domenica 24 Agosto 2025
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La Cina punta all’Africa per l’internazionalizzazione dello Yuan

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L’internazionalizzazione dello Yuan cinese (RMB) è una delle ambizioni strategiche più significative di Pechino, con l’obiettivo di erodere e sfidare il dominio incontrastato del dollaro statunitense come moneta utilizzata negli scambi commerciali globali. Il continente africano si sta rivelando un terreno di prova fondamentale per questa spinta. In un mondo in cui molte nazioni africane cercano alternative ai tradizionali sistemi finanziari occidentali, la Cina sta posizionando la propria valuta come un’opzione praticabile. Questa iniziativa non è solo economica, ma riflette un più ampio riequilibrio dell’influenza finanziaria globale. In questa strategia l’Egitto si sta configurando come partner chiave di Pechino. Di recente i due Paesi hanno firmato una serie di accordi che segnano un passo significativo verso l’aumento dell’uso dello Yuan nel commercio bilaterale e negli investimenti.

Al Cairo, lo scorso 10 luglio, il governatore della Banca Centrale d’Egitto, Hassan Abdalla, ha dato il benvenuto alla sua controparte cinese, Pan Gongsheng, il governatore della Banca Popolare Cinese. In quella giornata, alla presenza del premier cinese, Li Qiang, e del Primo Ministro egiziano, Mostafa Madbouly, è stato firmato un vasto memorandum d’intesa tra i due Paesi. Tra gli accordi firmati: la cooperazione nei pagamenti elettronici, l’espansione del sistema cinese UnionPay in Egitto, le transazioni transfrontaliere in Yuan e le facilitazioni per le banche che operano nella Zona di Cooperazione Economica e Commerciale TEDA Cina-Egitto a Suez. Inoltre, tutte le operazioni finanziarie saranno elaborate attraverso il Cross-border Interbank Payment System (CIPS), ovvero l’alternativa cinese alla rete SWIFT, riducendo così la dipendenza dai sistemi finanziari occidentali. L’Egitto, che dallo scorso anno è un nuovo membro dei BRICS, nel 2023 fu il primo Paese africano a emettere i così detti “Panda Bond”, obbligazioni denominate in Yuan e destinate agli investitori cinesi, raccogliendo 3,5 miliardi di Yuan per progetti di sviluppo.

Queste iniziative permettono all’Egitto di attingere a nuove fonti di finanziamento, diversificando i propri partner finanziari. In questo vi è un allineando della visione strategica egiziana con quella cinese e la sua “Belt and Road Initiative”, ossia quella che in Italia è definita la “Nuova via della Seta”. Sebbene l’Egitto rappresenti oggi il banco di prova principale per l’internazionalizzazione dello Yuan, non è un caso isolato. Numerose altre nazioni africane hanno abbracciato lo Yuan nelle loro transazioni commerciali e finanziarie con la Cina. Il Sudafrica, ad esempio, partner di lunga data all’interno dei BRICS, ha firmato un accordo di swap valutario (accordo su futuri pagamenti) da 30 miliardi di Yuan già nel 2015, col fine di migliorare la propria liquidità commerciale. Lo scorso anno, la Nigeria ha rinnovato un simile accordo per un valore di 15 miliardi di Yuan per promuovere il commercio e gli investimenti. In Angola, un fornitore chiave di petrolio per la Cina, lo Yuan è sempre più utilizzato nelle transazioni energetiche e infrastrutturali, con l’integrazione del CIPS nel suo sistema finanziario. Il Ruanda ha incluso lo Yuan nelle sue riserve valutarie dal 2016, motivato dall’aumento dei rapporti commerciali con la Cina.

Come riportato da Africa Business Insider, Lauren Johnston, ricercatrice senior presso l’AustChina Institute ed esperta di relazioni Cina-Africa, ha osservato che l’Africa offre un «banco di prova strategico per gli obiettivi valutari di Pechino» perché «è un continente dove il commercio con la Cina è importante, ma è anche un luogo dove molti paesi faticano ad accedere a valute estere sufficienti come l’euro o il dollaro USA». Questa situazione offre alla Cina l’opportunità di testare l’internazionalizzazione del RMB, in una regione in cui i volumi economici sono sicuramente minori rispetto alla scala globale ma in cui l’impronta cinese è relativamente ampia.

L’espansione dello Yuan in Africa è parte della più ampia strategia cinese per sfidare l’egemonia del dollaro statunitense e, in particolare, il sistema del petrodollaro. Quest’ultimo, nato dagli accordi USA-Arabia Saudita negli anni ’70, ha reso il dollaro l’unica valuta per le transazioni petrolifere internazionali, conferendo agli Stati Uniti un’enorme leva economica e geopolitica. L’introduzione del “petro-yuan”, tramite contratti futures sul petrolio greggio denominati in Yuan, offre agli stati un’alternativa per il commercio di petrolio, incoraggiando le nazioni esportatrici, specialmente quelle colpite da sanzioni occidentali, ad adottare il sistema cinese. Sebbene sia improbabile che lo Yuan sostituisca completamente il dollaro nel breve termine, il suo ruolo crescente nelle transazioni energetiche globali indica una graduale evoluzione verso un ordine valutario internazionale più diversificato e contestato.

