Pfizer ha deciso di investire 4,9 miliardi di dollari per acquisire Metsera, una biotech con una linea di produzione focalizzata sull’obesità e le malattie metaboliche. La società americana dispone già di programmi avanzati: quattro molecole in fase clinica, sia orali sia iniettabili, la maggior parte basata su meccanismi innovativi come gli agonisti del GLP-1 e altri ormoni correlati come l’amilina. Per Pfizer è una strategia per entrare in un mercato in forte espansione, dove finora aveva contribuito poco, rispetto a concorrenti che già offrono farmaci antiobesità approvati. Quest’operazione non è isolata: segue una tendenza consolidata nelle grandi aziende farmaceutiche, che puntano su molecole che migliorano la sazietà, riducono l’appetito o modulano segnali metabolici, intervenendo non solo sul peso, ma sulle complicazioni sanitarie che accompagnano l’obesità. Le prospettive economiche spiegano perché l’industria stia puntando così forte su questo settore: è un business che promette margini elevati, specie nei Paesi con sistemi sanitari disposti a rimborsare, e nei mercati privati dove i pazienti sono pronti a pagare.
Negli ultimi anni il mercato degli agonisti del recettore GLP-1 ha conosciuto un’espansione senza precedenti, trainato da molecole come Ozempic e Wegovy, diventate non solo farmaci, ma veri e propri fenomeni di costume. Nati come trattamenti per il diabete di tipo 2, sono stati rapidamente adottati come strumenti per dimagrire, anche da persone che non soffrono di obesità clinica. L’Ozempic, in particolare, è entrato nell’immaginario collettivo grazie all’utilizzo da parte di star di Hollywood, influencer e manager che ne hanno alimentato la domanda esplosiva. L’idea di perdere peso in modo rapido e senza sforzo ha reso questi prodotti oggetti di desiderio, al punto da generare carenze nelle farmacie e la nascita di un mercato parallelo fatto di vendite online e perfino di versioni contraffatte. Il risultato è un business fuori controllo, dove i numeri parlano chiaro: Goldman Sachs stima che il mercato globale dei farmaci antiobesità, attualmente valutato 28 miliardi di dollari, possa salire a 95 miliardi entro il 2030. Ancora più ottimista Morgan Stanley, che proietta una crescita fino a 150 miliardi di dollari entro il 2035. A fronte di queste cifre, restano però questioni aperte e rischi evidenti: l’uso estetico e non terapeutico, i costi proibitivi, la dipendenza da trattamenti cronici e le incognite sugli effetti collaterali a lungo termine. In molti casi, i pazienti interrompono la cura dopo pochi mesi, recuperando rapidamente il peso perso, mentre il sistema sanitario e i consumatori hanno già sostenuto spese enormi. Dietro l’entusiasmo e la moda globale, il nodo centrale è che questi farmaci rischiano di essere percepiti come scorciatoie miracolose, oscurando la necessità di affrontare le cause profonde dell’epidemia di obesità: cattiva alimentazione, sedentarietà, stress e disuguaglianze sociali. Altri elementi di criticità emergono dalla sicurezza: ci sono segnalazioni di effetti indesiderati rari ma gravi, come patologie oculari con alcuni farmaci a base di semaglutide (neuropatia ottica ischemica) o rischi cardiovascolari da monitorare. Studi clinici e post-marketing stanno evidenziando che, pur se i benefici sono reali, non si conoscono ancora pienamente gli effetti a lungo termine, soprattutto su popolazioni diverse da quelle dei trial (anziani, comorbidità, uso prolungato).
Pfizer non ha ancora alcun trattamento per l’obesità disponibile sul mercato, ma alcuni candidati sono in fase di sviluppo clinico. All’inizio del 2025 l’azienda ha scelto di interrompere il progetto di una pillola da assumere una volta al giorno, rinviando i test di fase avanzata, la più costosa e delicata dell’intero iter. L’ingresso nel settore arriva mentre il governo statunitense esercita una pressione crescente sulle case farmaceutiche: a luglio il presidente Trump ha inviato lettere a 17 produttori, intimando di ridurre i prezzi dei farmaci entro settembre e lasciando trapelare l’ipotesi di dazi commerciali. In questo clima, la sfida per Pfizer sarà trasformare l’acquisizione di Metsera in una strategia sostenibile, capace di coniugare profitti e accessibilità. Il terreno su cui la multinazionale si muove è segnato da contraddizioni profonde. Negli Stati Uniti la malnutrizione da eccesso, fatta di fast food e alimenti ultra-processati, ha prodotto una popolazione in cui un terzo degli adulti è obeso. Secondo il Centers for Disease Control and Prevention, oltre 100 milioni di americani sono obesi e più di 22 milioni soffrono di obesità grave, con un indice di massa corporea pari o superiore a 40. Ma come spesso accade nel modello capitalistico, il problema di salute pubblica viene affrontato agendo sul sintomo anziché sulla causa. Il sistema che ha contribuito a generare obesità di massa, finisce per arricchirsi di nuovo vendendo la cura, l’ennesima scorciatoia che alimenta il business senza intaccare le vere radici del problema.
Il tonno è un alimento ricco di nutrienti quali omega-3, proteine e sali minerali, che contribuiscono a prevenire malattie cardiovascolari e tenere sotto controllo i grassi nel sangue. Ma cosa cambia quando viene consumato nelle formulazioni in vetro o in lattina?
