martedì 18 Novembre 2025
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Dal cessate il fuoco Israele ha ucciso oltre 100 palestinesi e sganciato 153 tonnellate di bombe

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Il cessate il fuoco è entrato in vigore da ormai dieci giorni, ma i bombardamenti e le aggressioni israeliane nella Striscia di Gaza non si sono mai fermati. Nella sola giornata di domenica sono state sganciate 153 tonnellate di bombe e uccisi «molti terroristi»: lo ha riferito lo stesso premier israeliano Benjamin Netanyahu, nel corso di una riunione della Knesset. Supera così il centinaio il numero di civili uccisi dallo scorso 10 ottobre nella Striscia di Gaza, in quelle che ormai sono sistematiche violazioni del cessate il fuoco da parte di Tel Aviv. Solamente nella mattinata di oggi, riportano i media palestinesi, l’esercito ha bombardato la zona est dell’enclave e aperto il fuoco su alcune persone che stavano facendo ritorno nelle proprie case. Anche gli aiuti umanitari sono tornati a diminuire, dopo che Israele ha interdetto il transito per alcune ore in alcuni dei valichi di accesso alla Striscia. Nel frattempo, il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance si trova in visita in Israele per discutere del cessate il fuoco, insieme all’inviato speciale per il Medioriente Steve Witkoff e a Jared Kushner, genero e consigliere di Trump.

«Grazie alle decisioni determinate e coraggiose che abbiamo preso, abbiamo consolidato la nostra posizione di potere. La campagna non è finita. Ieri Hamas ha violato palesemente il cessate il fuoco e ha sentito subito la potenza del nostro braccio, lo abbiamo attaccato con 153 tonnellate di bombe. Abbiamo attaccato decine di obiettivi in tutta la Striscia ed eliminato molti terroristi» ha riferito Netanyahu al Parlamento, dove alcuni dei membri della destra estrema non hanno accolto di buon grado l’accordo di cessate il fuoco. A scatenare gli attacchi israeliani sarebbe stata l’uccisione di due soldati dell’IDF, avvenuta nel sud della Striscia. L’esercito israeliano si sarebbe infatti impegnato a «smantellare le strutture terroristiche» nella zona di Rafah, quando le proprie truppe sono state raggiunte da spari e un missile anticarro. In tutta risposta, l’esercito ha «iniziato a colpire la zona per eliminare la minaccia e smantellare i tunnel e le strutture militari utilizzate per le attività terroristiche». A questo si aggiunge la denuncia di Philippe Lazzarini, commissario generale dell’UNRWA, che riporta come «quattro persone sono state uccise in seguito al bombardamento da parte delle forze israeliane di una scuola dell’UNRWA trasformata in rifugio nel campo profughi di Nuseirat» e chiede che venga mantenuto il «fragile cessate il fuoco».

Secondo alcuni testimoni, inoltre, militari dell’IDF avrebbero anche sparato contro alcuni civili che stavano facendo ritorno alle proprie case, azione che i militari hanno giustificato sostenendo si trattasse di «terroristi» che avevano superato la linea gialla di demarcazione oltre il quale l’esercito israeliano è tenuto a ritirarsi. La sua costruzione, mostra un video dell’IDF, è in pieno svolgimento: bulldozer israeliani stanno infatti spianando ampie zone della Striscia, dove sorgerà una nuova barriera con delimitazioni alte fino a 3,5 metri. L’ennesimo muro che stringe sempre più la zona nella quale i gazawi sono auorizzati a esistere.

Netanyahu insiste nel ripetere che tutti i corpi dei deceduti saranno riportati a casa e nega che Hamas abbia mai accettato le condizioni di cessate il fuoco: «sentiamo ripetere continuamente questa affermazione, ma è assolutamente falsa. In nessun momento Hamas ha accettato il piano che abbiamo raggiunto ora: la liberazione immediata di tutti gli ostaggi, il controllo da parte dell’IDF della maggior parte del territorio di Gaza e una decisione esplicita, con un ampio consenso internazionale, compresi gli Stati arabi, di smilitarizzare la Striscia di Gaza e disarmare Hamas. Siamo determinati a raggiungere tutti gli obiettivi di guerra». Eppure, proprio in queste ore l’IDF ha confermato la consegna, da parte del gruppo palestinese, del corpo di un tredicesimo ostaggio deceduto, quello del sergente maggiore Tal Haimi.