La de-dollarizzazione è un tema ricorrente tra i paesi del “Sud Globale” e il blocco BRICS, i quali promuovono l’uso delle valute locali, lo sviluppo di istituzioni finanziarie alternative e sistemi di pagamento indipendenti. Sebbene la dipendenza dal dollaro in Africa sia ancora alta, con oltre il 70% del debito estero denominato in dollari, l’interesse verso alternative come lo Yuan è in crescita. La digitalizzazione dello Yuan (e-CNY) potrebbe ulteriormente ridurre i costi e i tempi delle transazioni transfrontaliere, offrendo vantaggi significativi per il commercio intra-africano che oggi transita in gran parte attraverso l’Europa o gli Stati Uniti.

In conclusione, la spinta della Cina per internazionalizzare lo Yuan in Africa non è solo una mossa economica, ma una dichiarazione strategica. Pechino, insieme agli altri Paesi BRICS, sta ridefinendo le regole del commercio e della finanza, con l’Africa al centro della sua strategia in campo valutario. Questo sforzo segnala un passaggio verso un sistema finanziario globale multipolare o multilaterale, in cui il dollaro potrebbe coesistere con altre valute dominanti, piuttosto che mantenere il suo monopolio incontrastato.

Il Brasile si unisce al Sudafrica nella causa che accusa Israele di genocidio

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Il governo brasiliano ha annunciato di aver quasi completato un intervento formale contro lo Stato di Israele, che presenterà alla Corte Internazionale di Giustizia nell’ambito della causa per genocidio intentata dal Sudafrica. Nella sua dichiarazione, Brasilia «esprime profonda indignazione per i ricorrenti episodi di violenza contro la popolazione civile nello Stato di Palestina» e critica il senso di impunità che circonda i crimini israeliani contro i palestinesi, tanto a Gaza quanto in Cisgiordania. Con tale annuncio, il Brasile diventa il quindicesimo Paese a dichiarare la propria intenzione di unirsi al caso contro Israele, nonché il quarto dell’America meridionale dopo Bolivia, Cile e Colombia.

L’annuncio del governo brasiliano è arrivato mercoledì 23 luglio. Brasilia spiega che la sua decisione si fonda sui doveri e sugli obblighi giuridici che il Paese ha – come tutti gli Stati – di muoversi per garantire il rispetto del diritto internazionale e dei diritti umanitari, «data la plausibilità che i diritti dei palestinesi alla protezione contro gli atti di genocidio siano irreversibilmente compromessi, come concluso dalla Corte Internazionale di Giustizia nelle misure cautelari annunciate nel 2024». Nel suo comunicato, l’esecutivo fa riferimento agli attacchi israeliani contro la popolazione civile, tanto a Gaza quanto in Cisgiordania, nonché alle infrastrutture civili, religiose e alle sedi di istituzioni umanitarie e internazionali. «La comunità internazionale non può rimanere inattiva di fronte alle atrocità in corso. Il Brasile ritiene che non ci sia più spazio per l’ambiguità morale o l’inazione politica». Brasilia spiega di essere ormai arrivata «nelle fasi finali» per presentare un intervento alla CIG.

Il Brasile è il quindicesimo Paese a dichiarare la propria intenzione di unirsi alla causa per genocidio intentata dal Sudafrica. A dichiarare la propria intenzione di presentare un atto formale contro lo Stato di Israele sono stati il Nicaragua (in data 8 febbraio 2024), il Belgio (11 marzo), la Colombia (5 aprile), la Libia (10 maggio), l’Egitto (12 maggio), le Maldive (13 maggio), il Messico (24 maggio), l’Irlanda (27 maggio), Cuba (22 giugno), la Palestina (3 giugno), la Spagna (6 giugno), la Turchia (7 agosto), il Cile (13 settembre) e la Bolivia (9 ottobre). Di questi, Nicaragua, Colombia, Libia, Messico, Palestina, Spagna e Irlanda hanno fatto richiesta di entrare nella causa o presentato memorie contro Israele.

USA: garanzia di prestito da 4 miliardi alla Polonia per investimenti militari

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Gli Stati Uniti hanno concesso alla Polonia una garanzia di prestito di 4 miliardi di dollari per finanziamenti militari esteri. La notizia è stata data dalla portavoce del Dipartimento di Stato, Tammy Bruce, che ha spiegato che il prestito consentirà alla Polonia di investire in sistemi di difesa di fabbricazione americana. Dal 2023, la Polonia ha adottato diverse misure per aumentare i propri investimenti nel settore bellico, tra cui importanti acquisti di piattaforme statunitensi, come gli elicotteri Apache, un sistema di ricognizione radar dello spazio aereo e terrestre, i sistemi missilistici HIMARS e il sistema di difesa missilistica Patriot.