Le carni del tonno sono un’ottima fonte di proteine ad elevato valore biologico. Le proteine non sono infatti tutte uguali: la scienza le differenzia in base al loro valore, o qualità nutritiva, che viene definito in gergo tecnico e nutrizionale valore biologicodelle proteine. Il tonno è inoltre una ricca fonte di grassi buoni, in particolare di quelli appartenenti alla classe degli omega-3, riconosciuti per la loro funzione antinfiammatoria e protettiva per le cellule dell’organismo. È anche ricco di micronutrienti, ovvero vitamine e minerali. Per quanto riguarda le sostanze minerali, è buono l’apporto di calcio, fosforo e selenio. Anche il rame, il magnesio, il ferro e lo iodio sono presenti in quantità significative: in genere, 150 grammi di tonno forniscono selenio e iodio in quantità sufficienti a soddisfare il fabbisogno giornaliero di un adulto. Il contenuto vitaminico è consistente per le vitamine B1, B2, B3 e B12, ma il tonno è un importante e quasi esclusivo vettore di vitamine A e D, presenti tal quali e non nella forma di pro-vitamine, come in altri alimenti (ad es. il betacarotene è una pro-vitamina A e si trova nei cibi vegetali, ma non è la stessa cosa della vitamina A tale e quale, presente solo ed esclusivamente nei prodotti di origine animale). Tutte queste straordinarie virtù non vengono meno né con la surgelazione né con la cottura a vapore. Pertanto, sia il pesce congelato che quello cotto a vapore (come è tipicamente il tonno in scatola) sono alimenti ricchi di nutrienti al pari del pesce fresco.
Come acquistare un prodotto di qualità
La prima cosa importante, quando acquistiamo tonno in scatola, è capire di che tonno si tratta. Questo perché non tutto il tonno presente in commercio è uguale. Ne esistono almeno quattro specie principali: pinna gialla, obesus, striato e tonno rosso. Dal 2014, però, i regolamenti UE impongono obbligatoriamente ai produttori di tonno di indicare sulla confezione del prodotto la specie usata, con tanto di nome scientifico del pesce. La più pregiata è il tonno rosso (Thunnus Thynnus), molto difficile da trovare in scatola in quanto molto costoso. Sono invece più diffuse le specie tonnetto striato (Katsuwonus pelamis) e tonno pinne gialle (Thunnus Albacares): la prima è più economica, ha un sapore meno intenso e una carne più chiara, mentre la seconda è più costosa e pregiata.
Vetro o scatoletta?
La seconda cosa che bisogna sapere riguarda il tipo di confezionamento: in vetro o in lattina. Si sente spesso dire che il tonno in vetro sia più pregiato e di migliore qualità rispetto a quello in lattina: sebbene questo sia vero il più delle volte, può succedere anche il contrario. Solitamente il prodotto in vetro è da preferire, in quanto vi troviamo quasi sempre filetti di tonno integri, mentre nella scatoletta di latta vi sono per lo più pezzi misti e resti di lavorazione dei filetti. I filetti interi sono più magri e pregiati rispetto ai pezzi misti, i quali possono includere qualsiasi parte del pesce. Solitamente, anche il prezzo dei due prodotti è differente, dal momento che il tonno in vetro costa di più. Non si tratta, a ogni modo, di regole sempre valide. Inoltre è possibile trovare barattoli di vetro con tonno pinne gialle ma non in filetti, bensì in ritagli e pezzi misti: in questi casi, il valore dei grassi nella tabella nutrizionale è alto proprio perché i pezzi misti non sono magri come i filetti interi. Per questo motivo è necessario prestare attenzione anche ai valori di grassi e proteine che leggete sulla tabella nutrizionale della confezione. Il valore di proteine deve aggirarsi attorno ai 26-27 grammi (può arrivare fino a 31 grammi, in alcuni casi), mentre quello di grassi varia a seconda che si tratti di filetti interi o di pezzi misti: quello all’olio varia dai 7 grammi per i filetti a circa 13-14 grammi per i pezzi misti.
Nel tonno al naturale, invece, i valori dei grassi sono molto più bassi. Questo ci fa capire che non è il vetro di per sé a rendere il tonno di qualità superiore, ma è il tipo di tonno (striato o pinne gialle) e la tipologia di taglio delle carni del pesce che viene utilizzata (filetti o pezzi misti).
Un discorso a parte va fatto per quanto riguarda la salubrità e l’impatto ambientale delle confezioni in lattina e in vetro. Chiaramente il vetro è meglio, non rilascia alcuna sostanza nel prodotto e ha costi ambientali molto minori rispetto alle latte in alluminio, che sono rivestite di una patina di plastiche industriali, che comprendono sostanze tossiche come i bisfenoli (sia il famigerato bisfenolo A che altri).
