lunedì 25 Agosto 2025
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Reato di femminicidio, via libera dal Senato

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Il Senato ha approvato all’unanimità un disegno di legge che introduce il reato specifico di femminicidio nel Codice Penale (art. 577 bis), punibile con l’ergastolo. Il provvedimento definisce il femminicidio come l’uccisione di una donna per motivi di odio, controllo o rifiuto relazionale, estendendolo anche a chi si identifica come donna. Rafforzate anche le aggravanti per maltrattamenti e stalking. Previsti 10 milioni per orfani e minori colpiti da questi crimini. Soddisfazione bipartisan, ma le opposizioni criticano l’assenza di fondi per la prevenzione e l’educazione affettiva nelle scuole, osteggiata dal centrodestra.

Russia, aereo passeggeri si schianta a Tynda: almeno 43 morti

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Un aereo passeggeri Antonov An-24 operato dalla Angara Airlines si è schiantato su una montagna vicino a Tynda, nell’oblast di Amur, in Russia. Lo ha confermato l’agenzia russa Tass. A bordo ci sarebbero stati 43 passeggeri, tra cui 5 bambini e 6 membri dell’equipaggio, che secondo i servizi di emergenza sarebbero tutti deceduti. Nelle scorse ore l’aereo aveva perso i contatti con i controllori di volo proprio mentre si avvicinava alla sua destinazione, Tynda. La fusoliera in fiamme è stata individuata da un elicottero Mi-8 a circa 15 km dal centro.

A Gaza ormai la fame uccide quanto le bombe israeliane

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Mentre i governi occidentali continuano a rilasciare parole di condanna verso i crimini di Israele in Palestina, le vittime per la carestia a Gaza aumentano di giorno in giorno. Nella sola giornata di ieri, mercoledì 23 luglio, il ministero della Sanità della Striscia ha riportato la morte per fame di 10 persone, che hanno portato il totale di decessi per malnutrizione e carestia a 111. La maggior parte di questi decessi è avvenuta negli ultimi giorni. A questi si aggiungono gli oltre 1.000 palestinesi uccisi mentre cercavano di ottenere del cibo, colpiti dai proiettili israeliani. Per denunciare la precarietà delle condizioni dei palestinesi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha detto che i palestinesi stanno morendo a causa di una «carestia di massa causata dall’uomo», e oltre 100 ONG hanno rilasciato un comunicato congiunto in cui avvertono del sempre più imminente rischio di «carestia di massa». «I governi devono smettere di aspettare il permesso per agire», hanno scritto; «È il momento di prendere azioni decisive».

La situazione umanitaria, e specialmente quella alimentare, a Gaza, è disastrosa. L’ONU riporta che tutti i suoi panifici rimangono ancora chiusi. Le cucine comunitarie riescono a garantire meno di 160.000 pasti, e la cittadinanza sopravvive con un singolo pasto al giorno, «scarsamente nutriente». Secondo il Programma Alimentare Mondiale, quasi una persona su tre trascorre intere giornate senza mangiare, e molti sono costretti a cercare avanzi di cibo nella spazzatura. Altro problema è l’accesso al già poco cibo in circolazione: secondo l’ONU, i prezzi dei prodotti alimentari ancora disponibili sul mercato sono saliti alle stelle, mentre la maggior parte del cibo è disponibile solo a costo di rischiare la vita presso i punti di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation presidati dall’esercito. Israele, nel frattempo, continua a impedire che il flusso degli aiuti umanitari scorra agevolmente nella Striscia: nell’ultima settimana, i gruppi umanitari hanno organizzato 75 missioni per distribuire in maniera più capillare gli aiuti, tentando di coordinarsi con le autorità israeliane. Di queste, quasi il 23% è stato respinto; un ulteriore 21% è stato inizialmente accettato, ma ha incontrato ostacoli, tra cui blocchi o ritardi sul campo che hanno portato all’interruzione o alla riuscita parziale delle missioni; e un altro 25% ha dovuto essere ritirato dagli organizzatori per motivi logistici, operativi o di sicurezza. Sono insomma meno di un terzo le missioni andate a buon fine.

