lunedì 25 Agosto 2025
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Italia, sentenza storica: le cause contro ENI per danni ecologici e climatici sono legittime

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Le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che le cause per danni climatici sono ammissibili in Italia, riconoscendo la legittimità dell’azione intentata da Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadini contro ENI, Cassa Depositi e Prestiti e Ministero dell’Economia e delle Finanze. I giudici italiani potranno ora valutare nel merito la responsabilità dell’azienda petrolifera per il suo impatto sul clima e l’ambiente. La sentenza, pubblicata il 21 luglio, chiarisce inoltre che i tribunali italiani possono pronunciarsi anche su emissioni prodotte all’estero da aziende italiane. Si tratta di una decisione senza precedenti, che allinea l’Italia alla giurisprudenza europea in materia di diritti umani e crisi climatica.

«Questa sentenza storica dice chiaramente che anche in Italia si può avere giustizia climatica – hanno commentano Greenpeace e ReCommon – nessuno, nemmeno un colosso come ENI, può più sottrarsi alle proprie responsabilità. I giudici – hanno aggiunto – potranno finalmente esaminare il merito della nostra causa: chi inquina e contribuisce alla crisi climatica deve rispondere delle proprie azioni». Il verdetto avrà infatti impatto su tutte le cause climatiche in corso o future in Italia, rafforzando la protezione dei diritti umani legati alla crisi climatica, già riconosciuti dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU). E in particolare potrà essere valutata la causa contro il Cane a sei zampe, Cassa Depositi e Prestiti e Ministero dell’Economia e delle Finanze avviata, dalle due organizzazioni ambientaliste insieme a una decina di cittadini, davanti al Tribunale di Roma. L’obiettivo dell’azione legale, denominata la “Giusta Causa”, è quello di imporre alla società il rispetto dell’Accordo di Parigi.

Nel maggio 2023, Cassa Depositi e Prestiti e Ministero dell’Economia e delle Finanze erano stati presi in causa – ha ricordato Greenpeace in una nota – in qualità di azionisti che esercitano un’influenza dominante su ENI. Il colosso fossile italiano era stato invece direttamente accusato “per i danni subiti e futuri derivanti dai cambiamenti climatici a cui ha significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone pienamente consapevole”. In risposta, ENI e le due istituzioni si erano appellati ritenendo che nel nostro Paese una causa climatica non fosse procedibile. I ricorrenti, di conseguenza, si erano opposti e il recente verdetto delle Sezioni Unite della Cassazione gli ha dato ragione. Il responso della Suprema Corte sancisce senza ombra di dubbio che i giudici italiani si possono pronunciare sui danni derivanti dal cambiamento climatico sulla scorta tanto della normativa nazionale, quanto delle normative sovranazionali e che, dunque, le cause climatiche nel nostro Paese sono lecite e ammissibili anche in termini di condanna delle aziende fossili a limitare i volumi delle emissioni climalteranti in atmosfera. La Cassazione ribadisce anche che un contenzioso climatico come quello intentato da Greenpeace e ReCommon non è affatto un’invasione nelle competenze politiche del legislatore o delle aziende. La tutela dei diritti umani fondamentali di cittadini minacciati dall’emergenza climatica è superiore a ogni altra prerogativa e da oggi sarà possibile avere giustizia climatica anche nei tribunali italiani. Inoltre le Sezioni Unite chiariscono che i giudici italiani sono competenti anche in relazione alle emissioni climalteranti emesse dalle società di ENI presenti in Stati esteri, sia perché i danni sono stati provocati anche in Italia, sia perché le decisioni strategiche sono state assunte dalla società capogruppo che ha sede in Italia.

