mercoledì 14 Maggio 2025
Home Blog Pagina 34

Come sono andate realmente le cose durante gli “scontri” al corteo per Gaza

10

Sabato 12 aprile, a Milano, si è tenuta la manifestazione nazionale per la Palestina. A meta quasi raggiunta, la situazione è degenerata in una carica della polizia che ha portato all’arresto di 7 persone, che sono tornate a casa con denunce per resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento, oltre che con fogli di via. Degli “scontri” si è parlato tanto, come tanto si è parlato delle scritte sui muri e delle vetrine danneggiate, ignorando completamente il fatto che andava realmente riportato: dopo oltre un anno di continue mobilitazioni, decine di migliaia di persone si sono trovate nuovamente a manifestare contro un genocidio che sta avvenendo sotto gli occhi del mondo, con il beneplacito del governo italiano. Gli stessi “scontri” che hanno monopolizzato i titoli di giornale, inoltre, sono stati raccontati in maniera faziosa e parziale. Noi de L’Indipendente eravamo presenti, e dopo esserci presi qualche manganellata possiamo raccontare cos’è successo davvero.

Le cariche della polizia sono iniziate dopo una lunga marcia pacifica, all’imbocco di Piazza Baiamonti. La fine della via che si immette nel piazzale è una strada a un’unica carreggiata attraversata su entrambe le corsie da binari del tram. Sulla sinistra risulta chiusa dagli edifici e sulla destra inizia ad aprirsi al piazzale. Poco più avanti, è presente un’isola di traffico che apre la piazza anche a sinistra. Le forze dell’ordine erano schierate sul lato destro del piazzale e, dopo l’isola di traffico, a sinistra. Subito dopo avere imboccato la Piazza, ho notato che le forze dell’ordine stavano preparandosi alla carica. Mi sono così messo a debita distanza, sul lato sinistro del piazzale, per osservare cosa succedesse. Quando l’isola di traffico è stata raggiunta da uno striscione attribuito ai soliti non meglio identificati “gruppi antagonisti”, dietro cui si trovavano solo persone intente a camminare, la polizia ha chiuso a uncino il corteo, spaccandolo a metà e caricando i manifestanti. Le forze dell’ordine hanno provato ad arrestare arbitrariamente alcuni dei presenti, sventolando gli sfollagente alla cieca. Nel frattempo, il cordone parallelo a quello che ha iniziato le cariche ha iniziato a spingere i manifestanti con gli scudi, e colpito la gente, me compreso, con calci e manganellate.

Dopo le cariche, la polizia ha chiuso in una morsa i manifestanti e si è creata una situazione caotica che vedeva da una parte schierate le forze dell’ordine e dall’altra la maggior parte dei manifestanti. A quel punto, la polizia ha iniziato a prelevare in maniera arbitraria e violenta alcuni dei presenti. Osservando questa scena, sono intervenuto in soccorso di un ragazzo accerchiato da sei agenti intenti a malmenarlo. L’assoluta casualità con cui sono state raccattate le persone da portare in Questura risulta evidente dal fatto che anche io sono stato fermato, e che sono riuscito a “liberarmi” solo spiegando la mia posizione e affermando di essere finito in mezzo alla ressa per assicurarmi che nessuno si facesse male. Quelli che i giornali di tutta Italia hanno definito “scontri” non sono stati altro che cariche ingiustificate e premeditate delle forze dell’ordine, portate avanti al solo fine di dividere il corteo in “buoni” e “cattivi” e arrestare alcuni manifestanti per la loro presunta sigla di appartenenza. Un’azione tanto pensata, quanto male eseguita, considerando la totale inefficienza nel fermare i presenti. Essa, tuttavia, arriva giusto all’indomani dell’entrata in vigore del DL Sicurezza, giustificandone agli occhi del pubblico l’insieme di misure repressive e liberticide.

