Oggi in Grecia, al largo delle coste di Creta, sono state condotte due operazioni di salvataggio, in seguito alle quali sono state soccorse 110 persone migranti. La prima è stata effettuata a circa 40 miglia nautiche a sud di Kaloi Limenes, dove la guardia costiera greca, assieme a due motovedette e un drone dell’agenzia europea Frontex, hanno salvato 59 persone migranti. La seconda, anch’essa condotta dalla guardia costiera in coordinazione con Frontex, è stata condotta a 35 miglia nautiche a sud di Kalamaki. Le persone soccorse sono state condotte ad Agia Galini. Secondo i media greci, la maggior parte di esse proverrebbe dal Sudan, ma non è chiaro da dove sia partita l’imbarcazione.
Un rapporto fa luce sui legami tra Leonardo SPA e il genocidio israeliano a Gaza
Un nuovo dossier pubblicato da BDS Italia, dal titolo Piovono euro sull’industria
“necessaria” di Crosetto e Leonardo S.p.A. Le relazioni con Israele, riaccende i riflettori sui rapporti tra Leonardo S.p.A. – la principale azienda italiana della difesa, partecipata dallo Stato – e l’apparato militare israeliano. Secondo l’inchiesta, il gruppo guidato da Roberto Cingolani, attraverso filiali, joint-venture e forniture dirette, avrebbe continuato a fornire tecnologie, componenti e sistemi d’arma all’esercito di Tel Aviv anche dopo l’inizio dell’offensiva post 7 ottobre 2023 nella Striscia di Gaza. Dalla fornitura di cannoni navali OTO Melara ai radar israeliani RADA, fino ai jet M-346 “Lavi”, le connessioni tra Leonardo e la macchina militare israeliana emergono in modo dettagliato nel documento. L’azienda ha sempre respinto le accuse, ma le prove raccolte nel dossier delineano una rete di rapporti economici e militari difficilmente compatibile con i princìpi della legge italiana sull’export di armi e con gli impegni internazionali in materia di diritti umani.
L’industria della guerra travestita da tecnologia

Il rapporto a cura di Rossana De Simone pubblicato da BDS Italia (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni), ricostruisce in modo dettagliato un mosaico di contratti, acquisizioni e forniture che collegano Leonardo alle forze armate di Israele. Tra gli esempi più citati figura la fornitura dei cannoni navali OTO 76/62 Super Rapid, prodotti da OTO Melara, società interamente controllata da Leonardo, e montati sulle corvette Sa’ar 6 della marina israeliana. Tali navi hanno preso parte ai bombardamenti sulla Striscia di Gaza nel corso delle offensive del 2023 e del 2024. Un altro punto cruciale riguarda l’acquisizione, avvenuta nel 2022, della israeliana RADA Electronic Industries tramite la controllata statunitense Leonardo DRS. RADA è specializzata in radar e sistemi di difesa attiva per veicoli corazzati – come l’“Iron Fist” – utilizzati dall’esercito israeliano nelle incursioni via terra a Gaza. Il dossier sottolinea che tale partecipazione non è meramente indiretta: Leonardo ne detiene il controllo operativo, beneficiando dei contratti stipulati con il Ministero della Difesa israeliano. BDS Italia ricorda, inoltre, che Leonardo figura tra i fornitori del jet M-346 “Lavi” dell’aeronautica israeliana, impiegato in versioni d’attacco leggere.
Come il governo elude la legge 185/90
Secondo il rapporto, la cooperazione tra Roma e Tel Aviv non si è fermata al 7 ottobre 2023: la legge italiana 185/90, che vieta l’export di armamenti verso Paesi in conflitto o che violano i diritti umani, viene elusa grazie alla struttura multinazionale dell’azienda, che opera attraverso società con sede in Stati Uniti, Israele e Regno Unito, dove le restrizioni italiane non si applicano pienamente. Il 17 luglio, dopo un bilancio devastante a Gaza, PD, M5S e AVS hanno presentato una mozione per sospendere il Memorandum militare con Israele. La maggioranza ha difeso l’accordo per motivi economici, occupazionali e strategici, sostenendo che isolare Israele non aiuterebbe a risolvere la crisi politica. La mozione è stata respinta, come molte altre risoluzioni europee e internazionali sul tema.
Profitti di guerra e caduta in Borsa
Il contesto finanziario rafforza l’immagine di un’azienda che prospera in tempo di guerra. Per due anni di fila (2023 e 2024), l’azienda ha infatti registrato profitti da record, superando di molto le previsioni degli analisti. Nel febbraio 2025, Leonardo ha chiuso l’anno precedente con utili record pari a 17,8 miliardi di euro, un incremento attribuito anche al protrarsi dei conflitti in Medio Oriente. La domanda globale di armamenti – in particolare droni, radar e sistemi di artiglieria – era esplosa proprio durante l’offensiva israeliana su Gaza. La dinamica inversa si è verificata nell’ottobre 2025, quando l’annuncio di una tregua temporanea tra Israele e Hamas ha provocato un improvviso crollo del titolo in Borsa. Le azioni di Leonardo hanno perso valore in poche ore, calando a 55,48 il 9 ottobre, data di annuncio dell’accordo, e a 52,90 il 10 ottobre, giorno della ratifica, segno evidente di quanto la redditività dell’azienda sia legata al perdurare delle ostilità. Questa correlazione diretta tra guerra e profitto pone interrogativi etici sulla sostenibilità di un modello industriale che trae beneficio dalla violenza e dal disastro umanitario.
