venerdì 10 Ottobre 2025
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Palestina: l’Assemblea ONU ha votato una risoluzione a favore della soluzione a due Stati

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Con 142 voti a favore, 10 contrari e 12 astenuti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha voltato una risoluzione a favore di una soluzione che riconosce la Dichiarazione di New York e dunque una soluzione a due Stati per il conflitto israelo-palestinese (e, implicitamente, l’esistenza di uno Stato di Palestina). Sono già 147 gli Stati che riconoscono la Palestina, mentre numerosi hanno dichiarato l’intenzione di farlo entro l’anno – tra questi, la Francia, il Regno Unito e il Canada. Tuttavia, gli annunci non sono stati seguiti da alcun provvedimento concreto. Di fatto, l’Italia, che ha votato a favore di questa risoluzione, negli scorsi mesi si è sempre categoricamente rifiutata di riconoscere l’esistenza di uno Stato paletinese. Assenti dall’assemblea delegati palestinesi, in quanto due settimane fa gli Stati Uniti hanno bloccato loro tutti i visti proprio con l’intento di impedirne la partecipazione all’Assemblea.

Dall’inizio dell’aggressione israeliana a Gaza, l’Assemblea ha votato diverse risoluzioni per la pace in Medioriente: pur non essendo vincolanti, queste hanno tuttavia una valenza politica, che indica come si distribuiscono gli Stati sullo scacchiere geopolitico mondiale in relazione a questo conflitto. Tra i Paesi che hanno votato contro vi sono, oltre a Israele e USA, anche Argentina, Ungheria, Micronesia, Nauru, Palau, Papua Nuova Guinea, Paraguay e Tonga. Nella cerimonia di apertura, il segretario dell’ONU Antonio Guterres ha dichiarato che «la questione centrale per la pace in Medioriente è l’attuazione della soluzione a due Stati, in cui due Stati indipendenti, sovrani e democratici – Israele e la Palestina – vivono a fianco a fianco in pace e sicurezza». La Dichiarazione di New York, adottata con la votazione, è il documento finale emerso dalla conferenza internazionale svoltasi a luglio, organizzata da Francia e Arabia Saudita. Tra i suoi punti prevede un cessate il fuoco a Gaza, il rilascio di tutti gli ostaggi e la creazione di uno Stato palestinese sovrano, insieme al disarmo di Hamas e la sua sua esclusione da qualunque forma di governo futura. L’ambasciatore israeliano all’ONU Danny Danon ha dichiarato che questo voto sarà ricordato come «un altro gesto vuoto che indebolisce la credibilità di questa Assemblea» e che «Hamas è il grande vincitore di qualsiasi approvazione odierna».

Proprio a margine della conferenza dalla quale è scaturita la Dichiarazione, la Francia e altri 15 Paesi avevano firmato una lettera nella quale annunciavano di prendere in considerazione l’idea di un riconoscimento dello Stato di Palestina. Tuttavia, ad oggi nessun passo concreto in questa direzione è stato fatto. Il premier inglese Starmer si era persino spinto a dire che riconoscerà la Palestina «a meno che il governo israeliano non compia passi sostanziali per far sì che la terribile situazione a Gaza finisca, accetti un cessate il fuoco, e si impegni a implementare una pace duratura». Tradotto: il Regno Unito compierà questo passo solo se Israele continuerà a massacrare gente, una condizione che evidenzia la natura prettamente politica dell’annuncio.

Congo, almeno 193 morti in due incidenti in barca in 24 ore

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In due distinti naufragi nel nord-ovest della Repubblica Democratica del Congo sono morte negli ultimi giorni almeno 193 persone. Lo ha reso noto il ministero degli Affari umanitari del Paese. Giovedì, un’imbarcazione con a bordo quasi 500 passeggeri ha preso fuoco e si è capovolta sul fiume Congo, con 209 sopravvissuti tratti in salvo. Solo il giorno prima, un’altra barca si è rovesciata uccidendo 86 persone, per lo più studenti. L’incidente è stato attribuito a «carico improprio e la navigazione notturna». Un gruppo della società civile contesta il bilancio ufficiale del secondo incidente, sostenendo ci siano più vittime, attribuendone la colpa al governo.