Se questa narrazione del DL e dei fatti di sabato è possibile è anche grazie ai titoli di giornale che piuttosto che parlare del vero scopo della manifestazione hanno preferito isolare qualche caso di imbrattamento non attribuibile a nessuno e demonizzare i manifestanti scaricando su di loro le responsabilità delle violenze della polizia. Sabato si manifestava per denunciare i soprusi israeliani e il coinvolgimento delle istituzioni italiane nel genocidio del popolo palestinese. Tra le persone a cui la piazza del 12 aprile intendeva dare voce, c’erano anche gli oltre 210 giornalisti uccisi mentre facevano il loro lavoro. Questo non si limita a fungere da spettatore terzo delle violenze, ma significa svolgere un ruolo cruciale nella difesa dei diritti delle persone che quelle violenze le subiscono. Se (su scala minore) gli operatori dei media presenti in Piazza Baiamonti avessero fatto quello che fanno quotidianamente i giornalisti palestinesi e avessero sfruttato la loro posizione di oggettivo privilegio per evitare che la situazione degenerasse, probabilmente oggi i giornali parlerebbero di Palestina e di non di scritte sui muri.

Il calcio israeliano è rimasto senza sponsor a causa del boicottaggio

3

Dopo Adidas e Puma, anche il marchio sportivo Erreà si è reso conto che tenere le distanze da Israele e dalla sua federazione calcistica (la IFA) sia la scelta più conveniente. Lo ha fatto a tempo di record, ponendo fine a un contratto mai iniziato con la federazione e assumendosi l’onere di una forte penale economica. Non è chiaro se adesso anche Reebok, nuovo sponsor designato, stia riconsiderando le sue posizioni. Ma andiamo con ordine. 

Una lunga serie di contratti interrotti

Nell’agosto 2024 Erreà, azienda di articoli sportivi con sede in provincia di Parma, aveva firmato un contratto di sponsorizzazione biennale con l’IFA, che prevedeva il suo subentro alla multinazionale tedesca Puma. Quest’ultima, nel dicembre 2023, aveva infatti confermato sottovoce la notizia che non avrebbe rinnovato la propria collaborazione con la federazione. Puma non lo ha ammesso ufficialmente, ma la sua rinuncia è il risultato di una campagna di boicottaggio internazionale durata cinque anni. L’azienda aveva sostituito nel 2019 la concorrente Adidas, che a sua volta aveva interrotto il contratto a seguito di una campagna condotta da decine di associazioni sportive palestinesi. Erreà aveva forse pensato di approfittare del crollo del valore economico della sponsorizzazione (superiore al 60%), ottenendo così anche un proprio vantaggio, ma la notizia è stata accolta con una mobilitazione locale e un appello a boicottare l’azienda. 

L’Israel Football Association include nei suoi campionati ufficiali squadre delle colonie presenti illegalmente nei territori palestinesi occupati e sostiene il loro mantenimento, contraddicendo il diritto internazionale e il regolamento della FIFA. Questo rende gli organi di governo internazionali FIFA e FIBA complici delle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. 

Reebok ha spesso mostrato vicinanza a Israele e già nel 2016, a causa delle proteste, dovette ritirare dal commercio il modello di scarpa Israel 68, prodotto per celebrare il 68° anniversario della fondazione dello Stato. Secondo i media israeliani, un nuovo accordo biennale era stato recentemente firmato con Reebok, il cui logo appariva, fino a metà marzo di quest’anno, sul sito web della IFA come nuovo sponsor. Tuttavia, l’azienda è stata messa immediatamente sotto pressione sui social e ha dovuto bloccare i commenti, riaprendoli per la prima volta a metà marzo e ritrovandosi nuovamente inondata da appelli al boicottaggio. Anche se non possiamo ancora confermare che Reebok abbia disdetto il contratto, resta il fatto che il suo logo è stato attualmente rimosso dal sito web della federazione israeliana, che attualmente sta promuovendo le prossime partite di qualificazione ai Mondiali con immagini di giocatori con indosso vecchie maglie Puma. Siamo ancora in attesa che Reebok chiarisca la sua posizione: fino ad allora, continuerà a essere oggetto di boicottaggio. 

Nel gennaio 2024, la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha stabilito che Israele sta plausibilmente commettendo un genocidio a Gaza. A luglio, ha inoltre stabilito che l’occupazione militare di Israele a Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, è illegale. Entrambe queste sentenze rendono imperativo l’obbligo di non contribuire in alcun modo ai crimini commessi da Israele. Ecco perché il movimento BDS chiede anche a Reebok di recedere immediatamente dal contratto con l’IFA, per evitare di essere complice del genocidio, dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi dallo Stato israeliano. Se Reebok dovesse continuare con questa sponsorizzazione criminale, dovrà affrontare una campagna di boicottaggio internazionale, proprio come Erreà, Puma e Adidas prima di loro.