In questo contesto, la diversificazione della dieta è praticamente assente: i latticini non fanno più parte della dieta delle persone, il consumo di verdure è diminuito drasticamente e l’assunzione di frutta è quasi assente; le fonti proteiche come carne, pollame e uova, che in precedenza venivano consumate tre giorni a settimana, sono completamente scomparse dalle diete domestiche. A rimanere in qualche modo disponibili sono solo i legumi e il pane. La mancanza di diversificazione nella dieta porta a carenze nutrizionali e aumenta il rischio di malnutrizione acuta, in particolare tra i soggetti più a rischio, come bambini e donne in gravidanza e in allattamento; essa inoltre aumenta il rischio di contrarre malattie che indeboliscono il sistema immunitario. Nelle prime due settimane di luglio, nei soli governatorati di Deir al Balah e Khan Younis, 5.000 dei circa 56.000 bambini sottoposti a test sono risultati affetti da malnutrizione acuta: si tratta del 9% del totale, un aumento del 50% rispetto al mese precedente. A Gaza City, invece, la situazione è ancora più allarmante: i bambini affetti da malnutrizione acuta sono risultati il 16% dei circa 15.000 sottoposti a test. Da gennaio 2025, sono 20 i bambini morti per malnutrizione acuta grave, di cui 13 deceduti solo a luglio.

Secondo una proiezione di un ufficio delle Nazioni Unite, tra aprile 2025 e marzo 2026 rischiano di verificarsi circa 71.000 casi annui di malnutrizione acuta tra i bambini di età compresa tra 6 e 59 mesi, tra cui 14.100 casi gravi. La malnutrizione, tuttavia, non colpisce solo i bambini: secondo le stime, l’intera popolazione di Gaza è entrata almeno nel terzo stadio (su 5) della scala IPC (Classificazione Integrata delle Fasi di Sicurezza Alimentare), che misura la gravità delle crisi alimentari. Questo significa che l’intera popolazione palestinese di Gaza presenta significativi deficit nei consumi alimentari, con livelli di malnutrizione acuta superiori alla norma; il tasso di mortalità per stenti è compreso tra lo 0,5% e l’1%. Circa la metà della popolazione è invece entrata nel quarto livello della scala IPC, che presenta un tasso di mortalità maggiore dell’1% e inferiore al 2%. Un quarto dei palestinesi ha già raggiunto il quinto livello della scala IPC, quello riservato alle “catastrofi umanitarie”, in cui il tasso di mortalità è superiore al 2%.

Vicenza, vittoria dei comitati: il bosco Lanerossi non sarà abbattuto

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Il bosco Lanerossi di Vicenza, un’area verde di circa 15.000 metri quadrati, è stato salvato dalla demolizione prevista per fare spazio ai lavori del secondo lotto funzionale della tratta Alta Velocità Verona-Padova. Dopo un anno di mobilitazione degli attivisti, che hanno difeso il polmone verde dai piani di abbattimento, il sindaco Giacomo Possamai ha annunciato che il progetto di abbattere l'area è stato abbandonato. Il bosco rimarrà dunque intatto e sarà trasformato in uno spazio pubblico per gli abitanti del quartiere dei Ferrovieri. La lotta contro la distruzione del bosco ha visto l’imp...

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La Thailandia ha richiamato il suo ambasciatore in Cambogia

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La Thailandia ha annunciato di avere richiamato il proprio ambasciatore in Cambogia e che espellerà l’ambasciatore cambogiano. L’annuncio arriva dopo un incidente avvenuto lungo il confine conteso tra i due Paesi, in cui un soldato è rimasto ferito a causa di una mina antiuomo; il soldato avrebbe perso una gamba. Il Ministero degli Esteri thailandese ha accusato la Cambogia di avere recentemente dispiegato nuove mine in territorio thailandese; la Cambogia ha respinto le accuse. L’annuncio giunge in un momento teso per i due Paesi, scattato dopo lo scoppio di scontri armati in una zona di confine, che alla fine di maggio hanno causato la morte di un soldato cambogiano.