A questo punto il giudice a cui è stato assegnato il contenzioso climatico lanciato nel 2023 dovrà quindi entrare nel merito dei danni che ENI ha contribuito ad arrecare agli attori ricorrenti. «Grazie alla presente azione e alla decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite l’Italia si allinea agli altri paesi più evoluti in cui il clima e i diritti umani trovano una tutela giurisdizionale. Chiediamo che la giustizia faccia il suo corso, come già avviene nei più avanzati ordinamenti giuridici europei», ha concluso Greenpeace. La pronuncia si inserisce nel quadro delle più importanti decisioni giudiziarie europee ed internazionali e va nella stessa direzione sentenza della CEDU a favore delle “Anziane svizzere per il clima”, che avevano citato lo Stato svizzero per la sua inadempienza nella lotta ai cambiamenti climatici. Una sentenza che ha stabilito un importante precedente per il riconoscimento del diritto alla giustizia in casi di lesione dei diritti umani fondamentali legati all’emergenza ecologica in corso. Nel complesso, cause simili come quella che metterà ENI alla sbarra vanno avanti da tempo in diversi paesi del mondo. Tra le altre, quella che nel 2021 ha portato Parigi a “riparare al mancato rispetto degli impegni sul taglio della CO2” o quella che ha prima condannato e poi assolto Shell in fatto di obblighi nel taglio dei gas serra.

USA, limitazione cittadinanza: corte d’appello boccia Trump

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Una corte d’appello federale degli Stati Uniti ha dichiarato incostituzionale l’ordine esecutivo di Donald Trump che limitava la cittadinanza automatica per diritto di nascita, bloccandone l’applicazione a livello nazionale. È la prima volta che una corte d’appello valuta la legalità del provvedimento dopo che, a giugno, la Corte Suprema aveva ristretto la possibilità dei tribunali di emettere ingiunzioni universali, pur lasciando alcune eccezioni. Proprio una di queste eccezioni ha consentito a un giudice del New Hampshire di sospendere nuovamente l’ordinanza. La causa era stata presentata da quattro Stati a guida democratica.

 

Varese: attivisti per la Palestina bloccano la fabbrica di armi Leonardo SPA

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Vernice rossa, catene, fumogeni e striscioni contro le implicazioni dell’industria bellica nel genocidio in atto a Gaza. Nella mattinata di ieri, mercoledì 23 luglio, un gruppo di attivisti della campagna “Palestina Libera” – movimento che si batte per i diritti del popolo palestinese – ha messo in atto una forte azione dimostrativa presso la sede della Divisione Elicotteri di Leonardo di Sesto Calende, in provincia di Varese. Tre attivisti si sono legati con delle catene a terra per evitare il passaggio di mezzi, mentre altri due sono saliti sul tetto di uno degli edifici del complesso ricoprendo di vernice rossa l’insegna dell’azienda. L’azione ha immediatamente richiamato sul posto le forze dell’ordine, che hanno identificato gli autori delle azioni dimostrative e li hanno accompagnati in Questura a Varese.

Attivisti in azione alla sede Leonardo di Sesto Calende

Il gruppo di dimostranti, la cui azione intende denunciare il coinvolgimento dell’azienda e del governo italiano nei massacri in corso a Gaza, fa parte della branca italiana del collettivo internazionale Palestine Action. Dopo aver scavalcato la recinzione perimetrale, due attivisti sono riusciti a raggiungere il tetto dell’edificio, utilizzando vernice rossa sull’insegna della nota azienda bellica, tramutandola in un’accusa esplicita: “Leonardo produce genocidio”. Simultaneamente, sono stati accesi due fumogeni rossi come simbolo del sangue del popolo palestinese. Nel frattempo, altre tre persone si sono incatenate all’ingresso dello stabilimento, mentre venivano issate una bandiera palestinese, una irlandese e uno striscione con la scritta “Palestina libera”. Il vicesindaco di Sesto Calende, Giorgio Circosta, ha commentato l’episodio affermando che «le cause dei conflitti non possono essere ricercate in aziende come Leonardo ma nella rinnovata aggressività degli Stati», criticando i metodi del blitz ma riconoscendo la legittimità della causa. Ha poi ringraziato le forze dell’ordine per aver gestito la situazione «in modo professionale».

«È inaccettabile sostenere un governo criminale che sta commettendo un massacro e una pulizia etnica davanti agli occhi del mondo solo perché economicamente conveniente – si legge in un comunicato diffuso dal gruppo di attivisti -. Gli italiani non vogliono essere complici di questo genocidio. Siamo qui oggi per ricordare alla Leonardo che la Costituzione Italiana ripudia la guerra e noi non lasceremo che non la rispettino. Israele è sotto processo per atti di genocidio, il suo primo ministro Benjamin Netanyahu è un ricercato internazionale per crimini di guerra, su di lui pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale. La Leonardo fa affari con queste persone, traendo profitto dal genocidio dei palestinesi». La protesta si inserisce in un più ampio ciclo di mobilitazioni contro il coinvolgimento dell’industria militare italiana nei rifornimenti bellici a Israele. Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite curato dalla relatrice speciale Francesca Albanese, la Leonardo SPA — controllata dallo Stato italiano — è tra le aziende che più hanno tratto profitto dalla guerra a Gaza, registrando bilanci record nel 2023 e nel 2024.