Le dichiarazioni contradditorie di Cingolani

Intervistato da Federico Fubini per il Corriere della Sera il 30 settembre 2025, l’amministratore delegato Roberto Cingolani ha negato qualsiasi coinvolgimento diretto di Leonardo nelle operazioni militari israeliane, affermando che «non vendiamo armi a Paesi in guerra» e definendo «un’esagerazione inaccettabile» parlare di corresponsabilità nel genocidio di Gaza, legata alla partecipazione dell’azienda ai consorzi che producono gli F-35 usati anche da Israele. Ha poi precisato che i radar militari sono venduti dalla DRS Technologies, soggetta alle decisioni del governo USA e che, dall’inizio del conflitto, non sono state più autorizzate esportazioni verso Israele. La sua difesa si è concentrata sulla distinzione tra nuove licenze d’esportazione e contratti preesistenti, sostenendo che l’azienda rispetta la legge 185/90. Pochi giorni dopo, Altreconomia ha smontato punto per punto le dichiarazioni di Cingolani, dimostrando come Leonardo continui di fatto a fornire sistemi militari a Israele attraverso le proprie controllate estere. L’inchiesta ha documentato che la linea ufficiale dell’azienda – «non esportiamo verso Israele» – è smentita dai flussi industriali e dalle partecipazioni societarie. Di fatto, i componenti prodotti da Leonardo e le tecnologie condivise con RADA e DRS vengono integrati nelle forniture israeliane, consentendo all’azienda italiana di mantenere la propria presenza nel mercato bellico anche in pieno conflitto.
Lo Stato azionista e la responsabilità politica
Lo Stato italiano, azionista di maggioranza relativa con circa il 30% del capitale di Leonardo, si trova al centro di un evidente conflitto d’interessi. Da un lato promuove una linea diplomatica formalmente orientata alla pace e al rispetto del diritto internazionale; dall’altro, trae benefici finanziari dalle performance di un’azienda che rifornisce un esercito accusato di crimini di guerra. Il dossier di BDS Italia insiste su questo punto, sostenendo che la responsabilità dello Stato non è solo morale ma anche materiale, poiché parte dei profitti derivanti dal conflitto rientrano nelle casse pubbliche sotto forma di dividendi. Le norme italiane sull’export di armamenti appaiono insufficienti a garantire un controllo reale. La legge 185/90 prevede che le forniture vengano bloccate in presenza di conflitti armati o di violazioni sistematiche dei diritti umani, ma prevede anche eccezioni per contratti firmati in precedenza o per operazioni indirette attraverso società controllate all’estero. È proprio in questa “zona grigia” che, secondo il dossier, Leonardo si muove con abilità, sfruttando la complessità delle proprie catene di produzione per aggirare i vincoli.
Le prove di complicità industriale

Le evidenze raccolte nel rapporto di BDS Italia convergono su un punto: Leonardo non è un attore esterno al conflitto, ma un ingranaggio integrato nella macchina militare israeliana. I cannoni OTO Melara, i radar RADA e i jet M-346 “Lavi” non sono meri prodotti di catalogo, ma strumenti impiegati nei bombardamenti e nelle incursioni a Gaza. Il dossier cita fonti israeliane e internazionali – tra cui Who Profits e il rapporto della relatrice speciale ONU Francesca Albanese – per dimostrare che le tecnologie di Leonardo contribuiscono concretamente all’azione militare israeliana. Il rapporto Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, presentato il 30 giugno da Francesca Albanese, ha presentato un duro atto d’accusa contro Israele e le aziende coinvolte nel sostegno militare e finanziario all’assalto di Gaza. Il documento denuncia la complicità del settore privato globale, dalle big tech alle industrie belliche, nell’economia del genocidio, mentre la spesa militare israeliana è cresciuta del 65% in un anno. Per il suo lavoro, Albanese è stata attaccata e sanzionata dagli Stati Uniti. Il documento stilato da BDS Italia aggiunge nuovi tasselli a quel reporto, mostrando come la catena di fornitura di Leonardo attraversa filiali e partner industriali in Stati Uniti, Regno Unito e Israele, rendendo difficile applicare sanzioni o blocchi alle esportazioni. In sostanza, l’azienda italiana ha costruito una rete internazionale che le consente di mantenere attivi i flussi commerciali anche in presenza di divieti formali.
La crisi della trasparenza e il silenzio istituzionale

Mentre BDS Italia e varie organizzazioni per i diritti umani chiedono chiarezza, Leonardo ha scelto la via del silenzio. Alla richiesta di commento inviata da Business & Human Rights Resource Centre, l’azienda non ha fornito risposta. Né il governo italiano ha finora chiarito la propria posizione rispetto alle accuse contenute nel dossier. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha definito “propaganda” le campagne di boicottaggio e le richieste di embargo militare, riaffermando la necessità di “sostenere le imprese strategiche nazionali”. Questa difesa istituzionale si inserisce in un quadro più ampio in cui l’industria militare italiana viene presentata come volano economico, nonostante i suoi legami con teatri di guerra e violazioni dei diritti umani. La stessa Leonardo, del resto, si promuove come “leader europeo nella difesa etica e sostenibile”, una formula che stride con la realtà documentata dal dossier BDS.
