A Douala, in Camerun, almeno quattro persone sono morte durante le proteste scoppiate prima dell’annuncio ufficiale dei risultati delle elezioni presidenziali del 12 ottobre. I dati provvisori indicano la vittoria del presidente uscente Paul Biya, al potere dal 1982 e ora verso l’ottavo mandato. Le manifestazioni, guidate dai sostenitori dell’oppositore Issa Tchiroma Bakary, denunciano brogli e mancanza di trasparenza. Nonostante il divieto del governo, centinaia di persone sono scese in piazza in varie città. A Douala si sono verificati violenti scontri con la polizia, che ha usato lacrimogeni e idranti. Le autorità affermano che i manifestanti hanno attaccato gli agenti.
Il PD dell’Emilia-Romagna è l’essenza stessa del “greenwashing”
A inizio anno, sugli autobus di Reggio Emilia, è comparsa una scritta: «Questo servizio compensa CO2». La firma è di TIL, l’azienda che gestisce il trasporto pubblico locale e che fornisce navette e minibus per stazione, ospedale e scuole del territorio. Tutti mezzi che viaggiano ancora a diesel o benzina e che, inevitabilmente, inquinano. In che senso, allora, compensano CO2? La risposta sta nei cosiddetti “crediti di sostenibilità”, quote che TIL acquista dal Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano. In pratica, l’azienda versa una somma di denaro per “appropriarsi” virtualmente di una parte dell’aria pulita prodotta dagli alberi del parco. Ogni credito corrisponde a una tonnellata di CO2 equivalente prodotta dai propri mezzi e che, secondo i calcoli, verrebbe poi assorbita dalla foresta. Il progetto è partito nel 2023 e i dati più recenti parlano di oltre 30 aziende aderenti: dal trasporto pubblico alla produzione di macchinari agricoli, dalla distribuzione di gas alla cosmesi, fino alla ristorazione. Tutte hanno pagato per acquistare qualcosa che la natura offre da sempre, gratuitamente, a tutti: aria pulita. Per alcuni si tratta di un’iniziativa virtuosa, che permette alle imprese di compensare almeno in parte il proprio impatto ambientale. Per altri, è un’operazione di facciata che consente di sbandierare una presunta “neutralità climatica” senza modificare in alcun modo i processi produttivi o le fonti di inquinamento; insomma, un caso da manuale di greenwashing. Piccolo caso di studio di quello che per il PD in Emilia-Romagna appare un modo di procedere più che consolidato.
Sempre più cemento, nel rispetto dell’ambiente
Continuare a inquinare mentre si sbandiera a ogni occasione il rispetto per l’ambiente. Non lo fanno solo le aziende, ma anche la politica e l’Emilia-Romagna sembra particolarmente abile in questo gioco. Un’abilità portata avanti soprattutto da chi governa il territorio da decenni: il Partito Democratico. Un primo esempio è la legge urbanistica regionale approvata dalla giunta Bonaccini nel 2017. Presentata come il provvedimento che avrebbe «bloccato definitivamente il consumo di suolo e la cementificazione», avrebbe dovuto favorire la riqualificazione di quartieri e aree dismesse. Solo pochi mesi fa, in un comunicato ufficiale della Regione, è stata definita «una normativa che sta dando risultati concreti». La realtà raccontata dai dati, però, è ben diversa. Secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), in Emilia-Romagna il consumo di suolo non si è mai fermato: la regione è ancora al secondo posto in Italia per superficie cementificata ogni anno. La costruzione intensiva e il taglio degli alberi lungo le sponde dei fiumi sono stati inoltre indicati come una delle cause principali della devastante alluvione che ha colpito la Romagna nel 2023 e degli allagamenti nell’entroterra emiliano l’anno successivo. «Nemmeno le quattro alluvioni che hanno colpito la nostra regione sembrano averci insegnato qualcosa – ha dichiarato Legambiente – visto che sono ancora previste nuove strade, autostrade, poli logistici, ipermercati… Chiediamo alla Regione un cambio di rotta deciso». Nonostante questi dati, l’attuale presidente della Regione, Michele de Pascale – che da sindaco di Ravenna ha detenuto il record regionale di consumo di suolo – ha già annunciato l’intenzione di introdurre nuove deroghe alle costruzioni, per non rallentare la corsa di quella che il suo predecessore definiva «la locomotiva d’Italia».