L’alto funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato ai media che il gruppo è «pienamente impegnato» ad attuare l’accordo nella sua interezza e a rispettare quanto concordato, e ricordato che Trump e i mediatori avevano assicurato che la guerra in Gaza era finita. E proprio in queste ore, alti funzionari della Casa Bianca, tra i quali lo stesso vicepresidente Vance, sono in visita in Israele, per discutere degli sviluppi del cessate il fuoco.

Giappone: Sanae Takaichi eletta premier, la prima donna alla guida del Paese

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La 64enne ultraconservatrice Sanae Takaichi è stata eletta premier del Giappone al primo turno con 237 voti, segnando la prima volta nella storia del Paese che una donna ricopre questo incarico. Assume il ruolo succedendo a Shigeru Ishiba dopo tre mesi di vuoto politico, ma dovrà affrontare una maggioranza fragile e numerose sfide interne quali la bassa crescita economica, i rapporti con gli Stati Uniti e una crisi di fiducia nell’élite politica. Nonostante l’accordo del Partito Liberal Democratico con il partito di destra di Osaka Japan Innovation Party abbia assicurato a Takaichi la carica di primo ministro, l’alleanza non ha ancora la maggioranza in entrambe le camere del Parlamento.

L’Irlanda ha istituito il reddito di base permanente per gli artisti

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artista

Dal prossimo anno, l’Irlanda introdurrà in modo stabile un programma di reddito di base dedicato agli artisti. Il provvedimento segue il progetto pilota avviato nel 2022 per sostenere i lavoratori del settore culturale duramente colpiti dalla pandemia. Il programma, chiamato Basic Income for the Arts (BIA), ha coinvolto inizialmente 2.000 beneficiari selezionati casualmente tra oltre 9.000 candidati. A ciascuno è stato garantito un sostegno economico di 325 euro a settimana (circa 1.300 euro al mese) in cambio dell’impegno a proseguire la propria attività artistica. I requisiti comprendono l'e...

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Armenia, arrestato il sindaco di una città

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La polizia armena ha arrestato Vardan Ghukasyan, sindaco di Gyumri, seconda città del Paese. Ghukasyan è un esponente dell’opposizione di Robert Kocharyan, ex presidente del Paese dal 1998 al 2008. Ghukasyan è stato arrestato con l’accusa di avere chiesto una tangente di circa 10mila dollari a un cittadino per la realizzazione di un progetto edilizio non autorizzato. L’arresto di Ghukasyan arriva in un momento teso per il Paese, che si sta avvicinando a elezioni. Il premier Nikol Pashinyan ha ingaggiato un duro scontro diplomatico con i vertici ecclesiastici della Chiesa armena (che è autocefala), da tempo critica nei confronti del suo esecutivo, arrestando diversi vescovi ed esponenti del clero.

L’alleanza tra USA e petro-monarchie affossa la tassa sulle emissioni in mare

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Il Comitato dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), organismo dell’ONU, ha rinviato al 2026 il voto sul primo sistema vincolante per ridurre le emissioni di gas serra nel trasporto marittimo. La proposta era stata promossa da UE e Cina e le trattative per implementarla andavano avanti da un decennio; essa avrebbe introdotto limiti annualmente più severi per le navi di stazza superiore a 5.000 tonnellate e l’obbligo di compensazioni economiche per quelle che non rispettano le norme sulle emissioni dovute ai carburanti. Ad affossare l’accordo sono stati gli Stati Uniti, sostenuti da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Singapore e Russia, che hanno esercitato pressione su funzionari dell’IMO e politici favorevoli alla proposta, minacciando ritorsioni economiche. Una mossa del tutto in linea con l’agenda dell’amministrazione Trump, che sin dal suo insediamento ha aumentato gli investimenti nel settore degli idrocarburi e puntato sempre di più sulla deregolamentazione del fossile.

