giovedì 6 Novembre 2025
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Cronache dall’oblio: 9 guerre invisibili di cui non si parla

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Guerre invisibili

Non è il numero di bombe e purtroppo nemmeno il numero delle vittime a misurare la “vicinanza” di una guerra, ma la presenza – o meno – di notizie ed analisi nelle cronache quotidiane. Oggi che la guerra è tornata alle porte del Vecchio continente e che Israele porta avanti indisturbato il proprio piano genocidiario, senza più nemmeno nascondere la volontà di appropriarsi di terre che non gli appartengono, noi occidentali riusciamo comunque a vivere la nostra quotidianità senza grossi problemi. I pochi “fastidi” arrivano da chi queste guerre ce le ricorda, da chi scende in strada a manifestare per dissociarsi da ciò che accade e perché il proprio governo prenda posizione, da chi ha avuto il coraggio di rischiare tutto, imbarcandosi sulla Global Sumud Flotilla solo per l’idea di un futuro migliore e più umano. Raccontare le guerre in atto significa spezzare il silenzio; non per uno sterile esercizio di memoria, ma per restituire ai numeri e alle statistiche che parlano di esseri umani morti ammazzati da altri esseri umani, volti e storie che la narrazione mainstream aveva deciso che andassero dimenticate.

Secondo ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project), un’ONG che raccoglie, codifica e mappa in tempo reale eventi di violenza politica e proteste in tutto il mondo, ad oggi i conflitti attivi nel mondo sono 56, coinvolgendo direttamente o indirettamente 92 Paesi. Noi ne abbiamo analizzati 9.

Sudan

Oggi, a causa del conflitto in Sudan, oltre 12 milioni di persone sono state costrette a fuggire tra sfollati interni e rifugiati all’estero. La foto è tratta da un campo profughi in Ciad

Era il 15 aprile del 2023, quando la milizia paramilitare delle Rapid Support Forces (RSF), guidata da Mohamed Hamdan Dagalo, attaccò basi dell’esercito regolare del Sudan (SAF) in tutto il Paese, trasformando in poche settimane Khartum e le province del Darfur in teatri di scontro urbano e rurale e riaccendendo un conflitto sopito che dura da anni. Questa guerra si innesta infatti su una storia – brutta – molto più lunga: il Darfur è stato teatro, dal 2003 in poi, di campagne governative contro popolazioni locali con milizie janjāwīd – filogovernative – accusate di crimini di massa e descritte da osservatori internazionali come atti assimilabili a genocidio. Proprio in questi giorni Ali Muhammad Ali Abd-Al-Rahman, uno dei leader del movimento janjāwīd, è stato condannato dalla Corte Penale Internazionale, colpevole di 27 capi d’imputazione per crimini contro l’umanità e crimini di guerra risalenti agli attacchi del 2003 e del 2004. Mentre ci sono ancora diversi processi in corso, è il primo leader militare ad essere condannato.

Oggi oltre 12 milioni di persone sono state costrette a fuggire tra sfollati interni e rifugiati all’estero, mentre quasi 30 milioni (più della metà della popolazione) necessitano di assistenza. Le vittime dirette e indirette (violenza, fame, malattie) sono difficili da contare: database e studi stimano cifre molto diverse — da alcune decine di migliaia (registrate da ACLED) a stime più alte che indicano decine di migliaia in più; studi epidemiologici locali segnalano centinaia di migliaia di decessi se si considera l’impatto totale sulla salute pubblica.

Etiopia

L’Etiopia è attraversata da un conflitto civile che affonda le radici in riforme politiche e tensioni etniche mai risolte. Nel novembre 2020 la guerra in ha trascinato il Paese in una spirale di violenza; l’accordo di Pretoria del 2 novembre 2022 ha fermato le ostilità principali, ma non ha ricomposto la fragile unità nazionale. Da allora il fronte si è spostato: nella regione di Amara le milizie si oppongono al governo, in Oromia continua la guerriglia dell’Oromo Liberation Army, e in altre regioni covano rivolte latenti.

Milizie ribelli dell’Oromo Liberation Army

Il bilancio umano resta drammatico: milioni di sfollati interni e rifugiati, comunità isolate, ospedali devastati e coltivazioni abbandonate. Più di 20 milioni di persone hanno bisogno di assistenza, e casi documentati di fame e malnutrizione mostrano come la guerra abbia aperto anche una carestia silenziosa. Organizzazioni indipendenti e internazionali, come ad esempio l’ufficio delle Nazioni Unite che coordina gli interventi umanitari nelle emergenze (OCHA) denunciano massacri, stupri di massa e detenzioni arbitrarie, segni di una violenza che non conosce tregua.

A livello politico, il governo di Abiy Ahmed tenta di ricostruire legittimità interna e sostegno internazionale, ma il Paese resta polarizzato, con un’economia piegata dalla guerra e giovani generazioni costrette a scegliere tra emigrazione, reclutamento o sopravvivenza quotidiana. In questo quadro, la pace non è un punto di arrivo, ma un traguardo ancora lontano.

Congo

Il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo è un braciere che si riaccende da decenni, ma negli ultimi due anni è esploso con nuova ferocia: la rinascita del gruppo M23 dal 2022 ha innescato un’ondata di offensive che alla fine del 2024 e all’inizio del 2025 ha spinto i ribelli sempre più vicino – e in alcuni casi dentro – città chiave come Goma e Bukavu.

Il teatro è l’est del Paese, un mosaico di milizie locali, forze governative e attori stranieri che si contendono controllo, influenza e risorse minerarie. Le accuse di sostegno ruandese all’M23 -respinte dal Ruanda stesso – hanno trasformato un conflitto locale in un nodo di tensione regionale che rischia di trascinare anche gli Stati vicini.

Milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria già prima dell’ultima ondata di violenze, che hanno spinto oltre un milione di persone a spostarsi nelle province della regione di Kivu per sfuggire agli attacchi. Le infrastrutture sanitarie ed economiche sono state devastate, con interruzioni nei rifornimenti e crescenti segnali di insicurezza alimentare.