La zona di pesca (Zone FAO)
Dopo l’incidente di Fukushima del 2011, la zona FAO 61, relativa al Mar del Giappone, desta preoccupazione per i livelli di radioattività
Un altro aspetto importante da considerare per i consumatori è la zona di pesca, ovvero da quale mare proviene il tonno che stiamo acquistando. Per saperlo è sufficiente leggere l’etichetta e le scritte sulla confezione del prodotto. Per legge è infatti obbligatorio indicare anche la zona FAO di pesca del pesce in vendita al supermercato o in pescheria, seguita dal numero che identifica la zona di provenienza. Le zone FAO della pesca sono aree oceaniche e marine, suddivise dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO), per facilitare la gestione sostenibile delle risorse ittiche e per la tracciabilità dei prodotti. Ogni zona è identificata da un codice numerico e serve a monitorare le attività di pesca e gli stock ittici. Ad esempio, la pesca nel Mar Mediterraneo è indicata con la zona FAO 37.
Per legge la zona di pesca deve essere riportata su tutti i prodotti venduti, compreso il tonno in scatola
Che zone FAO dobbiamo scegliere come consumatori? Bisognerebbe evitare il pesce che proviene da mari e zone oceaniche notoriamente molto inquinati o contaminati, come ad esempio le zone FAO 61, 67 e 71. La zona FAO 61 in particolare (Mar del Giappone), desta molte preoccupazioni a causa dell’esplosione di ben 4 reattori nucleari nella centrale di Fukushima Daiichi, a seguito dello tsunami del marzo 2011. Gli studi condotti nella zona circostante hanno confermato livelli di radiazione nucleare alti abbastanza da contaminare la vita nei mari e quindi la salubrità dei pesci che ci vivono. Sebbene la pesca sia consentita in questi mari, è dunque tuttavia preferibile, in via precauzionale, non acquistare il pesce radioattivo che arriva dalla zona FAO 61.
La composizione del prodotto
Anche nella scelta di questo alimento vale la regola aurea che consigliamo per ogni prodotto: meno ingredienti ci sono, meglio è. Tipicamente, le conserve di tonno si compongono solo di 3 ingredienti: tonno, olio, sale (se è al naturale, tonno, acqua e sale). Il consumo del tonno sott’olio comporta naturalmente una maggior quantità di calorie e grassi nel piatto rispetto a quello al naturale e questo vale anche se dovessimo scolare ed eliminare tutto l’olio del vasetto, in quanto una parte di esso penetra comunque nelle carni. Tra olio extravergine di oliva, olio d’oliva e olio di girasole, le tre varianti presenti nel tonno in scatola, è da preferire il primo: gli altri due sono infatti oli raffinati con un profilo di acidi grassi non salutare.
Sostenibilità ambientale
Dal punto di vista ambientale i prodotti più sostenibili sono quelli con la dicitura “pescato a canna”, che indica che non vengono utilizzate le enormi reti a strascico tipiche della pesca industriale selvaggia e indiscriminata. Questa comporta infatti la cattura di specie protette come i delfini, che spesso possono finire per sbaglio dentro le grandi reti. A tale proposito, un altro bollino e certificazione che troveremo spesso sulle confezioni al supermercato è “Dolphin Safe”, a indicare un metodo di pesca che riduce (ma non elimina del tutto) la cattura dei delfini. Oggi questa certificazione risulta superata, in quanto non più sufficiente a garantire la sostenibilità della pesca, ed è stata sostituita da altre certificazioni come la MSC, la principale a livello internazionale. MSC è un’organizzazione internazionale no-profit nata per promuovere una pesca sostenibile.
La dicitura “prima scelta” che troviamo in alcune scatolette di tonno, si può ignorare in quanto non corrisponde a nessuna indicazione concreta, si tratta di un semplice claim pubblicitario.
La contaminazione da metalli pesanti
Il tonno, come molti pesci di grossa taglia, accumula nelle carni grandi quantità di metalli pesanti come mercurio e piombo
Altra questione molto dibattuta negli ultimi anni è quella relativa ai contaminanti tossici come mercurio, piombo, cadmio, presenti nelle acque degli oceani a causa del crescente inquinamento di navi merci, navi da crociera e navi per trasporto passeggeri, oltre a tutti gli scarichi che da terra le attività civili e industriali dell’uomo riversano in mare.
Queste sostanze passano dalle acque dei mari alle carni dei pesci e alla fine della catena giungono nei nostri piatti (in aggiunta alle microplastiche, altro contaminante marino). Ad accumularne nell’organismo grandi quantità, soprattutto di mercurio e piombo, sono soprattutto i pesci di grossa taglia, quali tonni e pesci spada. Inevitabilmente, di conseguenza, li assumiamo anche noi consumatori. Si tratta di metalli estremamente pericolosi, tali da essere definiti neurotossine in grado di danneggiare il cervello e da destare anche le preoccupazioni del massimo ente a tutela della salute pubblica mondiale, l’OMS. I pesci di grossa taglia vivono per più tempo in mare e dunque incamerano quantitativi maggiori di questi metalli tossici, rispetto ai pesci di piccola taglia.
L’OMS suggerisce alle donne incinte e ai bambini di non consumare più di 170 grammi di tonno in scatola alla settimana, a causa dei potenziali danni a cervello e sistema nervoso causati da mercurio, piombo, cadmio e altri metalli pesanti. Pensiamo solo al fatto che a Minamata, una piccola cittadina del Giappone, l’intossicazione da mercurio nel pesce ha ucciso e reso cognitivamente instabili numerosi soggetti negli anni ’50.