Alberi in vaso alberi abbattuti
Anche il PD di Bologna sembra aver fatto propria l’arte del greenwashing. Mentre in città nascono comitati che si oppongono all’abbattimento di alberi nei parchi pubblici per fare spazio a nuove costruzioni – come nel caso delle scuole Besta o dei giardini di San Leonardo – a luglio 2025 l’amministrazione comunale ha deciso di collocare in sette piazze del centro storico 110 alberelli in vaso. Si tratta di arbusti di dimensioni ridotte, poco più di quattro metri di altezza e con una chioma di pochi centimetri, che nelle intenzioni del Comune dovrebbero contribuire a mitigare le ondate di calore estive. Una strategia sulla quale gli esperti hanno parecchie riserve, senza contare il fatto che si teme per la salute degli stessi alberi, esposti al caldo torrido del centro città e senza possibilità alcuna di espandere le proprie radici: figurine verdi messe sotto l’occhio delle telecamere, mentre nelle zone meno osservate della città si continua ad abbattere a tutto spiano.
Sempre a Bologna è in corso una protesta dei cittadini del quartiere Bertallia-Lazzaretto, periferia nord-ovest della città, una zona stretta tra la ferrovia e l’aeroporto dove, negli ultimi anni, è comparsa un’area verde inaspettata: un bosco spontaneo cresciuto su una vecchia cava, chiusa e bonificata anni fa. Un ecosistema ormai maturo, popolato da acacie, ailanti, pioppi e querce. Un polmone verde che assorbe l’acqua, filtra l’aria, favorisce la biodiversità e mitiga, questa volta sul serio, l’effetto “isola di calore”.
Il Comune però ha deciso che anche qui deve nascere una zona residenziale e si appresta ad abbattere buona parte dell’area. Di fronte alle proteste dei cittadini anche in questo caso l’amministrazione Dem si è affrettata a dare una verniciata “green” al progetto. Le parole pronunciate dalla vicesindaca Emily Clancy in difesa di una nuova colata di cemento fanno ricorso alla più classica retorica istituzionale: «Questa visione – ha spiegato in consiglio comunale – si traduce in un progetto paesaggistico che amplia e qualifica le superfici verdi, rafforza la continuità ecologica fra i comparti, contribuisce alla costruzione di una rete verde interconnessa e integra in modo virtuoso il verde pubblico con gli spazi abitativi, favorendo un equilibrio tra natura e insediamento urbano».

«Noi vogliamo che venga fatta chiarezza su cosa si intenda per “verde” e su come si valuta il valore ecologico di un ecosistema esistente – ha risposto Licia Podda, biologa che fa parte del comitato per la salvaguardia di Bertallia-Lazzaretto -. Un bosco rinaturalizzato, cresciuto spontaneamente nel tempo, non può essere considerato equivalente a un prato piantumato o a una fila di alberelli decorativi. Serve trasparenza, aggiornamento dei dati ambientali e soprattutto un confronto reale con chi quel territorio lo vive ogni giorno».
