venerdì 28 Novembre 2025
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Stop all’accesso libero ai siti porno: servirà la verifica dell’età

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Dal 12 novembre entra in vigore la nuova regolamentazione dell’Agcom che impone a tutti i siti pornografici di verificare la maggiore età degli utenti. Per accedere ai contenuti per adulti sarà necessario un controllo tramite un soggetto indipendente che certifichi l’età, tramite il meccanismo del “doppio anonimato”, senza utilizzare documenti personali come lo Spid né caricare foto. L’obiettivo è impedire ai minori di accedere ai portali a luci rosse tutelando al tempo stesso la privacy degli utenti. Con questa misura l’Italia introduce un sistema di controllo simile a quello già sperimentato in altri Paesi europei.

Circa 100.000 giovani ucraini sono fuggiti per non arruolarsi negli ultimi mesi

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Negli ultimi due mesi è aumentato notevolmente il numero di giovani che fuggono dall’Ucraina per non arruolarsi nell’esercito, dopo che il presidente Volodymyr Zelensky ha modificato le regole di uscita per gli uomini che non sono ancora idonei al servizio militare, che inizia a 25 anni, alla fine agosto. Nel dettaglio, secondo i dati forniti dalla guardia di frontiera polacca al giornale statunitense Politico, negli ultimi due mesi quasi 100.000 ragazzi ucraini di età compresa tra i 18 e i 22 anni hanno lasciato il loro Paese per rifugiarsi negli Stati vicini o confinanti. Germania e Polonia sono le nazioni che ospitano la più grande popolazione di rifugiati ucraini all’interno dell’Unione europea, ma con l’esodo registrato negli ultimi mesi i due Paesi stanno pensando di porre delle restrizioni alle politiche di accoglienza. Le criticità circa la presenza di un gran numero di giovani ucraini è stata sollevata soprattutto dai partiti più conservatori sia in Germania che in Polonia.

«Non abbiamo alcun interesse che i giovani ucraini trascorrano il loro tempo in Germania invece di difendere il loro Paese», ha dichiarato Jürgen Hardt, un importante deputato del partito conservatore di Merz, aggiungendo che «L’Ucraina prende le sue decisioni, ma la recente modifica della legge ha portato a una tendenza all’emigrazione che dobbiamo affrontare». Similmente, il partito di destra polacco Confederazione in una dichiarazione ha affermato che «La Polonia non può continuare a essere un rifugio per migliaia di uomini che dovrebbero difendere il proprio Paese, mentre grava sui contribuenti polacchi i costi della loro diserzione». Secondo i dati della guardia di frontiera polacca, dall’inizio del 2025 fino ad agosto circa 45.300 uomini ucraini di età compresa tra 18 e 22 anni hanno attraversato il confine con la Polonia, mentre negli ultimi due mesi (settembre e ottobre) il numero è salito a 98.500, ovvero 1.600 al giorno. Prima della modifica della legge, agli uomini di età compresa tra 18 e 60 anni non era consentito lasciare il Paese.

La Germania ospita circa un milione e duecentomila persone fuggite dall’Ucraina in seguito allo scoppio del conflitto nel 2022, mentre la Polonia ne ospita un milione: si tratta di oltre la metà di tutti gli ucraini con status protetto nell’Unione, secondo i dati Eurostat. La questione dei costi per l’accoglienza e il dibattito sui benefici sociali però cominciano a diventare preminenti soprattutto tra i partiti di destra. Stando ai dati per l’agenzia dell’impiego della Germania, circa 490.000 cittadini ucraini in età lavorativa percepiscono indennità di disoccupazione di lungo periodo in Germania. Soprattutto il partito Alternativa per la Germania (AfD), in ascesa nei sondaggi, ha chiesto la sospensione dei sussidi sociali agli ucraini. Inoltre, il partito è noto per essere contrario agli aiuti militari all’Ucraina. Lo stesso governo Mertz, stando a quanto riporta Politico, starebbe preparando un disegno di legge che negherebbe agli ucraini tali prestazioni, vista anche la crescente pressione per ridurre la spesa sociale. Il presidente polacco Karol Nawrocki, invece, ha recentemente posto il veto alla legge sugli aiuti agli ucraini, sostenendo che solo chi lavora e paga le tasse in Polonia ha diritto ai sussidi.

