Rispunta anche quest’anno, tra gli emendamenti alla legge di bilancio, il voucher da 1.500 euro per chi iscrive i figli alle scuole paritarie di primo e secondo grado. La misura, avanzata da Mariastella Gelmini per Noi Moderati, si aggiunge a quella portata avanti dalla Lega, a firma di Massimiliano Romeo, che vorrebbe esentare le paritarie dal pagamento dell’IMU. Le opposizioni denunciano l’ennesimo privilegio concesso agli istituti privati, accusando il Governo di continuare ad avvantaggiare le scuole private e sottrarre risorse al sistema statale.
L’emendamento, sostenuto da Forza Italia e Fratelli d’Italia, prevede che il contributo venga corrisposto alle famiglie con un ISEE sotto i 30 mila euro, limitatamente al primo anno di iscrizione. Il voucher, secondo la maggioranza, consentirebbe alle famiglie “di ceto medio” di orientarsi verso la scuola ritenuta più adatta ai figli, riducendo i costi delle rette delle paritarie. Per coprire il costo della misura, stimato in 20 milioni di euro, Noi Moderati intende provvedere con un taglio al fondo per gli interventi strutturali di politica economica. Le opposizioni respingono questa impostazione, parlando apertamente di un “regalo” mascherato da misura sociale, ricordando che le scuole paritarie non sono istituzioni pubbliche e che la Costituzione, pur prevedendo la libertà di istituire scuole non statali, stabilisce che esse non debbano gravare sulle finanze dello Stato. Il timore, sottolineano PD, M5S e Alleanza Verdi-Sinistra, è che la misura alimenti un sistema educativo parallelo, sostenuto con fondi pubblici, ma privo degli obblighi della scuola statale, contribuendo a una progressiva privatizzazione dell’istruzione. Il favore dell’attuale esecutivo alle scuole paritarie è stato ben espresso dalla stessa premier Meloni ad agosto, dal palco del Meeting di Rimini: «L’Italia rimane l’ultima Nazione in Europa senza un’effettiva parità scolastica, e io credo che sia giusto ragionare sulla questione con progressività, con buonsenso, ma soprattutto sgombrando il campo da quei pregiudizi ideologici che per troppo tempo hanno impedito di affrontare seriamente il tema».
La tendenza a elargire sempre più fondi statali alle scuole paritarie è cominciata, però, ben prima dell’insediamento dell’attuale esecutivo. Nel 2020, gli istituti paritari avevano ricevuto ben 150 milioni di euro di fondi del PNRR dal governo. Nel 2022, all’interno della legge di bilancio, il governo Meloni aveva previsto un finanziamento di 70 milioni di euro agli istituti paritari. Successivamente, attraverso due decreti firmati dal ministro per l’Istruzione Valditara, il governo aveva stanziato per l’anno 2024-2025 750 milioni di euro per le scuole paritarie, con un aumento di ben 50 milioni rispetto all’anno precedente. Nel 2024, ad avanzare un contributo di 1.500 euro per le famiglie che avessero scelto le scuole paritarie per l’istruzione dei propri figli era stato Fratelli d’Italia a firma dei deputati Lorenzo Malagola e Giovanni Coppo, scatenando le critiche feroci delle opposizioni. La differenza rispetto al voucher proposto oggi da Noi Moderati era sostanzialmente la soglia del reddito, fino a 40 mila euro. Alla fine, la polemica aveva portato a una marcia indietro e l’emendamento non era stato approvato.
Secondo associazioni di docenti, sindacati e analisti, l’aumento dei fondi alle paritarie rischia di sottrarre risorse a un sistema pubblico già provato da organici instabili, edifici inadeguati e investimenti insufficienti. La costante crescita dei finanziamenti statali alle scuole private è parte di un processo iniziato anni fa, alimentato da politiche di liberalizzazione che hanno spinto l’istruzione verso logiche sempre più di mercato. Già nella prima manovra dell’attuale governo la scuola pubblica è risultata marginale, mentre il sostegno alle paritarie è stato ulteriormente ampliato in continuità con gli esecutivi precedenti. Ne emerge una direzione chiara: il rafforzamento del privato procede insieme al progressivo indebolimento del sistema statale, delineando un modello educativo che rischia di spostare l’attenzione dall’interesse collettivo alle dinamiche del mercato.