Il greenwashing anche sulla sabbia

Spostandoci in Romagna possiamo trovare un’altra amministrazione comunale, sempre a guida PD, alle prese con un altro caso di greenwashing. A Rimini il consiglio comunale ha appena approvato il nuovo Piano per l’Arenile. Il progetto prevede un aumento del 37% delle spiagge libere, con l’obiettivo dichiarato di migliorare l’accessibilità e la qualità ambientale della zona. Tuttavia, dietro questa facciata ecologica si celano concessioni importanti che aprono la strada a una massiccia espansione delle strutture balneari, che potranno svilupparsi per una lunghezza di 250 metri e costruire aree per lo sport e ristoranti con terrazzi vista mare. Ma non solo: tra le novità più controverse c’è la possibilità di realizzare maxi piscine fino a 300 metri quadrati direttamente sulla spiaggia. Da una parte quindi si cede un po’ di spazio alla sabbia, libera da lettini e ombrelloni, mentre dall’altro si permette agli stabilimenti di aumentare significativamente le proprie superfici costruite, trasformando di fatto la spiaggia in un vero e proprio spazio urbanizzato. In questo scenario, la costruzione di piscine e infrastrutture diventa una strategia per “compensare” la perdita di superficie sabbiosa, offrendo nuovi servizi per attrarre visitatori e sostenere l’economia locale sempre più masochisticamente legata al turismo. «Questo piano proietterà la spiaggia nel futuro», ha dichiarato il sindaco Jamil Sadegholvaad. Un futuro fatto, ancora una volta, di cemento. Cemento dove parcheggiare le macchine, cemento dove sedersi a mangiare, cemento dove giocare a padel, cemento da riempire d’acqua per fare il bagno, visto che il mare non basta più – e, soprattutto, non si paga.
Ed è proprio qui che il cerchio del greenwashing si chiude. Dalla CO2 “compensata” con crediti di sostenibilità, ai boschi sacrificati in nome di “reti verdi” disegnate a tavolino, fino alle spiagge urbanizzate mascherate da progetti di riqualificazione, il filo conduttore è lo stesso: raccontare di stare proteggendo l’ambiente mentre lo si consuma, un po’ alla volta. Un trucco ben confezionato, fatto di slogan, piani strategici e conferenze stampa, che promette sostenibilità ma consegna cemento.
USA e Cina trovano accordo per evitare nuovi dazi
Gli Stati Uniti e la Cina hanno raggiunto un accordo che frena l’imposizione di nuovi dazi fino al 100% sulle merci cinesi, mentre la Cina rinvierà di un anno l’entrata in vigore dei controlli sulle esportazioni di terre rare. Nel contempo, è stato incluso nel quadro un’intesa specifica su TikTok: la Cina accetta di facilitare una ristrutturazione della piattaforma, mentre gli USA rinunciano per ora a nuove misure tariffarie drastiche. I dettagli dell’accordo per la vendita dell’app sarebbero stati definiti e la firma finale potrebbe arrivare durante il vertice APEC. L’accordo segna una temporanea de-escalation nella guerra commerciale tra le due superpotenze, aprendo la strada all’incontro tra il presidente USA Donald Trump e il presidente cinese Xi Jinping.
Irlanda, alle presidenziali vince la candidata pro-Palestina e contro la NATO
Ha criticato duramente la NATO, ha votato contro i trattati dell’UE, ha condannato Israele per la guerra a Gaza parlando apertamente di genocidio, ha promesso di difendere la neutralità militare del suo Paese. Con questi punti del suo programma, Catherine Connolly, 68 anni, ex sindaco della città occidentale di Galway, è stata eletta presidente dell’Irlanda. Nel silenzio pesante della bassa affluenza elettorale, Connolly, ha conseguito una vittoria netta nelle presidenziali irlandesi, imponendosi con circa il 63% dei voti, contro il 29,5% della sfidante Heather Humphreys. La candidata indipendente di sinistra, che negli ultimi nove anni ha ricoperto il ruolo di deputata socialista dell’opposizione nel parlamento irlandese, ha raccolto il sostegno compatto delle forze progressiste e dei partiti a sinistra del Labour, grazie a una campagna che ha avuto come temi centrali la denuncia delle politiche militari occidentali e un forte impegno a sostegno del popolo palestinese. Il risultato segna una rottura rispetto alle precedenti candidature dell’establishment e invia un segnale nitido al governo di Dublino: l’elettorato guarda altrove, premia il coraggio e la divergenza su tematiche calde e chiede una voce che non si limiti all’ordinaria rappresentanza.