Il caso delle diserzioni di soldati o futuri soldati ucraini all’estero non è un fenomeno nuovo: già nel 2023 Zelensky aveva approvato una legge che prevedeva il rafforzamento delle pene del personale militare in caso di diserzione, inosservanza o critiche degli ordini, provocando la ribellione di molti soldati. Inoltre, era già emerso come molti uomini non fossero disponibili a combattere e per questa ragione le autorità li reclutavano con la forza. L’apparente cambio di passo rappresentato dall’allentamento delle regole per lasciare la nazione da parte di Zelensky in realtà aveva l’obiettivo (fallito) di far rientrare i giovani ucraini dall’estero senza il timore che poi non fossero più autorizzati a partire. Un’altra ragione che ha spinto il governo a modificare le regole era quella di scoraggiare i genitori dal trasferire i figli all’estero all’età di 16 o 17 anni, una tendenza segnalata dalle autorità. «Se vogliamo che i ragazzi restino in Ucraina, dobbiamo prima fare in modo che finiscano la scuola qui e che i genitori non li portino via» aveva detto il presidente ucraino annunciando la modifica della norma in estate, aggiungendo che diversamente avrebbero perso «il loro legame con l’Ucraina».

La modifica del regolamento non ha però prodotto gli effetti sperati. Al contrario, ha incrementato i flussi verso gli Stati europei, confermando come la maggior parte degli uomini ucraini non voglia andare al fronte e, di conseguenza, sia contrario alla guerra a oltranza contro la Russia.

Valfurva (Sondrio): scuolabus esce di strada e precipita in un torrente

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Un autobus scolastico con nove studenti a bordo è uscito di strada nel territorio di Valfurva (Sondrio) ed è precipitato nel torrente Frodolfo. Quattro minori hanno riportato ferite lievi e sono stati portati all’ospedale di Sondalo; condizioni più serie per l’autista, un 39enne, che però non è in pericolo di vita. L’incidente sarebbe stato causato da un malore del conducente.

Sudan: gli interessi globali dietro alla guerra dimenticata

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Nella giornata di domenica le Rapid Support Forces (RSF), truppe ribelli che dall’aprile 2023 contendono il potere alla giunta militare guidata dal generale Al-Burhan, hanno preso il controllo della città di El-Fasher, capitale dello stato del Nord Darfur e ultima roccaforte delle Forze Armate Sudanesi (FAS) nelle regioni occidentali del Sudan. Immagini e testimonianze restituiscono una carneficina, con centinaia di cadaveri e scene di esecuzioni di massa anche nei pressi dell’ospedale. Ultima mattanza di una guerra che in due anni e mezzo ha provocato un numero imprecisato di vittime (tra 60 e 150 mila a seconda delle stime) e circa 11 milioni di sfollati. Un disastro che avviene in un silenzio internazionale che nasconde non solo indifferenza ma, soprattutto, i torbidi interessi attraverso cui molti attori globali supportano uno dei due eserciti in campo.

La presa di El-Fasher, posta sotto assedio per 18 mesi, segna una conquista cruciale per le RSF che, dopo oltre due anni di sanguinosissima guerra civile, controllano ormai un terzo del territorio nazionale. Ma la conquista non significa il silenzio delle armi: la situazione nella città peggiora di ora in ora e le violenze contro la popolazione civile aumentano. Diversi rapporti, tra cui quello pubblicato dallo Humanitarian Research Lab dell’Università di Yale, documentano attraverso immagini satellitari i massacri compiuti dai miliziani delle RSF. E non sono solo le immagini dal cielo a raccontare la brutalità della situazione: anche numerosi video diffusi sui social network mostrano uomini armati che aprono il fuoco su civili inermi. Mercoledì in uno di questi filmati si vedevano i miliziani delle RSF camminare per i corridoi del Saudi Maternity Hospital di El Fasher, dove i militari hanno ucciso più di 460 pazienti e il loro accompagnatori. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che da aprile 2023 si sono verificati 185 attacchi contro strutture sanitarie, con almeno 1.204 morti e oltre 400 feriti.   Secondo la Rete dei Dottori Sudanesi, le RSF stanno uccidendo decine di persone su base etnica, proseguendo la mai interrotta pulizia etnica dei sudanesi non arabi. Le Forze Congiunte, alleate dell’esercito sudanese, accusano le RSF di aver ucciso più di 2000 civili in 2 giorni.   

Milizie delle Rapid Support Forces

Si moltiplicano intanto gli appelli accorati di alti funzionari delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana e di diverse ONG internazionali che chiedono la protezione dei civili rimasti a El-Fasher e l’apertura di vie di fuga sicure. Tom Fletcher, coordinatore degli aiuti di emergenza delle Nazioni Unite, si è detto «profondamente allarmato» dalle notizie di uccisioni sommarie e ha invocato «un cessate il fuoco immediato a El-Fasher, in tutto il Darfur e in tutto il Sudan». Anche il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Mahmoud Ali Youssouf, ha espresso grande preoccupazione per la situazione umanitaria e ha condannato le gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, commessi dalle RSF.