Nel frattempo, a Gaza aumentano esponenzialmente le vittime per la carestia. Nella sola giornata di ieri, il ministero della Sanità della Striscia ha riportato la morte per fame di 10 persone, che hanno portato il totale di decessi per malnutrizione e carestia a 111. A questi si aggiungono gli oltre 1.000 palestinesi uccisi mentre cercavano di ottenere del cibo, colpiti dai proiettili israeliani. Per denunciare la precarietà delle condizioni dei palestinesi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha detto che i palestinesi stanno morendo a causa di una «carestia di massa causata dall’uomo», e oltre 100 ONG hanno rilasciato un comunicato congiunto in cui avvertono del sempre più imminente rischio di «carestia di massa». Negli ultimi giorni, a quasi 22 mesi dall’inizio degli attacchi, i ministri degli Esteri di 25 Paesi del cosiddetto “blocco Occidentale”, tra cui l’Italia, hanno rilasciato un comunicato per chiedere a Israele di fermare i massacri a Gaza. Qualche ora dopo la sua pubblicazione, Israele ha risposto ai Paesi coinvolti, sostenendo che le loro parole sono «scollegate dalla realtà».

Thailandia, cresce la tensione al confine con la Cambogia: scontri a fuoco e vittime civili

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Il confine conteso tra Thailandia e Cambogia è nel caos. Nella notte tra ieri e oggi, giovedì 24 luglio, i due Paesi si sono accusati reciprocamente di aver lanciato attacchi non provocati, a cui hanno risposto militarmente a colpi di razzi, artiglieria e attacchi aerei. Nell’arco di qualche minuto, la situazione è degenerata: la Thailandia ha accusato la Cambogia di aver bombardato edifici civili, uccidendo almeno 11 civili e un soldato; la Cambogia, invece, ha parlato di attacchi «premeditati e deliberati» e ha chiesto una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza ONU. La crisi scoppiata questa notte segue mesi di tensione, culminati pochi giorni fa con il ferimento di un soldato thailandese a causa di una mina che Bangkok sostiene essere stata recentemente piazzata dalla Cambogia. In questo momento, i due Paesi hanno ristretto le reciproche missioni diplomatiche al minimo e chiuso i reciproci confini, mentre la Cina ha predicato calma.

L’escalation nei combattimenti tra Thailandia e Cambogia è stata segnalata attorno alle 4:30, ma entrambe le parti hanno dichiarato di non aver attaccato per prime, sostenendo di essersi limitate a rispondere al fuoco nemico: la Thailandia ha segnalato colpi di artiglieria nei pressi di una base situata sul confine. Secondo quanto riportano i media thailandesi, citando un portavoce dell’Esercito Reale Thailandese, i soldati avrebbero rilevato il rumore di un drone cambogiano che sorvolava il tempio di Prasat Ta Muen Thom, nel distretto di Phanom Dong Rak, nella provincia di Surin. Poco dopo, sei soldati cambogiani armati con fucili e lanciarazzi si sarebbero avvicinati alla base thailandese, fermandosi al confine con il filo spinato. Le truppe thailandesi avrebbero tentato di calmare la situazione con avvertimenti verbali, ma le truppe cambogiane avrebbero aperto il fuoco da una posizione a circa 200 metri a est della base di confine thailandese. Le truppe thailandesi avrebbero dunque risposto. La Cambogia, invece, riporta un’altra versione: anche i media cambogiani riprendono il comunicato di una portavoce dell’esercito, la quale ha affermato che i soldati thailandesi avrebbero aperto il fuoco sulle posizioni cambogiane e sigillato con la forza l’accesso del pubblico al tempio di Moan Thom. Le forze cambogiane avrebbero risposto all’incursione dei soldati thailandesi, costringendoli alla ritirata.