Proveniente da un quartiere popolare di Galway e con un passato da avvocata e psicologa clinica, Connolly ha costruito la sua carriera prima nel partito laburista, poi come indipendente, fino a diventare deputata dal 2016 e nel 2020 è stata eletta vicepresidente della Dáil Éireann, la camera bassa dell’Oireachtas (Parlamento) della Repubblica d’Irlanda. Il suo successo elettorale è stato favorito da un’inedita alleanza trasversale delle forze di sinistra, tra cui Sinn Féin, che hanno deciso di concentrare il sostegno su di lei. Contestualmente, la campagna della candidata ha puntato con forza sui temi critici della crisi abitativa, del costo della vita e della disillusione verso i grandi partiti governativi. Sul piano delle idee, Connolly ha fatto della difesa della neutralità nazionale e della critica delle politiche militari occidentali il cuore della sua proposta. Ha ripetutamente denunciato l’espansione della NATO a est e la militarizzazione europea in seguito dell’Operazione Speciale, sostenendo che l’Irlanda non debba allinearsi automaticamente alle logiche dei blocchi. Le sue posizioni hanno sollevato polemiche per il rischio di alienarsi gli alleati dell’Irlanda e, in particolare, ha dovuto affrontare le domande dei suoi sostenitori durante un evento elettorale in un pub di Dublino, dopo aver paragonato gli attuali piani della Germania per aumentare la spesa per la difesa alla militarizzazione nazista degli anni Trenta. Nonostante le critiche, è rimasta ferma nella sua opposizione ai piani dell’UE per il programma ReArm Europe, che prevede un aumento della spesa per il riarmo di 800 miliardi di euro e ha precisato di voler tutelare la tradizione irlandese di neutralità militare, di fronte alle richieste di un maggiore contributo del Paese alla difesa europea. Durante la sua campagna elettorale, ha affermato che dovrebbe essere indetto un referendum sul piano governativo per rimuovere il “triple lock“, un sistema a tre componenti che regola le condizioni per l’impiego di soldati irlandesi in missioni internazionali. La procedura richiede l’approvazione delle Nazioni Unite, la decisione del governo e un voto del Dáil.
Sul fronte geopolitico, Connolly ha assunto una posizione decisa sulla questione palestinese, condannando le operazioni israeliane nella Striscia di Gaza e parlando apertamente di «genocidio». A settembre è stata criticata per aver definito Hamas «parte integrante del tessuto del popolo palestinese» e per aver difeso il diritto dell’organizzazione politica e militare a svolgere un ruolo futuro in uno Stato palestinese. Questa posizione ha suscitato la disapprovazione del Primo Ministro Micheál Martin, leader del Fianna Fáil, e del Ministro degli Esteri Simon Harris, leader del Fine Gael, l’altro partito del governo di centro-destra irlandese. Martin l’ha criticata per essere apparsa riluttante a condannare le azioni del gruppo militante nell’attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele. In seguito, Connolly ha aggiustato il tiro, dichiarando di aver «condannato totalmente» le azioni di Hamas, ma non si è tirata indietro nel continuare a criticare i crimini di Israele nella Striscia di Gaza. Nel dibattito presidenziale finale trasmesso in televisione martedì scorso, è stato chiesto a Connolly come avrebbe trattato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump – che possiede un resort di golf in Irlanda e ha intenzione di visitarlo quando ospiterà l’Irish Open l’anno prossimo – in una eventuale visita del tycoon nel Paese e se fosse pronta a sfidarlo in prima persona in merito al sostegno degli Stati Uniti a Israele nella guerra a Gaza. «Il genocidio è stato reso possibile e finanziato dal denaro americano», ha esordito Connolly, che si è detta disponibile a incontrare il presidente USA e a confrontarsi con lui su questi temi.
Lo stile schietto di Connolly e il suo messaggio di uguaglianza sociale e inclusività hanno conquistato molti, soprattutto i giovani elettori. Nei dibattiti presidenziali trasmessi in televisione, ha affermato che rispetterà i limiti del suo incarico, sebbene nel suo discorso di accettazione abbia anche affermato che avrebbe parlato “quando necessario” come presidente. La carica presidenziale in Irlanda, sebbene prevalentemente simbolica, ricopre un ruolo di rappresentanza nazionale e internazionale e può incidere nei contenuti del dibattito pubblico. In questo caso, la scelta popolare rivela una Repubblica che vuole affermare un’identità autonoma, che valorizzi pluralismo, diversità e impegno di pace, in direzione opposta a una Europa che sembra aver intrapreso la strada della guerra permanente. Le sfide immediate per la nuova presidente comprendono la gestione della coesione sociale in un Paese attraversato da tensioni su immigrazione, casa e riconciliazione nord-sud, oltre all’ipotesi di tenere un referendum sul sistema del triple lock. Con la vittoria di Connolly, l’Irlanda recupera la propria vocazione storica alla neutralità, proiettandosi sulla scena internazionale come voce autonoma e critica nei confronti dell’ordine globale, decisa a rivendicare un modello politico fondato sulla sovranità, la pace e la solidarietà tra i popoli.