Diritto, economia e morale: le domande inevase
Il caso Leonardo riporta al centro un nodo irrisolto della politica industriale italiana: può un’azienda controllata dallo Stato generare profitti dalla guerra senza che lo Stato stesso ne sia corresponsabile? La risposta non è solo giuridica, ma etica. Finché il governo continuerà a giustificare l’espansione militare come opportunità economica, il confine tra difesa e complicità rimarrà labile. La legge 185/90, pur avanzata per l’epoca, appare oggi inadeguata a regolamentare un’industria globalizzata che agisce tramite controllate e partnership transnazionali. Le autorità italiane non possono ignorare che il controllo effettivo su Leonardo implica anche una responsabilità sulle sue scelte commerciali e produttive.
Conclusione
Il dossier di BDS Italia non è una denuncia isolata, ma un atto d’accusa documentato, che incrocia dati industriali, bilanci e fonti ufficiali. Mentre Leonardo parla di “difesa etica”, le sue forniture finiscono – direttamente o attraverso controllate estere – nel cuore della macchina bellica israeliana. Il 15 luglio 2025 i ministri degli Esteri dell’Unione europea, riuniti a Bruxelles, hanno deciso di non sospendere l’accordo di associazione con Israele sebbene si sia rilevato che continua a violare i suoi obblighi, in materia di diritti umani, ai sensi dell’accordo di associazione. È dall’inizio della guerra che l’Europa si rifiuta di fermare la strage di civili a Gaza, le violenze e sfollamenti da parte dei coloni e dell’esercito israeliano, ma la sua complicità si mostra con maggiore cinismo quando assicura che non finanzia progetti che colpiscono Gaza. L’immagine che ne emerge è quella di un’azienda a controllo pubblico che prospera mentre a Gaza si consuma una catastrofe umanitaria.
La produzione di fibre tessili è in continuo aumento
Il mondo delle fibre tessili non accenna a rallentare la sua corsa. Stando ai dati dell’ultimo report di Textile Exchange (Settembre 2025), la produzione globale di fibre è aumentata da circa 125 milioni di tonnellate nel 2023 fino a toccare un record di 132 milioni di tonnellate nel 2024 (negli anni 2000 era intorno ai 58 milioni di tonnellate) e con previsioni future che potrebbero raggiungere i 169 milioni di tonnellate nel 2030 se le produzioni seguiranno allo stesso ritmo. Ingenti quantità che si vanno ad inserire in un quadro produttivo vertiginoso, dove tutto quel che si produce non viene smaltito, trasformandosi in pericolosi rifiuti tessili.
A guidare la classifica delle fibre più prodotte è ancora il poliestere e, più in generale, tutti i materiali sintetici a base fossile, vergine. La produzione di fibre riciclate, infatti, è ancora a livelli minimi (7,6%) e gira sempre intorno al poliestere riciclato ricavato da bottiglie di plastica (quindi non da fibra a fibra, ma da altro materiale).
Aumenti produttivi ai quali corrispondono aumenti delle emissioni di gas serra (del 20% negli ultimi cinque anni) associate alla produzione totale di materie prime per l’industria dell’abbigliamento, dei tessuti per la casa e delle calzature. Il che fa allontanare tutto il settore dall’Accordo di Parigi: contenere le emissioni per mantenere il riscaldamento globale entro un limite di 1,5 °C, con questa dipendenza da materiali sintetici a base fossile, è quasi impossibile.
Un dato positivo che emerge dal report riguarda il numero di aziende impegnate in materia di sostenibilità, che ha raggiunto un livello di partecipazione record, dimostrando un discreto slancio verso la responsabilità collettiva.
Le fibre tessili prodotte globalmente sono tante e di varia natura, che rispondono alle richieste del mercato per i più svariati usi (moda sì, ma anche arredamento, calzature, automobili, ecc). Da un rapido sguardo alla situazione attuale, risultano ancora in testa alla classifica le fibre sintetiche. Il cotone rimane la seconda fibra più prodotta dopo il poliestere, nonostante abbia registrato una piccola flessione nell’ultimo anno, passando da 24,8 milioni di tonnellate nel 2022/23 a 24,5 milioni di tonnellate nel 2023/24. La produzione di fibre cellulosiche artificiali, tra cui viscosa (rayon), lyocell, modal, acetato e cupro, è aumentata da 7,9 milioni di tonnellate nel 2023 a 8,4 milioni di tonnellate nel 2024. La produzione globale di lana di pecora si è attestata a circa 1 milione di tonnellate di fibra di lana pulita nel 2024, con la lana che rappresenta lo 0,9% del mercato globale delle fibre (una percentuale irrisoria che si può facilmente constatare dalle etichette dei maglioni, dove incontrare un capo 100% lana è diventata una caccia al tesoro)! Altre fibre, dalla canapa all’elastan, stanno iniziando a guadagnare sostegno nel settore, rimanendo però ancora una percentuale marginale nella produzione globale.
Il sintetico comanda, non certo per le sue incredibili qualità o prestazioni, ma sempre per quell’aspetto di convenienza che permette di mantenere costi bassi e margini che aumentano, mentre il mondo si continua a riempire di plastica dalle fogge più svariate.