La rappresentazione della cultura indigena nel cinema: intervista ad Alessandro Martire

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Alessandro Martire è fondatore e presidente della ONG Wambli Gleska, unico soggetto ufficialmente autorizzato in Italia a rappresentare il popolo Lakota Sicangu di Rosebud. Dal 1995, l’organizzazione diffonde cultura e tradizioni del popolo Lakota, oltre a promuoverne riconoscimenti e rapporti internazionali e salvaguardare i diritti umani della Nazione Lakota Sioux. Per le sue profonde conoscenze in questo ambito, Martire è stato scelto per fare da consulente (e recitare una piccola parte) durante la realizzazione del western all’italiana Testa o croce?, diretto da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, presentato all’ultimo Festival di Cannes. Nell’intervista rilasciata a L’Indipendente, Martire spiega perché è fondamentale che le produzioni cinematografiche si affidino a consulenti tecnici esperti quando parlano di altre culture e altri popoli. 

Come mai è stato chiamato dalla produzione?

Il film nasce dalla volontà di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi di fare un western all’italiana, ma non uno spaghetti western. Racconta la storia vera dell’arrivo di Buffalo Bill nel 1905 in Italia e della sfida tra i butteri della Maremma e i cowboy che erano al seguito del Wild West Show, lo spettacolo di Buffalo Bill – nel quale i butteri avranno la meglio. Nello specifico, il film racconta la storia del buttero Santino, il quale si innamora di Rosa, moglie di un signorotto locale. Santino sarà accusato dell’omicidio del marito della donna: i due decidono di scappare insieme per coronare il loro amore, ma una taglia viene posta sulla loro testa. Il Wild West Show era caratterizzato dalla presenza dei Lakota Sioux che viaggiavano insieme a Buffalo Bill (ovvero il colonnello William Frederick Cody). Io sono stato chiamato, insieme a Sergio Susani, per dare una consulenza storico-scientifica, affinché le scene fossero il più fedeli possibile alla realtà. Abbiamo collaborato nella realizzazione dei costumi di scena per 29 attori e abbiamo fornito noi stessi dei pezzi della nostra collezione di manufatti nativo-americani. La consulenza ha riguardato poi il trucco di attori e comparse così come quello dei cavalli. Questi ultimi li abbiamo truccati personalmente io e Sergio Susani. Le pitture che i Lakota, così come altri popoli nativi, facevano su se stessi e sui cavalli erano simboli che evocavano forze e spiriti particolari per affrontare la situazione a cui si andava incontro. Stessa cosa abbiamo fatto per la lingua Lakota.

Come è accaduto che da consulente ha poi avuto anche una parte nel film?

Durante le riprese del film, nel momento in cui, storicamente, Buffalo Bill inscena l’uccisione di Yellow Hand e gli leva lo scalpo, mancava una parte storica e linguistica molto poco conosciuta da chi non è esperto di storia e cultura nativo-americana. Robert Alan Packard, Lakota Yankton che nel film interpreta Yellow Hand ma che vive a Berlino ormai da 40 anni, ha dimenticato il Lakota. Così, in quel momento sono intervenuto per dare la mia consulenza e mi sono ritrovato sulla scena, dando un ulteriore contributo al film anche in veste di attore. 

Perché è importante che le produzioni cinematografiche abbiano consulenze tecniche, specie quando si parla di altre culture e popoli? Nel caso dei popoli nativi, nel mondo cinematografico, specie quello statunitense, è sempre stato fatto oppure no?

Credo che sia una cosa molto importante perché anche le grosse produzioni cinematografiche, quelle con alti budget, devono ricorrere a esperti del settore o rappresentanti di quei popoli se vogliono creare qualcosa di buono. Altrimenti non sono in grado di rappresentare fedelmente la realtà. Nessuno della grande squadra di truccatori sapeva come dovevano essere dipinti i volti dei personaggi nativi. Figurarsi i cavalli. Se il cinema vuole produrre qualcosa di quanto più veritiero possibile, deve rivolgersi a consulenti tecnici esperti in quella materia specifica.

E così abbiamo fatto disegnare i volti degli attori e i corpi dei cavalli, secondo la tradizione, la conoscenza e la spiritualità Lakota. Stessa cosa per le acconciature dei capelli. I nativi, infatti, non portavano semplicemente delle trecce: nella loro cultura i capelli erano considerati importanti perché estensione materiale dello spirito. Per quanto riguarda l’acconciatura in sé, i capelli non venivano semplicemente intrecciati tra loro, ma veniva messo anche del cotone rosso che si intrecciava al capello.