Attacco di droni ucraini su Mosca, sospesi i voli negli aeroporti
Nella notte, decine di droni ucraini hanno colpito la regione di Mosca, secondo quanto riferito dal sindaco Sergey Sobyanin. Le difese aeree russe avrebbero abbattuto circa 30 velivoli, mentre gli aeroporti di Domodedovo e Zhukovsky hanno sospeso temporaneamente le operazioni per motivi di sicurezza. Esplosioni sono state segnalate in diverse zone della capitale e nei sobborghi, e un incendio sarebbe divampato in un deposito di petrolio a Serpukhov. Non si registrano vittime.
Raid israeliani in Libano: due persone uccise
Una persona sarebbe rimasta uccisa nel raid aereo condotto da Israele in Libano, riporta il ministero della Salute di Beirut. L’attacco costituisce l’ultima delle violazioni del cessate il fuoco tra i due Paesi da parte di Israele. Il raid è stato condotto contro un veicolo nei pressi della città di Nabi Sheet, regione di Baalbek, nel Libano orientale, e arriva a poche ore di distanza da un’altra operazione simile, portata a termine dall’esercito israeliano nella città di Tiro, nel Libano meridionale, nel corso del quale è stata uccisa una persona.
Tra le comunità berbere del Marocco che lottano contro la siccità e le alluvioni
Zagora – Alle porte del deserto l’aria impregna il volto di terra e sabbia e le folate di vento rendono impossibile tenere gli occhi aperti. Durante il giorno la temperatura non si schioda dai quarantacinque gradi, per poi calare, di notte, senza mai scendere sotto i trenta. Ogni attività, in quel lasso di tempo che in alcune aree d’Italia viene definito come “controra”, è rigorosamente ferma, per poi ricominciare intorno alle 17.00 e attendere il fresco della sera.
Il Sud-est marocchino da più di un lustro soffre una grave siccità. Negli ultimi dieci anni, quelle coltivazioni che hanno caratterizzato il lavoro nelle aree rurali del Paese, focalizzate in special modo sulla produzione di cereali, sono state spazzate via dalla penuria d’acqua. Sono quindi numerose le persone che si sono viste obbligate a lasciare la propria terra e così sommarsi al fenomeno della diaspora marocchina. Dalle latitudini estreme del Marocco, sempre più persone si sono messe in viaggio per trasferirsi nelle principali metropoli del Paese e provare a cambiare il destino della propria vita. A questa situazione già drammatica, per la quale il governo di Rabat cerca di attuare programmi di salvaguardia delle poche coltivazioni rimaste, si è aggiunta l’alluvione che nel settembre del 2024 si è abbattuta sull’area e ha portato via con sé i pochi campi, molte case e, secondo le stime del governo, più di venticinque vite.
Immaginari cinematografici

La regione del Draa-Tafilalet è una tra le più estese del Paese e ospita uno dei tratti di frontiera più delicati tra il Marocco e l’Algeria. Il confine che attraversa il deserto è presidiato dalle forze militari marocchine e il suo accesso è praticamente invalicabile a causa del pattugliamento militare e delle migliaia di mine antiuomo disseminate lungo tutto il perimetro della frontiera. La stessa regione è a sua volta divisa in due parti: l’area a sud confinante con l’Algeria è prettamente desertica, mentre la parte nord è attraversata dalla catena montuosa dell’Alto Atlante con cime che superano i tremila metri. Qui sono evidenti i tratti emblematici della cultura berbera, fortemente radicata nella regione.