I motivi del boicottaggio sportivo

il movimento BDS è attivo sostenitore della campagna Cartellino Rosso a Israele, che vuole l’esclusione delle squadre israeliane dalle competizioni internazionali e la sospensione dagli organismi sportivi internazionali a partire dal CIO, dalla UEFA e dalla Unione Ciclistica Internazionale (UCI)

Il boicottaggio sportivo, come le altre campagne di BDS Italia, è una richiesta che arriva direttamente dalle squadre palestinesi: Israele dev’essere escluso dalle competizioni sportive internazionali finché non cesserà le sue politiche di apartheid e non rispetterà i diritti umani e il diritto internazionale in Palestina. Dall’inizio, nel 2023, del genocidio a Gaza, l’esercito israeliano ha ucciso, oltre a decine di migliaia di civili, almeno 715 atleti e calciatori, tra cui l’allenatore di calcio olimpico palestinese Hani Al Masdar. Ha distrutto o danneggiato tutte le strutture sportive palestinesi a Gaza, raso al suolo gli uffici del Comitato Olimpico Palestinese e occupato lo stadio Al Yarmouk, trasformandolo in un centro di detenzione, tortura e interrogatorio, prima di distruggerlo completamente. 

Da anni, Israele impedisce l’importazione di attrezzature e lo sviluppo di strutture sportive. Storicamente, il controllo politico militare israeliano di apartheid, con le sue regole di segregazione territoriale, impediscono la mobilità dei giocatori palestinesi e la loro partecipazione a competizioni internazionali. Questo in aggiunta alla detenzione amministrativa, al ferimento o all’assassinio mirato di atleti palestinesi da parte delle forze israeliane. 

La lunga lista di crimini comprende le storie di giovani atleti come Alaa al-Dali, nato a Gaza nel 1997. Alaa al-Dali ha cominciato col ciclismo agonistico a 15 anni, vincendo diversi premi a livello locale e arrivando a qualificarsi per i Giochi di Jakarta del 2018. Tra il 2018 e il 2019 prese parte alla Grande Marcia del Ritorno, protestando pacificamente perché Israele negava, a lui e a molti altri atleti, il visto per partecipare alle gare internazionali. Durante la manifestazione un cecchino israeliano gli sparò, colpendolo alla gamba destra e pregiudicando per sempre il suo futuro di atleta. 

Oggi, la rimozione di Israele dalle gare sportive è un dovere politico reso ancora più imprescindibile a causa del genocidio in corso a Gaza e, come conseguenza, delle sentenze della Corte Penale Internazionale. 

Il caso calcistico non è il primo episodio in cui BDS Italia lancia una campagna di boicottaggio in ambito sportivo: negli anni sono state diverse le mobilitazioni contro la normalizzazione dei rapporti con lo Stato israeliano attraverso lo sport-washing. Nel 2013 una campagna, lanciata dagli sportivi e dalle sportive palestinesi, chiedeva alla UEFA di rinunciare alla scelta di Israele come Stato per ospitare la Coppa UEFA under 21. Già in quest’occasione sono stati centinaia i tifosi che hanno affisso striscioni negli stadi e le squadre popolari in tutto il mondo che si sono unite alla protesta. 

Successivamente in Italia, ogni anno, si sono viste ancora intense partecipazioni alle piazze chiamate per protestare contro la presenza della squadra israeliana al Giro d’Italia e al Tour de France. Durante le Olimpiadi 2024, in Francia, BDS ha portato avanti una campagna per chiedere il rispetto della Convenzione Internazionale contro l’apartheid nello sport, che sancisce l’obbligo di «intraprendere tutte le azioni appropriate per garantire l’espulsione di un Paese che pratica l’apartheid dagli organismi sportivi internazionali e regionali». 

Così come è avvenuto per il Sudafrica, formalmente espulso dal CIO nel 1970 per le sue pratiche di apartheid, si chiede a gran voce che ciò avvenga anche per lo Stato di Israele. Nel frattempo, il movimento BDS è attivo sostenitore della campagna Cartellino Rosso a Israele, che vuole l’esclusione delle squadre israeliane dalle competizioni internazionali e la sospensione dagli organismi sportivi internazionali a partire dal CIO, dalla UEFA e dalla Unione Ciclistica Internazionale (UCI), mostrando di essere coerenti con i loro stessi statuti e codici etici.

