mercoledì 17 Settembre 2025
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Sul Vesuvio che brucia, tra rabbia popolare e interessi criminali

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TERZIGNO (NA) — Paura e rabbia prevalgono tra i sentimenti degli abitanti, che per giorni hanno visto bruciare parte del proprio polmone verde, la Pineta del Parco Nazionale del Vesuvio. Siamo ai piedi del Monte Somma, che da queste parti viene semplicemente chiamato “‘a muntagna”, luogo geografico sì ma anche custode di tradizioni e cultura. Qui il ricordo dell’incendio del 2017 — quando bruciarono circa 1600 ettari di territorio, l’equivalente di 1100 campi da calcio — è ancora vivo. Come allora, le fiamme hanno colpito più Comuni. Questa volta l’incendio non ha minacciato i centri abitati, ma si stimano almeno 560 ettari di territorio andati in fumo, con un intero ecosistema compromesso. In attesa di calcolare con esattezza i danni dell’incendio, la Procura di Nola prima e quella di Torre Annunziata poi hanno aperto due inchieste per fare chiarezza sull’accaduto. Le indagini seguono la pista dell’azione dolosa e non escludono il coinvolgimento della criminalità organizzata.

«È stata una cosa devastante», mi dice uno dei residenti parlando dell’incendio appena domato. Il pensiero va poi al «viavai di mezzi e uomini» che si è concentrato negli ultimi giorni alle pendici del Monte Somma, parte integrante del complesso vulcanico Somma-Vesuvio. A una settimana dallo scoppio dell’incendio avvenuto nella Pineta di Terzigno e propagatosi ai Comuni limitrofi, i focolai risultano spenti e i primi interventi di bonifica avviati. Al lavoro di Vigili del Fuoco, Protezione Civile e forze dell’ordine si è aggiunto quello di una pioggia improvvisa, che ha spazzato via la cappa calata sui paesi vesuviani a partire dall’8 agosto. Sul dispiegamento di forze — parliamo di oltre 350 persone, parte dei quali volontari, provenienti da tutta Italia — e mezzi, come canadair ed elicotteri, indagherà la magistratura, valutandone i tempi e le strategie di reazione. Sarà da vedere se le accuse dei cittadini, relative a ritardi e omissioni di fronte ai primi roghi, troveranno conferma o cadranno nel vuoto. Nel mirino dei pubblici ministeri anche la manutenzione di pinete e sentieri, un’azione fondamentale per arginare la propagazione degli incendi.

I magistrati di Nola e di Torre Annunziata avranno poi il compito di accertare la natura dell’incendio. Si insegue la pista dolosa, prendendo in considerazione sia l’azione di piromani sia di chi ha interesse a distruggere il territorio. «I movimenti per la giustizia ambientale in Campania — scrive la sezione napoletana di Ecologia politica — hanno storicamente sostenuto che i roghi siano collegati tra criminalità organizzata, imprenditoria e malapolitica». Una denuncia che poggia le basi sulla trasformazione, negli anni, di diverse aree del Parco Nazionale del Vesuvio in discariche a cielo aperto, dove spiccano tessuti e plastiche, nell’indifferenza delle istituzioni. «Bruciano il bosco per liberare spazi col fine di sversare ulteriori rifiuti. In secondo luogo danno fuoco anche a questi ultimi per disfarsene velocemente». C’è poi il business della riforestazione, che assegna a ditte private centinaia di migliaia di soldi pubblici. 