Comunque siano andate le cose, di lì a poco la situazione è degenerata. I due eserciti hanno intensificato gli scontri sul confine ed entrambi i Paesi sono stati costretti a evacuare le città e gli ospedali vicini alla linea contesa. Nei video dei combattimenti che circolano sul web, si vedono lanciarazzi, colpi di cannone, e scambi di fuoco prolungati. Attorno alle 6:30 è stata riportata la prima vittima civile da parte della Thailandia. Il Paese ha accusato la Cambogia di avere lanciato diversi razzi e colpi di artiglieria verso luoghi ed edifici civili, colpendo una stazione di servizio, una stazione di polizia e un ospedale. L’esercito di Bangkok ha così schierato gli aerei F-16 e bombardato alcune aree militari cambogiane. In seguito allo scontro aereo, la Thailandia ha affermato di avere distrutto una base della fanteria cambogiana, ma da Phnom Penh non è arrivata alcun conferma; la Cambogia, da parte sua, sostiene di avere abbattuto un aereo, ma la Thailandia smentisce tale affermazione. Attorno alle 7:30, gli scontri hanno spinto entrambi i Paesi a chiudere i confini e a invitare i propri cittadini a rientrare in patria. Sia Thailandia che Cambogia hanno inoltre ritirato i propri ambasciatori, riducendo al minimo le proprie relazioni diplomatiche. Attorno alle 8:30, Phnom Penh ha richiesto al Pakistan, Paese che attualmente presiede il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di organizzare una riunione di emergenza per parlare della questione.

L’escalation di questa notte segue mesi di attrito tra i due Paesi, iniziati lo scorso maggio, quando un soldato cambogiano è rimasto ucciso dopo una serie di scontri a bassa intensità sul confine. In questi due mesi i rapporti sono rimasti tesi, fino a esplodere negli scorsi giorni a causa di un incidente sul confine che ha visto un soldato thailandese perdere un piede e diversi altri rimanere feriti a causa di una mina antiuomo. La Thailandia ha accusato la Cambogia di aver recentemente minato il suo territorio, ma la Cambogia ha smentito tale accusa, sostenendo che la mina che ha causato l’incidente fosse presente sul posto da tempo. Ieri è stato riportato un altro incidente dello stesso tipo, con un soldato thailandese che ha perso una gamba.

Reato di femminicidio, via libera dal Senato

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Il Senato ha approvato all’unanimità un disegno di legge che introduce il reato specifico di femminicidio nel Codice Penale (art. 577 bis), punibile con l’ergastolo. Il provvedimento definisce il femminicidio come l’uccisione di una donna per motivi di odio, controllo o rifiuto relazionale, estendendolo anche a chi si identifica come donna. Rafforzate anche le aggravanti per maltrattamenti e stalking. Previsti 10 milioni per orfani e minori colpiti da questi crimini. Soddisfazione bipartisan, ma le opposizioni criticano l’assenza di fondi per la prevenzione e l’educazione affettiva nelle scuole, osteggiata dal centrodestra.

Russia, aereo passeggeri si schianta a Tynda: almeno 43 morti

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Un aereo passeggeri Antonov An-24 operato dalla Angara Airlines si è schiantato su una montagna vicino a Tynda, nell’oblast di Amur, in Russia. Lo ha confermato l’agenzia russa Tass. A bordo ci sarebbero stati 43 passeggeri, tra cui 5 bambini e 6 membri dell’equipaggio, che secondo i servizi di emergenza sarebbero tutti deceduti. Nelle scorse ore l’aereo aveva perso i contatti con i controllori di volo proprio mentre si avvicinava alla sua destinazione, Tynda. La fusoliera in fiamme è stata individuata da un elicottero Mi-8 a circa 15 km dal centro.

A Gaza ormai la fame uccide quanto le bombe israeliane

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Mentre i governi occidentali continuano a rilasciare parole di condanna verso i crimini di Israele in Palestina, le vittime per la carestia a Gaza aumentano di giorno in giorno. Nella sola giornata di ieri, mercoledì 23 luglio, il ministero della Sanità della Striscia ha riportato la morte per fame di 10 persone, che hanno portato il totale di decessi per malnutrizione e carestia a 111. La maggior parte di questi decessi è avvenuta negli ultimi giorni. A questi si aggiungono gli oltre 1.000 palestinesi uccisi mentre cercavano di ottenere del cibo, colpiti dai proiettili israeliani. Per denunciare la precarietà delle condizioni dei palestinesi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha detto che i palestinesi stanno morendo a causa di una «carestia di massa causata dall’uomo», e oltre 100 ONG hanno rilasciato un comunicato congiunto in cui avvertono del sempre più imminente rischio di «carestia di massa». «I governi devono smettere di aspettare il permesso per agire», hanno scritto; «È il momento di prendere azioni decisive».