Gelati artigianali e industriali: come divincolarsi tra qualità e inganni

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Il gelato è un dessert che fa parte della tradizione italiana: dolce e rinfrescante, è un alimento che mette d’accordo tutti, grandi e piccoli. Gli italiani sono tra i più grandi consumatori di questo alimento, con oltre il 40% della popolazione che lo consuma tutto l’anno. Ne esistono per tutti i gusti e le esigenze, ma a determinarne sapore e consistenza è soprattutto il processo di lavorazione. In base a quest’ultimo, inoltre, si differenzia il gelato industriale da quello artigianale. 

Gelato industriale e gelato artigianale: cosa cambia

Estratto dal Decreto legislativo 27 gennaio 1992

Gelato industriale

Questo tipo di gelato è prodotto molti mesi prima del consumo, con l’impiego di preparati in polvere o in pasta costituiti da materie prime come latte in polvere, zucchero, succhi di frutta concentrati e di additivi come coloranti, emulsionanti, stabilizzanti e aromi. I gelati industriali vengono detti anche “soffiati”, in quanto prodotti con l’introduzione, durante la fase di gelatura, di aria, per un volume pari al 100-130%, procedimento che li rende soffici e leggeri. Il gelato industriale è pensato per un consumo non immediato – diversamente da quello artigianale – e infatti viene prodotto diversi mesi prima. A tal proposito, vengono utilizzati ingredienti che permettono al prodotto di rimanere il più possibile inalterato per diverso tempo. Il processo di produzione è definito “a ciclo continuo”, in quanto la mantecazione e la trasformazione da miscela a gelato avvengono in poche decine di secondi, con un aumento di volume superiore rispetto al gelato artigianale. Questo è dovuto alla quantità di aria che viene soffiata nel gelato e che ha lo scopo di farlo sciogliere molto più lentamente.

Gelato artigianale

Il gelato artigianale invece viene prodotto quotidianamente, in minori quantità, al fine di essere consumato in breve tempo. Il processo di preparazione è più lento e, solitamente, ha un lieve aumento di volume dovuto alla minima quantità di aria che assume naturalmente (non viene inserita aria di proposito come in quello industriale). Ovviamente, quello industriale è diffuso capillarmente: lo si trova nei bar, supermercati, ristoranti, centri commerciali, ma anche nelle mense e tavole calde. Quello artigianale, al contrario, si può acquistare solitamente solo in gelateria. Il gelato industriale è disponibile in vaschetta, cono, coppetta, barattolino, biscotto, ghiacciolo. Inoltre una differenza importante per noi consumatori, che ci si creda o no, è data dal fatto che in quello industriale possiamo avere sempre accesso alla lista degli ingredienti del prodotto, mentre se compriamo quello artigianale è molto raro che questa si trovi esposta. Eppure sarebbe obbligatorio per legge dichiararla, per effetto della normativa italiana (Decreto legislativo 27 gennaio 1992) che regola l’etichettatura e la presentazione al pubblico dei prodotti alimentari sfusi. La prossima volta che vi capiterà di comprarne uno, dunque, chiedete la lista degli ingredienti senza farvi troppi problemi, anche perché è sempre utile sapere cosa c’è dentro al prodotto, soprattutto nel caso di persone con allergie e intolleranze, al fine di evitare spiacevoli disturbi dovuti ad alcuni additivi o sostanze. Sono infatti numerosi i gusti di gelato che possono contenere allergeni, come arachidi, latte in polvere, frutta a guscio, soia e altri.

L’imbroglio del gelato artigianale

Nell’antica Grecia il gelato era davvero artigianale e non poteva essere altrimenti, dato che per prepararlo venivano usati solo alimenti naturali per farlo e di certo non esistevano additivi. Nel 500 avanti Cristo, il gelato si produceva senza coloranti, aromi, conservanti: veniva conservato solo col ghiaccio e lo si consumava fresco. Nel tempo, le cose sono molto cambiate. 

Non è affatto detto che dietro al banco di una gelateria si trovi un prodotto fresco, genuino. Anzi: molte gelaterie che riportano l’insegna “artigianale”, di artigianale hanno molto poco. Questa dicitura, infatti, non implica affatto la presenza di un prodotto più genuino e di migliore qualità rispetto a quello dichiaratamente industriale. In Italia c’è infatti un vuoto normativo che consente a chiunque di poter fare del gelato con materie prime industriali e additivi e di potersi definire gelateria “artigianale”: basta che il gelato lo abbia fatto nello stesso posto in cui viene venduto! Se poi questo gelato è stato prodotto con ingredienti naturali oppure usando polveri, paste e mischiandole con un po’ d’acqua, non c’è nessuna differenza: nessuno può dire se quel gelato è davvero fatto con materie prime naturali oppure no. Insomma, dal punto di vista legale è tutto lecito. Il diritto dei consumatori a una chiara trasparenza nelle informazioni di acquisto, però, cambia parecchio. 