Organizzazioni per i diritti segnalano abusi gravi: esecuzioni sommarie, stupri come arma di guerra e ostacoli sistematici all’assistenza elementi che hanno portato l’ONU e gruppi indipendenti a parlare di crimini di guerra. La guerra coniuga interessi locali e geopolitici: controllo dei minerali, rivalità etniche e politiche interne si sovrappongono, mentre la comunità internazionale fatica a imporre dei corridoi sicuri per i civili.

Birmania

Il colpo di Stato del 1° febbraio 2021 ha portato definitivamente verso il baratro un Paese già segnato dalla violenza: la giunta militare ha schiacciato il dissenso, e da allora proteste civili e scioperi si sono armati in una resistenza che ha preso forma con i People’s Defence Forces (PDF) e il Governo di Unità Nazionale.

Il conflitto è frammentato: vecchie armate ribelli si sono ricongiunte in vari fronti con formazioni locali e gruppi di resistenza; nei fatti la giunta militare controlla solo una porzione del territorio, mentre ribelli e milizie governano ampie aree rurali.
La strategia militare si è fatta brutale: raid aerei, incendi dei villaggi e attacchi contro ospedali e scuole hanno costellato il conflitto di crimini che organizzazioni internazionali definiscono come possibili crimini di guerra, sottolineando che i civili sono stati sistematicamente colpiti.

Il conto umano è enorme e in crescita: oltre 3 milioni di sfollati interni, una crisi alimentare che nel 2025 colpisce decine di milioni di persone e un accesso umanitario fortemente limitato. Le agenzie Onu pianificano di raggiungere 5,5 milioni di persone con il piano umanitario 2025, ma i fondi e i corridoi umanitari restano insufficienti.

Siria

La guerra in Siria è cominciata nel 2011 come sollevazione popolare contro Bashar al-Assad e si è rapidamente trasformata in un conflitto multilivello: frammentazione territoriale, milizie locali, jihadisti e attori stranieri che hanno fatto della Siria l’ennesimo campo di prova geopolitico. Nel corso degli anni il teatro siriano ha visto diversi interventi esterni: la Russia è entrata militarmente nel 2015 ribaltando l’equilibrio a favore di Assad; l’Iran e milizie alleate (fra cui Hezbollah) hanno consolidato la propria presenza sul terreno; la coalizione guidata dagli Stati Uniti era presente sul territorio formalmente per combattere l’Isis; la Turchia ha lanciato operazioni nel nord per attaccare le forze curde.

Le prime elezioni dopo la caduta di Assad, in Siria abbiamo visto l’esclusione al voto delle donne e di due minoranze come quelle dei curdi e dei drusi. I foto, Abu Mohammad al-Jolani

Il risultato è stato un territorio frammentato in diverse zone di controllo e una pace impossibile da negoziare centralmente. La fuga di Assad dopo le proteste del 2024 non ha cambiato le cose. Secondo l’ONU oltre 16,7 milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria e, a fine 2024, più di 6 milioni di persone erano registrate come rifugiati all’estero, mentre oltre 7 milioni risultavano come sfollati interni. La crisi è una ferita aperta che si mescola con povertà, insicurezza alimentare e infrastrutture distrutte. Sui diritti umani, rapporti Onu e ong documentano bombardamenti di aree civili, detenzioni arbitrarie e altri crimini che hanno segnato la traiettoria della guerra; le stime delle vittime variano, ma indagini ufficiali e monitor indipendenti collocano le decine o centinaia di migliaia di morti e milioni di vite spezzate. A livello politico abbiamo appena assistito alle prime elezioni dopo la caduta di Assad, che hanno visto l’esclusione al voto delle donne e di due minoranze come quelle dei curdi e dei drusi, portando diversi osservatori internazionali a definirle come elezioni farsa, mentre viene rafforzata la posizione di Abu Mohammad al-Jolani, che, da ex jihadista è stato completamente riabilitato agli occhi dell’opinione pubblica.

Kurdistan

I Peshmerga, l’esercito curdo

Il Kurdistan non è uno Stato riconosciuto, ma una regione che si estende dalla Turchia all’Iran, passando per Iraq e Siria, abitata dai curdi, considerati come il più grande popolo al mondo senza uno Stato. La Kurdistan Region dell’Iraq è la più riconosciuta a livello istituzionale: è una regione federale riconosciuta dalla Costituzione irachena del 2005, con governo, parlamento e forze armate proprie (Peshmerga), con capitale Erbil. In Siria il progetto noto come Rojava ha creato dal 2012 una autonomia de-facto con strutture amministrative e militari proprie. In Turchia e Iran esistono ampie aree abitate da curdi ma senza nessuna autonomia, anzi: le rivendicazioni politiche della popolazione si scontrano con gli Stati nazionali in una storia di conflitto e repressione. In Turchia, la lotta tra lo Stato e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) dura da oltre quarant’anni: attentati, operazioni militari su entrambi i lati del confine e campagne di sicurezza hanno segnato intere generazioni. Nel 2025 il PKK ha annunciato una svolta con una dichiarazione di cessate il fuoco e di abbandono della lotta armata, un segnale di cambiamento che resta però fragile, soprattutto per le mire di Ankara, con il governo che si è spinto più volte fino a negare l’esistenza dei curdi come gruppo etnico. In Siria le forze curde hanno giocato un ruolo decisivo contro l’Isis, ma la loro alleanza con Washington non ha cancellato l’ostilità turca né la complessità dei rapporti con Damasco: il nord-est è teatro di incidenti, negoziati intermittenti e tentativi di integrazione. L’Iraq ospita sia il governo regionale del Kurdistan, con i Peshmerga che difendono aree semi-autonome, sia basi storiche del PKK nel Qandil; le tensioni tra Baghdad, Erbil e attori esterni (Turchia, Iran) rendono instabile ogni tentativo di stabilizzare i rapporti, mentre la regione resta cruciale nelle strategie anti-ISIS.

Libia

Dalla caduta di Gheddafi nel 2011 il Paese si è frammentato in centri di potere locali e milizie, fino allo scivolamento in una guerra per fette di territorio e risorse. Dal 2014 la divisione est-ovest si è cristallizzata: da un lato l’autoproclamata Libyan National Army di Khalifa Haftar (appoggiata da reti e governi stranieri), dall’altro governi e coalizioni basate a Tripoli che hanno cercato legittimità internazionale. La spinta decisiva arrivò con l’offensiva di Haftar su Tripoli (2019–2020) e la reazione turca che riequilibrò il fronte; un cessate il fuoco mediato dall’ONU nell’ottobre 2020 frenò i combattimenti, ma non ha sanato la frattura politica. Restano forti interessi di potenze regionali e una costante competizione per il controllo del petrolio: l’energia resta la linfa economica del Paese e arma di pressione politica.