Firenze, crollo cantiere Esselunga: 3 misure cautelari

0

Tre misure cautelari sono state disposte dal Giudice delle Indagini Preliminari di Firenze nei confronti di altrettanti indagati nel quadro dell’inchiesta incentrata sul crollo del cantiere del supermercato Esselunga in via Mariti, avvenuto il 16 febbraio del 2024, che provocò la morte di 5 persone (tutti operai). Gli arresti domiciliari sono stati disposti per il legale rappresentante della “Rdb.Ita” Alfonso D’Eugenio, mentre è scattata l’interdizione – rispettivamente per nove mesi e sei mesi – per i due ingegneri Carlo Melchiorre e Marco Passaleva.

In Italia i due terzi dell’evasione fiscale sono opera di medie e grandi aziende

5

L’evasione fiscale italiana è una piaga che da decenni sottrae al Paese enormi risorse economiche, con impatti devastanti su servizi pubblici e investimenti. Negli ultimi 25 anni, infatti, ben 1.279,8 miliardi di euro in tasse, contributi, imposte, bollette, multe e altri oneri non sono stati riscossi: una cifra che quasi potrebbe coprire metà del debito pubblico. Di questi importi, il 64,3% – ovvero 822,7 miliardi di euro – è imputabile alle società di capitali, tra cui Spa, Srl, consorzi e cooperative, mentre solo il 12,2% deriva dai piccoli imprenditori, artigiani, commercianti e liberi professionisti. I dati, raccolti dall’Agenzia delle entrate e analizzati dalla CGIA di Mestre, evidenziano insomma come il fenomeno dell’evasione sia concentrato nei grandi contribuenti, mentre piccoli imprenditori e lavoratori autonomi si trovano a rappresentare una quota marginale del debito fiscale.

Dei 22,26 milioni di contribuenti con carichi residui registrati dal report, solo 2,86 milioni (12,8%) sono persone fisiche con attività economica, mentre altri 3,47 milioni (15,6%) sono società di capitali e 15,93 milioni (71,6%) sono persone fisiche (come lavoratori dipendenti, pensionati e simili). Dai dati emerge dunque come dal 2000 solamente 13 evasori su 100 siano in possesso di una partita Iva. L’ufficio studi della CGIA sottolinea che queste cifre confermano da tempo una tesi ormai consolidata: la lotta contro l’evasione fiscale deve indirizzarsi soprattutto verso i grandi contribuenti. Infatti, le modalità di evasione più insidiose – quali le frodi IVA, l’uso improprio di crediti inesistenti, l’ottenimento di aiuti economici non dovuti, la fittizia dichiarazione di residenza all’estero e l’occultamento di patrimoni fuori dai confini nazionali – sono da attribuire quasi esclusivamente a imprese di maggiori dimensioni. La CGIA sottolinea come tali pratiche richiedano un’azione mirata e intensificata da parte degli organi preposti al controllo, con l’obiettivo di sfruttare al meglio le informazioni in possesso dell’Amministrazione fiscale e di rafforzare i meccanismi di verifica.

L’analisi territoriale offre ulteriori spunti di riflessione. Sul piano pro capite, il debito fiscale è più elevato nel Lazio, dove per ogni residente si accumulano in media 39.673 euro di oneri non riscossi. Seguono la Campania con 27.264 euro e la Lombardia, dove si registra un debito medio di 25.904 euro per abitante. È importante notare come le regioni con il maggior numero di grandi aziende – specialmente big tech, multinazionali e grandi gruppi industriali – manifestino una maggiore incidenza di evasione. Se, in termini assoluti, la Lombardia concentra ben 259,3 miliardi di euro di debiti, seguita dal Lazio (226,7 miliardi) e dalla Campania (152,5 miliardi), ciò evidenzia ulteriormente le disuguaglianze territoriali e la forte presenza dei grandi contribuenti in tali aree.