Nel mondo della gelateria esistono dei preparati già pronti, ovvero semilavorati industriali, che possono essere semplici (come la pasta di nocciola) o molto elaborati e pre-pesati. Si tratta di buste all’interno delle quali la ricetta è già pronta: basta versare il contenuto dentro la macchina che impasta il gelato assieme alla corretta dose di acqua e il gioco è fatto. Questi preparati sono pieni di additivi come emulsionanti e addensanti, ma anche coloranti e aromi, pertanto come si fa a sostenere che il gelato sia artigianale? Chiaramente non lo è.  

Gelato artigianale e additivi

Colori accesi e consistenze troppo lucide possono tradire l’uso di semilavorati industriali: per riconoscere un vero gelato artigianale bisogna guardare da vicino ingredienti, texture e tonalità naturali

Nella maggior parte dei casi, l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) ha valutato come sicure queste sostanze usate come additivi nella produzione del gelato (sia quello industriale che quello artigianale). Tuttavia, va ricordato che l’EFSA non fa studi su nessuna sostanza chimica e nessun additivo che viene autorizzato in commercio: questi vengono condotti dall’industria stessa, che di fatto viene ad avere un ruolo di controllore e di controllato. Ricapitolando, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare si limita soltanto a esaminare gli studi di laboratorio che le vengono sottoposti dalle stesse industrie che mettono sul mercato i prodotti inerenti quegli studi. Poi, su consiglio di EFSA, la Commissione Europea decide la quantità, ovvero la soglia massima che può essere usata negli alimenti. Posto che non esiste la certezza assoluta sui livelli di pericolosità di queste sostanze, quel che è certo è che mangiando diversi tipi di cibi industriali e processati durante la giornata si supera facilmente quella che è la dose giornaliera massima raccomandata per tutte queste sostanze chimiche. Secondo gli esperti dell’Istituto Ramazzini di Bologna, la cosa più importante da considerare è che «queste miscele di additivi non sono mai state studiate». Nessuno infatti può garantirci che se mangiati assieme, gelati e altri cibi contenenti additivi, l’accumulo di questi ultimi non possa essere nocivo. Oppure che, combinati insieme additivi e coloranti, non portino a reazioni allergiche o del sistema immunitario. A confermare tutto questo sono gli stessi esperti dell’EFSA che, in risposta alle domande di alcuni giornalisti, affermano testualmente che «gli esperti dell’EFSA non valutano l’interazione tra additivi, ma la sicurezza di ogni additivo individualmente».

Come scegliere un gelato di qualità

La maggior parte dei gelati presenti in commercio ha certamente una genesi prettamente industriale, con presenza di additivi, conservanti, aromi e sostanze di vario tipo come amidi modificati o grassi aggiunti che ne consentono una più lunga conservazione. Si tratta, per esempio, dei mono e digliceridi degli acidi grassi (gli stessi che si mettono nel panettone e pandoro industriale), oppure di oli vegetali raffinati di cattiva qualità, come olio di palma e di girasole, che sono estranei completamente alla panna e al latte tipici del gelato di qualità. I grassi a cui dovremmo essere interessati comprando un gelato sono solo quelli della panna, del latte, delle uova o del cioccolato e della frutta secca, gli oli vegetali non c’entrano niente. A questo punto, non resta altro che chiederci se sia comunque possibile trovare in vendita qualche prodotto di buona qualità e dalla natura più veracemente artigianale. La risposta è sì, ma bisogna davvero impegnarsi per scovarli. 

Di certo esistono vere gelaterie artigianali sparse per l’Italia – non sono tante, ma ci sono. Per riconoscerle, dobbiamo fare attenzione a un elemento basilare: l’aspetto del gelato. Un buon gelato artigianale ha colori naturali, non troppo accesi, un sapore equilibrato, una consistenza cremosa, non eccessivamente fredda e senza cristalli di ghiaccio. Ad esempio, se un gelato è di colore azzurro è ovvio che non sia naturale ma frutto di una lavorazione che ha incluso il colorante blu: non esiste in natura nessun frutto o ingrediente azzurro, al massimo si può trovare qualcosa di blu scuro, come i mirtilli. Un gelato artigianale ha un sapore equilibrato, dove ogni gusto è ben distinto e richiama il suo ingrediente principale. Le gelaterie davvero artigianali utilizzano ingredienti freschi e di qualità, come latte, panna, uova, frutta fresca, e zucchero. Ci sono delle gelaterie dove queste cose si capiscono subito a occhio, perché la politica aziendale di massima naturalità del prodotto viene esposta chiaramente e il gelataio ne fa motivo di vanto e di orgoglio, pubblicizzando questi aspetti all’interno del negozio. In altre gelaterie, dove questi aspetti non sono evidenti, è bene guardare la lista degli ingredienti (che, se non è già esposta al pubblico, va richiesta) e vedere se ci sono molti ingredienti oppure pochi. 