Ad andare in fumo non è stato solo un luogo fisico ma uno spazio di aggregazione, di ritrovo sociale. «La Pineta è uno dei punti di incontro più frequentati, soprattutto in estate», mi racconta una ragazza che abita a Terzigno e che dalla sua casa ha visto bruciare un simbolo del paese: «quando mia mamma ha visto le fiamme è scoppiata in lacrime, perché stava perdendo una parte della sua quotidianità». “‘A muntagna” è custode di tradizioni e cultura, è un polmone verde che permette agli abitanti di passeggiare nella natura, in uno dei tanti sentieri del Parco, o di respirare aria pulita. Ci sono poi decine di aziende agricole che proteggono e tramandano prodotti unici, come il pomodorino del Piennolo o l’albicocca Pellecchiella. Si comprendono facilmente la rabbia e la frustrazione dei cittadini guardando le parti del Monte Somma andate in fumo. Il grigio domina lì dove fino a pochi giorni prima il verde custodiva vita e biodiversità, in ripresa dopo il devastante incendio del 2017. Le fiamme si sono ripresentate con forza, nonostante il ricordo delle promesse e dei “mai più” fosse ancora vivo. Adesso i residenti chiedono innanzitutto la bonifica del territorio, che non può dirsi sufficiente senza controlli seri e attività di tutela. La speranza converge poi verso l’accertamento delle responsabilità, per un esito diverso dalla bolla di sapone con cui si è concluso il filone investigativo dell’incendio del 2017.

Mali, arrestati generali e un cittadino francese per “destabilizzazione”

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Il governo militare del Mali ha annunciato di aver sventato un tentativo di colpo di stato, arrestando ufficiali dell’esercito e un cittadino francese, Yann Vezilier, accusato di lavorare per l’intelligence francese. Tra gli arrestati figura anche Abass Dembele, ex governatore di Mopti. Il Mali ha vissuto un decennio di instabilità, segnato da insurrezioni islamiste e colpi di stato che hanno portato al potere l’attuale presidente, il generale Assimi Goita. Le relazioni tra Mali e Francia si sono deteriorate negli ultimi anni. Sotto la pressione della nuova leadership del Paese, Parigi ha infatti ritirato le truppe impegnate in un’operazione per combattere i militanti islamisti.

Portogallo, divampano i roghi: prorogato lo stato di allerta

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Il governo portoghese ha deciso di prolungare lo stato di allerta fino a domenica, a causa di 22 giorni consecutivi di caldo intenso che continuano a flagellare il Paese. Al momento, sono attivi 41 incendi, coinvolgendo circa 3.700 pompieri e 1.220 mezzi, con il focolaio più grave in provincia di Arganil. La ministra degli Interni, Maria Lúcia Amaral, ha confermato la proroga – l’allerta era stata precedentemente fissata fino alla mezzanotte di stasera -, respingendo le critiche sul suo operato. In ballo c’è infatti il rifiuto dell’esecutivo di chiedere aiuto internazionale e la scelta di dichiarare lo stato di allerta e non quello di emergenza, criticata dall’opposizione.

Vicenza, la repressione si abbatte contro gli attivisti No Tav: 56 indagati

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Sono 56 le persone sotto indagine della Digos per le manifestazioni di protesta tenutesi contro la linea ad Alta Velocità di Vicenza. A darne notizia, è la stessa Questura. I fatti contestati risalgono a due episodi distinti verificatisi presso il bosco Lanerossi, dove il gruppo aveva organizzato un presidio in difesa dell’area verde. Nel primo, gli attivisti hanno cercato di bloccare l’accesso all’area agli operai delle ditte incaricate dei lavori, venendo in risposta colpiti dagli idranti delle forze dell’ordine; nel secondo, hanno invece provato a ostacolare i lavori, ottenendo lo stesso trattamento. Il piano per l’alta velocità a Vicenza, dal valore di circa 1,82 miliardi di euro, rientra nel più ampio progetto della linea ad alta velocità/capacità Verona-Padova; la tratta vicentina prevede lavori su 6,2 chilometri all’interno della città, lungo i quali verrebbero abbattuti decine di edifici e intere aree verdi; inizialmente era previsto l’abbattimento dello stesso bosco Lanerossi, ma dopo un anno di mobilitazioni dal basso l’area del cantiere è stata spostata.