Purtroppo, gli stessi Lakota hanno perso la conoscenza della propria cultura, usanze, tradizioni e lingua. Sadie La Pointe, la ragazza Lakota che viene dalla riserva di Rosebud, che noi rappresentiamo, non sapeva come indossare un manufatto e, anziché metterlo al collo, lo ha messo in fronte. È la conferma degli effetti delle conseguenze di secoli di sterminio culturale silenzioso, dopo quello fisico. Io e Sergio Susani abbiamo fatto del nostro meglio nei giorni di permanenza a Roma per le riprese iniziali del film. No, le consulenze non sono sempre esistite nel mondo cinematografico. Per i popoli nativi americani le cose sono cambiate solo a partire dagli anni Settanta. Prima, la loro rappresentazione era affidata a persone che non ne sapevano proprio niente.

Per molto tempo è infatti esistita una certa produzione cinematografica, molto propagandistica, che ha dato un’immagine negativa di queste popolazioni.  

Sì certo. La filmografia americana ha passato un periodo storico importante con John Ford regista e John Wayne attore protagonista di tantissimi film western come Ombre rosse. In questi film, i nativi erano sempre i cattivi e, ovviamente, John Wayne era l’incarnazione del prototipo di eroe americano che sconfiggeva e civilizzava il West selvaggio. Con un colpo del suo Winchester i cattivi pellerossa cadevano sempre sconfitti. Era l’impronta colonizzatrice travestita da gesta eroiche. 

Le cose cambiarono a partire dagli anni Settanta, anni di lotte e rivendicazioni importanti. In quel decennio hanno visto la luce tre film importanti: Un uomo chiamato cavallo, Piccolo grande uomo, Soldato blu.

Con il primo film, la figura del nativo americano venne riscattata e capovolta. Per la prima volta viene posta grande attenzione ai dialoghi. Con Soldato blu viene presentato il massacro di Sand Creek, raccontato poi anche da De André nella canzone che prende il nome dal luogo dell’eccidio del 1864.

Da ricordare l’episodio del 1973 con protagonista Marlon Brando, che si rifiutò di ritirare il premio Oscar per recarsi a Wounded Knee dove era in corso una grande rivolta Lakota, la quale sarebbe poi finita in tragedia. Sul palco di Los Angeles alla consegna degli Oscar, Brando mandò al suo posto Shalin Blackfeather. Ella, che, in costume tradizionale, lesse il messaggio in cui spiegò le motivazioni per cui Brando non si era presentato a Hollywood. Tra le motivazioni anche la rappresentazione cinematografica, negativa e falsificata, delle popolazioni native. Da quegli anni in poi è stato un crescendo di pubblicazioni filmografiche sempre più accurate e dettagliate, arrivando agli anni Novanta con capolavori come Balla coi lupi.

Esistono produzioni indipendenti, o che comunque non arrivano al nostro pubblico, che raccontano le verità tragiche circa la condizione attuale e storica dei popoli nativi?

Sì, ce ne sono. Uno di questi lo proietteremo al Wolakota di questo anno, che si terrà a Fiesole, vicino a Firenze, tra settembre e ottobre. Il film si chiama Verità nascoste, di Georgina Lightning, ma il titolo originale è Older than America. Si tratta di una denuncia aperta all’annoso e tragico problema delle boarding school americane, potente al punto che questo film non è mai arrivato in Italia prima di ora. Forse questo è avvenuto anche per motivi legati ai rapporti tra Italia e Vaticano e la presenza della Santa Sede. 

Si tratta di un film di tutto riguardo, con attori come West Studi e Adam Beach, dove si parla di quello che veramente è accaduto nel sud del Canada e negli Stati Uniti all’interno di quegli istituti per bambini e ragazzini che venivano strappati alle proprie famiglie. Questo è importante perché, al di là del film che racconta una verità mai vista dai nostri amanti del cinema italiano, Wambli Gleska ha partecipato attraverso la mia persona al sinodo papale Laudato si indetto da papa Francesco nel 2019. Con me c’era l’allora presidente Lakota di Rosebud, Rodney Bordeaux, con cui siamo stati accolti dal papa. Fu dopo quel sinodo che Francesco volle andare in Canada per chiedere scusa per gli orrori commessi nelle boarding school. E il film che proietteremo al Wolakota parla proprio di quelle storie di abusi e violenze a cui anche la Chiesa ha partecipato in maniera attiva.

