strumenti tradizionali. Ti avvicini, ti parlano in quell’inglese improbabile da turista e ti dicono che un po’ sono russi e un po’ ucraini ma che le canzoni erano le stesse.
Ivo ci aveva portati a visitare l’isola delle donne e l’isola degli uomini, in Croazia, prigionia-lager dei nemici di Tito. Ma con la barca eravamo andati a sbattere contro una bora contraria pazzesca. E allora Ivo aveva tirato fuori grappa per tutti. E sembravamo, gente di mezza Europa, la barca dei rovinati, come si chiamava nel Cinquecento, la piccola nave su cui si imbarcavano i relitti sociali, canzonatori del potere, personaggi di quel mondo alla Rabelais su cui avevamo letto gli studi fantastici del russo Mihail Bachtin.
Lassù in Norvegia, verso il Circolo polare, ci mettiamo in una serata gelida a parlare con Knut, non troviamo la presa per l’elettricità, lui ci fa vedere come si fa ma un attimo dopo ci scateniamo con le ricette di baccalà e stoccafisso. E quel ragazzo al mercato del pesce, sempre nel grande Nord, siciliano? Io faccio il professore sul mare che unisce i popoli più diversi e lui incazzato con Salvini a cui dà la colpa se ha dovuto diventare emigrante.
E Bakunin? C’è posto anche per lui. Il tipo dell’Ufficio di Turismo vuol farmi salire sul riksciò perché vede che faccio fatica a camminare. Ma gli dico no grazie e gli chiedo che cosa fa nella vita. Si sta per laureare alla Sorbona sul tema del potere con una allieva di Michel Foucault…
E la polacca incontrata in un parco naturale di ampiezza sterminata. Vende gilet di renna, è di Wadowice, il paese di papa Wojtyła. Dipinge, ancora adesso dopo molti anni ci seguiamo su Instagram. Ci racconta la splendida leggenda dei troll, di queste piccole scorbutiche creature fantastiche che abiterebbero appena sottoterra, facendo trapelare ogni tanto la loro testa sotto quelle zolle rialzate che si vedono in lontananza.
La realtà insomma, per chi la va a cercare, si trasfigura continuamente, assume le dimensioni del mito e la gente, ognuno di noi, è portatore di storie, di incantesimi perfino. E hai l’impressione che raccogliere racconti in giro abbia a che fare con un compito. Sentirci parte di uno stesso teatro.
Revocate le sanzioni USA contro il presidente siriano Ahmed al Sharaa
Gli Stati Uniti hanno rimosso le sanzioni contro il presidente siriano Ahmed al Sharaa, in vista dell’incontro della prossima settimana con Donald Trump. Il provvedimento segue una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU e decisioni analoghe adottate da Regno Unito e Unione Europea. Revocate anche le misure contro il ministro dell’Interno Anas Khattab. La decisione ha un forte valore simbolico, segnando il pieno reintegro della Siria nella comunità internazionale dopo la fine del regime di Bashar al Assad. Al Sharaa e Trump si erano già incontrati a maggio a Riad, in Arabia Saudita.
Morti sul lavoro, la strage silenziosa: 784 vittime da gennaio a settembre
Continua a mietere vittime la strage sui luoghi di lavoro del nostro Paese. È quanto attestato dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro e Ambiente Vega Engineering, che evidenzia dati impietosi: da gennaio a settembre 2025 si sono registrati 784 decessi, 8 in più rispetto allo stesso periodo del 2024. Il bilancio comprende 575 morti in occasione di lavoro e 209 in itinere, con oltre la metà del territorio nazionale classificato a rischio elevato. I settori più colpiti rimangono le costruzioni e le attività manifatturiere, mentre le regioni del Nord mostrano i numeri assoluti più alti, nonostante un rischio relativo inferiore rispetto al Mezzogiorno. La situazione, in realtà, è ancora più preoccupante: il computo è stato infatti redatto sulla base dei dati diramati dall’INAIL, che – come hanno già provato recenti rapporti di centri di ricerca indipendenti – non contemplano la totalità dei casi effettivi.
L’analisi del rischio morte sul lavoro rivela un’Italia spaccata in due. Come attestato dal report, a finire in zona rossa a settembre 2025, con un’incidenza superiore al 25% rispetto alla media nazionale di 24 morti ogni milione di lavoratori, sono Basilicata, Umbria, Campania, Puglia e Sicilia. Seguono, in zona arancione (ove si segnala un’incidenza infortunistica compresa tra il valore medio nazionale e il 125% dell’incidenza media nazionale), Liguria, Calabria, Abruzzo, Trentino-Alto Adige, Veneto, Piemonte e Sardegna. La maglia nera per il maggior numero assoluto di vittime in occasione di lavoro spetta alla Lombardia con 73 decessi, seguita da Veneto (60), Campania (57), Piemonte ed Emilia-Romagna (47).
I lavoratori di età maggiore ai 65 anni rappresentano il target più vulnerabile, con un’incidenza di mortalità che raggiunge i 78 decessi ogni milione di occupati. Seguono i lavoratori tra i 55 e i 64 anni (37,5) e quelli tra i 45 e i 54 anni (24,6). Numericamente, però, la fascia più colpita è quella tra i 55 e i 64 anni, con 200 vittime sulle 575 totali in occasione di lavoro. Risulta poi particolarmente allarmante la situazione dei lavoratori stranieri, che registrano un rischio di morte sul lavoro più che doppio rispetto agli italiani: 49,7 morti ogni milione di occupati contro i 21,0 degli italiani. In totale, sono 171 gli stranieri vittime di infortuni sul lavoro, di cui 125 deceduti in occasione di lavoro e 46 in itinere. Negativo anche il bilancio delle vittime di sesso femminile: le donne coinvolte in incidenti mortali sono infatti 68, con 33 decessi in occasione di lavoro e 35 in itinere, segnando un aumento di 5 unità rispetto al 2024.
Il settore delle costruzioni si conferma il più pericoloso con 99 decessi, seguito da attività manifatturiere (83), trasporti e magazzinaggio (71) e commercio (54). Per quanto riguarda la distribuzione temporale, il venerdì risulta il giorno più luttuoso della settimana, con il 22,3% degli infortuni mortali, seguito dal lunedì (20,8%) e dal giovedì (16,8%). Le denunce di infortunio totali mostrano un lieve aumento dello 0,7%, passando dalle 433.002 di fine settembre 2024 alle 435.883 di quest’anno. Le attività manifatturiere registrano il numero più alto di denunce (52.283), seguite da costruzioni (28.210) e sanità (27.492).
Eppure, questi dati sembrano costituire solo una sottostima del reale bilancio. Basti pensare che, a inizio agosto, l’Osservatorio Nazionale Morti sul Lavoro ha attestato in un suo rapporto che in Italia, dal 1° gennaio 2025 sino al 31 luglio, sono deceduti 873 lavoratori, di cui 621 sul posto di lavoro, con una media di una morte ogni 6 ore. Un computo che va ben oltre le statistiche dell’INAIL, che escludono migliaia di lavoratori non assicurati o assicurati con altri enti. L’Osservatorio ha specificato che, tra le vittime, oltre il 30% ha più di 60 anni (di cui il 17% oltre 70) e il 32% è costituito da stranieri. Le categorie più colpite includono i lavoratori agricoli, gli autotrasportatori e chi soffre per stress da superlavoro.