Tutto questo significa migliaia di sfollati interni, centinaia di migliaia di vulnerabili, e un’economia che dipende quasi esclusivamente dal petrolio, esposta a chiusure e blocchi delle produzioni che paralizzano servizi e stipendi. Senza un accordo politico inclusivo e garanzie internazionali sul controllo delle risorse, la tregua rimane fragile e la minaccia di una nuova esplosione di violenza – locale o regionale – resta alta.

Yemen

La guerra in Yemen è una ferita che non smette di sanguinare: esplosa quando gli Houthi presero Sana’a nel 2014 e degenerata con l’intervento della coalizione guidata dall’Arabia Saudita nel 2015, il conflitto ha trasformato il Paese martoriato tra i diversi fronti locali, ingerenze regionali e problemi economici. La guerra ha spezzato istituzioni e mercati: blocchi dei porti, restrizioni delle importazioni e interruzioni nel pagamento dei salari hanno spinto oltre 17 milioni di persone verso l’insicurezza alimentare grave, con i bambini che pagano, come sempre, il prezzo più alto.

Sul piano dei diritti, rapporti indipendenti documentano attacchi ripetuti contro ospedali, scuole e civili, detenzioni arbitrarie e pratiche che possono configurare crimini di guerra; l’accesso degli aiuti è spesso ostacolato da rischi e detenzioni di operatori.
Un’instabilità accresciuta anche dal ruolo degli Houti – che controllano il nord del Paese – a fianco dei palestinesi, che negli ultimi mesi ha portato ad attacchi e bombardamenti da parte degli Stati Uniti prima e di Israele poi.

Oggi la crisi è innanzitutto umanitaria: secondo le stime dell’ONU per il 2025 quasi 19,5 milioni di yemeniti hanno bisogno di assistenza e protezione: una popolazione intera esposta a fame, malattie e mancanza di servizi di base.

Nonostante pause e negoziati intermittenti, la pace resta lontana: senza corridoi protetti per i civili, finanziamenti stabili e una pressione diplomatica credibile che affronti le cause politiche del conflitto, l’emergenza yemenita continuerà a crescere e il conto umano a salire.

Nigeria

La guerra in Nigeria non è un unico fronte ma un intreccio di crisi che percorrono le diverse regioni del Paese. Nel nord-est Boko Haram e la sua costola ISWAP continuano ad alternare attentati, rapimenti e controllo di territori rurali, impedendo qualsiasi ritorno alla normalità. Nel nord-ovest le bande armate trasformano villaggi in obiettivi: furti, sequestri e attacchi a catena costringono intere comunità a spostarsi. Al centro-nord, tensioni tra pastori e agricoltori si sono trasformate in scontri, lasciando scie di vendette e sfollati. Nel sud-est cresce il separatismo e la pressione di gruppi come l’ESN/IPOB, mentre nel delta del Niger le milizie legate al petrolio continuano a saccheggiare risorse, aggravando corruzione e insicurezza.

Alla fine del 2024 si stimavano milioni di sfollati interni e centinaia di migliaia di persone dipendenti dagli aiuti. Intanto le scuole chiudono, le coltivazioni restano incustodite, le economie locali vengono svuotate e le forze di sicurezza appaiono spesso inefficaci o colluse, complicando qualsiasi risposta credibile.

Risolvere la crisi richiederebbe di andare oltre la forza per concepire interventi mirati per proteggere civili, ripristinare servizi essenziali, provare a riconciliare le diverse comunità e smantellare le economie illecite che alimentano la violenza. Senza questi obiettivi, ogni tregua rischia di essere solo un intervallo prima della prossima ondata di sangue.

Argentina, il neoliberismo di Milei devasta l’economia: dagli USA 20 miliardi per salvarlo

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«Non sono venuto a guidare buoi, sono venuto a risvegliare i leoni»: così Javier Milei, insediatosi al governo di Buenos Aires il 10 dicembre 2023, aveva sintetizzato l’approccio con cui era intenzionato a risollevare il Paese dalla cronica crisi economica che lo attanaglia. A meno di due anni dalla sua elezione, però, il presidente argentino si trova a fronteggiare l’ennesima crisi e a fare i conti con il fallimento della sua “rivoluzione libertaria”. L’economista ultraliberista, salito al potere incarnando l’immagine di un outsider antisistema, aveva promesso di «fare a pezzi lo Stato», abolire la burocrazia e restituire al mercato la piena sovranità. In nome della “libertà economica”, ha varato il Decreto de Necesidad y Urgencia n. 70/2023, noto come il Megadecreto, un provvedimento che ha permesso al governo di legiferare in circostanze di emergenza, con cui ha smantellato decine di leggi sociali e liberalizzato settori chiave come affitti, sanità, commercio estero e tutela ambientale, producendo una deregolamentazione selvaggia. Quella che doveva essere la “cura shock” per rilanciare l’economia si è trasformata in un esperimento sociale devastante. Nel giro di pochi mesi, i salari pubblici sono stati congelati, le sovvenzioni energetiche cancellate, il welfare ridimensionato. L’inflazione, pur in calo rispetto ai picchi iperbolici del 2023 in cui aveva toccato il picco del 211,4%, continua a divorare i redditi. Nel secondo trimestre 2025 il deficit ha superato i tre miliardi di dollari, trainato dal peso degli interessi sul debito. I generi di prima necessità aumentano di settimana in settimana, mentre il peso argentino crolla nuovamente sui mercati. Le classi medie, colpite da una tassazione indiretta crescente e dal taglio dei servizi, si impoveriscono; i ceti popolari scivolano nella miseria. Negli ultimi mesi, le strade di Buenos Aires e Córdoba sono tornate a riempirsi di manifestazioni, mentre sindacati e movimenti denunciano la “dittatura del mercato”.