Allargando lo sguardo sul continente europeo, l’Italia non è affatto l’unico Paese in cui i grandi evasori concentrano i loro affari. Un rapporto dell’Ong Tax Justice Network ha infatti recentemente rivelato che l’Europa ospita molte delle giurisdizioni più permissive in tema di tassazione, rendendola un rifugio per grandi aziende, ricchi professionisti e organizzazioni criminali che vogliono evadere il fisco. Svizzera, Paesi Bassi, Jersey, Irlanda e Lussemburgo figurano infatti tra i primi dieci “paradisi fiscali” a livello globale, con l’Irlanda che fa segnare un netto peggioramento della sua situazione rispetto agli scorsi anni, avendo mantenuto normative poco stringenti sull’abuso fiscale. Complessivamente, l’Unione Europea contribuisce a un terzo delle perdite fiscali mondiali. Le prime posizioni sono occupate dalle Isole Vergini Britanniche, dalle Cayman e dalle Bermuda, che registrano i peggiori punteggi sugli indicatori di trasparenza fiscale.

Val di Non: il caso del data center nella montagna, di cui non si sa quasi nulla

8

Nella valle delle mele, dove i filari ordinati disegnano il paesaggio, stanno sorgendo le fondamenta di un'infrastruttura simbolo della contemporaneità tecnologica: un enorme centro per l'archiviazione, l'elaborazione e la gestione dei dati digitali. Succede in Val di Non, nel cuore del Trentino, all'interno della miniera ancora attiva di San Romedio. Il progetto si chiama Intacture e viene presentato come un'infrastruttura all'avanguardia, capace di fondere natura e tecnologia in un equilibrio virtuoso. Un data center «green», così viene definito, proprio per la sua collocazione geologica e a...

Questo è un articolo di approfondimento riservato ai nostri abbonati.
Scegli l'abbonamento che preferisci 
(al costo di un caffè la settimana) e prosegui con la lettura dell'articolo.

Se sei già abbonato effettua l'accesso qui sotto o utilizza il pulsante "accedi" in alto a destra.

ABBONATI / SOSTIENI

L'Indipendente non ha alcuna pubblicità né riceve alcun contributo pubblico. E nemmeno alcun contatto con partiti politici. Esiste solo grazie ai suoi abbonati. Solo così possiamo garantire ai nostri lettori un'informazione veramente libera, imparziale ma soprattutto senza padroni.
Grazie se vorrai aiutarci in questo progetto ambizioso.

Gaza, proseguono incessanti gli attacchi israeliani: decine di morti

0

Continua il bombardamento incessante di Gaza da parte di Israele. Almeno 37 persone sono state uccise negli attacchi di domenica nella Striscia di Gaza, tra cui sei fratelli che erano volontari e fornivano cibo ai palestinesi affamati. L’agenzia di stampa Wafa riporta inoltre che stamane le forze israeliane hanno bombardato un’abitazione nella cittadina di Khuza’a, a Khan Younis, uccidendo almeno cinque palestinesi e ferendone molti altri. Una donna incinta è stata invece estratta viva dalle macerie di Jabalia, nel nord di Gaza, dopo che un attacco israeliano ha ucciso sette persone, tra cui la figlia più piccola, il marito e la madre.

L’annuncio di Tajani: l’Italia aumenterà le spese militari al 2% del PIL

3

Per quanto riguarda le spese militari, l’Italia è pronta «ad arrivare al 2%» del PIL, tanto che, «presto, ci sarà l’annuncio ufficiale del presidente del Consiglio». Ad annunciarlo è il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, mentre si trovava in Giappone, a Osaka, per presenziare all’inaugurazione del Padiglione Italia all’Expo 2025. Tajani ha spiegato che la scelta intende soddisfare le sollecitazioni statunitensi, «giuste, peraltro», che chiedono all’Europa «di fare di più e meglio» per quanto riguarda le proprie spese militari. Attualmente, l’Italia destina l’1,5% del proprio PIL alla spesa militare, e la NATO ha chiesto a tutti i Paesi membri di raggiungere proprio la soglia del 2%. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha invece chiesto agli alleati di arrivare a spendere il 5% del PIL.