Il Materials Market Report mette anche in evidenza lo stato attuale delle fibre riciclate, che presenta luci e ombre: se da una parte la domanda e le iniziative stanno crescendo, dall’altra la quota effettivamente riciclata resta una frazione ridotta rispetto al totale delle fibre tessili prodotte. La quota di tessili riciclati globali (tutte le fibre) rimane intorno all’8% del totale, leggermente diminuita rispetto al passato a causa del calo del poliestere riciclato. Poliestere che, ad oggi, deriva dal riciclo di bottiglie in PET, mentre il riciclo vero e proprio da “tessile a tessile” resta ancora marginale e rappresenta meno dell’1% del mercato.
Nonostante ciò, sono circa 116 aziende hanno aderito alla 2025 Recycled Polyester Challenge, impegnandosi a utilizzare dal 45% fino al 100% di poliestere riciclato per i loro prodotti. Il 58% dei firmatari ha già raggiunto l’obiettivo di rimpiazzare completamente il poliestere vergine fossile con quello riciclato, ma solo il 26% delle aziende partecipanti ha effettivamente raggiunto già nel 2025 il proprio target di poliestere riciclato. Anche per quanto riguarda le altre fibre le percentuali del riciclato sono ancora molto basse. Questo rallentamento in parte è dovuto ai costi alti per la selezione e la lavorazione dei rifiuti tessili, in parte alla mancanza di infrastrutture impediscono una crescita più rapida del riciclo da tessile a tessile.
Una fotografia controversa, che se da una parte fa ben sperare nell’impegno delle aziende e nello sviluppo di nuove tecnologie, dall’altra mostra che la strada più facile è ancora quella più percorsa e che se non si rallenta la corsa, presto saremo seppelliti dalle stesse fibre di cui ci vestiamo quotidianamente.
Hamas: 97 civili uccisi e 80 violazioni della tregua da Israele
Dall’inizio della tregua, almeno 97 civili palestinesi sono stati uccisi e oltre 230 feriti dal fuoco israeliano, secondo quanto riferito dal governo di Hamas, che accusa Israele di 80 violazioni documentate, tra bombardamenti, sparatorie e arresti di civili. Tuttavia, a livello internazionale cresce la pressione su Hamas, accusata di usare la tregua per riorganizzarsi militarmente e ostacolare gli sforzi diplomatici per una pace duratura. Intanto, nelle prossime ore il vice presidente JD Vance e gli inviati Steve Witkoff e Jared Kushner si recheranno in Israele per incontrare il premier Benjamin Netanyahu.
Pedemontana veneta, ancora uno scandalo: 12 indagati per uso di PFAS nei cantieri
Vi sono componenti degli organi di amministrazione, responsabili tecnici e direttori di cantiere tra i 12 indagati a vario titolo per i reati di inquinamento ambientale e omessa bonifica nell’ambito dei lavori di realizzazione della Superstrada Pedemontana Veneta. Le notifiche di conclusione delle indagini sono state inviate dalla procura di Vicenza, che da mesi indagava sulla presenza di sostanze tossiche nelle acque di scolo dell’infrastruttura, la quale avrebbe comportato la contaminazione dell’ecosistema e delle fonti idriche potabili di Vicenza e Padova. Secondo le ipotesi, gli indagati non avrebbero rispettato le prescrizioni tecniche relative alla composizione del calcestruzzo, impiegando un accelerante contenente PFBA, una tipologia di PFAS – sostanze chimiche “eterne” che, accumulandosi nell’ambiente e negli organismi umani, provocano gravi danni alla salute.
La contaminazione sarebbe avvenuta in un periodo compreso tra il 28 giugno 2021 e il 23 gennaio 2024 nei territori di Castelgomberto, Malo e Montecchio Maggiore (tutti in provincia di Vicenza), come riporta una nota dell’Arma dei carabinieri. Gli indagati avrebbero «omesso di rispettare le prescrizioni tecniche relative alla composizione di calcestruzzo proiettato utilizzato per varie opere in sotterraneo, impiegando un additivo accelerante denomiato “Mapequick AF1000” contenente acido perfluorobutanoico (PFBA) in concentrazioni superiori ai valori di soglia indicati dal parere dell’Istituto Superiore di Sanità n.24565/2015». In questo modo, si sarebbe determinata «una contaminazione significativa delle acque superficiali e sotterranee insistenti nelle aree interessate dai lavori». Contro gli indagati sono state anche formulate le accuse di omessa bonifica e mancato ripristino dei luoghi, «nonostante la piena coscienza dell’avvenuto inquinamento».
I fatti avevano cominciato a venire alla luce a seguito di un esposto del Comitato Veneto Pedemontana Alternativa (Covepa), il quale nel 2023 aveva sollecitato il ministero dell’Ambiente a indagare sugli scarichi di acque di drenaggio provenienti dalle gallerie della superstrada. A seguito di mesi di approfondimenti, il ministero aveva chiesto un’indagine tecnico-scientifica, la quale aveva confermato la presenza di PFBA nelle acque delle falde. Una relazione dell’ISPRA aveva riportato che «le acque di drenaggio in uscita dalle gallerie di Malo e di Sant’Urbano rappresentano delle fonti, tuttora attive, di inquinamento da PFBA delle acque superficiali e sotterranee e, inoltre, il PFBA è individuabile come fattore di potenziale danno ambientale alle acque superficiali, in quanto suscettibile di incidere sullo stato ecologico delle stesse, nonché sullo stato di qualità delle acque sotterranee destinate ad uso potabile».