Il primo episodio per cui gli attivisti sono stati accusati risale allo scorso 8 luglio. Quel giorno, era previsto lo sgombero del presidio No Tav per la salvaguardia del bosco, che avrebbe dovuto lasciare spazio all’avvio dei cantieri. Arrivate sul posto, le forze dell’ordine hanno portato via attivisti e attiviste che si erano incatenati ai cancelli di ingresso del bosco, mentre quelli che si trovavano all’interno, su di piattaforme sopraelevate costruite sugli alberi, sono stati fatti scendere dai vigili del fuoco mediante un camion con braccio. Successivamente, le piattaforme sopraelevate sono state abbattute per mezzo di una ruspa, mentre la polizia in assetto antisommossa ha respinto con gli idranti gli ultimi attivisti rimasti a presidiare l’area. Il secondo episodio è invece del 12 luglio. Dopo lo sgombero, infatti, gli attivisti hanno organizzato un corteo che, partendo da una piazza della città, è arrivato proprio presso il bosco Lanerossi. Quel giorno, centinaia di persone hanno marciato verso l’area verde, e alcuni manifestanti hanno provato a sfondare la recinzione del cantiere, venendo nuovamente fermati dagli idranti delle forze dell’ordine.

Il Progetto Av/Ac Verona-Padova 2° lotto “Attraversamento di Vicenza” prevede il raddoppio dei binari sulla linea Milano-Venezia, inclusi i tratti che attraversano il centro abitato di Vicenza. Per la realizzazione del piano per l’alta velocità sono previste diverse demolizioni abitative, soprattutto nei quartieri di San Lazzaro, San Felice e Ferrovieri, tra i più popolosi della città, per un totale di circa 62.316 metri quadri di superficie. L’opera andrà a modificare 6,2 chilometri di tratto con annessi interventi all’intera viabilità nella parte ovest della città, fino alla stazione ferroviaria nel centro storico. Le proteste contro l’opera si sono intensificate a partire da maggio dell’anno scorso, quando il bosco Lanerossi è stato occupato dai collettivi che si sono opposti alla sua distruzione. Dopo un anno di mobilitazioni, il sindaco ha annunciato che il bosco non verrà abbattuto, e che l’area dei cantieri verrà spostata altrove. Il comitato, però, ha rilanciato la mobilitazione, e ora punta a rendere il bosco un’area pubblica di proprietà comunale a disposizione della comunità.

Russia-Ucraina, effettuato un altro scambio di prigionieri

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Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha annunciato il rientro di 84 prigionieri di guerra ucraini in seguito a uno scambio con la Russia. Tra di loro ci sono soldati catturati a Mariupol e altri arrestati dall’esercito russo tra il 2014 e il 2017, prima dell’invasione del febbraio 2022. L’ente ucraino per la gestione dei prigionieri ha confermato che 33 sono militari e 51 civili. Anche il ministero della Difesa russo ha confermato lo scambio, che ha previsto la restituzione di 84 soldati russi. Si tratta di uno degli scambi di prigionieri più significativi dall’inizio del conflitto.

Negli ultimi due anni oltre 8 milioni di messicani sono usciti dalla povertà

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In Messico, tra il 2022 e il 2024, 8,3 milioni di persone che vivevano in una condizione di povertà multidimensionale sono uscite dal tale stato. Sono i dati forniti dall'Istituto Nazionale di Statistica e Geografia del Paese (INEGI), nel suo primo studio per misurare la povertà multidimensionale nel Paese. Quello sulla povertà multidimensionale è un indicatore che non si limita a calcolare il reddito delle persone, ma che tiene in considerazione privazioni su più campi, come quelli dell'istruzione, della salute, o dell'accesso ai servizi. Il motivo dietro un simile calo, ha spiegato Manuel Ma...