Asta al mercato del tonno di Nachikatsuura, sulla penisola di Kii, in Giappone
In Italia, i consumi di tonno in scatola costituiscono il 20-25% del consumo complessivo di pesce. Alcune persone mangiano solo tonno in scatola quando si tratta di pesce, ma in realtà il consumo di questo alimento costituisce un aspetto da ponderare e tenere sotto attento controllo nella nostra dieta, non superando le dosi massime consigliate dall’OMS per scongiurare i pericoli della tossicità del mercurio e degli altri metalli pesanti. Per gli adulti, le dosi massime consigliate dall’OMS per un consumo settimanale sono di 340 grammi circa, il doppio di quelle consigliate per i bambini e le donne incinte. Da sottolineare un aspetto importante: nel mare esistono anche tonni e tonnetti di piccola taglia, come ad esempio la palamita o il tombarello (che raggiungono al massimo 1,5 kg di peso), e di taglia media, come il tonno alalunga e il tonno alletterato (che arrivano al peso massimo di 15-25 kg e 1 metro di lunghezza). Questi pesci incamerano meno metalli pesanti del loro cugino tonno a pinna gialla di grossa taglia e hanno una vita media più breve. Ciò significa che quando li troviamo dal pescivendolo possono essere acquistati e consumati come qualsiasi altro pesce di piccola taglia, come lo sgombro, anche perché tutti i tonni appartengono alla categoria del pesce azzurro e sono pertanto ricchi di grassi buoni omega-3, a noi favorevoli.
Per quanto concerne la tossicità da mercurio e piombo nelle carni dei pesci, va detto che essa è mitigata e tenuta sotto controllo da un altro minerale prezioso e importante per la salute umana: il selenio. Questo minerale per fortuna è presente in elevata quantità nei pesci marini, perché si trova nell’acqua di mare e pertanto viene incamerato dai pesci. Il selenio è un minerale con un’azione antagonista nei confronti del mercurio. Questo significa che il selenio può legarsi al mercurio, riducendone la tossicità e proteggendo l’organismo dai suoi effetti dannosi. Sono diversi gli studi scientifici che mostrano come il selenio sia in grado di neutralizzare il mercurio e i suoi effetti tossici, anche per quanto riguarda il consumo di pesci come il tonno o il pesce spada, che sono quelli con i più alti quantitativi di mercurio. In realtà, il pesce che accumula più mercurio nelle sue carni è lo squalo, di cui esistono vari esemplari e alcuni li mangiamo sotto forma di tranci, ad esempio come la verdesca. Secondo il Prof. Nicholas Ralston, biochimico e biologo presso l’università del Nord Dakota negli USA, il selenio ha una speciale affinità di legame con il mercurio, che gli permette di attaccarsi a quest’ultimo in un rapporto di uno a uno, in modo che le molecole di mercurio, che altrimenti causerebbero danni, risultino in vece virtualmente “ammanettate” e quindi impossibilitate a reagire con l’organismo umano. Nel corso di una importante conferenza internazionale sul selenio tenutasi a Stoccolma nel 2017, il Prof. Ralston ha riferito che «il mercurio prende di mira proprio il selenio e distrugge delle selenoproteine importanti, per questo è fondamentale mantenere dei quantitativi adeguati di selenio nell’organismo». Vi sono chiaramente anche altre ricerche scientifiche dove si spiega il ruolo protettivo del selenio nei confronti del mercurio, in riferimento al consumo di pesce.
Palamite (Sarda Sarda), che, insieme ad altri pesci azzurri, sono una valida alternativa al tonno
In conclusione, appare importante conoscere questi aspetti al fine di poter continuare a mangiare con serenità un alimento così prezioso come il pesce e in particolare il tonno, ricco di vitamina D, iodio, selenio, proteine di alto valore biologico e grassi antinfiammatori come gli omega-3.
Ieri, 22 settembre, nelle piazze di tutta Italia, si è tenuto lo sciopero generale per la Palestina. Le manifestazioni avevano un obiettivo ben preciso: «bloccare tutto», per mostrare sostegno alla popolazione palestinese. Così è stato: i dimostranti hanno invaso piazze, autostrade, ferrovie, interrotto i servizi e scioperato da lavoro, dando luce a una delle manifestazioni generali più ingenti degli ultimi anni. La manifestazione di cui si è parlato maggiormente è quella di Milano, dove i tentativi di accedere ai binari sono sfociati in scontri con le forze dell’ordine: «Immagini indegne», sostiene la premier Meloni, «delinquenti», chiosa Salvini. Da destra a sinistra, tutto lo spettro della politica ha condannato i moti di «violenza» meneghini, con il sostegno della gran parte del panorama mediatico nazionale. In pochi, tuttavia, si sono concentrati sulle rivendicazioni delle manifestazioni che hanno travolto il Paese, che intendevano denunciare il genocidio palestinese e la complicità del governo italiano.
Lo sciopero generale per la Palestina è iniziato allo scattare della mezzanotte di ieri e ha interessato tutti i settori. In generale, le manifestazioni di ieri sono state talmente diffuse e partecipate che è difficile farne un bilancio completo. I primi presidi sono sorti sin dall’alba. La prima città a mobilitarsi è stata Livorno, dove i portuali si sono radunati alle 6 del mattino presso il Varco Valessini del porto cittadino. Alla provincia toscana ne sono seguite decine di altre, fino a raggiungere 80 presidi in tutto lo Stivale. Oltre a quello di Livorno, i manifestanti hanno bloccato i porti di Ancona, Genova, Marina di Carrara, Salerno e Marghera (Venezia). Le manifestazioni hanno interessato in generale tutto il settore della logistica, con diversi presidi in Toscana, e quello dei trasporti, con scioperi a Milano e occupazioni della metro a Brescia.