Se la lista è lunga allora siamo di fronte a una preparazione industriale, se è ridotta allora è un prodotto sicuramente di migliore qualità. Anche al supermercato è possibile trovare qualche prodotto di buona qualità che può essere oggetto della nostra scelta. Ad esempio, una vaschetta di gelato allo yogurt può essere fatta con pochi ingredienti di qualità, considerando la media dei gelati in commercio. Può trattarsi di un gelato di alta qualità fatto solo con pochi ingredienti senza aromi, coloranti, anticongelanti e altri additivi industriali tipici delle marche più famose come Sammontana o Algida. Tra questi, si può sicuramente contare il marchio Sterzing-Vipiteno: la sua variante allo yogurt contiene solo quattro ingredienti (yogurt Vipiteno da latte intero del Trentino di ottima qualità, panna, zucchero e zucchero d’uva). Anche le sue varianti presentano ingredienti validi: quella al pistacchio, per esempio, contiene vero pistacchio in polvere o in pasta.

Napoli, incidente sul lavoro: 3 operai muoiono cadendo da un ponteggio

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Tragedia sul lavoro a Napoli, in via San Giacomo dei Capri, quartiere Vomero: tre operai sulla cinquantina sono morti cadendo da un ponteggio mentre lavoravano al rifacimento del tetto di un edificio di sei piani. Secondo una prima ricostruzione, il cestello su cui si trovavano si sarebbe ribaltato a causa di un cedimento della struttura, facendo precipitare le vittime da un’altezza di circa 20 metri. I residenti, allarmati dal boato, hanno chiamato i soccorsi, ma per gli operai non c’è stato nulla da fare. Sul posto sono intervenuti polizia e vigili del fuoco.

Liberato Georges Abdallah, il militante filo-palestinese che la Francia deteneva da 41 anni

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Quarantuno anni passati dietro le sbarre per un reato di cui si era sempre dichiarato innocente. La ricerca di un nemico pubblico e di un colpevole, la condanna politica, le pressioni americane e israeliane per tenerlo dietro le sbarre. I venticinque anni di richieste di scarcerazione respinte nonostante avrebbe potuto uscire di prigione già nel 1999. Questa la storia di Georges Ibrahim Abdallah, il libanese filo-palestinese considerato il detenuto più longevo nelle carceri francesi, che finalmente alle prime ore del mattino di oggi 25 luglio è stato scarcerato e verrà rimpatriato in Libano.

La sua storia ha inizio nel 1984, quando il giovane Abdallah si rifugia in un commissariato di Lione sostenendo di essere seguito dai servizi segreti israeliani del Mossad e di temere per la propria vita. In realtà, sulle sue tracce c’erano anche i servizi segreti francesi, che erano risaliti al suo nome dopo l’arresto di un uomo alla frontiera italo-jugoslava con 7 kg di esplosivo. Da quel giorno, Georges Abdallah non ha più conosciuto la libertà.

Nel 1986 viene condannato a quattro anni di detenzione per “associazione a delinquere”, “detenzione di armi ed esplosivi” e “uso di documenti falsi”. Georges Abdallah è, di fatto, un militante comunista libanese filo-palestinese. Attivo fin dall’età di 15 anni, inizialmente aderisce al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PLFP) e, negli anni ’80, contribuisce alla fondazione delle Frazioni Armate Rivoluzionarie Libanesi (FARL), un’organizzazione marxista e antimperialista impegnata nella liberazione della Palestina, che condurrà azioni di guerriglia in Medio Oriente e in Europa, in particolare in Francia. Nel 1982, il gruppo rivendica gli omicidi del tenente colonnello americano Charles R. Ray, avvenuto a gennaio, e di Yacov Bar Simantov, consigliere dell’ambasciata israeliana a Parigi. Sono gli anni della resistenza contro l’invasione del Sud del Libano da parte dell’esercito israeliano. Queste operazioni armate contro i due diplomatici fanno entrare la FARL nel panorama mediatico francese.

Agli Stati Uniti la condanna di Abdallah non basta. Vogliono trasformare il detenuto in un caso simbolico, dichiarare di aver catturato il nemico pubblico numero uno. L’ambasciata americana a Parigi si dichiara «sorpresa» per una pena giudicata troppo lieve. Un secondo processo si svolge nel 1987, con l’accusa di complicità negli omicidi di Ray e Simantov, in un clima di fortissima tensione. Media e autorità attribuiscono infatti alla FARL una serie di attentati avvenuti in Francia tra il 1985 e il 1986, costati la vita a 13 persone, nonostante Abdallah fosse già in prigione. Nel frattempo prende forma una campagna mediatica martellante contro il libanese: i giornalisti allineati al potere mirano a costruire la figura del nemico di Stato. Si parla dei tre fratelli di Georges, che sarebbero stati identificati durante gli attentati, sebbene si trovassero in Libano negli stessi giorni. Abdallah viene così descritto come il mandante degli attacchi e condannato all’ergastolo, nonostante l’assenza di prove concrete. La pena inflitta dal giudice supera di gran lunga la richiesta del pubblico ministero, che si era fermato a dieci anni. Ne ha scontati più del quadruplo.