Gaza, Israele bombarda rifugi e spara su richiedenti aiuti: almeno 12 morti

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L’esercito israeliano continua i suoi attacchi nella Striscia di Gaza, dove si contano 12 palestinesi morti dall’alba. Lo riporta l’emittente Al-Jazeera. Nelle ultime ore, sono state bombardate due scuole delle Nazioni Unite che ospitavano sfollati palestinesi a Gaza City, precisamente nel campo profughi di Shati. Poco prima, Israele aveva minacciato l’evacuazione forzata delle scuole e di un complesso residenziale di al-Rayas, che comprende quattro grattacieli nella città. Nel frattempo, le truppe hanno aperto il fuoco su un gruppo di persone in cerca di aiuti nella zona centrale di Gaza, uccidendone almeno quattro.

La NATO lancia l’operazione Sentinella dell’Est per “difendere il confine orientale”

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La NATO ha annunciato il lancio della missione “Eastern Sentry” (Sentinella dell’Est), un’operazione volta a blindare il fianco orientale dell’Alleanza, dopo la presunta incursione di droni russi nello spazio aereo polacco, nella notte tra il 9 e il 10 settembre. L’episodio ha fatto da detonatore per il dispiegamento di circa quarantamila soldati lungo i confini orientali con la Bielorussia e la Russia e, ora, per l’iniziativa che prevede l’impiego di aerei da combattimento, fregate, sistemi radar e capacità anti-drone, con il contributo di diversi Stati membri, tra cui Germania, Francia, Regno Unito, Danimarca e Paesi Bassi. «Che l’attacco sia stato intenzionale o meno la Russia ha violato lo spazio aereo della NATO, su una scala mai vista prima», ha stigmatizzato in conferenza stampa il Segretario generale dell’Alleanza Atlantica Mark Rutte, che ha anche sottolineato che il compito della NATO di scoraggiare le aggressioni e difendere ogni alleato comporta l’importanza di salvaguardare il fianco orientale. La missione coprirà, pertanto, un’ampia fascia geografica, dal Mar Baltico al Mar Nero, con l’obiettivo di garantire sorveglianza costante e una risposta rapida a eventuali minacce. Tra le opzioni discusse figura anche l’istituzione di una no-fly zone parziale sul confine polacco-ucraino, che resta però solo a livello di ipotesi, in modo da abbattere droni “nemici” prima che entrino in territorio NATO. Per attuarla servirebbe un consenso che appare tutt’altro che scontato, specie da parte degli Stati Uniti, che mantengono ancora una riserva. La no-fly zone presuppone, infatti, capacità di ingaggio, regole chiare e comporta rischi di escalation che potrebbero trascendere il teatro polacco-ucraino.

Il comando dell’operazione sarà affidato al generale Alexus Grynkewich, Supreme Allied Commander Europe, che ha sottolineato come la missione sia stata concepita per essere “agile” e “flessibile”, in grado di adattarsi alle diverse minacce che potrebbero emergere. Rispetto ad altre iniziative già in atto sul fianco est, Eastern Sentry punta ad aumentare il coordinamento tra le forze alleate e a introdurre nuove tecnologie contro le incursioni aeree a bassa quota, in particolare quelle condotte con droni a basso costo. Sul piano operativo, l’Alleanza ha stabilito che la missione avrà un carattere modulare: tra gli asset confermati ci sono: aerei da combattimento forniti da Francia (Rafale), Germania (Eurofighter), Danimarca (F-16), una fregata danese, radar avanzati, sistemi anti-drone. Il Regno Unito ha annunciato che fornirà un contributo operativo, anche se non sono ancora stati resi pubblici i dettagli. L’insieme costituisce un rafforzamento preventivo delle capacità difensive, volto a coprire possibili lacune evidenziate dagli episodi recenti. L’attività multidominio “avrà inizio nei prossimi giorni” e proseguirà per un periodo di tempo non specificato. L’Occidente celebra la decisione come una tappa che dimostra unità e immediatezza di reazione al presunto sconfinamento di droni russi, ma l’operazione rivela, più di altro, alcuni limiti operativi e fragilità nei cieli dell’Alleanza fino a oggi ignorati o trascurati. Uno è la difficoltà di attribuire con certezza origine e intenzionalità: non esistono a oggi, prove definitive che colleghino i droni sconfinati nel territorio polacco a ordini espliciti da Mosca, né che il loro attraversamento dello spazio aereo polacco fosse intenzionale. Il Cremlino, tramite Dmitrij Peskov, ha definito le accuse di Varsavia e NATO infondate e prive di prove, mentre il Ministero della Difesa russo ha chiarito che i droni non avessero obiettivi in Polonia e, dubitando della loro capacità tecnica di raggiungerla, si è reso disponibile a chiarimenti bilaterali. Un secondo punto riguarda la preparazione difensiva: il sistema anti-droni polacco noto come “SkyCTRL” era, secondo fonti interne, in ritardo di modernizzazione di molti mesi per ragioni di bilancio e, quindi, non pienamente operativo al momento dell’incidente. Ciò indica che alcune delle difese anti-drone previste non erano pronte, oppure non erano dispiegate nei punti più critici. Un terzo limite è la copertura radar e la sorveglianza: la rapidità con cui droni a bassa quota, con ridotto segnale radar, possono eludere i controlli evidenzia che le capacità di identificazione precoce non sono uniformemente diffuse. La reazione del 10 settembre è stata possibile grazie allo sforzo coordinato di vari Stati membri, ma non sempre risulta chiaro quanto siano pronti e interoperabili i sistemi antiaerei, antidrone, radar terrestri, sistemi di allerta rapida, commando unificato.