Oltre a porti e stazioni urbane, i dimostranti hanno interrotto il traffico stradale: a Firenze, i manifestanti hanno invaso l’autostrada A1, chiudendo il casello di Calenzano; a Genova è stata interrotta la A7, a Pisa è stata occupata la superstrada, e a Roma e a Bologna sono state invase le tangenziali. In diverse città i cortei sono entrati nelle stazioni: a Torino è stato interrotto il traffico sui binari, mentre a Napoli sono stati forzati i cancelli della stazione. Gli studenti liceali e universitari si sono sollevati in tutto il Paese da Bari a Bologna, da Lecce a Milano, per passare da Roma, Torino, Venezia e numerosi altri atenei. Non è chiaro quante persone in totale abbiano partecipato alle varie manifestazioni del Paese, ma il numero sembra aggirarsi sull’ordine delle centinaia di migliaia. In diverse città si parla di presidi e marce partecipati da decine di migliaia di manifestanti: a Roma gli organizzatori hanno stimato la presenza di 100mila persone; a Bologna di 50mila; a Torino di 30mila; altre decine di migliaia sono scese in piazza a Genova, Milano, e Napoli mentre migliaia sono arrivate in Calabria, nelle Marche, in Puglia, nelle isole.
Nonostante la folla oceanica scesa in piazza in tutta Italia, i media e i politici hanno parlato prevalentemente di una manifestazione: quella di Milano. Qui, dopo avere percorso le strade della città da Piazzale Cadorna alla Stazione Centrale, un gruppo di manifestanti ha provato a irrompere all’interno della ferrovia utilizzando ombrelli, transenne, e strumenti di fortuna per sfondare le porte d’ingresso. In seguito alle tensioni sono stati arrestati 11 manifestanti (che si aggiungono agli 8 di Bologna) e feriti 60 agenti. “Quelli che rubano le manifestazioni”, titola Michele Serra su La Repubblica, in un articolo che esordisce con un immancabile riferimento a Putin; «centri sociali e giovani arabi devastano la città», scrive Il Giornale; «vergogna propal», Libero. Il Corriere, invece, dopo aver attribuito la responsabilità degli scontri ai «maranza», preferisce raccontare la storia dell’ottantottenne Luigi e della moglie Anna, bloccati in stazione mentre di sotto «i disordini della manifestazione per Gaza avevano invaso l’atrio».
La maggior parte dei media ha preferito dare risalto agli scontri a Milano come fatto isolato, oscurando le ragioni delle manifestazioni: mostrare sostegno al popolo palestinese, denunciare il genocidio in corso a Gaza, e supportare la missione della Global Sumud Flotilla. Questi temi dichiarati sono stati seguiti nel corso di tutta la giornata, in tutte le manifestazioni che hanno investito il Paese, ma, come già successo in occasione della manifestazione nazionale per la Palestina dello scorso aprile, stanno venendo ignorati da politica e media. Ad aprile a dominare la narrazione mediatica erano state le scritte sui muri contro Giorgia Meloni; oggi, invece, lo sono gli scontri in stazione. Lo sciopero generale di ieri è stato una delle manifestazioni più partecipate degli ultimi anni, ma nessuno sembra averlo notato. Mentre il genocidio in Palestina viene messo sullo sfondo dai media, lo sciopero segna così una netta spaccatura tra le posizioni della società civile e quelle della politica, che continua a sostenere lo Stato di Israele ignorando le sempre più ingenti mobilitazioni dal basso.
L’ex presidente filippino Rodrigo Duterte è stato incriminato dalla Corte penale internazionale (CPI) con tre capi d’imputazione per crimini contro l’umanità. Le accuse riguardano almeno 76 omicidi tra il 2013 e il 2018, commessi durante la sua “guerra alla droga”, sia nei suoi anni da sindaco di Davao City, sia durante la presidenza. Duterte era stato arrestato lo scorso marzo a Manila, nelle Filippine, e da allora si trova in detenzione preventiva all’Aia, nei Paesi Bassi, dove ha sede la Corte. Duterte è il primo leader non africano a essere stato arrestato su mandato della Corte, per crimini di guerra e contro l’umanità, ed è l’unico a essere attualmente in detenzione. Un’udienza preliminare per la conferma delle accuse è stata posticipata perché i giudici devono valutare se Duterte, ora ottantenne, sia in grado di seguire il processo, su richiesta della difesa che ne contesta lo stato di salute.
Un’ondata di maltempo eccezionale ha colpito gran parte del Centro-Nord Italia, seminando danni, paura e mettendo in ginocchio interi territori. Dalla Lombardia alla Liguria, dal Piemonte alla Toscana, fiumi esondati, frane e allagamenti hanno provocato evacuazioni, chiusure stradali e ferroviarie, e messo a dura prova i soccorsi. A Milano, l’esondazione del fiume Seveso ha allagato quartieri e richiesto l’evacuazione di una scuola, mentre in Liguria il fiume Bormida ha superato la soglia di guardia. Nel frattempo, i vigili del fuoco sono alla ricerca di una cittadina tedesca dispersa in provincia di Alessandria, in Piemonte. Le criticità restano alte, con allerta arancione ancora in vigore in diverse regioni.