I veri responsabili degli attentati — militanti filo-iraniani — furono identificati due mesi dopo la condanna all’ergastolo di Georges Abdallah. Abdallah non ha mai ammesso il proprio coinvolgimento nemmeno negli omicidi dei diplomatici. Ha però sempre rifiutato di condannarli, definendoli «atti di resistenza» contro «l’oppressione israeliana e americana», nel contesto della guerra civile libanese e dell’invasione israeliana del Libano meridionale nel 1978. Non ha mai rinunciato alle sue convinzioni. «È ormai ovvio che Abdallah è stato in parte condannato per ciò che non aveva fatto», riconoscerà anni dopo l’ex giudice antiterrorismo Alain Marsaud.

Georges Abdallah diventa così un prigioniero politico su mandato americano nelle carceri francesi. È detenuto a Lannemezan dagli anni ’80, nonostante sia liberabile dal 1999. Una libertà che gli è sempre stata negata per motivi politici: Abdallah è rimasto fermo nelle sue posizioni anti-imperialiste e ha rifiutato per tutta la vita di rinnegarle, nonostante la lunga reclusione.

Già nel 2013, in seguito all’ottava richiesta di rilascio presentata dai suoi avvocati, la giustizia francese aveva concesso a Georges Abdallah la libertà: mancava però l’ordine di espulsione che l’allora ministro dell’Interno, Manuel Valls, avrebbe dovuto firmare per permettergli finalmente di tornare a casa. Un carteggio rivelato anni dopo da WikiLeaks ha mostrato il tempestivo intervento statunitense che ha bloccato la scarcerazione: una telefonata di Hillary Clinton al ministro degli Esteri Laurent Fabius è bastata a fermare tutto e a far sprofondare Abdallah nell’oblio di altri dodici anni di prigione.

Anche nel 2024 il tribunale di esecuzione delle pene aveva autorizzato la libertà condizionale, a condizione che Abdallah lasciasse il territorio francese. Ma ancora una volta la decisione è stata annullata dall’appello del tribunale antiterrorismo di Parigi.

Nel febbraio 2025, la Corte si è dichiarata favorevole alla liberazione, chiedendo però un «sostanziale sforzo» per il risarcimento delle vittime. Abdallah rifiuta, restando fedele alla sua posizione di prigioniero politico. Il 19 giugno, l’avvocato fa comunque sapere che 16.000 euro sarebbero stati disponibili per le parti civili. La procura generale risponde che non è sufficiente e rilancia chiedendo una «forma di pentimento».

«La nozione di pentimento non esiste nel diritto francese», dichiara ai giornalisti Jean-Louis Chalanset, avvocato di Georges Abdallah, uscendo dall’aula. «Ho detto ai giudici: o lo rilasciate o lo condannate a morte». La corte si convince e comanda il rilascio con immediata espulsione in Libano, Paese pronto ad accoglierlo e che da anni ne chiede la liberazione. Georges Abdallah, 74 anni, ha così svuotato la sua cella, colma di quarant’anni di giornali e lettere dei sostenitori, e ha tolto dal muro la bandiera rossa di Che Guevara. Sarà trasferito con un aereo militare all’aeroporto di Roissy, da cui partirà su un volo diretto a Beirut.

L’avvocato di Abdallah teme che il suo assistito possa essere ucciso da un drone israeliano al ritorno in Libano. In ogni caso, aggiunge, se questo dovesse accadere «morirà libero a Beirut come resistente». Israele non ha preso posizione durante il procedimento legale, ma giovedì scorso, tramite l’ambasciata a Parigi, ha “deplorato” la decisione del tribunale: «Questi terroristi, nemici del mondo libero, dovrebbero passare la loro vita in prigione», si legge in un comunicato.

Intanto, mentre Tel Aviv prosegue la sua pulizia etnica a furia di massacri a Gaza, Georges Abdallah è libero. E non avendo mai rinnegato nulla, di certo non mancherà di continuare a dire apertamente chi, secondo lui, sono i veri terroristi.

USA, politiche sui migranti: amministrazione Trump fa causa a New York

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L’amministrazione Trump ha fatto causa alla città di New York, accusandola di ostacolare l’applicazione delle leggi federali sull’immigrazione con le sue politiche di «città santuario». La causa è stata presentata dopo l’uccisione di un agente della dogana fuori servizio, ritenuta collegata alle politiche migratorie della città. La procuratrice generale Pamela Bondi ha affermato che queste politiche hanno liberato criminali violenti. Il sindaco Eric Adams ha difeso le politiche cittadine ma ha sollecitato un riesame da parte del Consiglio comunale per migliorare la collaborazione con il governo federale sulla sicurezza.