Con Eastern Sentry, il fianco orientale dell’Alleanza diventa un’area di monitoraggio permanente, dove sistemi aerei, navali e terrestri opereranno congiuntamente per intercettare e neutralizzare eventuali nuove intrusioni. L’operazione rappresenta un banco di prova per la capacità dell’Alleanza di reagire in modo coordinato e mostra in maniera inequivocabile che l’Alleanza sta militarizzando l’est europeo con decisioni che procedono anche in assenza di prova definitiva su origine e intenzionalità delle violazioni aeree. Le conseguenze potranno essere molteplici: aumento dei costi per gli Stati membri, rischio di errori o incidenti in aree di confine dove la presenza militare si intensifica; possibili escalation dovute a fraintendimenti; pressione diplomatica crescente tra NATO e Russia. Eastern Sentry è dunque un test operativo e politico per la NATO, chiamata a dimostrare la capacità di garantire sicurezza reale e non solo deterrenza visibile. La missione richiede garanzie di trasparenza e verifiche sulle responsabilità, e solo il suo dispiegamento concreto e prolungato potrà fornire tali risposte.

Milano, dieci indagati per cedimento insegna Generali

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La Procura di Milano ha iscritto dieci persone nel registro degli indagati per crollo colposo dopo il cedimento parziale, a fine giugno, di una grande insegna con il logo di Generali su un grattacielo di CityLife. L’episodio non aveva causato feriti né danni. Tra gli indagati figurano progettisti, tecnici e personale delle aziende incaricate dell’installazione e della manutenzione. Le due insegne presenti sull’edificio sono state rimosse: quella crollata sarà sottoposta ad accertamenti per individuare le cause, con ipotesi che puntano a difetti nella struttura metallica di sostegno.

ENI non paga l’Imu sulle piattaforme: la Cassazione la condanna a risarcire i Comuni

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Dopo anni di battaglie legali, i Comuni di Cesenatico e Crotone hanno vinto la loro sfida contro Eni. La Cassazione ha stabilito in via definitiva che le piattaforme offshore della multinazionale siano assimilabili a immobili e quindi soggette al pagamento dell’Imu, ponendo fine a un contenzioso che si trascinava da quasi un decennio. La sentenza obbliga la società multinazionale a versare oltre 7 milioni di euro di tributi arretrati ai due enti locali, con possibili ricadute anche per altre amministrazioni che da tempo reclamano somme ingenti. Una decisione che segna un punto di svolta nel rapporto tra la compagnia energetica e i territori costieri dove opera, consolidando un principio giuridico destinato a fare scuola.

La vicenda nasce da un nodo giuridico mai del tutto chiarito: le piattaforme per l’estrazione di gas e idrocarburi devono essere considerate “immobili” e quindi soggette a Imu? Secondo Eni, no. Per i Comuni, invece, sì. L’amministrazione di Cesenatico, ritenendo che le strutture offshore fossero assimilabili a immobili, aveva calcolato 3,8 milioni relativi agli anni 2014 e 2015. Quella di Crotone avanzava una richiesta di 3,6 milioni per il 2016. Eni si è sempre rifiutata di pagare, sostenendo con ricorsi che i suoi impianti non rientrassero nella categoria degli immobili tassabili. Dopo un lungo braccio di ferro tra vari gradi di giudizio, i giudici della Suprema Corte hanno sposato in via definitiva la tesi degli enti locali, riconoscendo al Comune la piena legittimazione ad accertare e riscuotere il tributo.