Raggiungere da Marrakech la città di Zagora, capoluogo dell’omonima provincia e ultimo grande centro urbano prima della frontiera, può essere faticoso: due autobus partono ogni giorno dalla stazione della Città Rossa e tagliano la catena montuosa dell’Atlante attraverso il passo del Tizi n’Tichka. I tornanti che si susseguono per ore mettono a dura prova i passeggeri, mentre dal finestrino scorrono le immagini delle vallate, delle distese rocciose che si fanno spazio tra i picchi e, in alcuni punti, compaiono dei piccoli negozi di artigianato o delle tende gestite dagli apicoltori della zona.
Non appena si raggiunge Zagora, sul calar della sera, ci si accorge rapidamente che i pochi turisti che fanno capolino nei riad (le abitazioni tradizionali marocchine con giardino interno spesso adibite ad alberghi) e nei ristoranti adiacenti, raggiungono l’area per usufruire dei tour organizzati tra le dune del Sahara dalle agenzie turistiche. Per i turisti la città sembra essere una semplice tappa di passaggio: dopo l’arrivo e il pernottamento, si raggiunge il deserto, si trascorre una notte in tenda e si ritorna nelle città principali.
Il senso di abbandono è palpabile. Nonostante l’afflusso dei visitatori sia basso, come dimostra la presenza di poche strutture destinate all’accoglienza turistica, il costo della vita sembra essere più alto rispetto ad altre aree del Paese più popolate e maggiormente interessate dal turismo. A questo modello, che tenta di inseguire un mercato ancora troppo sfuggente, si aggiunge il business delle produzioni cinematografiche. A centocinquanta chilometri di distanza da Zagora sorge la città di Ouarzazate, luogo in cui sono stati girati alcuni tra i più noti colossal di Hollywood e che ospita numerose produzioni audiovisive. «Ho collaborato con Bernardo Bertolucci» ci spiega Alì, artista dell’area, che, tra un racconto e l’altro, prova a fare pubblicità alla sua galleria d’arte. «Accompagnavo la produzione nella ricerca dei luoghi migliori per il film Il tè nel deserto» racconta all’interno del Cafè Littéraire Zagora. Fondato dieci anni fa, questo spazio accoglie varie opere artistiche e una piccola biblioteca con tomi in arabo e in francese. Anche in questo caso, il locale sembra essere spesso deserto.
Percorrendo la route 9 che porta fino all’ultimo paese prima della frontiera, si raggiunge Tagounit. Il centro urbano è un agglomerato di abitazioni ed esercizi commerciali a ridosso della stessa via principale. Il paese, secondo l’ultimo censimento del 2024, conta più di 15.000 abitanti, solo dieci anni fa, all’inizio della crisi idrica, la popolazione superava i 17.500 individui.

«Provengo da una famiglia berbera nomade» mi spiega Karim, un uomo di quarant’anni nato a Tagounit. Karim rappresenta perfettamente il fenomeno che anno dopo anno sta spingendo un numero sempre maggiore di persone a lasciare le aree periferiche del Sud-est marocchino, per spostarsi verso le grandi città a nord e sulle coste del Paese. «Per sette anni ho vissuto a Casablanca, ho lavorato in un supermercato» ci spiega, mentre mostra alcune foto dell’epoca. Dopo l’esperienza che lo ha tenuto lontano dalla sua terra d’origine, Karim ha scelto di tornare a casa. «Odiavo quella città. È pericolosa, troppo frenetica; qui si sta bene, è tranquillo e ci conosciamo tutti». Nel paese Karim ha la sua famiglia: oltre ai genitori, una sorella è rimasta qui con il marito e i figli, l’altra, invece, si è stabilita definitivamente a Casablanca.