L’annuncio di Tajani è arrivato in occasione di un’intervista rilasciata su Agorà, programma televisivo di Rai Tre. L’aumento della spesa vorrebbe «garantire la sicurezza e rendere l’Italia protagonista all’interno del pilastro europeo della Nato». La scelta, sottolinea Tajani, è «una scelta politica che noi abbiamo fatto». Le questioni sono due: da una parte, soddisfare le richieste degli USA e, dall’altra, promuoverne la stessa linea: «quando gli Stati Uniti dicono di non poter garantire da soli la sicurezza dell’Europa hanno ragione». Per questo motivo, servirebbe «coordinare meglio le spese, l’operatività, lavorare in maniera diversa a livello industriale e anche spendere di più». Insomma, dice Tajani, ci sono parecchie cose da fare, soprattutto in vista di una difesa comune, che il ministro ha detto di appoggiare. «Noi rispettiamo per ora la richiesta della Nato del 2%. Sappiamo bene che presto verrà chiesto un altro sforzo a tutti gli europei. Vedremo quali saranno le richieste del segretario generale Rutte». In occasione del collegamento, Tajani ha parlato anche del viaggio di Meloni negli Stati Uniti, dove, afferma il ministro, la presidente dialogherà con Trump senza parlare a nome dell’UE, ma sostenendone comunque la linea: l’obiettivo, dice Tajani, «è arrivare a zero dazi da una parte e zero dall’altra per creare un grande mercato euroamericano».

Le parole di Tajani giungono poco dopo l’approvazione del Piano di riarmo europeo da parte della Camera dei Deputati. Il testo sostiene l’urgenza di un rafforzamento militare e l’appoggio all’Ucraina nella cornice del conflitto con la Russia, senza tuttavia citare il piano ReArmEurope di Ursula von der Leyen ed evitando addirittura il termine «riarmo». In generale, la spesa militare in Italia è in crescita da anni. Durante il suo mandato, il governo Meloni ha aumentato la spesa per la difesa, nonché le esportazioni di materiale bellico, tanto che, nel periodo 2020-2024, l’Italia ha registrato un maxi-aumento del volume di esportazioni di armi in relazione alle esportazioni globali, pari al 138% rispetto al quinquennio precedente. Con questo aumento, l’Italia si piazza al sesto posto della classifica dei maggiori esportatori, con una quota del 4,8% del commercio globale.

È morto il premio nobel Mario Vargas Llosa

0

Ieri sera, a Lima, capitale del Perù, è morto lo scrittore premio Nobel Jorge Mario Pedro Vargas Llosa. Vargas Llosa è nato ad Arequipa, in Perù, ed è morto all’età di 89 anni. Raggiunse la fama negli anni ’60 con La città e i cani (pubblicato nel 1963) e La casa verde (del 1966). Da molti considerato uno dei massimi esponenti della letteratura latino-americana, fu insignito di diversi premi, tra cui, nel 1986, il premio Cervantes, uno dei più importanti in lingua spagnola, e, nel 2010, del premio Nobel per la Letteratura. A dare notizia della sua morte è stato il figlio, Álvaro, che ha annunciato che i funerali saranno celebrati in forma privata.

Iran, scontri nel Belucistan. Morti 8 pakistani

0

Il governo pakistano ha annunciato che otto pakistani sono stati uccisi nella contea iraniana di Mehrestan, nella provincia del Sistan-Baluchistan, al confine sud-orientale del Paese. Le persone non sono ancora state identificate e, secondo quanto comunicato dal governo, l’Ambasciata pakistana a Teheran e il Consolato di Zahedan stanno collaborando con le autorità iraniane per indagare sulle uccisioni e rimpatriare i resti delle vittime. La regione del Belucistan, che si colloca tra Iran e Pakistan, è da tempo sede di scontri tra forze iraniane e pakistane da una parte e gruppi separatisti beluci dall’altra. Non è ancora chiara l’origine degli attacchi.

Elezioni Ecuador: vince Noboa, l’opposizione chiede riconteggio

0

Il Consiglio Elettorale dell’Ecuador ha annunciato la vittoria di Daniel Noboa alle elezioni presidenziali. Noboa ha vinto con oltre il 55% dei voti, ma la candidata di sinistra Luisa Gonzalez ha contestato il risultato, chiedendo un riconteggio. Gonzalez definisce un distacco tanto ampio «impossibile», specie dopo il primo turno, in cui Noboa vinse con uno scarto dello 0,5%. Noboa è presidente dell’Ecuador dal 2023 e rimarrà in carica per 4 anni. Noboa, 37 anni, è il presidente più giovane della storia del Paese. Durante il suo breve mandato si è concentrato sulla questione della sicurezza, adottando un approccio duro e attirando accuse di autoritarismo; è membro di Azione Democratica Nazionale, partito conservatore e liberista.