Gaza: saltano i colloqui di pace, per gli USA è tutta colpa di Hamas

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Ieri, 24 luglio 2025, i colloqui di pace tra Israele, Stati Uniti e Hamas si sono interrotti bruscamente, con Washington e Tel Aviv che hanno ritirato le proprie delegazioni, accusando Hamas di mancare di volontà per una soluzione pacifica. I negoziati, iniziati due settimane prima, miravano a stabilire una tregua di 60 giorni, con l’intento di fermare le violenze e aprire corridoi umanitari per la popolazione di Gaza, gravemente provata dai massacri israeliani e dall’incombente carestia dovuta ai blocchi degli aiuti umanitari. Le richieste di Hamas, che chiedevano il ritiro dei militari israeliani dai territori palestinesi e garanzie sull’ingresso a Gaza degli aiuti, sono state rifiutate dagli interlocutori. A Gaza, dunque, l’inferno continua.

L’annuncio dell’interruzione dei colloqui in Qatar per il cessate il fuoco a Gaza è stato dato dall’inviato speciale della Casa Bianca per il Medio Oriente, Steve Witkoff, il quale ha puntato il dito contro Hamas, accusando il gruppo palestinese di «non agire in buona fede» e manifestare «mancanza di volontà» per il raggiungimento dell’accordo. Witkoff, inviato dell’amministrazione Trump, ha aggiunto che gli USA «prenderanno in considerazione opzioni alternative» per garantire il rilascio degli ostaggi israeliani. Alti funzionari di Tel Aviv hanno dichiarato che «il ritorno della delegazione da Doha non indica un fallimento dei negoziati: continueranno, ma significa che ci sono lacune significative e dobbiamo riflettere sul da farsi e prendere decisioni difficili». Eppure, l’esecutivo di Tel Aviv sembra volersi muovere in tutt’altra direzione: «L’intera Gaza sarà ebraica… il governo sta spingendo affinché Gaza venga cancellata. Grazie a Dio, stiamo estirpando questo male – ha dichiarato il ministro israeliano ultranazionalista Amihai Ben-Eliyahu -. Stiamo spingendo la popolazione che si è istruita sul Mein Kampf».

Hamas, che ha ripetutamente accusato Israele di voler bloccare il percorso verso l’accordo di cessate il fuoco, si è detta sorpresa dalle dichiarazioni di Witkoff. In vista del rilascio degli ostaggi israeliani, il gruppo palestinese aveva avanzato una serie di proposte a dir poco basilari: secondo i media israeliani, esse avrebbero incluso richieste relative al numero di prigionieri scambiati, alle agenzie autorizzate alla distribuzione degli aiuti a Gaza e alla fine definitiva della guerra, con il ritiro completo delle forze israeliane dai territori palestinesi. Un funzionario palestinese vicino ai colloqui ha dichiarato a Reuters che la risposta di Hamas è stata «flessibile, positiva e ha tenuto conto delle crescenti sofferenze a Gaza e della necessità di porre fine alla carestia». Il blocco israeliano, che impedisce l’ingresso di aiuti umanitari e rende quasi impossibile la fornitura di beni di prima necessità, sta aggravando la crisi umanitaria a Gaza. Organizzazioni internazionali hanno lanciato numerosi appelli, denunciando l’ostruzione degli aiuti da parte di Israele e le gravi condizioni in cui si trovano i civili palestinesi. La scarsità di cibo, acqua potabile e medicinali ha portato a una crisi senza precedenti, dove ogni giorno si contano nuove vittime innocenti, in gran parte donne, bambini e anziani.

Nel frattempo, con mesi di ritardo, continua a muoversi qualcosa nei Paesi del blocco occidentale. Sempre nella giornata di ieri, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che la Francia riconoscerà lo Stato di Palestina, diventando il primo Paese del G7 a farlo. L’annuncio ufficiale sarà fatto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a settembre. Macron ha sottolineato che il riconoscimento è parte dell’impegno della Francia per una pace giusta e duratura in Medio Oriente, ma ha evidenziato l’urgenza di fermare la guerra a Gaza, salvare i civili e smilitarizzare Hamas. La decisione è arrivata dopo il ritiro di Israele e degli Stati Uniti dai colloqui di cessate il fuoco in Qatar. La mossa è stata duramente criticata dagli Stati Uniti e da Israele. Nelle ultime ore, inoltre, il Canada ha condannato il governo Netanyahu per non essere riuscito a impedire quello che il primo ministro Mark Carney ha definito un «disastro umanitario» a Gaza. Il premier canadese ha accusato Israele di aver violato il diritto internazionale bloccando la consegna degli aiuti finanziati dal Canada ai civili nella Striscia.

Maxi-processo NO Tav: attivisti condannati a pagare decine di migliaia di euro

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Una cinquantina di attivisti impegnati nella lotta contro l’Alta Velocità in Val di Susa dovranno versare complessivamente decine di migliaia di euro allo Stato dopo essere stati condannati a processo. A inviare le cartelle di pagamento è stata, da fine giugno, l’Agenzia delle entrate, che ha dato loro 60 giorni di tempo per procedere al versamento. Venti attivisti, quelli con le accuse più gravi, sono stati condannati a pagare 3.000 euro, mentre molti altri dovranno versare cifre inferiori. Il processo contro i NO Tav riguarda i fatti del 27 giugno 2011, quando migliaia di agenti sono stati mandati a sgomberare il presidio di Chiomonte, che bloccava l’avvio dei lavori per la TAV, e quelli della manifestazione tenutasi in risposta il 3 luglio 2011, in cui si verificarono altri scontri con la polizia. In tale cornice, gli agenti arrivarono a utilizzare oltre 4mila lacrimogeni sui manifestanti, 200 dei quali rimasero feriti.