Israele rilancia in sordina il suo piano di colonizzazione di massa della Cisgiordania

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In una mossa passata in sordina sui quotidiani internazionali, le autorità israeliane hanno deciso di rilanciare il piano di insediamento E1, che prevede la costruzione di oltre 3.000 unità abitative tra Gerusalemme Est e Maale Adumim che spaccherebbero a metà la Cisgiordania. La notizia è stata data da Ir Amim e PeaceNow, due ONG israeliane che si oppongono alla colonizzazione delle terre palestinesi, a cui è stata notificata la riapertura del fascicolo. Il piano di insediamento E1 è stato pensato negli anni ’90 ma, vista la sua portata, è stato fermato svariate volte a causa della pressione internazionale. Quest’anno i ministri più estremisti del governo Netanyahu avevano suggerito l’ipotesi di riaprire il piano di costruzione, e l’esecutivo ha approvato la costruzione di una strada di importanza centrale per il progetto. Le discussioni ufficiali dovrebbero iniziare a breve, e il 6 agosto è prevista un’udienza con le associazioni israeliane che si oppongono alla realizzazione del progetto.

A notificare Ir Amim e Peace Now della riapertura del progetto E1 è stato il Consiglio Supremo dell’Amministrazione Civile israeliana, che ha comunicato alle ONG la data della prossima udienza. L’audizione delle obiezioni si svolgerà davanti a una sottocommissione del Consiglio Superiore per la Pianificazione, un corpo dell’amministrazione civile che si occupa della pianificazione e dello sviluppo delle colonie in Cisgiordania. L’udienza, spiega Peace Now, è un passaggio necessario per l’avanzamento del piano, e dopo di essa la sottocommissione esprimerà il proprio giudizio su una eventuale adozione del piano. Alle raccomandazioni della sottocommissione, seguirebbe una discussione del Consiglio Superiore di Pianificazione per l’approvazione e la convalida del progetto. L’annuncio delle due ONG è stato ignorato dalla maggior parte della stampa internazionale, ma è stato ripreso da alcuni ministeri degli Esteri europei, tra cui il ministero francese, quello tedesco e quello britannico, che hanno condannato l’idea; analoga condanna è arrivata da una recente lettera di 25 Paesi del cosiddetto “blocco Occidentale” contro i massacri israeliani. Anche l’ONU ha parlato del piano.

Il piano di insediamento E1 (sigla che sta per East 1) prevede la costruzione di 3.412 abitazioni all’interno di un’area di 12mila dunam (corrispondenti a 12 chilometri quadrati) a nord e a ovest della strada che collega Gerusalemme a Maale Adumim (a 6km da Gerusalemme), una delle colonie più estese e popolate della Cisgiordania. Il progetto prevede l’edificazione di tre quartieri residenziali e aree destinate a commercio, industria e alberghi. L’area designata collegherebbe giuridicamente e urbanisticamente la parte orientale di Gerusalemme a Maale Adumim, isolando i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est dalle aree della Cisgiordania non occupate, e separando di fatto Betlemme, la stessa Gerusalemme Est e Ramallah. La zona interessata è abitata da 18 comunità beduine che rischierebbero di venire sfollate. Finora sono stati pianificati due quartieri residenziali, dove Israele costruirebbe le oltre 3.000 abitazioni in programma; il terzo quartiere residenziale, che collegherebbe gli altri insediamenti a Gerusalemme, e la zona commerciale-industriale sono congelati per motivi urbanistici.