La Polonia ha temporaneamente chiuso gli aeroporti di Rzeszów e Lublino, nel sud-est del Paese, mentre i raid russi attaccavano le città di Leopoli e Ternopil nell’Ucraina occidentale. Per precauzione, Varsavia ha fatto decollare aerei polacchi e alleati per proteggere il proprio spazio aereo. Anche la Romania ha fatto decollare i suoi aerei da combattimento questa mattina presto dopo una nuova incursione di droni nel suo territorio.
I sindacati hanno annunciato la rottura con il governo, lo stop delle trattative sul futuro di Acciaierie d’Italia e uno sciopero di 24 ore. I lavoratori dello storico sito siderurgico dell’ex Ilva a Genova hanno occupato lo stabilimento e avviato un corteo verso la stazione di Cornigliano, proclamando un presidio a oltranza per protestare contro il blocco degli impianti del Nord e un piano che prevede l’aumento della cassa integrazione straordinaria fino a 6 mila persone. Le sigle sindacali denunciano che nella città potrebbero essere a rischio circa mille posti di lavoro.
Le principali testate di otto Paesi occidentali hanno sistematicamente privilegiato la narrazione israeliana e marginalizzato le prospettive palestinesi nella copertura del genocidio di Gaza, omettendo le loro rivendicazioni storiche e il contesto dell’occupazione. È quanto rivela il rapporto di Media Bias Meter, Framing Gaza: A Comparative Analysis of Media Bias in Eight Western Outlets, che ha analizzato 54.449 articoli pubblicati in cento settimane, dal 7 ottobre 2023 ad agosto 2025, dallo statunitense The New York Times, dalla britannica BBC, dal canadese The Globe and Mail, dal francese Le Monde, dal tedesco Der Spiegel, dal belga La Libre Belgique, dall’italiano Corriere della Sera e dall’olandese De Telegraaf. Dalla ricerca emerge uno schema coerente: una distorsione strutturale del racconto a favore del frame israeliano. Il risultato è un’informazione che, pur proclamandosi equilibrata, finisce per legittimare la violenza di Stato come «autodifesa», normalizzare l’occupazione e relegare le vittime palestinesi a un ruolo secondario, deumanizzandole e filtrandole attraverso «la lente del terrorismo».
Il pregiudizio che unisce i media occidentali
Lo studio mostra come, al di là delle linee ideologiche, l’architettura comunicativa risponda allo stesso schema: Israele al centro del discorso, la Palestina confinata a nota a margine o a cornice funzionale. La genesi di questo processo, sostiene G.G. Darwiche – coautrice del rapporto e portavoce del collettivo che riunisce professionisti della tecnologia che analizzano i bias dei media occidentali sulla Palestina per promuovere una narrazione più equa, sostenuto dalla coalizione TechforPalestine – risale almeno ai primi anni Duemila, in cui già diversi articoli descrivevano i palestinesi come «una minaccia per l’esistenza di Israele». «Non si tratta nemmeno di destra contro sinistra», continua Darwiche, smontando il mantra che vorrebbe il pluralismo politico come antidoto alla distorsione informativa. Dall’analisi delle testate emergono dei pattern chiari e definiti che trasformano «accuse vaghe di faziosità in prove inconfutabili». La sorpresa non è che mezzi di informazione esplicitamente conservatori alimentino tale narrazione, ma che i media centristi e progressisti – come il New York Times, Der Spiegel, Globe and Mail e BBC – risultino persino più sbilanciati di tabloid di destra come De Telegraaf. Secondo il rapporto, per preservare un’immagine moralmente accettabile di Israele presso un pubblico più critico, queste testate avrebbero «corretto eccessivamente», finendo per riprendere senza verifica le comunicazioni ufficiali israeliane e per mettere in ombra dati, testimonianze e violazioni documentate ai danni del popolo palestinese. «I media centristi o progressisti adottano forme di distorsione molto più sottili, ma costanti e pervasive, basate soprattutto sull’omissione del contesto, che finisce per cancellare la realtà dei fatti», spiega ancora Darwiche, che ci racconta come il gruppo di lavoro sia rimasto “sorpreso” dai risultati, essendo partito dall’ipotesi opposta, ossia che «i giornali di destra, populisti o conservatori, sarebbero risultati i più faziosi».