Il voto sulla proposta del sistema per ridurre le emissioni del trasporto marittimo si è tenuto lo scorso venerdì 17 ottobre, a Londra. La proposta era stata approvata preventivamente lo scorso aprile, e intendeva ridurre le emissioni di gas serra del settore di almeno il 20% entro il 2030, per arrivare a zero emissioni nette entro il 2050. L’accordo avrebbe introdotto, a partire dal 2028, limiti sulle navi di stazza superiore a 5.000 tonnellate, mediante l’imposizione di una imposta varia direttamente proporzionale alla quantità di emissioni rilasciate. L’imposta era basata su un sistema di crediti: chi non avesse rispettato i limiti imposti avrebbe dovuto acquistare delle cosiddette “unità correttive”, mentre chi fosse riuscito a rientrare nei parametri avrebbe generato “unità in eccesso” da usare nel futuro o da vendere alle altre navi. Ad oggi, il trasporto marittimo rappresenta circa il 3% delle emissioni globali, ma secondo diversi studi potrebbero arrivare al 10% entro il 2050.

I 176 Paesi dell’IMO hanno affossato la proposta approvando il rinvio dell’adozione della tassa al 2026: 57 Paesi hanno votato a favore del rinvio, 49 hanno votato contro e 21 si sono astenuti. Diversi funzionari dell’IMO hanno affermato, come riporta il quotidiano Politico, di avere ricevuto minacce e intimidazioni da parte dei funzionari statunitensi; altre testimonianze dell’atteggiamento «da bullo» dei funzionari statunitensi sono state raccolte dal quotidiano The Guardian, che riporta di minacce dirette ai rappresentanti politici dei Paesi. Gli USA, di preciso, hanno minacciato di imporre dazi aggiuntivi agli Stati che avrebbero votato contro la sospensione, e di introdurre restrizioni contro i loro cittadini. L’atteggiamento intimidatorio dei funzionari statunitensi è stato portato avanti anche pubblicamente: il 10 ottobre, il segretario di Stato Marco Rubio, il segretario all’Energia Chris Wright e il segretario ai Trasporti Sean Duffy hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui parlano esplicitamente di contromisure nei confronti dei Paesi che avrebbero votato a favore della misura, citando proprio eventuali imposte aggiuntive, e restrizioni ai visti.

La scelta di affossare la proposta in seno all’IMO si colloca in piena continuità con l’agenda politica trumpiana. Sin dal suo primo giorno come presidente, Trump ha approvato diversi decreti per incentivare il settore del fossile e revocare i limiti imposti dalla precedente amministrazione Biden. In fatto ambientale, Trump ha ritirato gli USA dagli accordi di Parigi, il patto internazionale per combattere il cambiamento climatico, e dichiarato un’emergenza nazionale sull’energia, così da sbloccare più fondi per il settore; Trump ha poi annullato il divieto di trivellazione sui 625 milioni di acri di acque federali promosso da Biden nel su ultimo mese di amministrazione; il presidente ha infine ordinato il riavvio delle revisioni dei nuovi terminali di esportazione per il gas naturale liquefatto e l’interruzione delle concessioni delle acque federali per i parchi eolici offshore. Nei mesi successivi, le politiche di rilancio del fossile sono continuate: il presidente ha riaperto la corsa all’esplorazione petrolifera in Alaska, e ha incentivato disboscamento e politiche estrattiviste nelle sue stesse leggi finanziarie.