Il piano di insediamento E1 fu formalizzato nel 1994 come ampliamento della municipalità di Maale Adumim, amministrativamente riconosciuta come città a partire dal 1991. La pianificazione proseguì a singhiozzi per oltre vent’anni: nonostante la costruzione di qualche infrastruttura minore e la sporadica elaborazione di piani di realizzazione, il progetto rimase sostanzialmente congelato fino al 2012 a causa della forte opposizione internazionale. A dicembre di quell’anno, il governo Netanyahu diede istruzioni per la pubblicazione ufficiale dei due quartieri residenziali per la revisione pubblica, ma le proteste portarono a un nuovo arresto delle procedure. Alla vigilia delle elezioni del 2020, lo stesso Netanyahu riavviò formalmente il processo pubblicando i piani per la fase di consultazione. Nell’ottobre del 2021, sotto il governo Bennett‑Lapid, si tennero due audizioni pubbliche, ma la terza udienza, prevista a gennaio 2022, fu rinviata su pressione statunitense. Nel 2023, il sesto governo Netanyahu (che seguì all’esecutivo Bennett-Lapid) rilanciò nuovamente il piano tentando di convocare la terza audizione. Le udienze furono nuovamente rinviate, ma dopo l’escalation del 7 ottobre il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich rilanciò con forza il progetto.

A partire da quest’anno, sono stati fatti notevoli passi avanti nella agevolazione del piano E1. A fine marzo, il gabinetto di sicurezza ha approvato la costruzione di quella che i giornali israeliani definiscono “Strada della Sovranità”, infrastruttura che dividerebbe verticalmente la stessa area della Cisgiordania interessata dal piano E1; con la Strada della Sovranità, Israele intende istituire un sistema stradale separato per israeliani e palestinesi deviando il traffico palestinese. A maggio, invece, Smotrich, ha chiesto la convocazione del Consiglio di pianificazione della Giudea e Samaria (il nome israeliano per la Cisgiordania) per approvare la costruzione nella zona E1.

Nel frattempo, Israele continua la propria campagna di colonizzazione della Cisgiordania. Solo nella giornata di oggi, le autorità israeliane hanno rilasciato 20 ordini di arresto nei confronti di cittadini palestinesi. A Sur Baher, vicino a Gerusalemme Est, Israele ha portato avanti le operazioni di demolizione delle abitazioni. I bulldozer sono arrivati anche a Beit Ula, a ovest di Hebron, dove i coloni spalleggiati dalle IDF hanno demolito un campo di proprietà dei residenti palestinesi. A Betlemme, l’esercito ha distrutto due edifici. A Qabatiya, città a sud di Jenin un ragazzo è stato ucciso per le ferite riportate da un colpo di arma da fuoco inflittegli dai soldati israeliani; a Nablus, invece, sono stati feriti altri due ragazzi. Le violenze sono continuate anche a Gerico e nella Valle del Giordano, dove i coloni hanno attaccato e costretto alla fuga due famiglie e il loro bestiame e le IDF hanno attaccato gli appartenenti a una comunità beduina. Dal 7 ottobre 2023, in Cisgiordania, Israele ha ucciso circa 1.000 palestinesi, ferendone altri 7.000, mentre oltre 17.000 sono stati arrestati.

Ravenna, via all’abbattimento dei pini: 50 anni di ombra spazzati via in una mattina

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«Si sono messi ad abbattere gli alberi di viale Romagna in pieno luglio. C’erano i turisti che guardavano perplessi e non capivano come fosse possibile». Così Giulia Gamberini descrive a L’Indipendente la scena che si è presentata davanti agli occhi di residenti e villeggianti la mattina di giovedì 17 luglio a Lido di Savio, quando il Comune di Ravenna, ignorando le proteste, ha dato il via all’abbattimento dei grandi pini che da oltre cinquant’anni costeggiano il viale principale di questa piccola località balneare.

All’alba, intorno alle sei, gli operai hanno iniziato a tagliare dieci pini su circa cinquanta, in un’area delimitata da transenne e presidiata da agenti della polizia locale e carabinieri. Intorno al cantiere, decine di manifestanti – residenti, turisti e attivisti ambientali – hanno cercato di fermare l’intervento. Alcuni bagnanti, increduli, riprendevano la scena con i cellulari.