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Inondazioni in India: almeno 32 morti e 50 dispersi nel Kashmir

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Almeno 32 persone sono morte a causa di inondazioni improvvise provocate da forti piogge nel remoto villaggio montuoso di Chositi, nel Kashmir indiano. Le squadre di soccorso hanno salvato oltre 100 persone, ma il bilancio è destinato ad aggravarsi: circa 50 persone risultano infatti ancora disperse. Il viceministro indiano Jitendra Singh ha confermato che le inondazioni sono state causate dalle intense precipitazioni nella regione di Jammu e Kashmir. Gli abitanti e i funzionari locali hanno recuperato sette corpi dai detriti e dal fango, mentre le operazioni di salvataggio proseguono senza sosta.

Nuovo codice della strada: la norma sugli stupefacenti verso la Corte Costituzionale

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Tre ricorsi già sul tavolo della Corte Costituzionale e almeno un quarto in attesa di essere trasmesso: da Pordenone a Siena, passando per Macerata e Udine, diversi tribunali italiani stanno mettendo in discussione una delle norme più controverse del nuovo Codice della Strada. La principale novità introdotta dalla riforma fortemente voluta dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini riguarda il fatto che non sia più necessario provare che il conducente sia sotto effetto di stupefacenti, perché basta la positività per rischiare fino a un anno di carcere, una multa fino a 6mila euro, la sospensione della patente da uno a due anni e la confisca del veicolo.

Un’impostazione che ha fatto storcere il naso a giuristi, avvocati, politici, medici e farmacisti, che sottolineavano l’assurdità di questa norma, ancor di più nei confronti di pazienti che assumono farmaci a basi sostanze psicoattive, per i quali, dopo mesi di incertezza, è stato aperto un tavolo tecnico alla ricerca di soluzioni concrete.
Il motivo è semplice: gli stupefacenti in generale, così come i farmaci a base di sostanze psicotrope (cannabis, oppioidi e benzodiazepine), rimangono in circolo nel nostro corpo per diverso tempo, anche per giorni, con il rischio di ritirare la patente a persone che durante la guida sono perfettamente lucide, ma magari hanno fumato una canna giorni prima.
La procedura prevede che le forze dell’ordine possano eseguire un test salivare al conducente del veicolo: nel caso di positività scattano le sanzioni e il campione viene inviato in laboratorio per la conferma. Ma diversi studi scientifici hanno evidenziato che il THC, principio psicoattivo della cannabis, resta in circolo nella saliva anche per giorni, a seconda della dose assunta, della frequenza d’utilizzo e del metabolismo della persona. Secondo le più recenti ricerche scientifiche, dopo aver fumato una singola canna, il THC può rimanere nella saliva per una media di 34 ore, e le cose cambiano nel caso di un consumatore frequente, la cui saliva – secondo un altro studio scientifico – sarebbe positiva al test anche per 8 giorni.

E le preoccupazioni espresse dalla società civile, sono state condivise anche dai giudici. Una sentenza della Cassazione di gennaio 2025, che fa dunque riferimento all’ordinamento precedente, mette comunque nero su bianco che: «A rilevare non è la condotta di chi guida dopo aver assunto sostanze stupefacenti, bensì quella di colui che guida in stato di alterazione psicofisica determinato da tale assunzione».

Non solo, perché dall’entrata in vigore della legge a oggi sono almeno quattro i ricorsi presentati alla Corte Costituzionale, tre dei quali sono stati fatti direttamente dai giudici. Il primo caso in cui è stata sollevata la legittimità costituzionale è quello di Elena Tuniz, una storia che abbiamo raccontato su L’Indipendente, con l’associazione Meglio Legale che ha assistito la ragazza durante il procedimento, presentando un ricorso presso il Giudice di Pace di Udine. Ad aprile, invece, è stato il gip del Tribunale di Pordenone a rimandare direttamente la questione alla Corte Costituzionale perché riteneva che la nuova norma contrasti con i principi sanciti da vari articoli della Costituzione: eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità; tassatività, determinatezza e offensività; finalità rieducativa della pena. Il giudice mette in discussione il cardine della legge, e cioè il fatto che non sia più necessario essere alterato alla guida per vedersi sanzionati perché è sufficiente la positività. È la norma che aveva portato Salvini a dichiarare tronfio in una conferenza stampa che «lucido sì, o lucido no, io ti tolgo la patente», ma è anche quella che rischia di far saltare tutta la legge.