Lo scorso 8 ottobre, Andrea Zanoni, consigliere regionale, aveva presentato una interrogazione alla Giunta Regionale, dopo aver visionato dati di un tavolo tecnico risalente al 17 giugno di quest’anno nei quali emerge come 3 milioni di metri cubi di terre da scavo contaminate da PFBA siano state depositate in 20 siti, in particolare nelle acque di “ruscellamento”, con concentrazioni dell’inquinante fino a 2000 ng/litro. Si tratta di valori «spaventosi», sostiene Zanoni, che confermano che «l’opera è stata realizzata senza il rispetto per l’ambiente e la salute pubblica, come dimostrano i valori già rilevati a Castelgomberto, dove sono stati trovati PFAS in concentrazioni elevatissime, pari a 263.000 ng/litro». Nell’interrogazione viene sottolineato come 7 dei 31 pozzi idropotabili di Caldogno siano stati chiusi.
Negli ultimi anni, il Veneto è stato interessato anche da un’altra vicenda giudiziaria legata all’inquinamento da PFAS, che amplifica l’allarme per l’attuale contaminazione. Nel 2013 è stata infatti scoperta la contaminazione di una vasta falda acquifera che ha coinvolto circa 350 mila cittadini nelle province di Vicenza, Verona e Padova. Tra il 2015 e il 2016, rilevazioni a campione hanno evidenziato la presenza di elevate concentrazioni di PFAS nel sangue dei residenti, fino a che non è stato dichiarato lo stato di emergenza, nel 2018, insieme all’istituzione di una zona rossa che ha interessato 30 Comuni, con divieto di utilizzo dell’acqua potabile. Per quei fatti, nel processo di primo grado contro i dirigenti della Miteni di Trissino, sono state emesse condanne fino a 17 anni contro 11 imputati.
La Pedemontana Veneta, oltre che una bomba a orologeria per la salute dell’ambiente e dei residenti, si è rivelata anche un’opera dai costi esorbitanti per i cittadini veneti. In soli nove mesi, nelle casse della Regione Veneto si è generato un buco da 47 milioni di euro, per via del canone annuo (destinato a salire fino a superare i 332 milioni di euro nel 2059) che la Regione deve versare alla società costruttrice SIS. Per questo motivo, l’opera è da tempo finita nel mirino della Corte dei Conti, che ha inoltre raccomandato l’applicazione di sanzioni per i ritardi nel terminare i lavori (il termine fissato era il 2020, ma l’ultima tratta è stata aperta solamente nel 2023, mentre l’interconnessione con l’A4 è stata conclusa solamente nel 2024). Vi sono inoltre 20 milioni di euro che la Regione ha versato al concessionario anche se non dovuti, nonché il nodo della possibile riclassificazione della superstrada, che consentirebbe di aumentare il limite di velocità da 110 a 130 km/h, equiparandolo a quello delle autostrade.
Assalto al pullman dei tifosi del Pistoia basket, muore l’autista
Un autista è morto lungo la superstrada Rieti-Terni, nei pressi di Contigliano, dopo l’assalto al pullman che trasportava i tifosi del Pistoia Basket. Il mezzo stava lasciando la città al termine della partita di Serie A2 contro la Sebastiani Rieti, vinta dai toscani nel pomeriggio. Secondo le prime ricostruzioni, l’uomo sarebbe stato colpito da una pietra lanciata contro il parabrezza da alcuni tifosi della squadra reatina durante l’aggressione.
Yemen, Houthi irrompono nella sede ONU e trattengono 20 dipendenti
Nel corso di un’irruzione nella capitale yemenita, Sanaa, i guerriglieri del gruppo Houthi hanno preso in ostaggio venti collaboratori della Nazioni Unite – di cui cinque locali e quindici internazionali – all’interno degli edifici dell’organizzazione. Le autorità ONU lanciano l’allarme urgente per la situazione. “Cinque membri dello staff nazionale e 15 membri dello staff internazionale sono trattenuti negli edifici dell’ONU”, ha dichiarato all’Afp Jean Alam, portavoce del coordinatore residente delle Nazioni Unite in Yemen. Questo episodio si inserisce nel contesto di una guerra civile, che dal 2014 ha trasformato lo Yemen in una delle crisi umanitarie più gravi al mondo.
Cermis 1998, la tragedia che ci ricorda che l’Italia è una colonia americana
Una doppia scia di sangue lunga oltre trenta metri, vergata con violenza sulla neve candida: proprio come la frustata di un aereo che sfreccia a folle velocità sopra le case e gli alberi, facendo tremare la terra, nel cuore di una valle che era un presepe vivente e in un battito di ciglia è diventata un cimitero ai piedi delle montagne. La cabina di una funivia piena di sciatori che precipita nel vuoto da 108 metri, scivolata via da un cavo di acciaio reciso come per un colpo di forbici. In sette secondi, un tempo brevissimo ma dilatato all’infinito dal terrore e dalle grida disperate, si sfracella al suolo insieme a venti persone. Una catasta di lamiere gialle, il colore della cabina, sci, scarponi, giacche a vento, pezzi di vita schizzati ovunque e cadaveri aggrovigliati buttati alla rinfusa e senza pietà dallo schianto, diversi mutilati e irriconoscibili. Il colpo di forbici che ha tranciato la fune traente della funivia, l’alfa e l’omega della strage del Cermis, è opera di un Grumman Prowler EA-6B dell’Aeronautica militare statunitense, precisamente del corpo dei marines.