Ma la devastazione che si consuma a El-Fasher è solo l’ultimo capitolo di una guerra fratricida iniziata il 15 aprile 2023 e che con estrema difficoltà trova spazio sui media occidentali. In due anni di guerra civile, i dati parlano chiaro: almeno 150 mila morti e oltre 12 milioni di sfollati. Secondo il World Food Programme, oggi 24,6 milioni di sudanesi – quasi la metà della popolazione – si trovano in una condizione di insicurezza alimentare, mentre 630 mila persone – il numero più alto al mondo – affrontano un livello catastrofico di fame. Oltre un bambino su tre soffre di malnutrizione acuta, una percentuale superiore del 20% rispetto alla soglia che definisce la carestia. Una crisi, questa, che ha guadagnato al Sudan il triste primato di peggior emergenza umanitaria del pianeta.

Le radici della tragedia però, affondano nella storia tormentata del Paese del Corno d’Africa, che dal 1956, anno dell’indipendenza dal potere britannico, ha conosciuto un susseguirsi di dittature militari e brevi parentesi democratiche, con la guerra civile come costante. Quando nel 2019, dopo grandi proteste popolari, il trentennale dittatore Omar al-Bashir fu deposto con un colpo di stato guidato dal generale al-Burhan, Mohamed Hamdan Dagalo – detto Hemedti – comandante delle RSF – da sempre fedeli ad Al-Bashir- comprese che per mantenere il proprio potere doveva voltare le spalle al vecchio dittatore e schierarsi con al-Burhan. 

Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, dal 2013 è il comandante delle RSF

Dopo la formazione di un governo civile-militare di transizione, le proteste non cessarono: la popolazione continuava ad accusare i militari di ostacolare l’operato dei civili. Nel 2021 i due generali organizzarono un nuovo colpo di stato, giustificandolo con l’incapacità delle forze civili di trovare un accordo. Presto però, iniziarono i dissidi tra i due leader, soprattutto sul destino delle RSF e sul loro eventuale assorbimento nei ranghi delle FAS. Nel frattempo, le RSF avevano guadagnato sempre più potere, anche grazie al controllo di numerose miniere d’oro nel Darfur: la loro subordinazione ai comandi delle FAS era impensabile per Hemedti. Così, il 15 aprile 2023, la milizia da lui guidata attaccò le posizioni delle FAS nella capitale Khartoum.

Dopo i primi mesi, in cui le FAS subirono pesanti sconfitte – tra cui la perdita di Khartoum e lo spostamento della capitale a Port Sudan – le violenze si estesero a gran parte del Paese. Fino all’offensiva lanciata dalle FAS nel settembre 2024, le due forze si erano consolidate su due direttrici: le RSF controllavano il sud-ovest del Paese, con alcune sacche ancora in mano alle FAS, come era El-Fasher, mentre le FAS dominavano il nord-est. Con la riconquista di Khartoum da parte delle truppe di al-Burhan, nel marzo di quest’anno, è apparso chiaro che nessuna delle due parti contempla la fine delle ostilità – nonostante i tentativi di mediazione promossi da Stati Uniti e Arabia Saudita – se non attraverso una vittoria militare.

È difficile non vedere gli interessi esterni che alimentano la guerra, vista la ricchezza del Sudan, terzo produttore di oro del continente con almeno 90 tonnellate estratte ogni anno. Oltre all’oro, il Paese dispone di giacimenti petroliferi – ridotti dopo la secessione del Sud Sudan – e di un prezioso sbocco sul Mar Rosso, ambito da molte potenze. La guerra civile non esisterebbe senza questi interessi e senza le armi fornite dagli attori internazionali. Proprio di questo ha parlato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres che lunedì ha esortato tutti i paesi che stanno interferendo nel conflitto e coloro che «forniscono armi alle parti in guerra» a smettere di minare gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco 

Dietro al-Burhan si schierano Arabia Saudita, che compete con gli Emirati Arabi Uniti (EAU) per l’influenza sulla costa orientale africana, ma anche Iran, Egitto e Turchia, quest’ultima storicamente vicina alle FAS e, dalla fine dello scorso anno, fornitrice di droni che molti analisti considerano decisivi per l’offensiva delle Forze Armate Sudanesi. Dall’altra parte, Dagalo ha cercato di accreditarsi come un leader affidabile attraverso una serie di visite internazionali, ma le accuse di genocidio in Darfur hanno fatto cadere le sue ambizioni. Gli Emirati, principali importatori dell’oro sudanese, hanno interesse a sostenere le RSF, che controllano la maggior parte delle miniere del Darfur. Per questo sono oggi i maggiori fornitori di armi alle milizie di Hemedti, con forniture che transitano attraverso la Libia di Haftar e il Ciad, che nel 2023-24 ha ricevuto due miliardi di dollari dagli EAU nel quadro di un accordo di cooperazione militare.

Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, generale e leader delle Forze Armate Sudanesi (FAS), nonché presidente del Consiglio sovrano di transizione del Sudan.

Mentre le grandi potenze – Cina, UE e Stati Uniti – restano a guardare senza però perdere di vista i propri asset strategici nella regione, la Russia gioca su più tavoli: dall’inizio del conflitto ha fornito armi e uomini alle RSF in cambio dello sfruttamento delle miniere d’oro sotto il loro controllo, ma oggi fa affari anche con al-Burhan, puntando all’accesso diretto al Mar Rosso.

Al momento non sembra esserci alcuna prospettiva di soluzione diplomatica. I colloqui finora si sono conclusi senza risultati concreti. A settembre, il gruppo noto come Quad – formato da Stati Uniti, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti – ha presentato un piano in più punti per porre fine al conflitto, lanciato dopo l’emergere di una possibile frammentazione del Sudan, segnata dalla nascita di un governo in esilio, che controllerebbe le aree in mano alle milizie di Hemedti. Sarebbero anche iniziati dei colloqui indiretti a Washington la scorsa settimana, ma che come risultato hanno portato al massacro di El-Fasher. Il piano del Quad, accolto con speranza a livello internazionale, è stato invece respinto da al-Burhan, che ha ribadito tramite il Ministero degli Esteri «che qualsiasi discussione sul futuro del Paese deve avvenire con la partecipazione esclusiva dei sudanesi, senza interferenze o imposizioni da parte di soggetti esterni». E se da una parte arriva un rifiuto a sedersi al tavolo delle trattative, dall’altra le RSF lasciano parlare le armi: nell’ultimo mese, con il culmine nel massacro di El-Fasher, il conflitto si è ulteriormente inasprito. Difficile immaginare che le potenze del Quad possano perseguire una pace reale mentre continuano a sostenere, ciascuna, uno dei due schieramenti.

In tutto questo, come sempre, a pagare il prezzo più alto sono i civili: centinaia di migliaia di persone che vivono l’inferno quotidiano della guerra. In questi due anni, i media occidentali hanno dedicato poche e frammentarie attenzioni al conflitto sudanese, e solo in occasione dei massacri più atroci, come quelli di El Geneina e del campo profughi di Zamzam. Sembra che, nonostante le urla che arrivano dal Sudan, la comunità internazionale scelga di voltarsi dall’altra parte. Gli unici che davvero desiderano la pace sono coloro che nella guerra non hanno interessi: i milioni di civili torturati, stuprati, rapiti e uccisi, mentre il conflitto continua per il volere di pochi potenti Paesi.

Separazione delle carriere: cosa prevede la norma approvata in via definitiva

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Il Parlamento ha approvato in via definitiva il disegno di legge costituzionale che introduce la separazione delle carriere dei magistrati, uno degli storici cavalli di battaglia del centro-destra guidato da Silvio Berlusconi e ora del governo Meloni. La riforma, che modifica diversi articoli della Costituzione ed è stata fortemente promossa dal Guardasigilli Carlo Nordio, è al centro di un acceso dibattito in ambito politico e giuridico. Essendo una legge di revisione costituzionale, come previsto dall’articolo 138 della Costituzione, non potrà essere promulgata prima che siano trascorsi tre mesi dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Se, in questo lasso di tempo, lo richiederanno almeno un quinto dei membri di uno dei due Rami del parlamento, 500mila elettori o cinque Consigli regionali, la riforma verrà sottoposta a referendum confermativo e dunque a decidere sulla sua entrata in vigore saranno direttamente i cittadini. Un destino che, numeri alla mano, appare sostanzialmente scontato.