A distanza di quattordici anni dalle proteste contro l’apertura del cantiere per l’Alta Velocità Torino-Lione a Chiomonte, arriva ora il conto per decine di attivisti No Tav. Coinvolti nel cosiddetto maxi-processo, circa 50 militanti stanno ricevendo cartelle esattoriali per spese processuali e ammende: alcune cifre si aggirano intorno ai 3.000 euro, altre sono più contenute, ma si parla complessivamente di decine di migliaia di euro da versare. Il procedimento giudiziario, avviato dopo gli scontri del 27 giugno e del 3 luglio 2011 nei pressi della Libera Repubblica della Maddalena, si è protratto per oltre otto anni tra tutti i gradi di giudizio, concludendosi solo tra il 2023 e il 2025. Nonostante la caduta parziale dell’impianto accusatorio iniziale, sono arrivate condanne e richieste di risarcimento che ora l’Agenzia delle Entrate sta esigendo. In aggiunta, l’Avvocatura dello Stato ha recentemente notificato ai difensori degli imputati una diffida per il pagamento di ulteriori 32mila euro, minacciando atti esecutivi sull’intero importo a carico dei soggetti considerati più solvibili, in virtù della solidarietà del debito. Una clausola che rischia di riversare il peso economico su pochi attivisti.

Guido Fissore, uno dei volti storici del movimento, conferma l’avvio di una raccolta fondi per sostenere chi è colpito da queste richieste. «Abbiamo messo da parte una cassa di resistenza, ma non basta», ha spiegato. Sono previste cene, iniziative solidali e appuntamenti come il Festival dell’Alta Felicità per raccogliere contributi. Il movimento denuncia una strategia repressiva che mira a piegare una lotta popolare radicata sul territorio. Secondo i No Tav, il maxi-processo fu infatti un attacco politico più che giudiziario, volto a disarticolare una mobilitazione capillare e resistente, capace di coinvolgere migliaia di persone in difesa della Valsusa.

Il 3 luglio 2011 è una data incisa nella memoria collettiva del movimento No Tav come uno degli episodi più violenti e controversi nella lunga battaglia contro l’Alta Velocità Torino-Lione. Quel giorno, decine di migliaia di persone si mobilitarono in Valle di Susa per riconquistare simbolicamente l’area della Maddalena di Chiomonte, dove era sorto il cantiere del Tav. La manifestazione degenerò rapidamente in un durissimo scontro con le forze dell’ordine. Decine di agenti rimasero feriti, ma a farne le spese furono soprattutto i manifestanti: si contarono oltre 200 feriti, cinque arresti e un uso massiccio della forza da parte della polizia, che scagliò pietre contro i manifestanti e utilizzò perfino una pala meccanica per fronteggiarli. Dai boschi emersero storie di pestaggi, come quello documentato in un video in cui due attivisti, già fermati, vennero trascinati e picchiati dietro le recinzioni. Uno dei carabinieri responsabili, identificato grazie a un tatuaggio, è stato successivamente rinviato a giudizio.

Documenti interni delle forze dell’ordine, emersi anni dopo grazie a un leak di Anonymous, hanno rivelato che furono lanciati ben 4.357 lacrimogeni, molti dei quali contenenti CS, una sostanza chimica vietata in guerra. Nei file si legge che «i lacrimogeni, seppure in uso così massiccio, si sono rilevati inefficaci nell’allontanamento dei manifestanti» e che ebbero «effetti nefasti» sul personale, dal momento che i filtri delle maschere antigas furono «messi a dura prova dalla lunghezza dell’esposizione (6 ore di scontri, pressoché continuativi)» con «frequentissimi episodi di vomito, irritazione cutanea, intossicazione, stato confusionale transitorio».

Thailandia, evacuate 100mila persone per scontri al confine con Cambogia

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La Thailandia ha evacuato oltre 100.000 persone da quattro province al confine con la Cambogia, teatro da giovedì di intensi scontri armati tra i due eserciti. Le ostilità, che includono sparatorie e bombardamenti, si inseriscono in una disputa territoriale di lunga data tra i due Paesi, peggiorata negli ultimi mesi. Secondo le autorità thailandesi, gli scontri hanno causato finora 15 morti — 14 civili e un militare — e oltre 30 feriti. La Cambogia non ha fornito dettagli su eventuali vittime o evacuazioni nel proprio territorio. Attualmente i due Paesi stanno combattendo in 12 zone: la tensione resta alta lungo la linea di confine.