Alla base di tutto c’è il progetto Parco Marittimo, avviato durante il mandato dell’allora sindaco Michele de Pascale – oggi presidente della Regione Emilia-Romagna – e definito «il più grande piano di riqualificazione con finalità turistiche e ambientali della storia della città». Un intervento dal costo complessivo di 17 milioni di euro, finanziato in gran parte con fondi del PNRR, che coinvolge tutti e nove i lidi ravennati. L’obiettivo: rifare le strade, creare nuovi parcheggi, piste ciclabili e vie di accesso alla spiaggia, con l’intento di promuovere il turismo, sempre più centrale nell’economia locale, spesso a discapito della tutela dell’ambiente.

A Lido di Savio la parte più impattante del progetto riguarda proprio viale Romagna, dove il Comune ha deciso di sostituire l’intera pavimentazione. Ma per farlo è necessario abbattere tutti i pini esistenti: fino a un anno fa erano circa settanta, alti e maestosi, che da decenni offrivano ombra e refrigerio durante i mesi più caldi.

Le proteste sono iniziate all’inizio del 2024 con la segnalazione di Italia Nostra, e sono cresciute con la nascita del comitato Salviamo i pini di Lido di Savio, che ha raccolto oltre 2.000 firme, coinvolgendo residenti e turisti. L’allora assessora ai Lavori Pubblici, Federica Del Conte, ha ribadito più volte che l’abbattimento non è stato deciso arbitrariamente, ma rappresenta una misura necessaria per motivi di sicurezza. Alcuni alberi – secondo i test di trazione commissionati dal Comune – risultavano infatti instabili e potenzialmente pericolosi.

Ma proprio quei test sono finiti al centro di un acceso scontro tecnico. Il comitato ha interpellato Lothar Wessolly, l’ingegnere tedesco che ha ideato il metodo di analisi, il quale ha definito «palesemente errata» l’interpretazione dei dati, sostenendo che erano stati applicati parametri climatici non idonei al contesto urbano.

Nel frattempo, grazie a due ricorsi al TAR dell’Emilia-Romagna, l’abbattimento era stato temporaneamente sospeso. Tuttavia, il tribunale ha infine respinto in via definitiva il ricorso del comitato, sbloccando di fatto l’intervento e permettendo la ripresa dei lavori a luglio.

La procedura – secondo molti attivisti – appare diabolica: «In pratica – spiega Giulia Gamberini, da sempre in prima linea nella protesta – vogliono cambiare la pavimentazione, ma non possono farlo perché sotto ci sono le radici degli alberi. Allora effettuano i test di trazione dopo aver rimosso l’asfalto attorno, ma in questo modo le radici si indeboliscono, i pini sembrano meno stabili e vengono dichiarati pericolosi. A quel punto li abbattono e il progetto può proseguire».

Dei 70 pini iniziali, ne restano ora circa 40. Di questi, cinque hanno già subito le prove di trazione: dopo la rimozione della pavimentazione, le radici sono state ricoperte con catrame, in attesa dell’abbattimento definitivo.

Nel tratto di strada dove gli alberi sono già stati eliminati, al loro posto sono stati piantati dei piccoli frassini, più facili da gestire. «Cresceranno», assicurano dal Comune. Intanto, però, il colpo d’occhio è impietoso: da un lato svettano ancora maestosi pini alti diversi metri, dall’altro si allineano timidi alberelli appena piantati, destinati a impiegare anni prima di raggiungere dimensioni comparabili.

Una scelta che ricorda da vicino l’operazione di greenwashing portata avanti dal vicino Comune di Bologna, dove si sta assistendo all’abbattimento degli alberi in uno dei pochi spazi verdi della zona universitaria, mentre in piazza Nettuno comparivano in sostituzione degli alberelli in vaso. Il tutto in una regione, l’Emilia-Romagna, che avrebbe invece urgente bisogno di aumentare gli spazi verdi: non solo per ridurre gli effetti del caldo torrido, ma anche per proteggersi dalle alluvioni che hanno colpito il territorio negli ultimi due anni.

La direzione intrapresa dagli amministratori locali e regionali sembra però andare verso l’esatto opposto. Lo dimostrano i dati sul consumo di suolo, che collocano l’Emilia-Romagna stabilmente tra le regioni in cui si costruisce di più in Italia. La cementificazione avanza, insomma, a pieno ritmo. E piazzare qua e là qualche figurina verde nella speranza che basti a proteggere il territorio dai disastri ambientali provocati dal cambiamento climatico appare sempre più come una fragile illusione.