L’Argentina vive una contraddizione feroce, ostaggio di un governo che predica la libertà, ma impone misure coercitive che cancellano tutele e diritti sociali. Milei si è presentato come l’uomo che avrebbe combattuto “la casta”, ma è finito per governare per conto di quei poteri finanziari che denunciava e che oggi lo sostengono. Il problema centrale è la bilancia dei pagamenti: nei prossimi tre anni l’Argentina dovrà onorare impegni esteri per oltre 45 miliardi di dollari, di cui 15 al Fondo Monetario Internazionale. Il presidente statunitense Donald Trump incontrerà Milei il 14 ottobre, durante la settimana in cui la Banca Mondiale e il FMI si riuniranno a Washington. Il 26 ottobre l’Argentina voterà per le elezioni legislative di medio termine, nelle quali il partito di destra di Milei punta a ottenere seggi per rafforzare la sua posizione di minoranza. Di fronte alla crisi e al rischio di un nuovo default, Washington è intervenuta con un’operazione tanto spettacolare quanto controversa: una linea di credito da 20 miliardi di dollari per sostenere le riserve della Banca centrale e stabilizzarne il peso. L’annuncio, salutato da Milei come «un voto di fiducia dell’Occidente», porta la firma del segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent, uomo di fiducia di Donald Trump e figura centrale della finanza speculativa internazionale. Dietro questo piano di “salvataggio”, si nasconde una trama di interessi privati che intreccia politica e alta finanza, promosso grazie alle pressioni di Rob Citrone, miliardario fondatore del fondo Discovery Capital e amico di lunga data di Bessent. I due si conoscono dai tempi in cui lavoravano insieme per George Soros: una rete di rapporti che ha attraversato decenni di investimenti globali, speculazioni e operazioni valutarie miliardarie. Già in passato, Citrone aveva convinto Bessent a operazioni rischiose – come la famosa scommessa sul dollaro contro lo yen – che gli fruttarono profitti enormi. Oggi, la storia sembra ripetersi, ma su scala geopolitica. Citrone è uno dei principali investitori nei titoli argentini: quando la politica di Milei ha iniziato a vacillare e il peso è crollato, le sue posizioni hanno rischiato di trasformarsi in perdite colossali. Da qui, secondo le fonti, la pressione su Bessent per ottenere un intervento di salvataggio. Poche settimane dopo, il Tesoro americano ha annunciato la linea di credito. I mercati hanno reagito immediatamente: i bond argentini, che stavano precipitando, hanno guadagnato fino al 20% in un giorno e chi li deteneva – tra cui lo stesso Citrone e diversi fondi vicini a Trump – ha incassato milioni. Nonostante le accuse di conflitto d’interesse, Bessent ha respinto ogni sospetto, sostenendo che l’obiettivo sia «stabilizzare un alleato dell’Occidente» e impedire che l’Argentina «cada nella sfera d’influenza cinese». Tuttavia, il sospetto rimane: la linea di credito americana appare meno come un atto di cooperazione e più come un’operazione di salvataggio per investitori privati legati alla Casa Bianca. Il piano, inoltre, non prevede stanziamenti a fondo perduto, ma condizioni dure: privatizzazioni accelerate, ulteriori tagli alla spesa pubblica e apertura completa al capitale straniero, legando Buenos Aires mani e piedi a Washington.

Il salvataggio americano ha offerto a Milei solo una tregua momentanea: il contesto economico resta instabile e la produzione industriale è in caduta libera, mentre il tasso di disoccupazione si è attestato al 7,6% nel secondo trimestre del 2025. L’economia argentina mostra segnali di stagnazione, con migliaia di piccole imprese chiuse dall’inizio del 2024 e consumi in forte calo. Pur essendo tecnicamente l’economia argentina uscita dalla recessione, la ripresa resta fragile e il mercato del lavoro risente della contrazione produttiva. I sussidi tagliati hanno provocato una crisi energetica nelle province del sud, mentre il costo dei trasporti e dei beni alimentari continua a crescere. Gli indicatori economici segnalano che la ripresa promessa dal governo non arriverà prima del 2026. Sul piano politico, Milei appare sempre più isolato. Il Congresso blocca molti dei suoi decreti, i governatori provinciali si ribellano ai tagli, i sindacati organizzano scioperi generali, mentre il suo elettorato inizia a disilludersi. Il sostegno statunitense, presentato come segno di forza, rischia di diventare un cappio politico: un governo che si proclama sovrano ma sopravvive solo grazie a un prestito straniero non può più dirsi indipendente. A livello internazionale, il caso argentino diventa emblematico. Per Washington, sostenere Milei significa difendere un modello economico che riduce lo Stato e privatizza tutto, ma che produce fame, disoccupazione e tensioni sociali. Per l’Occidente nel suo complesso, l’Argentina rappresenta un test: fino a che punto si può sostenere un esperimento neoliberista che genera instabilità e perdita di diritti? Dietro il linguaggio delle riforme e della libertà di mercato, si intravede una verità più amara: l’Argentina è diventata un laboratorio del neoliberismo estremo, dove la mano invisibile del mercato è manovrata da interessi ben visibili e spinge il Paese in una spirale di dipendenza e impoverimento.

Che cos’è l’effetto tunnel che ha vinto il Nobel per la fisica

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Attraversare un muro senza romperlo: è questo il paradosso alla base del Premio Nobel per la Fisica 2025, assegnato a John Clarke, Michel Devoret e John Martinis per aver dimostrato che gli effetti della meccanica quantistica possono manifestarsi in oggetti visibili a occhio nudo. Negli anni Ottanta, infatti, i tre scienziati costruirono un circuito elettrico superconduttore grande abbastanza da poter essere tenuto nel palmo di una mano e riuscirono a mostrarvi due fenomeni considerati per decenni confinati al mondo microscopico: l’effetto tunnel e la quantizzazione dell’energia. Il Comitato Nobel ha deciso quindi di conferire il premio, definendo la scoperta «una dimostrazione delle bizzarre proprietà del mondo quantistico rese concrete su scala macroscopica». «È meraviglioso poter celebrare il modo in cui la meccanica quantistica, vecchia di un secolo, offre continuamente nuove sorprese», ha infatti commentato Olle Eriksson, presidente del Comitato Nobel per la Fisica, aggiungendo che queste scoperte aprono la strada alla prossima generazione di tecnologie quantistiche.