La moda delle scommesse online sugli eventi geopolitici

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«In questi tempi democratici, qualsiasi indagine sull’affidabilità e le peculiarità dei giudizi popolari è di interesse». L’ha detto Francis Galton, cugino di Charles Darwin, parlando del peso di un bue. Ma ci arriviamo dopo, prima dobbiamo parlare di completi da uomo. Quando Volodymyr Zelensky incontrò il presidente degli Stati Uniti nello Studio Ovale lo scorso febbraio, la prima cosa che Donald Trump gli disse fu: «Oggi sei tutto vestito elegante». In realtà, il leader ucraino non indossava certo un abito da cerimonia: aveva una semplice maglia nera abbinata a pantaloni dello stesso colore....

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Elezioni in Bolivia: dopo vent’anni di socialismo, La Paz guarda di nuovo a Washington

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LA PAZ – È Rodrigo Paz Zamora, senatore centrista figlio dell’ex presidente Jaime Paz Zamora, il nuovo presidente della Bolivia. Dopo che le elezioni di agosto hanno sancito la fine di vent’anni di governo socialista nel Paese, al ballottaggio Paz ha infatti guadagnato il 54,5% delle preferenze, mentre il conservatore Jorge “Tuto” Quiroga si è fermato al 43,8%. Con la vittoria di Paz, la Bolivia entra in una nuova fase che promette “moderazione e dialogo”, ma che nei fatti segna il ritorno al pragmatismo neoliberale. Nel frattempo, da mesi il Paese si trova ad affrontare una critica mancanza di carburante e un’inflazione al galoppo (attualmente al 13%), mentre le riserve valutarie sono ridotte a meno di due miliardi di dollari, la moneta locale sta subendo una forte svalutazione, il debito pubblico è vicino all’80% del PIL e l’export di gas è in caduta libera. 

Nel suo primo discorso all’Hotel Presidente, tra applausi e telecamere, Paz ha ringraziato «il sotto-segretario della presidenza Trump per la chiamata ricevuta», annunciando la volontà di «costruire una relazione stretta con uno dei governi più importanti del mondo» a partire dall’8 novembre, giorno del suo insediamento ufficiale al Palacio Quemado. Dietro la retorica della modernizzazione si intravede il ritorno della Bolivia nella sfera d’influenza statunitense, dopo due decenni di distanza. 

Rodrigo Paz Zamora conquista così la presidenza della Bolivia per il quinquennio 2025-2030. Figlio dell’ex capo di Stato Jaime Paz Zamora, si è imposto come il volto sobrio del cambiamento, segnando nei fatti un ritorno al pragmatismo neoliberale. In campagna elettorale, Paz ha promesso “stabilità e crescita” attraverso riforme pro-mercato, decentralizzazione amministrativa e incentivi agli investimenti esteri. Il suo linguaggio è più sobrio di quello di Quiroga, ma la direzione resta la stessa: più mercato, meno Stato. Il suo piano economico prevede una revisione selettiva dei sussidi ai carburanti, che pesano per oltre 3 miliardi di dollari l’anno, incentivi agli investimenti stranieri e una decentralizzazione amministrativa che favorisca le regioni più produttive, in particolare Santa Cruz. Paz evita la parola “austerità”, preferendo parlare di «responsabilità fiscale»; non menziona privatizzazioni, ma di “alleanze pubblico-private”. Eppure, il lessico resta quello dei manuali del Fondo Monetario Internazionale.

Con un’inflazione sopra il 13%, un debito pubblico vicino all’80 % del PIL e riserve in valuta estera scese a 1,7 miliardi di dollari (erano 15 miliardi nel 2014), la Bolivia arriva al cambio di governo sull’orlo della bancarotta tecnica. Paz ha già annunciato colloqui con il FMI e la Banca Interamericana di Sviluppo per ottenere linee di credito “destinate alla stabilizzazione”. La sensazione diffusa è che la nuova Bolivia parli la lingua dei mercati, e che nel suo vocabolario — come altrove in America Latina — la parola indipendenza non si traduca più.