Tuttavia, questa è solo la punta dell’iceberg. Per Crotone, sono infatti in ballo altri 11 milioni di euro per il periodo 2017-2019. Cesenatico ha invece avvisi di accertamento pendenti per ulteriori 14,8 milioni sul periodo 2012-2019. Senza contare che altri sindaci, come quello di Rimini che rivendica 20 milioni, potrebbero sfruttare il precedente per recapitare altre maxi cartelle esattoriali all’azienda. Solo nell’Adriatico tra Rimini e Ravenna, Eni ha più di 50 piattaforme. Il sindaco di Crotone, Vincenzo Voce, ha dichiarato che questo risultato rappresenta «la dimostrazione plastica dell’inversione di ogni logica del passato nel rapporto con Eni». «Quando si amministra alcune scelte sono difficili e rischiose – ha messo nero su bianco in un post su Facebook -. Quando queste scelte le fai perché sei convinto di tutelare l’interesse comune, allora non importa se dall’altra parte hai un colosso come Eni». L’assessore al Bilancio Antonio Scandale ha spiegato che circa 7 milioni di euro, già accantonati in attesa dell’esito, potranno ora essere liberati e destinati a investimenti e servizi per la città. Esulta anche il primo cittadino di Cesenatico, Matteo Gozzoli: «Dopo quasi dieci anni di battaglie legali, finalmente siamo riusciti a dimostrare la bontà delle nostre richieste – ha affermato –. Con questa sentenza incassiamo in modo definitivo 3,8 milioni e per la restante parte continueremo a far valere i diritti del comune nelle sedi giudiziarie».

Il tema si inserisce in un quadro più ampio, caratterizzato da un regime fiscale considerato favorevole alle compagnie energetiche. Fino al 2019, i canoni sulle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in Italia variavano da 2,58 a 61,97 euro al chilometro quadrato, cifre aumentate solo con il primo governo Conte. Le royalties italiane restano tra le più basse al mondo: 10% sugli idrocarburi estratti dalla terraferma e 7% su quelli dal mare, con l’esenzione dei primi 80 milioni di metri cubi. In confronto, paesi come Norvegia, Danimarca e Regno Unito applicano royalties al 50% e tassazioni complessive vicine all’80%. Nel 2024 Eni ha chiuso il bilancio con oltre 5 miliardi di utili, beneficiando anche di questa struttura fiscale.

La ferocia israeliana contro i palestinesi di Tulkarem: 1500 arresti e case distrutte

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La repressione a Tulkarem non fa che aumentare. Mentre la città palestinese entrava nel suo 228° giorno di occupazione permanente da parte dell’esercito israeliano, ieri si è assistito a una nuova pagina della pulizia etnica in corso in tutta la Cisgiordania occupata. Giovedì 11 settembre le forze di occupazione israeliane hanno condotto una campagna di arresti su larga scala, fermando centinaia di palestinesi nella città. I video mostrano lunghe file di uomini, costretti a camminare uno dietro l’altro in fila indiana, sotto la stretta sorveglianza di militari israeliani armati e di veicoli blindati. Diversi palestinesi della città, interpellati da L’Indipendente, raccontano una giornata di terrore con distruzione di case, arresti di massa, uomini rastrellati dentro ai negozi e nelle automobili. Gli arresti sarebbero circa 1.500: una forma di vendetta collettiva dopo che ieri la resistenza palestinese ha fatto esplodere un blindato dell’esercito di Tel Aviv, ferendo due soldati.

«La prima cosa che hanno fatto (i militari israeliani, ndr) è di andare per le strade e di svuotarle. Hanno arrestato tutte le persone che hanno trovato per strada. Poi sono andati nei supermercati, nelle farmacie, in tutti i negozi della città è hanno iniziato ad arrestare tutte le persone che trovavano, lasciando i negozi vuoti, anche se aperti» racconta J., uno degli abitanti di Nur Shams Camp a L’Indipendente per telefono. «Poi hanno fermato le auto lungo le strade, arrestando le persone che c’erano dentro. Era una città fantasma: le macchine sono ferme lungo le strade, i negozi sono aperti ma sono vuoti, nessun essere umano è in giro. Poi si sono mossi ancora su un altro livello, e hanno iniziato a perquisire molte decine di case e arrestare tutti i maschi presenti. Tuttora stanno perquisendo case. Ci sono soldati ovunque». Anche suo cugino è stato arrestato: era uscito dalle prigioni di Tel Aviv solo 9 mesi fa, dopo due anni di carcere.