La maledizione della montagna
Un aereo da guerra che, sfrecciando con manovre spericolate e tra le risate dei piloti a bordo, ha falciato una funivia e con essa la vita di chi aveva appena finito una festosa giornata sugli sci. Il 3 febbraio 1998 la Val di Fiemme, sotto alla catena del Lagorai, ha vissuto quella che ai più è parsa una maledizione. Ventidue anni prima, il 9 marzo 1976, la funivia era infatti diventata la tomba di 41 persone (una sola sopravvissuta, Alessandra Piovesana, 14 anni), precipitate in caduta libera per l’accavallamento delle funi. Ma non c’è stata nessuna fatalità, la seconda volta. La seconda volta, la tragedia è stata attribuita alla bravata di un top gun americano, un pilota esaltato da un gioco folle insieme ai suoi colleghi, fino a quando non è venuta a galla una verità molto peggiore, molto più inconfessabile: quei voli scriteriati, quelle acrobazie senza rete dei jet americani che terrorizzavano la popolazione della valle, andavano avanti da anni nel silenzio di tutti, e il lugubre resoconto del disastro è stato la cronaca di un disastro annunciato.
Aviano, Texas
A riavvolgere il nastro di questa storia, si trova il capitano Richard Ashby che, come i suoi colleghi, è di stanza nella base di Aviano, una cittadella a stelle e strisce ai piedi delle Prealpi Carniche. L’aeroporto Pagliano e Gori, come è intitolato, è una base aerea italiana utilizzata dall’USAF, Aeronautica militare statunitense. Fu concepita, ai tempi della Guerra fredda, come un avamposto americano sui Balcani, una specie di portaerei pronta a far decollare i suoi aerei verso est. Attualmente, è una delle 111 basi militari statunitensi nel territorio del Belpaese. Ad Aviano, oltre ai cacciabombardieri F15 e altre tipologie di aerei, c’è – ormai è assodato, così come a Ghedi nel bresciano – una bella scorta di testate nucleari americane. Ci sono, tutt’oggi, anche le lamentele furibonde della popolazione locale, che non ne può più da tempo del frastuono e delle vibrazioni dei jet che sfrecciano indisturbati giorno e notte: ma come le proteste della Val di Fiemme, anche quelle dei friulani sembrano cadere perennemente nel vuoto, come un prezzo che ancora dobbiamo pagare ai nostri liberatori per un debito senza fine. Aviano è stata descritta, nel corso del tempo, come una grossa enclave yankee nel cuore del Nord-est, con più di cinquemila americani, le auto, i negozi, un panorama che ricorda più una cittadina del Texas che un tranquillo paese nella pianura veneto-friulana, compresa la lotta nel fango delle soldatesse della base, riferita da alcune cronache colorite.
“Sotto alle Alpi ci sono le palme”
Nel 1998, Aviano era il trampolino della NATO e delle forze USA per controllare i cieli della Bosnia, dopo che gli accordi di Dayton hanno lasciato spazio all’operazione Deliberate Guard, una sorta di pattugliamento aereo per garantire stabilità e sicurezza in quelle regioni dilaniate dalla guerra nei Balcani. L’anno successivo, tuttavia, dopo le recrudescenze e la spirale di tensioni, dalla stessa base di Aviano decollavano i bombardieri diretti a martellare Belgrado e la Serbia, nell’ambito dell’operazione Allied Force, nella quale il disinvolto utilizzo di bombe all’uranio impoverito ha causato malattie e morte anche tra diversi soldati del contingente italiano che ha utilizzato quei micidiali ordigni a sua insaputa. La necessità di addestrarsi ai voli in terra slava, da parte dei piloti americani di Aviano, li spingeva in quel periodo a utilizzare il cielo delle Dolomiti come una palestra naturale, sfruttando la conformazione orogeografica del territorio. Ma, molto spesso, in modo sconsiderato e pericoloso per la popolazione. I voli radenti, o a bassa quota, erano una consuetudine e un vizio dei piloti statunitensi, al punto che nella base avevano coniato il detto “sotto alle Alpi, ci sono le palme”. Evidente il significato: per i top gun del 31 Fighter Wing, la Val di Fiemme era come il deserto del Nevada: non c’era proprio nulla di cui curarsi, sotto alle ali dei loro jet. Nessuna considerazione né rispetto per la popolazione, i centri abitati e, soprattutto, la vita delle persone.
Un top gun con la valigia in mano
Quel maledetto giorno di febbraio 1998, il capitano Ashby, pilota del Prowler, era al suo ultimo volo prima di tornare negli Stati Uniti, dove si era guadagnato l’ingresso nella scuola di addestramento dei caccia bombardieri F18 per le sue eccelse qualità alla cloche. Al suo fianco, il navigatore Joseph Schweitzer – che per una strana coincidenza aveva un cognome praticamente uguale a quello di Carlo Schweizer, il manovratore della cabina della funivia precipitata nel 1976 e unico colpevole del disastro, condannato per aver disattivato i sistemi di sicurezza al fine di velocizzare l’impianto. William Raney e Chandler, Electronic Warfare Officers, completavano l’equipaggio dell’aereo che era considerato il migliore al mondo nella guerra elettronica, sia per accecare i radar e le difese aeree. Caratteristica del Prowler la copertura in oro della cabina, per proteggere dalle radiazioni emesse e ricevute.