La situazione umanitaria, e specialmente quella alimentare, a Gaza, è disastrosa. L’ONU riporta che tutti i suoi panifici rimangono ancora chiusi. Le cucine comunitarie riescono a garantire meno di 160.000 pasti, e la cittadinanza sopravvive con un singolo pasto al giorno, «scarsamente nutriente». Secondo il Programma Alimentare Mondiale, quasi una persona su tre trascorre intere giornate senza mangiare, e molti sono costretti a cercare avanzi di cibo nella spazzatura. Altro problema è l’accesso al già poco cibo in circolazione: secondo l’ONU, i prezzi dei prodotti alimentari ancora disponibili sul mercato sono saliti alle stelle, mentre la maggior parte del cibo è disponibile solo a costo di rischiare la vita presso i punti di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation presidati dall’esercito. Israele, nel frattempo, continua a impedire che il flusso degli aiuti umanitari scorra agevolmente nella Striscia: nell’ultima settimana, i gruppi umanitari hanno organizzato 75 missioni per distribuire in maniera più capillare gli aiuti, tentando di coordinarsi con le autorità israeliane. Di queste, quasi il 23% è stato respinto; un ulteriore 21% è stato inizialmente accettato, ma ha incontrato ostacoli, tra cui blocchi o ritardi sul campo che hanno portato all’interruzione o alla riuscita parziale delle missioni; e un altro 25% ha dovuto essere ritirato dagli organizzatori per motivi logistici, operativi o di sicurezza. Sono insomma meno di un terzo le missioni andate a buon fine.

In questo contesto, la diversificazione della dieta è praticamente assente: i latticini non fanno più parte della dieta delle persone, il consumo di verdure è diminuito drasticamente e l’assunzione di frutta è quasi assente; le fonti proteiche come carne, pollame e uova, che in precedenza venivano consumate tre giorni a settimana, sono completamente scomparse dalle diete domestiche. A rimanere in qualche modo disponibili sono solo i legumi e il pane. La mancanza di diversificazione nella dieta porta a carenze nutrizionali e aumenta il rischio di malnutrizione acuta, in particolare tra i soggetti più a rischio, come bambini e donne in gravidanza e in allattamento; essa inoltre aumenta il rischio di contrarre malattie che indeboliscono il sistema immunitario. Nelle prime due settimane di luglio, nei soli governatorati di Deir al Balah e Khan Younis, 5.000 dei circa 56.000 bambini sottoposti a test sono risultati affetti da malnutrizione acuta: si tratta del 9% del totale, un aumento del 50% rispetto al mese precedente. A Gaza City, invece, la situazione è ancora più allarmante: i bambini affetti da malnutrizione acuta sono risultati il 16% dei circa 15.000 sottoposti a test. Da gennaio 2025, sono 20 i bambini morti per malnutrizione acuta grave, di cui 13 deceduti solo a luglio.

Secondo una proiezione di un ufficio delle Nazioni Unite, tra aprile 2025 e marzo 2026 rischiano di verificarsi circa 71.000 casi annui di malnutrizione acuta tra i bambini di età compresa tra 6 e 59 mesi, tra cui 14.100 casi gravi. La malnutrizione, tuttavia, non colpisce solo i bambini: secondo le stime, l’intera popolazione di Gaza è entrata almeno nel terzo stadio (su 5) della scala IPC (Classificazione Integrata delle Fasi di Sicurezza Alimentare), che misura la gravità delle crisi alimentari. Questo significa che l’intera popolazione palestinese di Gaza presenta significativi deficit nei consumi alimentari, con livelli di malnutrizione acuta superiori alla norma; il tasso di mortalità per stenti è compreso tra lo 0,5% e l’1%. Circa la metà della popolazione è invece entrata nel quarto livello della scala IPC, che presenta un tasso di mortalità maggiore dell’1% e inferiore al 2%. Un quarto dei palestinesi ha già raggiunto il quinto livello della scala IPC, quello riservato alle “catastrofi umanitarie”, in cui il tasso di mortalità è superiore al 2%.