L’India tornerà a rilasciare visti turistici ai cittadini cinesi

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A partire da domani, l’India tornerà a rilasciare visti turistici ai cittadini cinesi. L’annuncio arriva dall’ambasciata di Nuova Delhi in Cina, e costituisce un ulteriore passo avanti nella normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Questi si erano incrinati nel 2020, a causa dell’intensificazione degli scontri militari lungo il confine conteso dell’Himalaya. In risposta, l’India ha imposto restrizioni agli investimenti cinesi, vietato centinaia di app cinesi e interrotto le rotte passeggeri; la Cina ha risposto con mosse analoghe. A partire dal 2022 le reciproche restrizioni sono state gradualmente sollevate, fino a che nel marzo di quest’anno i due Paesi hanno concordato di riprendere i voli diretti.

È stato captato un misterioso segnale radio proveniente da un satellite spento

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Nel giugno 2024 un segnale radio brevissimo, potentissimo e totalmente inatteso, ha oscurato per un istante ogni altra sorgente nel cielo. Gli astronomi australiani del Curtin Institute of Radio Astronomy, impegnati nella caccia ai cosiddetti “lampi radio veloci”, pensavano di aver trovato un oggetto esotico vicino alla Terra. Tuttavia, dopo oltre un anno di lavoro e analisi dei dati ottenuti, si è scoperta la vera origine del segnale, che ha lasciato gli scienziati ancora più sbalorditi: la causa della raffica di circa 30 nanosecondi e proveniente da soli 4.500 chilometri di distanza sarebbe un satellite abbandonato, il Relay 2, lanciato dalla NASA nel 1964 e considerato inattivo da decenni. I risultati sono stati dettagliati all’interno di un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica The Astrophysical Journal Letters, anche se l’esatto meccanismo che ha innescato il fenomeno è ancora dibattuto. «Quando l’abbiamo rilevato, sembrava debole. Ma ingrandendo, è diventato la cosa più luminosa del cielo radio», ha spiegato il ricercatore e coautore Clancy James.

Il segnale è stato intercettato dal radiotelescopio ASKAP (Australian Square Kilometre Array Pathfinder), una rete di 36 antenne situata nell’outback australiano progettata per studiare fenomeni transitori nello spazio profondo, come i “Fast Radio Bursts” (FRB), ovvero brevi esplosioni di onde radio spesso legate a eventi estremi come le magnetar, cioè stelle di neutroni dotate di campi magnetici intensissimi. Tuttavia, stavolta l’origine era vicina: i ricercatori hanno notato che l’immagine del segnale risultava sfocata — un indizio che la fonte si trovava nel cosiddetto “campo vicino” dell’antenna – e, analizzando i ritardi di arrivo dell’impulso tra le varie antenne, è emersa una distanza precisa: 4.500 km. Un controllo incrociato con i database orbitali, poi, ha portato al sospetto: nella stessa posizione e nello stesso momento orbitava Relay 2, un satellite sperimentale per le comunicazioni che, dopo aver trasmesso le Olimpiadi del 1964, era stato dismesso solo tre anni dopo. La natura del segnale — potentissimo e brevissimo — ha spinto il team a escludere una trasmissione deliberata: nessun sistema a bordo del satellite sarebbe in grado di generare un impulso simile, né esisteva attività operativa documentata.