I due Consigli Superiori

Il cuore della riforma è rappresentato dalla netta distinzione, a livello costituzionale, tra la carriera dei magistrati giudicanti (coloro che emettono sentenze) e quella dei magistrati requirenti (il Pubblico Ministero che svolge l’azione penale). Con le modifiche all’articolo 104 della Costituzione, si stabilisce che, al posto dell’attuale Consiglio Superiore della Magistratura unico, ne vengono istituiti due: il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente. Entrambi, come oggi accade con il CSM, saranno presieduti dal Presidente della Repubblica. La composizione prevede, di diritto, il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Corte di Cassazione rispettivamente per il CSM giudicante e requirente. Una delle novità più importanti riguarda il sistema dell’elezione diretta da parte dei magistrati, attualmente in vigore per la componente “togata” del CSM, che lascia posto al meccanismo del sorteggio. I due terzi dei componenti CSM della magistratura giudicante saranno infatti estratti a sorte tra i magistrati giudicanti, mentre i due terzi dell’altro CSM saranno estratti dalla lista dei magistrati requirenti. L’altro terzo dei membri, in entrambi i casi, sarà estratto da un elenco di professori universitari e avvocati con almeno 15 anni di esperienza, compilato dalle Camere in seduta comune. A detta dei promotori della riforma, il sorteggio mira a depoliticizzare le scelte e a superare il cosiddetto “governo delle correnti”; secondo i critici, affidare il governo della magistratura alla casualità potrebbe avere effetti deleteri sulla qualità delle decisioni.

L’Alta Corte Disciplinare

Anche l’articolo 105 della Costituzione viene riscritto. La giurisdizione disciplinare sui magistrati, oggi affidata in prima istanza al CSM e in appello alla Corte di Cassazione, viene infatti presa in carico da un nuovo organo, l’Alta Corte disciplinare. La sua composizione è mista, vedendo la presenza di 6 membri “laici”. Una metà è nominata dal Capo dello Stato, mentre gli altri 3 vengono estratti a sorte da un elenco di professori e avvocati con almeno 20 anni di esperienza compilato dal Parlamento. Vi sono poi 9 membri “togati”, nello specifico 6 magistrati giudicanti e 3 requirenti. Essi vengono sorteggiati tra coloro che hanno almeno 20 anni di servizio e hanno svolto funzioni di legittimità presso la Corte di Cassazione. Il mandato dei giudici dell’Alta Corte, che non sono rieleggibili, dura 4 anni. Contro le pronunce del nuovo organismo è consentito un solo grado di appello, sempre dinanzi alla stessa Alta Corte, ma con un collegio diverso da quello che ha emesso la pronuncia di primo grado.

Un “problema” che non c’è

Un dato di fatto messo sul tavolo da critici e osservatori è che una sostanziale separazione delle carriere, in realtà, nell’ordinamento italiano è già presente, rendendo la riforma costituzionale in questione una “soluzione” a un problema in gran parte inesistente. I cosiddetti passaggi di funzione, infatti, sono un fatto assai raro, e a confermarlo sono i dati: analisi su periodi pluriennali mostrano che, mediamente, i cambi di funzione si contano in poche decine l’anno rispetto a un organico di migliaia di magistrati. Nel 2006, la riforma Castelli ha infatti stabilito un limite massimo di quattro passaggi in carriera, rendendoli peraltro molto più problematici a livello logistico. Un giudice che vuole diventare pubblico ministero, o viceversa, deve infatti spostarsi in un altro distretto di Corte d’Appello, che peraltro non può essere quello che ha competenza sui reati commessi dai magistrati del proprio (costringendolo dunque a trasferirsi in un’altra regione, che spesso non può essere nemmeno quella confinante). Tra il 2011 e il 2016, tali passaggi hanno coinvolto rispettivamente lo 0,21% dei requirenti e lo 0,83% dei giudicanti. A infliggere il colpo finale è stata, nel 2022, la riforma Cartabia, che ha ridotto il numero massimo dei “traslochi” da quattro a uno, che deve essere obbligatoriamente messo in atto nei primi dieci anni di servizio. Per questo motivo chi contesta la riforma costituzionale afferma che essa incida soprattutto sul governo della magistratura (duplicazione dei CSM, nuove regole disciplinari) più che su una reale novità sostanziale nella quotidianità degli uffici: la separazione proposta formalizza e irrigidisce una distinzione che, in larga parte, già si dava per consolidata nei fatti.

L’incidenza sui processi

È cruciale sottolineare come questo provvedimento, per quanto epocale sotto il profilo dell’ordinamento giudiziario e del significato politico ad esso attribuito da promotori e detrattori, non contenga alcuna disposizione diretta finalizzata ad accelerare lo svolgimento dei processi, vero nodo problematico della giustizia nel nostro Paese. La separazione delle carriere e la riforma del governo della magistratura impattano infatti sul versante strutturale e organizzativo, riguardando le carriere dei magistrati, la loro governance (CSM) e il sistema disciplinare, ma non toccano le regole processuali (penali, civili o amministrative) che determinano la durata concreta di un’udienza o di un procedimento. Nello specifico, non si interviene sui fattori che tradizionalmente provocano i ritardi processuali: la cronica carenza di personale (magistrati e ausiliari), l’insufficienza di risorse materiali, la complessità burocratica delle procedure, il carico eccessivo di cause, gli effetti della prescrizione sul numero dei ricorsi.