Un proiettile sopra le case
Il volo è in programma alle 13.30, ma il Prowler decolla da Aviano solo alle 14.36. Il motivo del ritardo racconta molto di questa storia cupa: proprio Ashby, al momento di accendere i motori, si ricorda di aver dimenticato il nastro per la telecamera VHS con cui ha intenzione di riprendere il volo, così scende dall’aereo per andare a recuperarla, poi monta la telecamera. Un’abitudine, tra i piloti, o forse un vizio, quello di registrare acrobazie e piroette, imprese da condividere con i colleghi davanti a una birra. Un barilotto di birra pare infatti fosse il premio più in voga nelle scommesse tra i piloti di Aviano per chi compiva l’impresa più ardita e sfacciata. E la più ardita e sfacciata di tutte, la sfida delle sfide, era proprio quella di passare a velocità supersonica sotto ai cavi della funivia, in una sfida di abilità che metteva a rischio la vita delle persone.
Al Prowler viene assegnata la rotta Easy 10, una delle dieci disponibili per i voli di addestramento a bassa quota, che sarebbe una specie di cerchio intorno alle Dolomiti: da Aviano a Cortina d’Ampezzo, poi scendendo verso Ponte di Legno, Casalmaggiore e risalendo verso Riva del Garda, Marmolada e ritorno in Friuli. Ma quando arriva sopra alla Val di Fiemme, Ashby cala vistosamente la quota di volo e la inforca come un rettilineo, al termine del quale c’è la funivia, il “giocattolo” dei top gun di Aviano. Passato il lago di Stramentizzo, il Prowler si abbassa al punto da sorvolare i campanili e le case, già sotto la quota di volo. Non c’è contatto radio, non è previsto dal tipo di volo, ma quando sorvola Molina di Fiemme, il Prowler è già fuori rotta di oltre otto miglia, inspiegabilmente e forsennatamente. Gli americani, dopo, negheranno che lo fosse. Un proiettile lanciato a filo di terra nel cielo del Trentino: viaggia a mille chilometri all’ora e molto sotto la quota di 1000 piedi, ossia 300 metri, fissata proprio dal piano di volo. Per capirci: molto sotto all’altezza minima e molto oltre la velocità massima consentita. Poco dopo una voce dentro l’abitacolo dice “bersaglio in vista” e tutto succede in un baleno. Ashby ha portato il Prowler verso i tiranti della funivia per passarci sotto, nel suo gioco irresponsabile, ma a quella velocità non può vedere la cabina della funivia che sta scendendo e si abbassa verso destra. Il pilota tira bruscamente la cloche per effettuare una brusca e disperata virata a sinistra, ma non può evitare il devastante impatto: l’ala destra del Prowler colpisce il cavo portante della funivia, col timone di coda sbatte contro quello trainante, col jet ormai radente al suolo. Marino Costa, il manovratore dell’altra cabina che saliva vuota e che viene bloccata dal frantumarsi dell’impianto, rimane appeso nel vuoto finché i vigili del fuoco non riescono a tirarlo giù.
Nascondere le prove
Sono le 15.12: dal Prowler arriva ad Aviano una richiesta di atterraggio di emergenza che si verifica alle 15.35. La cabina non aveva toccato terra, sfracellandosi, che l’aereo era già lontano oltre un chilometro e volava via come se non fosse successo nulla. Arriva alla base friulana gravemente danneggiato, un pezzo di coda viene poi ritrovato nei pressi dell’abitato di Masi. Iniziano subito le operazioni di insabbiamento: Ashby fa sparire il nastro VHS con la registrazione del volo e fa sparire anche la scatola nera, peccato che per farlo non spenga il circuito elettrico, quindi tutti i dati sono cancellati per sempre. Per i carabinieri prontamente inviati agli hangar di Aviano, però, non è difficile capire che il responsabile della tragedia è quel Prowler che fanno appena in tempo a fotografare, prima di essere allontanati dai marines con le armi spianate: la base è italiana e gli americani sono teoricamente ospiti, ma gli uomini dell’Arma devono cedere e allontanarsi. Quando i magistrati italiani nei giorni successivi arrivano ad Aviano AB scendendo da un elicottero, forse per dare il senso della gravità dei fatti, trovano il Prowler già pronto per essere smontato, e con resti della fune di acciaio che teneva la cabina nell’ala e nell’impennaggio di coda, oltre a tracce della canapa con cui erano rivestiti i cavi. Le prove schiaccianti del delitto.
Il “club dei mille”
Nei giorni del dolore e della rabbia che seguono emerge il quadro inquietante di top gun che per abitudine e per gioco sfidano il pericolo e mettono a repentaglio l’incolumità dei civili. Si viene a sapere che ad Aviano c’è il “club dei mille”, ossia un’allegra combriccola di piloti che si vanta di passare a mille chilometri all’ora sotto ai cavi delle funivie. Va precisato che per le regole in vigore in Italia, la quota minima per questi jet è di 2000 piedi, ossia 600 metri circa, e 450 nodi (830 km/h). Nel momento dell’impatto contro la funivia del Cermis, l’aereo americano viaggiava a meno di 100 piedi (alcuni testimoni lo hanno visto sfrecciare a 70 metri) e 540 nodi, ossia 1000 chilometri all’ora. Ci sarebbe stato, peraltro, un accordo tra le autorità italiane e quelle americane che escludeva i voli di addestramento a bassa quota per le truppe impegnate in Italia nell’operazione Deliberate Guard: proprio come il Prowler pilotato da Ashby. Il divieto era previsto dalla nota SMA 175 del 21 aprile 1997 (citata anche dalla relazione della Commissione di inchiesta incaricata di indagare sul disastro).