Istituito nel 1901 per volontà dell’inventore della dinamite Alfred Nobel, il premio per la Fisica è tra i più prestigiosi riconoscimenti scientifici al mondo e viene assegnato ogni anno dall’Accademia Reale Svedese delle Scienze. L’edizione 2025 ha conferito 11 milioni di corone svedesi ai tre ricercatori, premiati per esperimenti che hanno mostrato la “fisica quantistica in azione”. Negli anni Ottanta, infatti, Clarke, Devoret e Martinis cercarono di rispondere a una domanda fondamentale: fino a che punto le leggi del mondo atomico possono essere applicate agli oggetti che vediamo e tocchiamo? Per farlo costruirono un circuito superconduttore — cioè un materiale che può condurre elettricità senza resistenza — separato da un sottilissimo strato isolante, una cosiddetta giunzione Josephson. Si tratta, nel complesso, di una configurazione che permette agli elettroni di muoversi come un’unica entità collettiva, formando un sistema che si comporta come se fosse una singola particella. Il loro lavoro, inoltre, si inserisce in una lunga tradizione di esperimenti che mettono alla prova i limiti della meccanica quantistica, la stessa teoria che, un secolo fa, rivoluzionò la fisica spiegando il comportamento della materia e dell’energia su scala atomica.

In particolare, la scoperta si è basata sul cosiddetto “effetto tunnel”: in meccanica quantistica, una particella si comporta anche come “un’onda di probabilità” e, in quanto tale, può attraversare una barriera anche se non ha abbastanza energia per superarla. È come se una pallina lanciata contro un muro, invece di rimbalzare indietro, apparisse improvvisamente dall’altra parte. Gli scienziati hanno dimostrato che lo stesso accadeva nel loro circuito: il sistema, inizialmente intrappolato in uno stato stabile senza tensione, riusciva improvvisamente a “sfuggire” oltre quella barriera invisibile, facendo comparire una differenza di tensione misurabile. Questo passaggio avveniva proprio attraverso l’effetto tunnel, mostrando che un sistema macroscopico poteva davvero comportarsi come un oggetto quantistico. Inoltre, i ricercatori verificarono che il circuito assorbiva o emetteva energia solo in quantità precise — un fenomeno chiamato quantizzazione — confermando pienamente le previsioni teoriche. «Non avevamo minimamente pensato che questa potesse essere la base per un premio Nobel», ha dichiarato Clarke, aggiungendo che «uno dei motivi principali per cui i telefoni cellulari funzionano è proprio per tutto questo lavoro». Secondo l’Accademia, queste scoperte non solo hanno reso osservabili le leggi quantistiche su scala umana, ma gettano le basi per nuove tecnologie, dai computer e sensori quantistici alla crittografia del futuro, in cui il confine tra visibile e invisibile diventa sempre più sottile.

Germania, accoltellata la futura sindaca di Herdecke

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In Germania a Herdecke, nello Stato della Renania Settentrionale-Vestfalia, è stata accoltellata Iris Stalzer, futura sindaca della città. Stalzer, esponente del Partito Socialdemocratico, era stata eletta lo scorso mese e dovrebbe prendere ufficio a novembre; è stata trovata dal figlio, e si trova ora in condizioni critiche. Ancora poco chiara la dinamica dell’aggressione. Da quanto avrebbe riportato lei stessa al figlio, sarebbe stata aggredita da un gruppo di uomini, che la avrebbero colpita più volte alla schiena e all’addome. La polizia sta ancora cercando gli aggressori.

Napoli: la protesta delle 27 famiglie sotto sfratto abbandonate dalle istituzioni

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Nella Napoli dei turisti c’è sempre meno spazio per gli abitanti, costretti a fronteggiare carovita, carenza di servizi e precarietà lavorativa. Mentre la città si trasforma, gli sfratti si confermano costante quotidiana. Domani, 8 ottobre 2025, toccherà a 27 famiglie che attualmente vivono in un immobile di proprietà del Comune di Napoli: l’ex motel Agip di Secondigliano, destinato alla demolizione. Nonostante la vastità del patrimonio immobiliare del Comune, l’amministrazione Manfredi non ha offerto soluzioni abitative alle famiglie sotto sgombero, limitandosi a un contributo una tantum che oscilla tra i 6 e i 10mila euro, decisamente insufficienti per trovare un alloggio in una città dal mercato immobiliare impazzito e in balia della turistificazione.

Presidio delle famiglie sotto sfratto al Consiglio Comunale di Napoli. Foto di Antonio De Falco.

«Non siamo occupanti ma rifugiati», racconta uno degli abitanti sotto sgombero, in presidio al Consiglio Comunale. Qualche residente si ferma, ogni tanto dai gruppi di turisti diretti verso le vetrine di via Toledo si stacca un curioso per provare a capire cosa stia succedendo, forse ignaro di contribuire alla trasformazione della città. «Prima del boom turistico — dichiara la Rete SET, da anni impegnata sul territorio nella lotta alla turistificazione e presente ieri al fianco delle famiglie — i residenti abitavano oltre il 90% delle case dei quartieri storici, lo dimostrano i censimenti pubblici, parlare ora di destinare fino a una casa su tre ai turisti come propone l’amministrazione significa rassegnarsi all’espulsione massiccia dei residenti. Purtroppo sta già avvenendo, con il caro affitti e gli sfratti che si sono moltiplicati in pochi anni». Le famiglie dell’ex motel Agip si danno manforte, mentre di fronte consiglieri e assessori discutono del loro destino, elaborando come unica risposta al disagio sociale l’aumento del contributo una tantum. Si alza un grido, un sentimento generale: «Basta sgomberi senza soluzioni». 6mila o 10mila euro non risolvono il problema delle famiglie sotto sfratto, con condizioni lavorative precarie che non permetterebbero loro di rispondere alle sempre più stringenti garanzie richieste dai locatori, orientati verso il mercato degli affitti brevi per maggiori profitti.

Presidio delle famiglie sotto sfratto al Consiglio Comunale di Napoli. Foto di Antonio De Falco.