Il Dipartimento della Protezione Civile ha mantenuto l’allerta arancione per oggi, martedì 23 settembre, in Lombardia, Veneto e Lazio, e gialla su un’ampia fetta del Centro-Nord. Il cuore della crisi è in Lombardia. A Milano, il fiume Seveso è esondato nella zona nord, nel quartiere di Niguarda, dopo che la vasca di laminazione, entrata in funzione ieri alle 7.50, si è riempita in poche ore. L’esondazione, durata circa nove ore, ha allagato strade, invaso cantine e causato blackout. Particolarmente critica la situazione alla scuola di via Val Cismon, evacuata in serata dopo che i bambini erano rimasti bloccati per ore; i vigili del fuoco hanno compiuto oltre cento interventi in città. La provincia di Monza e Brianza è stata travolta da una vera e propria piena. A Meda, il Seveso e il torrente Tarò sono esondati, inghiottendo auto e costringendo il Comune a diramare un avviso urgente alla popolazione: «Uscite di casa solo in caso di bisogno». Riprese aeree mostrano veicoli sommersi dall’acqua. Criticità anche a Bovisio Masciago, dove alcune persone sono rimaste intrappolate in auto sulla strada statale Saronno-Monza. Nel Comasco, a Cabiate, sono in corso evacuazioni con l’elicottero di persone bloccate ai piani alti delle abitazioni. La provincia è paralizzata: una frana ha chiuso la statale Lariana tra Como e Blevio, mentre il capoluogo lariano è sott’acqua, con un fiume di fango che ha invaso la zona della stazione, costringendo all’evacuazione di due famiglie.
In Liguria, l’allerta arancione ha portato alla chiusura delle scuole in tutti i capoluoghi, ad eccezione di Imperia. La Val Bormida nel Savonese è l’area più colpita: il fiume è esondato a Dego e Cairo Montenotte, dove l’ospedale San Giuseppe ha subito danni. A Dego sono caduti fino a 413 millimetri di pioggia in sole otto ore. Le intense precipitazioni hanno causato frane e allagamenti diffusi, portando alla chiusura di tratti della statale Savona-Torino e alla sospensione del traffico ferroviario sulla linea Savona-Alessandria. Proprio in provincia di Alessandria si registra un disperso: si tratta di una cittadina tedesca dispersa nel torrente Valla, a Spigno Monferrato. Sul posto sono impegnati una trentina di vigili del fuoco, supportati da droni e dall’elicottero Drago per il monitoraggio aereo della zona. La perturbazione non ha risparmiato altre regioni. In Toscana, una tromba d’aria ha danneggiato stabilimenti balneari in Versilia, mentre nubifragi hanno allagato il Grossetano e l’Isola d’Elba. In Valle d’Aosta, una frana ha chiuso una strada regionale.
L’invito ai cittadini nelle aree più a rischio fatto pervenire dalla Protezione Civile è di massima prudenza: evitare parchi, sottopassi e zone vicino ai corsi d’acqua, mentre le squadre di soccorso sono al lavoro per far fronte a un’emergenza che, con il persistere delle piogge, rischia di aggravarsi.
Il Pentagono ha introdotto nuove restrizioni per l’accesso dei media, come annunciato in un memorandum diffuso dal portavoce capo Sean Parnell e anticipato già a maggio dal Segretario della Guerra, Pete Hegseth. Le direttive obbligano i giornalisti accreditati a firmare un impegno formale con cui dichiarano di non poter diffondere informazioni non autorizzate senza l’approvazione preventiva di un funzionario designato. A differenza del passato, quando la stampa godeva di un accesso quasi illimitato e paragonabile a quello del Campidoglio, con la possibilità di muoversi liberamente all’interno dell’edificio e intercettare funzionari o generali in visita, d’ora in poi l’accesso sarà rigidamente regolato e controllato. Le nuove credenziali sostituiranno quelle esistenti e saranno soggette a rinnovi più frequenti, mentre il transito all’interno del Pentagono verrà limitato a zone prestabilite, spesso solo se accompagnati da personale autorizzato. In caso di violazione, la sanzione sarà il ritiro immediato dell’accredito e l’esclusione dalla copertura giornalistica delle attività del Dipartimento della Guerra (nuovo nome del Dipartimento della Difesa). Il provvedimento riguarda non solo le informazioni classificate, ma anche quelle considerate “sensibili” o “non autorizzate”, una definizione volutamente ampia che affida al Pentagono il potere di stabilire cosa può o non può essere pubblicato.