La vittoria di Paz è stata resa possibile anche grazie alla frattura interna al MAS, il partito socialista del Paese, con lo scontro aperto dei due leader Luis Arce, presidente uscente, ed Evo Morales, fondatore del partito e primo presidente indigeno. Morales è rimasto in carica dal 2006 al 2019: durante i suoi tre mandati, si è opposto alle ingerenze straniere nazionalizzando tutte le riserve di gas naturale e il settore energetico, promuovendo la riforma agraria e l’aumento dei salari. Considerata la ricchezza di risorse naturali della Bolivia, la nazionalizzazione e l’estromissione di multinazionali straniere dalla possibilità di sfruttare tali risorse hanno messo all’erta vari Paesi terzi, tra i quali Washington. Nel 2019, pur avendo vinto le elezioni, Morales fu costretto a dimettersi a seguito di un “golpe morbido”, e nel 2024 è stato oggetto di un nuovo tentato colpo di Stato che mirava a impedirne la ricandidatura. Negli scorsi mesi i Ponchos Rojos, il movimento indigeno che sostiene Morales, avevano indetto numerose proteste e blocchi del Paese per spingere Arce alle dimissioni e chiedere che ne fossero indette di nuove. Morales aveva infatti accusato Arce, oltre che di cattivo governo, di aver permesso «il ritorno di agenti statunitensi come CIA, DEA e USAID», dichiarazioni alle quali Arce aveva risposto accusando Morales di star tentando il «colpo di Stato». Negli scorsi mesi, oltre a denunciare un tentativo di attentato nei suoi confronti, Morales è anche stato accusato, con un certo tempismo rispetto alla campagna elettorale, di reati sessuali contro minorenni, accuse che lui ha sempre respinto: «Denuncio al mondo che sono vittima di una brutale guerra legale portata avanti dal governo di Luis Arce, che ha promesso di consegnarmi come trofeo di guerra agli Stati Uniti», aveva dichiarato. Le insanabili divergenze tra i due leader hanno fatto crollare l’appoggio al movimento socialista, che alle elezioni dello scorso agosto non è riuscito a ottenere più del 3% delle preferenze. Un risultato che, dopo vent’anni, riporta il Paese sotto l’ombrello di Washington. 

Nigeria, proteste dei separatisti: scontri con la polizia

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Il popolo nigeriano ha lanciato una protesta antigovernativa che è stata duramente repressa dalla polizia. La protesta si è svolta nella capitale Abuja con lo scopo di contestare la detenzione del leader separatista Nnamdi Kanu, capo del Movimento per i Popoli Indigeni del Biafra che si batte per la secessione della Nigeria sudorientale, dove risiede il gruppo degli Igbo. Nelle strade centrali della città, la polizia, armata di idranti e camion blindati, ha lanciato gas lacrimogeni contro i manifestanti; secondo delle testimonianze, in altre aree della capitale avrebbe caricato la folla con il supporto delle forze armate.

Erebor Bank il nuovo simbolo del potere tech americano

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Una nuova banca sta nascendo negli Stati Uniti per servire l’“economia innovativa” legata alle nuove tecnologie: la Erebor Bank. L’istituto non ha però ancora fatto in tempo ad aprire ufficialmente i battenti che già sta suscitando non poche preoccupazioni. Non solo fa propria un’eredità finanziaria fragile, ma intreccia anche legami con figure controverse come Palmer Luckey, Peter Thiel e Joe Lonsdale — imprenditori e gestori di hedge fund tanto influenti quanto divisivi.

Secondo quanto rivelato dal Financial Times, l’obiettivo dichiarato di Erebor Bank è quello di affiancare aziende che operano in settori tecnologici ad alto rischio: dalle criptovalute all’intelligenza artificiale, passando per l’industria della Difesa. Senza ovviamente farsi mancare la possibilità di accogliere tra i suoi potenziali clienti gli individui ultra-high-net-worth (UHNW) attivi in questi stessi ambiti. A ben vedere, si tratta del terreno già battuto in passato dalla Silicon Valley Bank, la cui drammatica implosione ha evocato echi della crisi finanziaria del 2008.