Famiglie e attivisti raccontano del braccio di ferro portato avanti negli ultimi dieci mesi con l’amministrazione Manfredi, tra promesse e impegni mancati, con lo spettro sempre più concreto di finire coi propri figli in strada. L’ipotesi di fornire una sistemazione alternativa alle oltre 60 persone sotto sgombero attraverso l’utilizzo di alcuni prefabbricati pare tramontata; a non aver mai preso quota è invece l’idea — suggerita dalla Rete SET — di riqualificare uno dei tanti immobili in disuso del patrimonio comunale. In entrambi i casi, la disponibilità delle famiglie sarebbe totale, viste le condizioni di vita attuali. Quella che un tempo rappresentava l’avanguardia industriale italiana, figlia del progetto di Enrico Mattei, è oggi una struttura che dopo anni di disinteresse e ristrutturazioni mancate (ancora un anno fa i consiglieri Sergio D’Angelo e Rosario Andreozzi invitavano l’amministrazione comunale a «recuperare le non ingenti risorse necessarie per riqualificare rapidamente un proprio bene») è stata dichiarata inagibile e quindi destinata alla demolizione.

Presidio delle famiglie sotto sfratto al Consiglio Comunale di Napoli. Foto di Antonio De Falco.

L’ex motel Agip è fatiscente, pericolante e a rischio ambientale per i continui sversamenti di rifiuti; eppure, complice lo stato di povertà e disagio sociale, negli anni è diventato casa per decine di famiglie, a partire dal post-terremoto degli anni ’80. In seguito si è verificato il primo ciclo di occupazioni, in parte regolamentate nel 2016, quando decine di famiglie sono state trasferite nei nuovi alloggi di edilizia popolare. Gli esclusi di quelle graduatorie sono rimasti nella struttura e si sono aggiunte nuove persone, accomunate da un reddito prossimo allo zero e da un’elevata vulnerabilità sociale. Condizione, quest’ultima, sempre più diffusa nella Napoli trasformata dal turismo di massa, che arricchisce pochi eletti e sfrutta i più. Ma i cittadini non si arrendono. «Il Comune non ci deve trattare come abitanti di una discarica sociale», recita lo striscione delle famiglie prossime allo sfratto, pronte a dare continuità alla mobilitazione di questi giorni. Prima il Consiglio Comunale, poi il Duomo e infine il Teatro San Carlo: le irruzioni nella quotidianità altrui sono state accompagnate dal presidio nei pressi di Piazza Municipio per reclamare il proprio diritto a un’esistenza dignitosa e a un luogo dove far crescere i propri figli.

Ilaria Salis, Europarlamento non revoca l’immunità per un solo voto

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In un voto a scrutinio segreto il Parlamento Europeo ha respinto per un solo voto la richiesta del governo ungherese di revocare l’immunità all’europarlamentare italiana Ilaria Salis. La decisione, incerta fino all’ultimo (la commissione Affari giuridici aveva mantenuto l’immunità due settimane fa), contraddice le indicazioni ufficiali dei gruppi che erano favorevoli alla revoca: il risultato sembra dovuto a voti di eurodeputati indipendenti e di membri del Partito Popolare Europeo che non hanno seguito la linea del presidente Manfred Weber. Salis, di Alleanza Verdi e Sinistra, è accusata in Ungheria di aggressione a neonazisti nel 2023, accusa che lei nega.

RSA condannata per il lutto negato durante la pandemia: sentenza storica a Novara

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Una sentenza del Tribunale di Novara ha stabilito un precedente giuridico storico, riconoscendo per la prima volta il diritto al commiato e condannando una casa di riposo a risarcire con 5.000 euro una donna a cui, nel gennaio 2021, era stato impedito di vedere per l’ultima volta il marito morente a causa delle restrizioni anti-Covid. Il tribunale ha introdotto e riconosciuto l’esistenza e la risarcibilità del danno da «mancato commiato» per «avere negato quel momento essenziale per l’elaborazione del lutto che è il passaggio, per certi versi formale, di addio». Si tratta di una pronuncia che assume una portata simbolica e fattuale rilevante nel contesto delle numerose storie analoghe avvenute durante le fasi più critiche della pandemia.

I fatti risalgono al 20 gennaio 2021, quando la signora Rosa Anna Z. seppe dal direttore sanitario che le condizioni del marito Pietro, ospite della RSA novarese, erano peggiorate drasticamente. Nonostante le sue suppliche di poter entrare, come già le era stato concesso in due occasioni precedenti, non ricevette alcuna risposta alle sue mail. Solo alle 14.12 la caposala la avvisò dell’imminente decesso, invitandola a raggiungere la struttura. Arrivata verso le 14.30, Z. «veniva quindi invitata comunque a salire per prestare un ultimo saluto alla salma del coniuge, ma si rifiutava, ritenendolo tragicamente vano». La motivazione di questo rifiuto, come spiegato in sentenza, risiedeva nelle convinzioni personali della coppia: «I coniugi erano entrambi non credenti, senza figli, né parenti prossimi o comunque legati da un rapporto affettivo significativo: erano convinti che non vi sia una vita ultraterrena dopo la morte, e che con quest’ultima cessi ogni rapporto umano e spirituale fra le persone». Questa circostanza ha reso particolarmente drammatica la situazione, poiché «ha causato un dolore ancor maggiore di quello determinato dalla scomparsa del compagno di una vita».

Nello specifico, all’interno della sentenza si condanna l’RSA sottolineando che il divieto, seppure dettato da norme di emergenza, fu esercitato in modo sproporzionato e arrecò una sofferenza autonoma rispetto al dolore per la perdita. Il giudice ha infatti evidenziato come il bilanciamento tra esigenze sanitarie e diritti delle persone non possa tradursi in un’automatica esclusione del contatto familiare in punto di morte. Nel motivare la condanna, il Tribunale ha rilevato che la struttura, pur esercitando un potere «in generale plausibile in forza di un potere conferitole dalle norme allora vigenti», lo abbia fatto «in modo non del tutto corretto». Con tutta probabilità, infatti, si trattò «di un eccesso di prudenza ma comunque un eccesso; un avviso della imminente morte, con tutta probabilità, dato con troppo ritardo; insomma, un “eccesso di potere” non assoluto-arbitrario e generalmente animato da una volontà di cautelare i ricoverati o anche di cautelarsi ma comunque un eccesso di potere», si legge nella pronuncia.