A Tagounit la carenza d’acqua è tangibile. Il sole del giorno rende ogni attività asfissiante e le stesse case, caratterizzate da poche finestre striminzite, lasciano intuire una vita che scorre tranquilla nella penombra. Le poche attività che animano il paese sono servizi di ristorazione e mercati; qui, tra i banchi, fanno capolino le angurie, specialità dell’area. «Bisogna assolutamente provare le angurie, vengono coltivate qui e sono deliziose» mi spiegano. Per quanto questi frutti rappresentino un vanto della zona, la loro coltivazione si somma ai problemi che stanno attanagliando il Sud-est del Paese. Il loro abbondare è infatti dovuto alla monocoltura intensiva, che ha sostituito la coltivazione dei cereali e che, per mantenere il ritmo delle esportazioni, necessita di una grande quantità d’acqua che, di conseguenza, viene levata alla popolazione locale.

«Da un po’ di anni non abbiamo accesso costante all’acqua pubblica» mi spiega Karim mentre indica una cisterna in costruzione «è comune, infatti, che ogni casa abbia l’allaccio a un pozzo o un sistema indipendente di accumulo idrico. Ogni settimana viene quindi riattivato l’acquedotto pubblico e chi può fa la scorta».
Dalla siccità alle alluvioni
Al problema della siccità si sono sommate le alluvioni dello scorso anno, che hanno colpito, oltre al Sud-est marocchino, l’area sudoccidentale dell’Algeria e le parti interne del Sahara Occidentale, compresi gli accampamenti algerini di Tindouf. Secondo gli esperti questi fenomeni, un tempo impensabili, con il tempo saranno sempre più frequenti e con maggiore intensità. Le piogge, che si sono riversate su tutto il Paese e che nella provincia di Zagora hanno raggiunto i 200 millimetri d’acqua in soli due giorni, fortunatamente non hanno portato alla fuoriuscita dagli argini del fiume Draa, che attraversa tutta la regione e segna il confine con l’Algeria. Anche Karim ha subìto i danni della devastazione dell’acqua. «Questa era la mia casa» mi dice, indicandomi una distesa di rocce poco lontana dal paese sulla quale adesso sorge una capanna. «Sono rimaste in piedi solo le colonne che affiancavano il cancello, se le osservi puoi intuire che altezza raggiungeva la casa».
Da quel momento Karim, insieme a un suo amico, ha dato vita a un progetto di volontariato che accoglie persone provenienti da ogni parte del mondo per dare una mano nella ricostruzione. In cambio dell’alloggio, le persone volontarie lavorano per tre ore al giorno, la mattina o il tardo pomeriggio, e apprendono la tecnica tradizionale della costruzione dei mattoni. L’obiettivo è indubbiamente ambizioso: prima di procedere con l’edificazione, è necessario rimuovere tutti i detriti della precedente casa e procedere con la fabbricazione dei mattoni. Questi vengono creati attraverso un impasto di fango e terra e vengono poi lasciati essiccare al sole e in seguito accumulati.

«Lavorare per questo progetto non è troppo pesante» spiegano Jaimie e Louis, due giovani di diciannove anni di Manchester. «Abbiamo finito le scuole superiori quest’estate e prima di iniziare l’università abbiamo deciso di trascorrere qui un mese». In alcune occasioni Karim accompagna le persone accorse per il progetto a visitare Tagounit e cerca di trasmettere alcuni tratti della cultura berbera dell’area. «È la quinta volta che vengo in Marocco» spiega Alba, una ragazza di vent’anni di Barcellona. «In Catalogna ho iniziato a studiare arabo da un anno, qui provo a metterlo in pratica. Mi piace stare qui, ho conosciuto la famiglia di Karim e amo stare in mezzo alla gente». Il progetto vede un flusso di persone quasi costante: la sera, vari volontari da ogni parte del mondo raggiungono Tagounit con l’unico autobus che, una volta al giorno, collega il paese a Marrakech.
Il richiamo del muezzin scandisce il ritmo della vita locale. La seconda preghiera del mattino dà il via al lavoro e, ancora una volta, è la quarta preghiera a sancire la fine della canicola pomeridiana. A quest’ora le persone volontarie raggiungono, a volte in moto, altre volte in autostop, il progetto. A sera, le volte in cui non si rimane a dormire nella capanna e si rientra a casa, si condivide un pasto cucinato insieme, mentre si chiacchiera con i nuovi arrivati. Quando si raggiunge la provincia di Zagora, ci si accorge che l’aridità avvolge ogni cosa. Il vento caldo leva il respiro e alza la terra a tal punto da non poter aprire più gli occhi. Un tempo, quest’area era puntellata da svariate oasi, le coltivazioni di cereali e datteri davano lavoro e nutrimento. Ci si chiede cosa il futuro potrà destinare a questa terra affacciata sul deserto del Sahara e se la sua popolazione avrà ancora la forza di restare e ricostruire.