Il referendum

Nei prossimi mesi, è praticamente certo che il provvedimento verrà sottoposto ai cittadini, che saranno chiamati alle urne per un referendum confermativo. Esso è lo strumento previsto dall’art. 138 della Costituzione per presentare al corpo elettorale una legge di revisione costituzionale approvata in seconda lettura con maggioranza assoluta, ma non con la maggioranza qualificata dei due terzi. Dovranno chiedere la consultazione un quinto dei membri di una Camera, 500mila elettori o cinque consigli regionali, e tecnicamente la richiesta dovrà essere presentata nei termini e nelle forme previste dalla legge n.352/1970; l’Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione verifica la regolarità delle sottoscrizioni e la legittimità delle istanze prima che l’esecutivo proponga al Presidente della Repubblica l’indizione della consultazione, formalizzata con decreto presidenziale. Differentemente da quanto accade con i referendum abrogativi, il referendum confermativo non richiede un quorum di partecipazione. La norma entra in vigore se ottiene la maggioranza dei voti validi espressi, qualunque sia l’affluenza alle urne.

Scoperta truffa da 80 milioni di euro nel fotovoltaico

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La Guardia di finanza e la Polizia postale hanno smascherato una maxi truffa da 80 milioni di euro legata a falsi investimenti nel fotovoltaico, che ha coinvolto almeno seimila persone in tutta Italia. Il sito www.voltaiko.com, fulcro della frode, è stato sequestrato insieme a 95 conti correnti, beni di lusso, lingotti d’oro e criptovalute. Dieci le persone indagate nell’operazione “Cagliostro”. Il gruppo criminale prometteva rendimenti elevati tramite leasing di pannelli solari mai esistiti, vincolando i capitali per tre anni in uno schema piramidale basato sui soldi dei nuovi investitori.

Valutazione d’impatto generazionale: la strana (ma forse importante) legge approvata in Italia

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Il Parlamento ha approvato in via definitiva la legge che introduce la Valutazione di Impatto Generazionale (VIG) per ogni nuova norma. La VIG è un insieme di pratiche e sistemi di analisi che sondano il possibile effetto delle nuove norme sui più giovani e sulle generazioni future. Il provvedimento istituisce un sistema di valutazione degli effetti sociali, ambientali e intergenerazionali delle nuove leggi, attuando quanto previsto dall’articolo 9 della Costituzione riformato nel 2022. Non è ancora noto come la VIG verrà implementata nel sistema normativo: entro sei mesi il Governo dovrà emanare i decreti attuativi per definirla nel dettaglio, e istituire un Osservatorio presso la Presidenza del Consiglio con il compito di monitorare le proposte di legge e avanzarne di altre. Le associazioni che ne hanno promosso l’istituzione hanno celebrato l’approvazione della legge, auspicandosi che non finisca per risolversi in un passaggio formale e privo di contenuto.

La VIG viene introdotta nella nuova legge sulla semplificazione e il miglioramento del sistema normativo, approvata il 29 ottobre. A normarla sono gli Articoli 4 e 5. Il principio su cui si basa la VIG è quello secondo cui “le leggi della Repubblica promuovono l’equità intergenerazionale anche nell’interesse delle generazioni future” (comma 1 dell’Articolo 4), che richiama la riformulazione dell’Articolo 9 della Costituzione così come modificato nel 2022: “[La Repubblica] tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”. Il provvedimento descrive la VIG come “uno strumento informativo che consiste nell’analisi preventiva degli atti normativi del Governo, ad esclusione dei decreti-legge, in relazione agli effetti ambientali o sociali indotti dai provvedimenti, ricadenti sui giovani e sulle generazioni future, con particolare attenzione all’equità intergenerazionale”. La VIG, insomma, valuterebbe gli effetti delle norme in programma sulle generazioni future per assicurare l’equità tra le generazioni.