L’immagine sfocata che ha lasciato perplessi gli astronomi, con il segnale visibile come un punto luminoso al centro. Credit: Marcin Glowacki

Per questo motivo, è ancora in corso un dibattito circa le cause esatte che hanno portato alla trasmissione del segnale, anche se secondo gli autori esiste un’ipotesi più probabile: secondo gli esperti, infatti, è possibile che il segnale sia stato causato da una scarica elettrostatica (electrostatic discharge, ESD), cioè una scintilla innescata dall’accumulo di carica elettrica sulla superficie metallica del satellite. «È esattamente come quando si strofinano i piedi sul tappeto e si tocca un amico con il dito», spiega James, aggiungendo che si tratta di scariche note per danneggiare i veicoli spaziali già osservate in passato, ma mai con una tale brevità: 30 nanosecondi in tutto – di cui solo tre nanosecondi per la parte principale – al limite stesso della capacità di rilevazione dello strumento. C’è un’ipotesi alternativa però, nonostante sia considerata meno probabile, che è quella per cui un micrometeorite potrebbe aver colpito il satellite generando plasma e quindi un’emissione radio. Gli scienziati concordano però che qualunque sia l’origine esatta, l’evento mostra come perfino detriti spaziali dismessi possano interferire con le osservazioni astronomiche, aggiungendo che con decine di migliaia di satelliti in orbita e milioni di frammenti ad altissima velocità, il rischio che segnali simili vengano scambiati per fenomeni cosmici reali è destinato a crescere. «Stiamo cercando raffiche che arrivano da galassie lontane, ma se anche i satelliti possono produrle, dobbiamo essere molto cauti», avverte James, concludendo che il suo team suggerisce di sviluppare strumenti più piccoli ed economici per monitorare queste scariche, sia per proteggere i satelliti attivi, sia per evitare falsi allarmi negli esperimenti astrofisici.

Il governo ha approvato il nuovo piano carceri

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Al termine della seduta del Consiglio dei Ministri, svoltosi nella serata di martedì 22 luglio, il governo ha annunciato un nuovo pacchetto di misure volto a rendere più efficiente la gestione delle carceri e risolvere l’annoso problema del sovraffollamento. I piani sono, in particolare, di costruire nuovi edifici destinati a ospitare i detenuti, oltre ad ampliare quelli già esistenti, velocizzare le procedure di scarcerazione anticipata e «offrire concrete possibilità di riabilitazione ai detenuti con dipendenza da stupefacenti o da alcol». A fronte del tasso di sovraffollamento medio superiore al 130% (che in alcuni istituti arriva a sfiorare il 200%), l’esecutivo propone dunque misure emergenziali che, secondo le associazioni di tutela dei diritti dei detenuti, si riveleranno presto inefficienti – come successo ogni volta che si è proposta l’edilizia come soluzione all’emergenza carceraria.

In particolare, il governo ha approvato un ddl che introduce disposizioni per disporre la detenzione in strutture socio-sanitarie residenziali per il recupero dei detenuti tossicodipendenti cui rimangano da scontare non più di 8 anni di pena (4 nel caso di reati con pericolosità sociale). Si tratta di realtà che esistono già nel sistema attuale, motivo per il quale l’annuncio del governo ha suscitato perplessità in merito alla natura delle nuove strutture e il timore che, nei piani dell’esecutivo, vi sia quello di delegare la problematica a istituti privati (in maniera analoga a quanto già accade con i Centri di Permanenza e Rimpatrio).

Su proposta del ministro della Giustizia Nordio, inoltre, sono state approvate modifiche al decreto presidenziale n.230 del 30 giugno 2000, con l’introduzione di procedure più rapide per ottenere la scarcerazione anticipata e aumentare il numero di colloqui telefonici settimanali e mensili. Per il biennio 2025-2027 sono inoltre previsti lavori di edilizia penitenziaria, con interventi finalizzati alla costruzione di nuove strutture e al recupero di quelle esistenti, con l’obiettivo di «aumentare la capienza complessiva del sistema penitenziario». Sono 60, in tutto, gli interventi in programma: 3 sono già conclusi, 27 sono in corso e altri 30 sarebbero «prossimi all’avvio». In questo modo, secondo l’esecutivo, in due anni saranno creati 3.716 nuovi posti grazie agli ampliamenti, mentre altri 5.980 si otterranno grazie alle ristrutturazioni e alla manutenzione, per un totale di 9.696 posti.