Il nome stesso, Erebor, non contribuisce a infondere fiducia. Si tratta infatti di un riferimento alla “Montagna Solitaria” del romanzo Lo Hobbit di J. R. R. Tolkien, dimora di un drago avido e vanesio che ha razziato la regione e che dorme su un giaciglio di ricchezze trafugate ai legittimi proprietari. Il rimando al mondo tolkieniano non è casuale: il cofondatore della banca, Palmer Luckey, è già noto per aver creato nel 2017 Anduril Industries, azienda di tecnologie militari e armi autonome vicina al Dipartimento della Guerra statunitense, la quale prende il nome da una delle più celebri spade citate ne Il Signore degli Anelli.

Sia Erebor Bank che Anduril Industries sono state finanziate da hedge fund gestiti da Peter Thiel e Joe Lonsdale, membri della cosiddetta “PayPal Mafia”, con i due che avrebbero già raccolto circa 275 milioni di dollari per la nuova banca. Thiel, in particolare, è celebre per aver fondato Palantir, società specializzata in analisi dei dati utilizzata dai governi per attività di sorveglianza — un’altra impresa che, non a caso, deve il suo nome alla mitologia tolkieniana. Al di là delle citazioni letterarie, emerge come il gruppo di personalità coinvolte nel progetto appartenga a un circolo di “soliti noti”, grandi finanziatori repubblicani e megadonatori della campagna trumpiana, oggi capaci di esercitare un’influenza politica significativa su Washington.

La senatrice democratica Elizabeth Warren ha già lanciato l’allarme su come, il 15 ottobre, l’Office of the Comptroller of the Currency (OCC) abbia concesso a Erebor Bank le approvazioni preliminari necessarie in appena quattro mesi — un tempo ben più contenuto dei nove mesi e mezzo normalmente richiesti. Secondo un’inchiesta di Business Insider pubblicata ad agosto, una nota interna indirizzata agli investitori prometteva che, grazie alle «connessioni esclusive [di Palmer] con gli enti di vigilanza bancaria», l’autorizzazione sarebbe arrivata «in meno di sei mesi». «Le connessioni politiche di Palmer risolveranno il tutto», si leggeva nel documento. Altri osservatori hanno invece sottolineato come Adam Cohen, l’avvocato che stava lavorando alla documentazione della banca, sia stato assunto a luglio dall’OCC come consigliere legale capo.

Jonathan Gould, Amministratore dell’OCC salito in poltrona un paio di settimane prima del reclutamento di Cohen, ha celebrato l’approvazione preliminare della banca asserendo che la sua decisione sia «la prova che l’OCC, sotto la mia guida, non impone barriere generalizzate alle banche che vogliono impegnarsi in attività di asset digitali» e che «l’OCC continuerà a fornire un percorso mirato ad approcci innovativi ai servizi finanziari, così da garantire un sistema finanziario forte e diversificato, che rimanga rilevante nel tempo». Prima di poter diventare pienamente operativa, Erebor Bank dovrà ancora ottenere l’assicurazione sui depositi dalla Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC) e dimostrare la conformità a rigorosi parametri prudenziali. L’istituto sarà sottoposto a verifiche su sicurezza informatica, capitale e, soprattutto, antiriciclaggio — controlli che, almeno sulla carta, dovrebbero richiedere altri nove mesi di esami approfonditi.

Grecia: salvate 110 persone migranti

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Oggi in Grecia, al largo delle coste di Creta, sono state condotte due operazioni di salvataggio, in seguito alle quali sono state soccorse 110 persone migranti. La prima è stata effettuata a circa 40 miglia nautiche a sud di Kaloi Limenes, dove la guardia costiera greca, assieme a due motovedette e un drone dell’agenzia europea Frontex, hanno salvato 59 persone migranti. La seconda, anch’essa condotta dalla guardia costiera in coordinazione con Frontex, è stata condotta a 35 miglia nautiche a sud di Kalamaki. Le persone soccorse sono state condotte ad Agia Galini. Secondo i media greci, la maggior parte di esse proverrebbe dal Sudan, ma non è chiaro da dove sia partita l’imbarcazione.