La VIG verrà svolta nell’ambito dell’Analisi di Impatto della Regolamentazione (AIR), disciplinata dall’Articolo 14 della legge 246 del 2005. L’AIR consiste nella “valutazione preventiva degli effetti di ipotesi di intervento normativo ricadenti sulle attività dei cittadini e delle imprese e sull’organizzazione e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni, mediante comparazione di opzioni alternative”. Essa, analogamente alla VIR, valuta i possibili effetti delle nuove leggi sulle comunità locali valutando per esempio i costi ed eventuali alternative, con l’obiettivo di garantire la libertà individuale e il corretto funzionamento della concorrenza. Il governo ha ora sei mesi di tempo per individuare i criteri generali e le procedure della VIG, nonché i casi in cui essa non si applicherà. Verrà inoltre istituito l’Osservatorio nazionale per l’impatto generazionale delle leggi che avrà “funzioni di monitoraggio, analisi, studio e proposta dei possibili strumenti” per assicurare l’equità intergenerazionale; l’organizzazione e il funzionamento dell’Osservatorio verranno definiti con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri entro i prossimi due mesi. I membri dell’Osservatorio, comunque, non avranno diritto ad alcuno stipendio o gettone di sorta.

A promuovere l’introduzione della VIG è stata, tra le altre l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), che ha accolto positivamente la legge. «La VIG non deve però diventare un semplice adempimento burocratico», ha ammonito il direttore scientifico del gruppo, «e va svolta al meglio, anche per coinvolgere di più la società nell’attività legislativa». La sua istituzione risponde a una esigenza emersa da tempo, tanto in Italia, quanto in seno alle istituzione europee: colmare il divario generazionale. L’espressione “divario generazionale” indica il “ritardo” accumulato dalle persone fino ai 35 anni nel raggiungimento della maturità economica e sociale rispetto alla generazione dei loro genitori: in Italia, i ragazzi escono di casa dopo i 30 anni, il 14% delle persone tra i 15 e i 19 anni non è impegnato né nel lavoro né nello studio (i cosiddetti “Neet”), e l’età media in cui si diventa genitori è in costante aumento.

Nel 2022, per contrastare il divario generazionale, l’UE ha chiesto ai Paesi di adottare misure per includere i giovani nel processo decisionale e per valutare l’impatto delle politiche su di essi, il cosiddetto “Youth Check”. In Italia è stata implementata una forma di Youth Check nel 2021, con l’istituzione del Comitato per la Valutazione dell’Impatto Generazionale delle Politiche Pubbliche (COVIGE), un organo di monitoraggio che valuta gli effetti delle politiche pubbliche sui cittadini di età compresa tra i 14 e i 35 anni e che identifica le politiche più efficaci da adottare. L’anno seguente, il COVIGE ha avanzato le Linee guida per la valutazione dell’impatto delle politiche generazionali, poi adottate con decreto ministeriale, e implementate da alcuni enti territoriali. L’istituzione della VIG si colloca sulla scia delle richieste dell’UE e delle politiche che l’Italia porta avanti da tempo, e sarebbe tesa a fare un passo avanti nell’istituzionalizzazione delle politiche per i giovani.

Giamaica, uragano Melissa ha causato almeno 19 morti

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Almeno 19 persone sono morte in Giamaica a causa dell’uragano Melissa, che negli ultimi giorni ha colpito duramente l’isola. Lo ha riferito il ministro dell’Informazione Dana Morris Dixon, precisando che nove vittime si trovano nella regione occidentale di Westmoreland. Il governo britannico ha organizzato voli charter per rimpatriare i cittadini rimasti bloccati, circa ottomila. La Giamaica è infatti una popolare meta turistica e membro del Commonwealth. Il ministero degli Esteri del Regno Unito ha invitato i connazionali a registrarsi per ricevere aggiornamenti. La priorità resta ai voli umanitari, ma è attesa la ripresa anche di quelli commerciali.

Moda di seconda mano: da trend a servizio del futuro?

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Il mercato globale dei capi di seconda mano è in continua crescita, con un aumento annuo del 10%. Dagli attuali 220 miliardi di fatturato, si stima che possa arrivare a toccare i 360 miliardi nel giro dei prossimi cinque anni. I numeri sono quelli generati da un rapporto di BCG per Vestiaire Collective, piattaforma di rivendita di abiti usati, ma basta buttare un occhio anche su Vinted per capire come questo mercato sia in costante evoluzione. Ed il motivo è semplice: la moda è in una fase di precaria immobilità. I prezzi sono alti (considerati dazi per le esportazioni e gli stipendi medi), la situazione geopolitica attuale alquanto instabile e la minaccia costante del fast fashion stanno mettendo a dura prova l’intero settore. Ma il vero problema, più sottile ma altrettanto insidioso, arriva dalla rottura dell’equazione prezzo/valore. Le persone sono sempre meno disposte a pagare cifre elevate per un valore percepito che appare sempre più sproporzionato rispetto a ciò che effettivamente ricevono. È il segnale palese che i vecchi modelli di business non sono più efficaci, né per le persone né per il pianeta. Ed è in questo contesto che il second hand, da nicchia, sta diventando un’opportunità di crescita anche per quei brand che lo hanno sempre guardato con sospetto.