Vicenza, vittoria dei comitati: il bosco Lanerossi non sarà abbattuto

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Il bosco Lanerossi di Vicenza, un’area verde di circa 15.000 metri quadrati, è stato salvato dalla demolizione prevista per fare spazio ai lavori del secondo lotto funzionale della tratta Alta Velocità Verona-Padova. Dopo un anno di mobilitazione degli attivisti, che hanno difeso il polmone verde dai piani di abbattimento, il sindaco Giacomo Possamai ha annunciato che il progetto di abbattere l'area è stato abbandonato. Il bosco rimarrà dunque intatto e sarà trasformato in uno spazio pubblico per gli abitanti del quartiere dei Ferrovieri. La lotta contro la distruzione del bosco ha visto l’imp...

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La Thailandia ha richiamato il suo ambasciatore in Cambogia

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La Thailandia ha annunciato di avere richiamato il proprio ambasciatore in Cambogia e che espellerà l’ambasciatore cambogiano. L’annuncio arriva dopo un incidente avvenuto lungo il confine conteso tra i due Paesi, in cui un soldato è rimasto ferito a causa di una mina antiuomo; il soldato avrebbe perso una gamba. Il Ministero degli Esteri thailandese ha accusato la Cambogia di avere recentemente dispiegato nuove mine in territorio thailandese; la Cambogia ha respinto le accuse. L’annuncio giunge in un momento teso per i due Paesi, scattato dopo lo scoppio di scontri armati in una zona di confine, che alla fine di maggio hanno causato la morte di un soldato cambogiano.

Israele rilancia in sordina il suo piano di colonizzazione di massa della Cisgiordania

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In una mossa passata in sordina sui quotidiani internazionali, le autorità israeliane hanno deciso di rilanciare il piano di insediamento E1, che prevede la costruzione di oltre 3.000 unità abitative tra Gerusalemme Est e Maale Adumim che spaccherebbero a metà la Cisgiordania. La notizia è stata data da Ir Amim e PeaceNow, due ONG israeliane che si oppongono alla colonizzazione delle terre palestinesi, a cui è stata notificata la riapertura del fascicolo. Il piano di insediamento E1 è stato pensato negli anni ’90 ma, vista la sua portata, è stato fermato svariate volte a causa della pressione internazionale. Quest’anno i ministri più estremisti del governo Netanyahu avevano suggerito l’ipotesi di riaprire il piano di costruzione, e l’esecutivo ha approvato la costruzione di una strada di importanza centrale per il progetto. Le discussioni ufficiali dovrebbero iniziare a breve, e il 6 agosto è prevista un’udienza con le associazioni israeliane che si oppongono alla realizzazione del progetto.

A notificare Ir Amim e Peace Now della riapertura del progetto E1 è stato il Consiglio Supremo dell’Amministrazione Civile israeliana, che ha comunicato alle ONG la data della prossima udienza. L’audizione delle obiezioni si svolgerà davanti a una sottocommissione del Consiglio Superiore per la Pianificazione, un corpo dell’amministrazione civile che si occupa della pianificazione e dello sviluppo delle colonie in Cisgiordania. L’udienza, spiega Peace Now, è un passaggio necessario per l’avanzamento del piano, e dopo di essa la sottocommissione esprimerà il proprio giudizio su una eventuale adozione del piano. Alle raccomandazioni della sottocommissione, seguirebbe una discussione del Consiglio Superiore di Pianificazione per l’approvazione e la convalida del progetto. L’annuncio delle due ONG è stato ignorato dalla maggior parte della stampa internazionale, ma è stato ripreso da alcuni ministeri degli Esteri europei, tra cui il ministero francese, quello tedesco e quello britannico, che hanno condannato l’idea; analoga condanna è arrivata da una recente lettera di 25 Paesi del cosiddetto “blocco Occidentale” contro i massacri israeliani. Anche l’ONU ha parlato del piano.