All’inizio della giornata, l’occupazione israeliana ha imposto un rigido blocco su Tulkarem, chiudendo i cancelli metallici agli ingressi sud e est e impedendo il passaggio dei veicoli. Sono stati inoltre sparati colpi di arma da fuoco contro residenti e automobili nel quartiere occidentale, mentre una forte esplosione ha scosso la città. Secondo la Società della Mezzaluna Rossa Palestinese, alle ambulanze è stato negato l’accesso alla zona.
Secondo i giornali israeliani, la campagna di arresti e la repressione di massa è stata la risposta a un attacco avvenuto nella mattinata di ieri, quando un veicolo blindato israeliano Panther è stato fatto esplodere in città.

«Hanno speso 9 mesi a Tulkarem per eliminare la resistenza, e sono rimasti molto sorpresi ieri quando la resistenza ha fatto esplodere uno dei loro blindati», ha riferito R., un giovane di Tulkarem Camp a L’Indipendente. R. è una delle persone che ha perso la casa, distrutta dai militari d’Israele in questi ultimi mesi. Tutta la sua famiglia ha dovuto lasciare il campo profughi in cui viveva dal 1948. «Quindi, come sempre, i soldati israeliani fanno arresti di massa come forma di punizione collettiva», dice. Le persone intervistate riportano la morte di un soldato israeliano e di un altro ferito; i giornali israeliani invece parlano solo di due feriti “leggermente”.

«Quello che è successo ieri è quello che sta accadendo molto spesso, anche se su scala minore,» riferisce A., un altro degli abitanti della città a L’Indipendente. «Puniscono le persone di Tulkarem, ieri hanno occupato la casa di mio cugino, accanto alla mia, per tutta la notte. Hanno spaccato la porta, hanno rubato vari oggetti… sono partiti la mattina ma sono tornati oggi pomeriggio, chiedendo documenti e cercando dei giovani. Questa è la situazione a Tulkarem». Poi si corregge: «Le chiamiamo punizioni collettive, ma sarebbe da trovare un altro termine. “Punizione” implica che stiamo commettendo un errore. Ma non c’è nessun errore: resistere all’occupazione è un nostro diritto, in tutte le sue forme. Forse la potremmo chiamare “vendetta” di Israele, o semplicemente genocidio».

E conclude: «Centinaia delle persone detenute ieri sono state rilasciate nella mattina presto di oggi, ma i militari stanno continuando a fare perquisizioni e detenere persone. Stanno anche demolendo alcune case al limite dei campi profughi. Questa è la vita che stiamo vivendo qui».

Tulkarem è una delle città del nord della Cisgiordania occupata che più sta subendo la violenza di Israele. Da due anni i campi profughi cittadini vengono attaccati dai soldati di Tel Aviv, che con la scusa di eliminare il “terrorismo” (ossia la resistenza palestinese), hanno ucciso almeno 200 persone, arrestandone altre centinaia oltre che distruggere centinaia di case. Ma dal 27 gennaio, con l’inizio dell’Operazione Iron Wall, la città è sotto assedio. I due campi profughi – Nur Shams Camp e Tulkarem Camp – sono stati sgomberati con la forza dall’esercito israeliano. La devastazione di questi luoghi è totale, e l’obbiettivo di Tel Aviv è proprio quello di rendere i campi profughi invivibili. Tutte le strade, le infrastrutture vitali come acqua, elettricità, internet, così come centinaia di negozi, scuole e case, sono stati intenzionalmente distrutti. Dal 27 gennaio i campi profughi sono diventati avamposti militari e gli abitanti denunciano la continua distruzione delle proprie case oltre che l’utilizzo delle abitazione come caserme dove interrogare e torturare i palestinesi detenuti. Dall’inizio dell’operazione Iron Wall, solo per le città di Tulkarem e di Jenin, si contano 40mila profughi rimasti senza casa.

USA: arrestato un sospettato dell’omicidio Kirk

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Donald Trump ha annunciato che una persona sospettata di avere ucciso l’attivista statunitense Charlie Kirk è stata arrestata. Il sospetto assassino, è un individuo di nome Tyler Robinson, 22 anni, proveniente dallo Utah, stesso Stato nella quale università è stato ucciso Kirk. Verso le 16, il direttore dell’FBI Kash Patel e il governatore dello Utah Spencer Cox hanno tenuto una conferenza stampa, confermando la notizia. Robinson non è uno studente della Utah University, ed è stato segnalato alle autorità dal padre. Charlie Kirk, 31 anni, era un attivista politico di destra; sostenitore di Trump, Kirk ha fatto campagna elettorale per il presidente; è stato ucciso il 10 settembre da un colpo di fucile.