Il portavoce del Pentagono, Sean Parnell, ha giustificato le nuove direttive con la necessità di rafforzare la sicurezza operativa e prevenire fughe di notizie sensibili. Hegseth su X ha voluto invece rimarcare la natura politica del cambio di passo, dichiarando che la stampa non ha alcun diritto di dettare le regole all’interno dell’edificio simbolo della difesa americana: «Non è la stampa a gestire il Pentagono, ma il popolo. O si seguono le regole o si va a casa». Le reazioni non si sono fatte attendere e hanno attraversato il mondo dell’informazione come un fulmine. Giornalisti, associazioni e sindacati della stampa hanno parlato apertamente di censura preventiva, considerata dalla giurisprudenza statunitense una delle violazioni più gravi della libertà di stampa, richiamando il principio del Primo Emendamento della Costituzione americana. Il National Press Club ha chiesto al Pentagono di revocare le nuove regole e ha sottolineato che, se ogni notizia deve ottenere il timbro del governo prima della pubblicazione, i cittadini finiranno per leggere soltanto ciò che le autorità vogliono rendere pubblico. La Society of Professional Journalists ha definito la misura un caso da manuale di “prior restraint” (“censura preventiva”), espressione che indica nel diritto costituzionale statunitense qualsiasi misura con cui lo Stato impedisce in anticipo la pubblicazione o la diffusione di informazioni, articoli o notizie. Anche i grandi quotidiani americani, dal Washington Post al New York Times, hanno espresso preoccupazione per l’impatto di queste misure, che rischiano di ridurre il giornalismo a mera cassa di risonanza della propaganda ufficiale. Il dibattito ha assunto subito una dimensione politica, con l’amministrazione pronta a difendere la scelta in nome della sicurezza nazionale, mentre le organizzazioni per i diritti civili avvertono che la definizione troppo ampia di “informazioni non autorizzate” potrebbe trasformarsi in un grimaldello per colpire qualsiasi inchiesta scomoda. Il nodo costituzionale rimane centrale: imporre l’approvazione preventiva anche su materiale non classificato significa di fatto alterare l’equilibrio tra potere esecutivo e libertà di informazione, creando un precedente che mina l’indipendenza della stampa e rischia di restringere lo spazio di trasparenza all’interno delle istituzioni democratiche.
Non si tratta di un fulmine a ciel sereno. Negli ultimi anni, il rapporto tra Pentagono e media si era già irrigidito, con restrizioni crescenti sull’accesso degli inviati, limitazioni logistiche e una progressiva riduzione degli spazi di autonomia. Con le direttive di Hegseth, però, la soglia è stata superata: non si parla più soltanto di accesso contingentato, ma di controllo diretto sui contenuti. È un passaggio che ridefinisce il confine tra sicurezza nazionale e diritto a informare, segnando un punto di non ritorno nelle relazioni tra potere militare e stampa. I rischi sono evidenti. La nuova disciplina può indurre testate e giornalisti a praticare l’autocensura pur di mantenere l’accredito, riducendo la capacità di portare alla luce scandali, abusi o decisioni discutibili. Il controllo pubblico sulle operazioni militari, già difficile in un contesto dominato dal segreto, rischia così di diventare quasi impossibile. Inoltre, l’esempio del Pentagono potrebbe aprire la strada a misure analoghe in altre agenzie federali, contribuendo a diffondere una cultura della segretezza istituzionalizzata. Sul piano giuridico non è escluso che la partita si sposti presto nei tribunali, con associazioni e gruppi per i diritti civili pronti a contestare la costituzionalità del memorandum. Il Congresso potrebbe a sua volta intervenire, se la pressione dell’opinione pubblica dovesse crescere. Nel frattempo, a livello internazionale, la vicenda rischia di minare ulteriormente l’immagine degli Stati Uniti come paladini della libertà di stampa, proprio in un’epoca in cui Washington rivendica di difendere i valori democratici contro i regimi autoritari ma, si sta incamminando progressivamente lungo la china della deriva autoritaria, strumentalizzando l’omicidio di Charlie Kirk per silenziare i “nemici” interni, punire il dissenso e militarizzare il Paese. Il cambio di nome del Dipartimento della Difesa in “Dipartimento di Guerra” non è soltanto simbolico: in tempi di conflitto e disordine mondiale, anche la libertà di stampa viene compressa, fino a rischiare di soccombere. Il bavaglio imposto al Pentagono non è quindi soltanto una questione interna, ma un banco di prova che riguarda l’intero sistema democratico. La posta in gioco è chiara: la possibilità, per i cittadini americani e per l’opinione pubblica mondiale, di continuare ad accedere a informazioni libere, pluralistiche e indipendenti sulle decisioni del Paese più potente del mondo.
La Disney ha annunciato che “Jimmy Kimmel Live!” tornerà in onda martedì, sei giorni dopo la sospensione decisa a seguito di un monologo del conduttore in cui aveva accusato il movimento MAGA di aver strumentalizzato la morte dell’attivista conservatore Charlie Kirk. La decisione era arrivata dopo le pressioni da parte della Casa Bianca e di Brendan Carr, presidente della Federal Communications Commission (FCC), che aveva condannato pubblicamente le affermazioni di Kimmel, avvertendo Disney e ABC che sarebbero potute arrivare conseguenze regolatorie se non fossero stati presi provvedimenti. Disney afferma che il ritorno dello show è stato deciso dopo “conversazioni approfondite” con Kimmel. Turning Point USA, l’organizzazione fondata da Charlie Kirk, ha criticato la scelta della rete di far tornare lo show sugli schermi, denunciando una resa alle pressioni. Il caso ha acceso un dibattito sulla libertà di espressione nei media, sui limiti del commento satirico politico e sul ruolo delle emittenti nel gestire contenuti controversi.