Il piano di insediamento E1 (sigla che sta per East 1) prevede la costruzione di 3.412 abitazioni all’interno di un’area di 12mila dunam (corrispondenti a 12 chilometri quadrati) a nord e a ovest della strada che collega Gerusalemme a Maale Adumim (a 6km da Gerusalemme), una delle colonie più estese e popolate della Cisgiordania. Il progetto prevede l’edificazione di tre quartieri residenziali e aree destinate a commercio, industria e alberghi. L’area designata collegherebbe giuridicamente e urbanisticamente la parte orientale di Gerusalemme a Maale Adumim, isolando i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est dalle aree della Cisgiordania non occupate, e separando di fatto Betlemme, la stessa Gerusalemme Est e Ramallah. La zona interessata è abitata da 18 comunità beduine che rischierebbero di venire sfollate. Finora sono stati pianificati due quartieri residenziali, dove Israele costruirebbe le oltre 3.000 abitazioni in programma; il terzo quartiere residenziale, che collegherebbe gli altri insediamenti a Gerusalemme, e la zona commerciale-industriale sono congelati per motivi urbanistici.

Il piano di insediamento E1 fu formalizzato nel 1994 come ampliamento della municipalità di Maale Adumim, amministrativamente riconosciuta come città a partire dal 1991. La pianificazione proseguì a singhiozzi per oltre vent’anni: nonostante la costruzione di qualche infrastruttura minore e la sporadica elaborazione di piani di realizzazione, il progetto rimase sostanzialmente congelato fino al 2012 a causa della forte opposizione internazionale. A dicembre di quell’anno, il governo Netanyahu diede istruzioni per la pubblicazione ufficiale dei due quartieri residenziali per la revisione pubblica, ma le proteste portarono a un nuovo arresto delle procedure. Alla vigilia delle elezioni del 2020, lo stesso Netanyahu riavviò formalmente il processo pubblicando i piani per la fase di consultazione. Nell’ottobre del 2021, sotto il governo Bennett‑Lapid, si tennero due audizioni pubbliche, ma la terza udienza, prevista a gennaio 2022, fu rinviata su pressione statunitense. Nel 2023, il sesto governo Netanyahu (che seguì all’esecutivo Bennett-Lapid) rilanciò nuovamente il piano tentando di convocare la terza audizione. Le udienze furono nuovamente rinviate, ma dopo l’escalation del 7 ottobre il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich rilanciò con forza il progetto.

A partire da quest’anno, sono stati fatti notevoli passi avanti nella agevolazione del piano E1. A fine marzo, il gabinetto di sicurezza ha approvato la costruzione di quella che i giornali israeliani definiscono “Strada della Sovranità”, infrastruttura che dividerebbe verticalmente la stessa area della Cisgiordania interessata dal piano E1; con la Strada della Sovranità, Israele intende istituire un sistema stradale separato per israeliani e palestinesi deviando il traffico palestinese. A maggio, invece, Smotrich, ha chiesto la convocazione del Consiglio di pianificazione della Giudea e Samaria (il nome israeliano per la Cisgiordania) per approvare la costruzione nella zona E1.

Nel frattempo, Israele continua la propria campagna di colonizzazione della Cisgiordania. Solo nella giornata di oggi, le autorità israeliane hanno rilasciato 20 ordini di arresto nei confronti di cittadini palestinesi. A Sur Baher, vicino a Gerusalemme Est, Israele ha portato avanti le operazioni di demolizione delle abitazioni. I bulldozer sono arrivati anche a Beit Ula, a ovest di Hebron, dove i coloni spalleggiati dalle IDF hanno demolito un campo di proprietà dei residenti palestinesi. A Betlemme, l’esercito ha distrutto due edifici. A Qabatiya, città a sud di Jenin un ragazzo è stato ucciso per le ferite riportate da un colpo di arma da fuoco inflittegli dai soldati israeliani; a Nablus, invece, sono stati feriti altri due ragazzi. Le violenze sono continuate anche a Gerico e nella Valle del Giordano, dove i coloni hanno attaccato e costretto alla fuga due famiglie e il loro bestiame e le IDF hanno attaccato gli appartenenti a una comunità beduina. Dal 7 ottobre 2023, in Cisgiordania, Israele ha ucciso circa 1.000 palestinesi, ferendone altri 7.000, mentre oltre 17.000 sono stati arrestati.