Thailandia e Cambogia firmano il cessate il fuoco
Dopo gli scontri armati avvenuti in estate e una prima bozza di tregua, Thailandia e Cambogia hanno firmato oggi l’accordo di cessate il fuoco. L’intesa è stata sottoscritta dal premier thailandese Anutin Charnvirakul e da quello cambogiano Hun Manet, accompagnati dal primo ministro malese Anwar Ibrahim e dal presidente USA Donald Trump. Quest’ultimo è volato in Asia per partecipare al vertice dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN) e siglare una serie di intese commerciali, a partire proprio da Cambogia e Thailandia.
Milano: foglio di via al presidente dei Palestinesi in Italia per “istigazione alla violenza”
Il presidente dell’Associazione Palestinesi in Italia (API), Mohammad Hannoun, non potrà mettere piede a Milano per un anno a causa di un foglio di via notificatogli nelle ultime ore. Oltre all’allontanamento, Hannoun è stato anche denunciato per istigazione alla violenza. «Mi dispiace di questo atto di aggressione nei miei confronti — ha commentato il presidente dell’API — che arriva mentre il nostro governo è complice diretto del genocidio a Gaza, dove fornisce armi per sterminare i gazawi». A quanto pare, i provvedimenti sarebbero nati in risposta ad alcune frasi che Hannoun avrebbe pronunciato durante il corteo del 18 ottobre scorso, commentando le esecuzioni pubbliche di Hamas: «Tutte le rivoluzioni del mondo hanno le loro leggi. Chi uccide va ucciso, i collaborazionisti vanno uccisi. Oggi l’Occidente piange questi criminali, dicono che i palestinesi hanno ucciso poveri ragazzi. Ma chi lo dice che sono poveri ragazzi?».
Secondo il questore di Milano, Bruno Megale, che ha firmato il foglio di via per Mohammad Hannoun, quest’ultimo si sarebbe reso protagonista di una serie di comportamenti “ritenuti idonei a turbare l’ordine e la sicurezza pubblica”, manifestando “una pervicace inclinazione a commettere reati contro l’ordine pubblico”. Ancora, secondo questa ricostruzione, il presidente dell’API risulta “esprimere una pericolosità sociale concreta e attuale”. Dura la reazione dell’associazione palestinese, che ha bollato il provvedimento come «un chiaro tentativo di intimidire chi si espone con coraggio e coscienza, per difendere la verità e denunciare crimini contro il popolo palestinese». «Colpire Hannoun — continua l’API — significa colpire chi, da più di quarant’anni, vive in Italia come parte attiva della comunità, portando avanti la voce dei senza voce, degli oppressi, di chi non ha mai smesso di credere nella giustizia. La sua presenza, la sua parola e il suo impegno sono testimonianze viventi di una storia di resistenza che attraversa frontiere e generazioni».
Come ammesso dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, Mohammad Hannoun «è attentamente monitorato dalle autorità competenti». D’altronde, soltanto un anno fa il presidente dell’API è stato raggiunto dal medesimo schema repressivo: foglio di via (di 6 mesi) accompagnato da una denuncia per istigazione a delinquere. Quello di Mohammad Hannoun non è tuttavia un caso isolato. L’anno scorso Zulfiqar Khan, l’Imam di Bologna, è stato espulso dall’Italia per le sue posizioni a sostegno della resistenza palestinese. A inizio 2024, per via di alcuni post pubblicati sui suoi profili social, nei quali era evidente il supporto alla Palestina e la critica al sionismo, un ventottenne è stato denunciato ai sensi dell’art. 270 bis c.p. (associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico), antisemitismo e incitamento alla jihad (o guerra santa).