Mentre i numeri delle piattaforme di rivendita crescono in maniera vertiginosa (di tutte, da Vestiarie a Vinted, ma anche ThredUp, The Real Real, Depop, e Bay), alcuni marchi hanno deciso di intraprendere la strada del second hand e inserirla nella loro strategia. È il caso di Ganni, marchio danese, che in collaborazione con Vestiaire Collective, ha inserito un servizio dedicato dove i clienti possono inviare i loro capi usati direttamente sulla piattaforma; una volta autenticati, ricevono automaticamente una card del valore del prezzo del capo più un 10% (con opzione di ritiro a domicilio in UE e UK). Un’operazione che premia la fedeltà con un credito immediato, rafforzando l’idea di circolarità e senso di appartenenza ad una “community, non spontanea ma direzionata dal marchio stesso. 

Simile ma diverso l’approccio di Calvin Klein e del suo programma di ritiro Re-Calvin. I clienti, aprendo una sezione speciale del sito del marchio, possono stampare un’etichetta ed inviare in maniera gratuita qualsiasi capo di abbigliamento o accessori (incluso intimo e costumi). Da qui i capi possono essere donati, riciclati o convertiti in energia da rifiuti. Gli utenti, grazie ad una mail, ricevono notizie su quale “fine” hanno fatto le loro donazioni.

Questi due esempi, pur con le loro differenze, dimostrano che la circolarità può diventare un servizio che il brand può offrire ai loro clienti senza affidarsi ad enti di gestione esterna, tenendo il cliente all’interno del circuito del marchio; una sorta di servizio post-acquisto che mantiene vivo il legame con il brand stesso (e di questi tempi far affezionare e rendere fedeli i clienti è cosa sempre più difficile). In un sistema con crepe da tutte le parti, aprirsi a nuove opportunità e modelli di business è una via di salvezza, non solo per la propria impresa ma per tutto il settore. La moda, così com’è, sa di vecchio e non risponde alle esigenze attuali né delle persone né tantomeno dell’ambiente.

Approcci similari hanno una valenza multipla, sia in termini di monetizzazione sia in termini di impegno, dove il cliente si sente parte di un proposito più grande mentre il brand “educa” i consumatori alla responsabilità. Non che la sostenibilità sia la spinta motivante principale per i marchi: il problema dei magazzini e degli invenduti esiste da sempre (perché da sempre si producono più capi del necessario per abbattere i costi con le quantità, altra follia del fashion business) e mentre prima erano gli outlet a tirare su il fatturato di molte aziende, adesso le piattaforme online offrono la stessa opportunità senza il peso di importanti costi fissi di gestione.

Dall’altra parte, il rischio principale è che il second hand sovrasti la vendita dei capi nuovi, mangiando una buona parte di profitti. Il secondo punto dolente riguarda la logistica e la gestione del flusso dei capi su larga scala, soprattutto per l’aspetto di verifica dei falsi, imprescindibile per i marchi di lusso. Motivo per cui servono partnership forti con chi sviluppa strumenti tecnologici.

L’ultimo rischio, ma forse è il primo, è quello di trasformare l’acquisto di second hand in acquisti compulsivi di capi di seconda mano: con la smania di velocizzare i metodi di compravendita e la fama in crescita di questo tipo di comportamento, il pericolo è quello di ritrovarci davanti ad un ”fast fashion dell’usato”, dove invece di instillare valori di qualità e durata nel tempo, si continua ad alimentare il ricambio rapido e l’accumulo.

La circolarità come obiettivo e strumento per sviluppare nuovi business va bene, purché venga fatto con consapevolezza e per generare valore e valori, non solo economici.

Pakistan e Afghanistan prolungano la tregua

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Dopo gli scontri di inizio ottobre, Pakistan e Afghanistan hanno concordato di estendere il cessate il fuoco. A dare la notizia è stato il ministero degli Esteri turco, che ha gestito il tavolo delle trattative a Istanbul assieme al Qatar. «Tutte le parti hanno concordato di istituire un meccanismo di monitoraggio e verifica che garantisca il mantenimento della pace e imponga sanzioni alla parte che viola le regole», si legge in un comunicato. Alla dichiarazione turca ha fatto eco quella del portavoce talebano Zabihullah Mujahid. Il 6 novembre si terrà un secondo incontro – sempre a Istanbul – per definire meglio il funzionamento del meccanismo di monitoraggio.