Con questa sentenza, insomma, la giurisprudenza individua una particolare forma di danno non patrimoniale – il cosiddetto «danno da mancato commiato» – che deriva dalla violazione del diritto di poter accompagnare e salutare un proprio congiunto in punto di morte. Per giustificare tale innovazione, il giudice ha utilizzato un ragionamento comparativo: «Se – per esempio – è risarcibile il danno da vacanza rovinata, non vi è motivo per non risarcire il danno da sofferenza per non avere potuto stare vicino al proprio coniuge al momento della morte di quest’ultimo». Certo è che il caso di Novara potrebbe ora aprire la strada a nuove istanze giudiziarie presentate da familiari che, nel corso dell’ondata pandemica, hanno subito analoghi divieti.

Trump interrompe i contatti diplomatici con il Venezuela

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Il presidente americano Donald Trump ha interrotto con effetto immediato ogni canale diplomatico con il governo guidato da Nicolás Maduro. L’inviato speciale USA, Richard Grenell, è stato richiamato da Caracas con un ordine diretto del presidente: qualsiasi negoziato in corso – esplorativo o avanzato – è stato congelato secondo fonti del New York Times. La decisione segna un cambio netto nel corso degli ultimi mesi, in cui Grenell aveva condotto interlocuzioni con il regime venezuelano per sondare accordi e percorsi di distensione. Trump ha motivato lo stop con accuse di “azioni ostili e minacce incombenti”, mentre Maduro ha reagito denunciando un piano per attentare all’ambasciata statunitense a Caracas, affermando che “un gruppo terroristico locale” era già al lavoro su ordigni esplosivi e che “l’amministrazione americana è già a conoscenza dei fatti”. Sullo sfondo, gli Stati Uniti mantengono una potente presenza militare nei Caraibi: almeno otto navi da guerra, un sommergibile d’attacco e una forza di oltre 4.500 soldati stazionano nella regione, ufficialmente per contrastare il narcotraffico. Maduro ha definito tali assetti “minacce chiare e provocazioni per un cambio di regime mascherato” e la rottura diplomatica lascia aperta la possibilità di ulteriori escalation.

L’Ucraina avrebbe colpito impianti di armi e petrolio in Russia: Mosca avvisa l’Europa

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Nella notte tra il 5 e il 6 ottobre 2025, le forze ucraine hanno lanciato un massiccio attacco con droni e missili verso il territorio russo, reclamando il colpo a un impianto di munizioni nella regione di Nizhny Novgorod (Sverdlov), a un deposito di armi della 18ª Armata e a un terminal petrolifero in Crimea. Secondo lo Stato maggiore ucraino, gli attacchi avrebbero provocato esplosioni multiple, incendi e danni all’infrastruttura logistica dell’industria bellica russa.  Le autorità russe – pur riconoscendo di aver subito un “attacco su 14 regioni”, comprese zone attorno al Mar Nero e al Mar d’Azov – sostengono che le loro difese aeree abbiano intercettato 251 droni. Gleb Nikitin, il governatore di Nizhny Novgorod ha precisato che l’impianto di munizioni non avrebbe subito danni rilevanti, rivendicando che le difese abbiano deviato i droni verso aree industriali. Contestualmente, fonti russe indicano che un terminal petrolifero in Crimea è stato colpito, causando un incendio: l’obiettivo strategico, secondo gli ucraini, era ampliare la pressione sulle risorse energetiche russe. L’episodio rientra in una strategia ucraina ormai consolidata: intensificare gli attacchi alla rete di approvvigionamento russa, danneggiare il complesso militare-industriale dell’avversario e dimostrare un’autonomia crescente nella produzione di armi – che si sarebbe addirittura triplicata – in particolare droni. Nelle ultime settimane, attacchi simili si sono ripetuti: tra questi, un attacco a un impianto chimico del Perm Krai e incendi in raffinerie vicino a San Pietroburgo (Kirishi) sono stati segnalati da fonti russe.

Considerate le scarse possibilità che l’Ucraina entri a far parte della NATO, gli alleati occidentali hanno adottato una strategia alternativa per aiutare Kiev a respingere l’aggressione russa: investire miliardi nell’industria bellica ucraina, in modo che possa difendersi meglio. Un recente progresso nell’arsenale interno ucraino è un drone quadrirotore in grado di eludere i dispositivi di disturbo russi, volare per oltre 20 chilometri e sganciare sei chilogrammi di esplosivo guidato su carri armati e altri obiettivi di alto valore. La risposta di Mosca non si è fatta attendere. Le autorità russe hanno condannato gli attacchi come atti di “terrorismo” e di “escalation”, avvertendo che qualsiasi sostegno europeo all’Ucraina – sia diplomatico, sia militare – sarebbe considerato un coinvolgimento diretto nella guerra. Il presidente Vladimir Putin ha ammonito che la Russia reagirà con “forza significativa” se l’Occidente proseguirà nell’armare Kiev. Intervenendo giovedì 2 ottobre al Club Valdai a Sochi, sul Mar Nero, il leader russo aveva già ammonito l’Alleanza Atlantica: «Nessuno dovrebbe avere dubbi sul fatto che le contromisure della Russia non tarderanno ad arrivare». In sedi internazionali, il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha ribadito che Mosca «non intende attaccare l’Europa», ma che risponderà in modo “decisivo” alle provocazioni. Il clima è già molto teso: oltre alle continue notizie di voli sospetti di droni in vari Paesi europei, intrusioni aeree e manovre belliche, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump si trova a dover decidere se inviare inviare i missili a lunga gittata Tomahawk in Ucraina. Il tycoon ha dichiarato di aver «già preso una decisione, più o meno», ma di voler prima capire come verranno utilizzati. Intanto, Dmitri Medvedev, vicepresidente del Consiglio di Sicurezza russo, ha affermato che resta un mistero chi si cela dietro le incursioni dei droni che hanno interessato gli aeroporti europei, ma che tali episodi devono servire da “monito” ai cittadini europei sui pericoli della guerra. Mosca sottolinea che, se l’Europa continuerà a fornire sistemi missilistici, intelligence e assistenza militare all’Ucraina, finirà per essere considerata parte del conflitto stesso – una linea che richiama discorsi già emersi nei mesi precedenti.