C’è un indizio sull’esistenza di un’atmosfera simile alla Terra su un pianeta distante

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Un pianeta delle dimensioni della Terra, situato nella cosiddetta zona abitabile e a soli 40 anni luce di distanza, potrebbe aver conservato un’atmosfera significativamente simile alla nostra: lo rivelano due studi frutto di un ampio progetto internazionale, sottoposti a revisione paritaria e pubblicati su The Astrophysical Journal Letters. Utilizzando lo spettrometro del James Webb Telescope (JWST), gli autori hanno osservato che su TRAPPIST-1e, uno dei sette pianeti che orbitano attorno a una nana rossa nella costellazione dell’Acquario, potrebbe persino esserci acqua liquida. In particolare, spiegano gli autori, sono stati esclusi diversi scenari fondamentali come quelli riguardanti atmosfere simili a quelle di Marte e Venere, il che rende l’ipotesi coerente e tutt’altro che impensabile: «TRAPPIST-1e rimane uno dei pianeti abitabili più interessanti per noi, e questi nuovi risultati ci avvicinano di un passo alla comprensione di che tipo di mondo si tratti», commenta Sara Seager del Massachussets Institute of Technology (MIT).

Rappresentazione artistica di TRAPPIST 1e mentre passa davanti alla sua stella ospite. Credit: NASA, ESA, CSA, J. Olmsted (STScI)

Gli astronomi sono interessati a TRAPPIST-1e perché rappresenta uno dei migliori candidati per lo studio dell’abitabilità al di fuori del sistema solare. In particolare, per “zona abitabile” si intende la regione attorno a una stella in cui un pianeta potrebbe mantenere acqua liquida sulla superficie, condizione ritenuta essenziale per la vita come la conosciamo. Per capire però se un esopianeta in questa posizione sia effettivamente abitabile occorre verificare se abbia un’atmosfera e di che tipo, e per questo si usa la spettroscopia di trasmissione, ovvero una tecnica che analizza la luce della stella mentre filtra attraverso l’eventuale atmosfera del pianeta durante il transito: ogni molecola lascia una “firma” inconfondibile nello spettro luminoso. Il JWST, spiegano gli autori, è risultato quindi fondamentale e ha portato un salto di qualità rispetto al telescopio Hubble, grazie a una copertura più ampia delle lunghezze d’onda e a una risoluzione superiore che consente di cercare tracce di molecole come l’anidride carbonica o il metano. Tuttavia, la vicinanza del pianeta a una nana rossa molto attiva complica le analisi, in quanto eventuali macchie stellari e brillamenti alterano la luce e rischiano di mascherare o imitare i segnali atmosferici. Per questo i ricercatori hanno dovuto sviluppare nuovi metodi avanzati – come la spettroscopia di trasmissione, confronto tra transiti diversi e correzione della contaminazione stellare – per distinguere la parte di segnale che proviene dalla stella da quella attribuibile al pianeta.

Un confronto tra i mondi di TRAPPIST-1 e il Sistema Solare, incluse dimensioni, densità e radiazioni. Credit: NASA/JPL Caltech

In particolare, dopo aver confrontato i risultati con diversi scenari atmosferici, i dati hanno permesso di escludere sia atmosfere dominate dall’idrogeno sia quelle ricche di anidride carbonica come su Marte o Venere. Rimane invece possibile un involucro più denso, composto in gran parte da azoto e arricchito da tracce di altri gas, uno scenario che consentirebbe la presenza di acqua liquida. «Se ipotizziamo che il pianeta non sia privo di aria, possiamo limitare diversi scenari atmosferici», spiega la prima autrice Ana Glidden del MIT, aggiungendo che «questi scenari consentono comunque la possibilità di un oceano superficiale». «Stiamo osservando due possibili spiegazioni», aggiunge Ryan MacDonald dell’Università di St Andrews: «la più interessante è che TRAPPIST-1e possa avere un’atmosfera secondaria contenente gas pesanti come l’azoto, ma non possiamo ancora escludere totalmente un pianeta roccioso privo di atmosfera».

Per arrivare a una risposta definitiva, quindi, serviranno altre osservazioni. I team internazionali coinvolti hanno già in programma di portare il numero di transiti osservati da quattro a quasi venti nei prossimi anni, così da affinare i dati e ridurre l’effetto della contaminazione stellare. Con ogni transito aggiuntivo, spiegano, la chiarezza dei segnali atmosferici migliorerà: «Abbiamo finalmente il telescopio e gli strumenti per cercare condizioni abitabili in altri sistemi stellari, e questo rende il nostro tempo uno dei più entusiasmanti per l’astronomia», conclude MacDonald.