Il gip di Macerata, in un altro ricorso, si è concentrato su un diverso aspetto e cioè che se la legge punisce «chiunque guida dopo aver assunto sostanze stupefacenti o psicotrope», bisognerebbe perlomeno specificare il lasso temporale a cui quel «dopo» fa riferimento, altrimenti, scrive il gip, se uno assume stupefacenti a 18 anni e si mettesse alla guida a 60, sarebbe punibile. Nell’ennesimo ricorso, questa volta effettuato dal gip di Siena, viene scritto che l’unico modo per superare questo impasse, sarebbe quello di ripristinare l’accertamento dello stato di alterazione psico-fisica, che è poi quello che ha tentato di fare il governo con una circolare di aprile emanata dal ministero dell’Interno e della Salute, che di fatto sconfessa la linea di Salvini.

Nella circolare infatti viene scritto in modo chiaro che: «Occorre provare che la sostanza stupefacente o psicotropa sia stata assunta in un periodo di tempo prossimo alla guida del veicolo, tale da far presumere che la sostanza produca ancora i suoi effetti nell’organismo durante la guida». Una locuzione complessa per dire una cosa semplice: occorre un collegamento temporale tra assunzione e guida, che è quello che sostengono tutti i detrattori della legge. Il problema? La circolare non ha valore di legge, e quindi servirebbe un intervento a livello legislativo.

Italia, arrivati 31 bambini da Gaza per cure

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Il ministero degli Esteri italiano ha diffuso un comunicato in cui annuncia che ieri, 13 dicembre, sono arrivati nel Paese 31 bambini bisognosi di cure, con 83 accompagnatori palestinesi. I bambini verranno ora trasferiti verso gli ospedali, per poi venire, assieme agli accompagnatori, presi in carico dal Sistema di Accoglienza Integrata del Ministero dell’Interno per l’inserimento alloggiativo. A tutti i 114 palestinesi sarà fornito permesso di soggiorno. Quella di ieri risulta la 14esima missione ospedaliera italiana da gennaio 2024.

In Italia è stato ucciso legalmente un lupo, è la prima volta dopo mezzo secolo

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Un evento senza precedenti ha segnato il panorama naturalistico italiano: nella notte tra l’11 e il 12 agosto, un lupo maschio di circa 45 kg è stato abbattuto legalmente in Alta Val Venosta, a 2800 metri di altitudine, dal Corpo forestale provinciale di Bolzano. È il primo abbattimento autorizzato dopo 50 anni di protezione per la specie, sancita dalla legge che nel 1971 ha messo il lupo sotto tutela. La decisione arriva a pochi mesi dalla modifica della normativa europea che ha ridotto il livello di protezione per il grande carnivoro. L’autorizzazione a selezionare e abbattere due lupi in maniera casuale nell’area era stata firmata lo scorso 30 luglio dal presidente della provincia, Arno Kompatscher, dopo una serie di attacchi al bestiame che hanno causato numerose perdite tra maggio e agosto 2025.