Se l’attacco ucraino risultasse confermato nei suoi effetti, non si tratterebbe soltanto di un’azione militare isolata, ma di un cambio di paradigma: l’Ucraina che colpisce profondamente nella Federazione russa e sfida i principi e soprattutto i confini della “non interferenza”. Ciò mette l’Europa in una posizione delicata: chiudere gli occhi significherebbe accettare che il conflitto stia già varcando le sue frontiere. Le reazioni politiche non si fanno attendere: i leader di Bruxelles discutono ormai apertamente della necessità di rafforzare le difese dell’Unione e un esempio concreto lo abbiamo avuto nelle scorse settimane con l’operazione Sentinella dell’Est, ma si teme che la linea tra sostegno a Kiev e coinvolgimento diretto diventi sempre più labile. Un nodo cruciale rimane la politica delle armi: finora molti Stati europei hanno evitato di autorizzare l’uso dei propri sistemi su obiettivi russi, ma l’attenzione strategica di Kiev si sposta sempre più su obiettivi logistici e infrastrutturali del nemico. Zelensky e le autorità di Kiev insistono che i recenti raid sono stati condotti con armamenti di produzione nazionale, per dimostrare la propria autonomia, ma anche per rispondere alle critiche occidentali sul rischio di scatenare una escalation. Per l’Europa, la sfida è trovare un equilibrio tra la volontà di non essere trascinata nel conflitto come parte attiva e la necessità di continuare a mostrare un sostegno concreto all’Ucraina. Qualsiasi decisione comporterà conseguenze strategiche e morali, mentre Mosca avverte l’Europa che non sarà “spettatrice” e invita i governi di Bruxelles a scegliere da che parte stare, prima che il conflitto decida da sé.

Napoli: un altro uomo è morto dopo essere stato colpito con il taser dalla polizia

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È morto in ambulanza, ancora prima di raggiungere l’ospedale, l’uomo colpito dal taser a Napoli dai carabinieri intervenuti nella sua abitazione dopo la segnalazione di una lite in famiglia. Tutto ha avuto luogo ieri, a Napoli, in quartiere Brancaccio: gli agenti avrebbero impiegato l’arma a impulsi elettrici per calmare il 35enne, in evidente stato di agitazione, per poi affidarlo ai sanitari del 118. A nulla, tuttavia, è servita la corsa in ospedale: l’uomo è morto durante il tragitto. Sul caso è stata aperta un’inchiesta e sul corpo dell’uomo sarà disposta l’autopsia, per determinare le cause del decesso. La morte dell’uomo, la quinta sospetta da taser nel giro di quattro mesi, accende ulteriormente il dibattito sull’impiego dell’arma a impulsi elettrici, che per il ministro Piantedosi rappresenta l’alternativa più sicura all’arma da fuoco.

«Ogni volta che si verificano questi tragici casi è stata esclusa la riconducibilità all’utilizzo del taser, che è sempre l’alternativa all’arma da fuoco», ha commentato il ministro Matteo Piantedosi ai microfoni del programma Cinque Minuti di Bruno Vespa. Eppure, il numero di decessi che seguono l’utilizzo dell’arma a impulsi elettrici è sempre più elevato. Solamente nelle ultime settimane sono state almeno tre le persone morte dopo essere state colpite dal taser: il caso più recente è quello di Claudio Citro, 41 anni, morto a Reggio Emilia il 15 settembre; prima di lui la stessa sorte era toccata a Gianpaolo Demartis, 57 anni, anche lui morto durante il trasporto in ambulanza, a Olbia, dopo essere stato fermato in stato di agitazione e sotto effetto di droghe, e ad Elton Bani, 41 anni, morto a Manesseno, nell’entroterra genovese, dopo essere stato colpito dal taser per tre volte. Poche settimane prima era toccato a Riccardo Zappone, 30 anni, deceduto il 3 giugno in ospedale a Pescara poco dopo l’arresto. Cinque morti in quattro mesi, tutte avvenute con dinamiche molto simili: soggetti in forte stato di agitazione, e quindi verosimilmente con attività cardiaca alterata, di età diverse, deceduti dopo aver ricevuto la scarica elettrica. In molti casi le indagini sono ancora aperte: secondo quanto è stato fino ad ora reso noto, ad esempio, nel caso di Gianpaolo Demartis il consulente della procura di Tempio Pausania, Salvatore Lorenzoni, avrebbe escluso il taser come causa del decesso, ipotizzando invece una morte dovuta al consumo di droghe, ma per avere dei risultati certi è necessario attendere l’esame tossicologico, che dovrebbe arrivare a fine ottobre.

Introdotto in Italia in via sperimentale dal primo governo Conte, con un decreto legge firmato dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, l’uso dell’arma è stato approvato definitivamente nel 2020 in 12 città con popolazione superiore ai 100 mila abitanti. A partire dal 14 marzo 2022, l’arma è stata data definitivamente in dotazione agli agenti di 18 città italiane: secondo l’allora ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, questo «costituisce un passo importante per ridurre i rischi per l’incolumità del personale di polizia impegnato nelle attività di prevenzione e controllo del territorio». E quest’anno, con l’approvazione di un emendamento (fortemente voluto dalla Lega) al decreto Milleproroghe, è stata autorizzata l’estensione dell’utilizzo del taser in forma sperimentale a tutti i Comuni con meno di 20 mila abitanti.

Secono il presidente del gruppo GIEC (Gruppo di Intervento Emergenze Cardiologiche, che già nel 2018 segnalava il rischio di morte collegato all’impiego dell’arma a impulsi elettrici), Maurizio Santomauro, in una lettera inviata al ministro Piantedosi e citata dai media, sarebbe necessario, «alla luce delle evidenze scientifiche», evidenziare «l’esistenza di un potenziale rischio di arresto cardiaco correlato all’uso della pistola elettrica taser che potrebbe generare un’aritmia letale (la fibrillazione ventricolare) e provocare un decesso non voluto da parte di chi la usa», motivo per il quale gli agenti delle Forze dell’Ordine dovrebbero essere quantomeno «periodicamente addestrati e certificati nelle procedure di rianimazione cardio-polmonare di base e di defibrillazione». «La distribuzione di defibrillatori alle pattuglie di polizia e carabinieri che controllano il territorio è già abbastanza estesa», ha tuttavia commentato il ministro.