L’investimento complessivo, fa sapere Meloni, è di oltre 750 milioni di euro. «Stiamo lavorando per aggiungere altri 5 mila posti, in modo da poter colmare il divario esistente tra le presenze e i posti disponibili. In passato si adeguavano i reati al numero di posti disponibili nelle carceri, noi invece riteniamo che uno Stato giusto debba adeguare la capienza delle carceri al numero di persone che devono scontare una pena». Un ragionamento perfettamente in linea con la logica di questo esecutivo, il quale, con provvedimenti quali il decreto Cutro o il decreto Sicurezza, ha enormemente aumentato il numero di reati per i quali è prevista la pena detentiva, oltre che aggravato le pene per molti di quelli già esistenti. Per Meloni questo significa garantire, «finalmente, la certezza della pena». In parallelo è previsto un piano per aumentare gli agenti di polizia penitenziaria, con l’obiettivo di prevedere ulteriori mille assunzioni con la prossima legge di bilancio.

In Italia sono 190 gli istituti penitenziari esistenti, per un totale di 51.300 posti disponibili. Tuttavia, i detenuti presenti, al 30 giugno 2025, ammontano a 62.728. A questi, specifica l’associazione per i diritti dei detenuti Antigone nel suo ultimo rapporto, vanno aggiunti gli oltre 4 mila posti non disponibili, che portano a circa 16 mila i detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare delle carceri – con un tasso di sovraffollamento medio pari ad oltre il 130%. Di questi, solamente 47.302 stanno scontando una condanna definitiva, mentre sono sono 9.307 (il 15%) le persone sottoposte a misura cautelare preventiva in carcere (e quindi ancora in attesa del primo giudizio), mentre altre 5.776 sono in attesa di una condanna definitiva. Un terzo del totale (21.490) si trova in carcere per reati legati alla droga.

In questo contesto, nel 2024, 91 persone si sono tolte la vita in carcere, il dato peggiore di sempre, mentre nel 2025 i suicidi ammonterebbero già a 44. Un ultimo dato da tenere in considerazione è quello per il quale, nel 2024, il tasso di recidiva era al 60%: per oltre la metà dei detenuti, insomma, il sistema carcerario si è dimostrato fallimentare nel suo proposito di rieducazione e reinserimento in società.

Secondo il parere di Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione per i diritti dei detenuti Antigone, rivolgersi all’edilizia per risolvere i problemi delle carceri è un escamotage di lunga data, che rischia di «aggravare la situazione del sistema penitenziario». Dall’insediamento del governo Meloni, il numero dei detenuti è cresciuto rapidamente (sono 5 mila in più negli ultimi tre anni): se tale tendenza rimane costante, è prevedibile che, nel 2027, il numero dei posti eventualmente creati sia insufficiente. «Molti dei nuovi posti poi saranno in container, strutture totalmente inadeguate ad ospitare persone detenute anche per lunghi periodi. Generalmente queste vengono utilizzate per affrontare emergenze e non come soluzioni definitive, come invece sembra ovvio nel piano carceri del governo. Piano carceri che, peraltro, non fornisce alcuna informazione sul personale che sarà necessario a gestire le nuove strutture, quando già oggi si registra un drammatico sotto-organico in tutti i ruoli: direttori, educatori, poliziotti, medici, psicologi, assistenti sociali, mediatori culturali, personale amministrativo», specifica Gonnella, che critica anche la mancanza di chiarezza sul funzionamento della detenzione differenziata per detenuti tossicodipendenti. «Il governo è interessato agli istituti di pena solo in termini edilizi e di custodia di corpi, senza alcuna visione moderna e umana della pena», conclude Gonnella.

Ricorrere all’edilizia penitenziaria, come sottolinea la stessa Antigone, è una soluzione di tipo emergenziale che, dal 2000 in poi, si è rivelata fallimentare proprio per via della rapida saturazione dei nuovi posti. Anche la Corte dei Conti ha criticato questa strategia, sottolineando come, a fronte dell’ingente consumo di risorse finanziarie, non vi siano miglioramenti nella vita dei detenuti proprio a causa del rapido esaurirsi dei posti disponibili.