“Qui la gente ha paura”
La tragedia che ha spazzato via la vita di cittadini tedeschi, belgi, polacchi (la vittima più giovane è il 14enne Philip Strzelczyk), austriaci e un olandese, oltre a tre italiani, scoperchia una lunga serie di denunce e richieste di intervento non ascoltate. Da una decina di anni gli abitanti della Val di Fiemme denunciavano i passaggi di quei jet, troppi e troppo bassi. Qualcuno ha anche segnalato la caduta di pietre dalla catena del Latemar, perché gli aerei sfrecciano così forte e così vicini da far tremare le montagne. Si contano 73 tra denunce e segnalazioni e diversi cittadini hanno scritto al 3° Stormo dell’Aeronautica di Verona per lamentarsi. La risposta è salomonica: «Ha il numero di serie dell’aereo?», ossia il numero di targa di un apparecchio che vola a quasi trecento metri al secondo. Senza mezzi termini, dicono «qui la gente ha paura». Le acrobazie funamboliche e i passaggi sotto ai cavi della funivia erano noti a tutti, da anni, tanto che il presidente della Provincia di Trento, Carlo Andreotti, aveva scritto al governo per chiedere un divieto di sorvolo dei centri abitati (allora al capo del governo vi era Romano Prodi, alla Difesa Beniamino Andreatta e ai Trasporti Carlo Burlando). La lettera è del 22 agosto 1996, due anni prima della strage. Andreatta gli ha risposto dopo quattro mesi dicendo in sostanza che i voli a bassa quota sono indispensabili per l’addestramento e che è sostanzialmente colpa dell’eccessiva antropizzazione del territorio montano italiano, troppo popolato per non creare disagi. Vietare i voli è fuori discussione, scrive il ministro. Al massimo l’Aeronautica si può impegnare per disturbare meno possibile.
Colpo di spugna e giurisdizione americana
Fatto sta che per guasti, avarie e atterraggi sbagliati, tra gennaio 1990 e giugno 1994 in Italia ci sono stati 26 incidenti per voli militari. Dal 1919, su 135 incidenti aerei verificatisi in Italia, 42 sono imputabili a velivoli militari: uno ogni 2 anni. Nei tre mesi precedenti la strage del Cermis (che qualcuno ha ribattezzato la strage dei top gun), si sono contati 499 voli a bassa quota, 84 dei quali in Trentino. Lo stesso Prowler pilotato da Ashby ha effettuato 11 voli radenti in sei mesi, prima dello schianto contro la funivia. Per il caso, come si era intuito dalle prime fasi, è in arrivo un gigantesco colpo di spugna. Non senza motivo, a caldo dopo la tragedia, il generale Wesley Clark, all’epoca comandante in capo delle forze USA in Europa, dichiarò che il volo del Prowler «era una missione nazionale statunitense». Il motivo è semplice: Clark aveva messo le mani avanti, invocando l’applicazione della Convenzione di Londra del 1951, ratificata dall’Italia nel 1955 (legge 1335, articolo 7). La quale prevede per i militari NATO «l’esenzione dalla giurisdizione dello Stato territoriale per reati realizzati nello svolgimento di mansioni ufficiali». In poche parole, il capitano Ashby e il navigatore Schweitzer (gli altri due membri dell’equipaggio furono subito prosciolti) avevano diritto di essere processati e giudicati negli Stati Uniti, nonostante il fatto che tutto sia successo in Italia e che la Procura di Trento avesse ipotizzato i reati di disastro, omicidio colposo plurimo e attentato colposo alla sicurezza dei trasporti.
Corte marziale: assolti e felici
Davanti alla Corte marziale riunita a Camp Lejeune, in North Carolina, Ashby e il navigatore furono processati per violazione dei propri doveri, danno colposo a proprietà militare (l’aereo), danno colposo a proprietà non militare (la funivia), strage e omicidio colposo. Mentre il procuratore colonnello Daugherty fece una requisitoria severissima sulla condotta di Ashby, l’avvocato dei piloti disse che le manovre erano state “ragionevoli”. Il primo fu assolto, la posizione del secondo fu archiviata. Schweitzer ammise poi la distruzione del nastro con la registrazione del volo e patteggiò per l’accusa di intralcio alla giustizia e complotto per nascondere materiali probatori per cui Ashby fu invece condannato a sei mesi di reclusione (ne ha scontati 4 e mezzo) e radiato con disonore dal corpo dei marines. Nel 2008 ha chiesto l’annullamento del provvedimento per non perdere la pensione.
L’inchiesta americana ha appurato che prima di quel giorno non aveva mai effettuato sorvoli a bassa quota in Italia e che né lui né i suoi colleghi avessero bisogno di quell’addestramento, evidentemente doveva essere proprio un volo-premio da ricordare portandosi via negli Stati Uniti il VHS dell’“impresa”. Dopo il verdetto americano, il Manifesto ha titolato «Sono morti di freddo», mentre Massimo D’Alema, diventato nel frattempo presidente del Consiglio, si espresse così sulla decisione dei giudici statunitensi: «Non commento le sentenze in Italia, figuratevi se lo faccio con quelle americane». Incontrando poi poco dopo Bill Clinton, ospite a Roma in quei giorni, come se nulla fosse successo.