Le associazioni animaliste Enpa, Lav e Lndc avevano fatto ricorso al Tar contro l’autorizzazione della Provincia autonoma di Bolzano per abbattere i lupi nel Comune di Malles, ma il tribunale ha sospeso l’autorizzazione. Successivamente, il Consiglio di Stato ha dato il via libera, respingendo la richiesta di sospensiva e supportando la decisione con il parere favorevole dell’Ispra e dell’Osservatorio faunistico provinciale. Secondo le autorità altoatesine, tra maggio e luglio sono stati registrati 31 attacchi di lupo a bestiame in un alpeggio dell’Alta Val Venosta, una cifra inferiore ai 42 dello scorso anno. Il presidente Kompatscher ha giustificato l’abbattimento come misura necessaria per la regolamentazione dei lupi pericolosi e la salvaguardia dell’allevamento alpino. All’interno del provvedimento, si prevedeva l’uccisione di due lupi in maniera casuale, senza alcuna selezione specifica. «I prelievi tramite abbattimento avvengano senza limitazione alcuna di orari, l’utilizzo di armi lunghe a canna rigata e con modalità tali da perseguire anche il condizionamento negativo nei confronti di altri eventuali lupi», si legge nel testo.

Le associazioni animaliste Lav, Enpa, Lndc e “Io non ho paura del lupo” hanno fortemente criticato l’abbattimento dell’esemplare, sostenendo che le condizioni legali per l’intervento non siano state rispettate. Le organizzazioni ritengono infatti che le misure di prevenzione fossero inadeguate, evidenziando che le predazioni che avrebbero giustificato tale scelta si sono verificate fuori dai recinti e senza l’uso di cani da guardiania. Massimo Vitturi (Lav) ha dichiarato che, se i sistemi di protezione fossero stati correttamente applicati, l’abbattimento sarebbe stato evitabile, annunciando una denuncia per uccisione di animale contro la Provincia di Bolzano.

Questa svolta non sembra però casuale. A inizio giugno, infatti, il Consiglio Europeo aveva messo il timbro finale sulla modifica dello status di protezione dei lupi da “strettamente protetti” a “protetti” decretata dalla Commissione e approvata dall’Eurocamera. Il cambio di status permetterà agli Stati membri di avere «una maggiore flessibilità nella gestione delle popolazioni di lupi al fine di migliorare la coesistenza con gli esseri umani e ridurre al minimo l’impatto della crescente popolazione di lupi in Europa», come si legge sul sito del Parlamento europeo. I Paesi dell’UE potranno così procedere con meno restrizioni all’abbattimento dei lupi, con l’unico vincolo di «continuare a garantire uno stato di conservazione soddisfacente» dell’animale – la cui popolazione è oggi stimata in 20mila esemplari in tutta Europa. «Il declassamento dello status di protezione è un passo importante per poter adottare misure mirate come i prelievi regolamentati e avere un minore impatto sull’agricoltura e sull’economia alpina – aveva dichiarato a inizio luglio l’assessore alle Foreste della Provincia di Bolzano Luis Walcher -. Con la riduzione dello status di protezione del lupo ci siamo avvicinati al nostro obiettivo di preservare e proteggere l’agricoltura, in particolare quella di montagna, attraverso il prelievo dei lupi considerati problematici».

A plaudire al declassamento dello status di protezione del grande carnivoro era stato sin da subito anche Maurizio Fugatti, presidente della provincia di Trento, primo grande sponsor degli abbattimenti di lupi e orsi. Nel luglio del 2023, Fugatti aveva firmato per la prima volta un decreto, autorizzato dall’ISPRA, con cui si ordinava l’abbattimento di due esemplari di lupo appartenenti al branco presente nella zona di Malga Boldera, nel versante trentino dei Monti Lessini, nel Comune di Ala. Il provvedimento era arrivato dopo alcuni episodi di predazioni da parte dei lupi ai danni dei pascoli della zona. Ciononostante, le uccisioni non si sono verificate. Infatti, dopo un ricorso presentato dalle associazioni Lav, Lndc Animal Protection e WWF, lo scorso febbraio il Tar di Trento lo ha dichiarato improcedibile: dal momento che la malga Boldera, dove i lupi avevano predato 16 bovini e 2 asini, non ospita più animali, non esiste più un pericolo associato ai lupi, quindi non è necessario procedere all’abbattimento.