Con l’avvio dell’ottantesimo ciclo dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite altri dieci Paesi si sono uniti alla lista degli Stati che riconoscono la Palestina. Si tratta di Andorra, Australia, Belgio, Canada, Francia, Lussemburgo, Malta, Monaco, Portogallo e Regno Unito, a cui nei prossimi giorni potrebbero seguire altri Stati. Tra questi ultimi, tuttavia, non figura l’Italia: davanti a una platea di rappresentanti che annunciavano il proprio riconoscimento della Palestina, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha detto che «l’Italia supporta con forza il sogno del popolo palestinese di avere uno Stato»; l’ennesima dichiarazione verbale priva di reale contenuto, volta a mostrare il sostegno italiano alla causa palestinese solo attraverso slogan e frasi fatte, rilasciata mentre nelle piazze di tutto il Paese centinaia di migliaia di persone manifestavano il proprio supporto concreto alla Palestina.
Gli ultimi riconoscimenti della Palestina da parte degli Stati dell’ONU sono stati inaugurati domenica 21 settembre da Canada, Portogallo e Regno Unito. Ieri, si sono uniti all’appello anche gli altri sette Paesi, che hanno così portato il numero di Stati membri dell’ONU che riconoscono la Palestina a 157 su un totale di 193, tra cui figurano anche i tre membri del G7 appena aggiuntisi (Canada, Francia e Regno Unito). Il ministro degli Esteri del Belgio ha spiegato alla emittente RTL Info che riconoscerà la Palestina in due fasi: prima «politicamente» per dare «un forte segnale diplomatico» nell’attuale momento di crisi; poi arriverà «il momento della formalizzazione giuridica tramite decreto reale». Gli annunci dei dieci Paesi arrivano dopo quello rilasciato dal presidente francese Macron lo scorso luglio, che ha dichiarato che la Francia avrebbe riconosciuto la Palestina con l’avvio del nuovo ciclo dell’Assemblea Generale dell’ONU. Le dichiarazioni di Macron hanno aperto la porta ad analoghi annunci, che si stanno lentamente concretizzando. Tra i Paesi che stanno valutando il riconoscimento della Palestina figurano ancora almeno Lichtenstein, Nuova Zelanda e San Marino.
Il recente slancio dei Paesi occidentali nel riconoscimento dello Stato di Palestina arriva dopo un primo moto avviato l’anno scorso da diversi altri Stati tra cui figurano Irlanda, Slovenia e Spagna. Con queste nuove aggiunte, la maggioranza dell’UE riconosce ufficialmente lo Stato di Palestina; tra i maggiori Paesi comunitari, continuano tuttavia a mancare all’appello l’Italia e la Germania, altri due membri del G7. Le parole usate ieri da Tajani sono in linea con le dichiarazioni rilasciate negli ultimi due anni dal governo italiano: forti nei toni, vuote nei fatti. L’Italia, ha detto il ministro, crederebbe fortemente nella soluzione a due Stati e appoggerebbe l’istituzione di uno Stato palestinese; nonostante ciò, non ha intenzione di riconoscerlo. L’esecutivo ha spesso sostenuto che un riconoscimento formale della Palestina sarebbe controproducente schierandosi più volte a favore di un riconoscimento soggetto al benestare e alle condizioni israeliane. Per quanto gli altri Paesi abbiano fatto passi avanti formali nel riconoscimento della Palestina, le condizioni italiane non differiscono troppo da quelle degli altri Stati. La Palestina che è stata riconosciuta dalla Francia è infatti uno Stato soggetto a supervisione politica e militare esterna, e ancora lontano dall’esistenza di fatto; per permettere realmente l’istituzione di una entità palestinese, andrebbe infatti fermato il genocidio in Palestina, attraverso misure concrete contro lo Stato di Israele, come sanzioni, embargo e sospensioni degli scambi commerciali e istituzionali.
Ventisei persone sono state arrestate nell’operazione “Res Tauro” contro la potente cosca Piromalli, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria e condotta dai carabinieri del Ros. Tra i fermati figura il boss ottantenne Pino Piromalli, detto “Facciazza”, già detenuto per 22 anni al 41 bis e scarcerato nel 2021, ora indicato come capo e promotore del clan di Gioia Tauro. Gli indagati devono rispondere di associazione mafiosa, estorsione, riciclaggio, armi e altri reati aggravati dal metodo mafioso. L’inchiesta, guidata dal procuratore aggiunto Stefano Musolino, ha ricostruito gli assetti della cosca.
Nella sera di ieri, lunedì 22 settembre, Danimarca e Norvegia hanno detto di avere registrato la presenza di droni non identificati nel proprio spazio aereo. Il primo rilevamento è avvenuta attorno alle 20:30, presso l’aeroporto della capitale danese, Copenaghen; le autorità sostengono di avere registrato l’attività di due o tre droni senza riuscire a identificarli e hanno disposto la chiusura dell’aeroporto, che ha sospeso le proprie attività per circa quattro ore. Il secondo rilevamento è avvenuto verso mezzanotte nella capitale norvegese, Oslo, dove sarebbe stato presente un drone; anche in questo caso, l’aeroporto è stato chiuso. Le autorità dei due Paesi stanno collaborando nelle indagini sulla provenienza dei velivoli.
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