Come si costruisce il frame
il New York Times cita “Israele” 186 volte per ogni menzione di “Palestina”. E quando il termine “Palestina” compare (è il caso della BBC, con 80 titoli su 91), è quasi sempre per parlare di proteste, di reazioni internazionali o di scontri terminologici
Il conflitto in Medio Oriente viene spesso raccontato come una contrapposizione in cui l’esistenza di un popolo esclude quella dell’altro e in cui a essere sacrificati sono sempre i palestinesi. Questa logica si riflette nella narrazione mediatica, che li relega al ruolo di “antagonisti” e li frammenta in “abitanti di Gaza” o “della Cisgiordania”, evitando di riconoscerli come un unico popolo. E già l’analisi dei titoli è rivelatrice: il New York Times cita “Israele” 186 volte per ogni menzione di “Palestina”. E quando il termine “Palestina” compare (è il caso della BBC, con 80 titoli su 91), è quasi sempre per parlare di proteste, di reazioni internazionali o di scontri terminologici. In questo modo, la Palestina come soggetto politico svanisce, sostituita da un’astrazione. Il contesto dell’occupazione – cuore del conflitto – viene cancellato: su Der Spiegel, soltanto due articoli su oltre tremila riferimenti riconoscono i Territori Palestinesi come “occupati”. Il risultato è che si «oscura sia l’illegalità degli insediamenti sia le loro conseguenze materiali per i palestinesi». Agli artifici semantici si affianca la gerarchia dei temi: perfino durante la carestia, il lessico del “terrorismo” ha doppiato quello della “crisi umanitaria”, mentre il diritto all’“autodifesa” viene implicitamente riconosciuto a Israele, ma non ai palestinesi che vengono associati alla categoria di “terroristi”. In questo modo, «il lettore interiorizza il frame dei palestinesi come minaccia più che come vittime, e dell’azione militare israeliana come “risposta” anziché aggressione». BBC e Le Monde, in due terzi degli articoli, hanno riprodotto tale linguaggio, contribuendo a perpetuare stereotipi coloniali, dipingendo arabi e musulmani come intrinsecamente violenti, barbari e irrazionali.
Spersonalizzazione e disumanizzazione
Le accuse israeliane secondo cui i giornalisti palestinesi sarebbero militanti o simpatizzanti di Hamas vengono spesso accolte dai media quasi senza contestazione. A volte, basta aver intervistato un funzionario del governo di Hamas per essere etichettati come “operativi” o collusi con l’organizzazione. La disumanizzazione emerge anche nel modo in cui i minori palestinesi vengono descritti. Bambini detenuti in regime amministrativo e spesso senza accuse, raramente vengono chiamati per quello che sono: “bambini”. Al loro posto compaiono etichette come “adolescenti” o “giovani adulti”. Questo “rebranding” li priva della loro infanzia e ne attenua l’innocenza e la vulnerabilità, rendendo la loro detenzione più accettabile. Così, il ricorso a frasi-template, ripetute ossessivamente centinaia di volte, fissa il frame “Israele risponde al 7 ottobre”. Emblematica la diffusione, mai verificata né tantomeno rettificata, di fake news usate per presentare la risposta israeliana come “inevitabile”. È il caso di Der Spiegel e del Corriere della Sera, che hanno rilanciato la falsa storia dei “bambini decapitati”, senza poi smentirla né correggerla, mostrando come narrazioni emotive e sensazionalistiche possano oscurare i fatti e alimentare processi di disumanizzazione.
Ciò che non si dice: diritto al ritorno, Nakba e lessico militarizzato
Palestinesi detenuti durante la cosiddetta ”Nakba” del 1948
Un altro aspetto rivelatore è ciò che l’informazione sceglie sistematicamente di non dire. Il rapporto mostra come concetti fondamentali per comprendere la storia palestinese – dal “diritto al ritorno” alla Nakba – siano quasi assenti dal lessico mediatico: in oltre 50.000 articoli, il diritto al ritorno viene citato solo 38 volte, mentre i riferimenti alla Nakba compaiono raramente e spesso in forma edulcorata, come una “fuga” o un “esodo”. Allo stesso tempo, espressioni desunte dal linguaggio militare, come “attacchi di precisione” o “scudi umani”, ricorrono decine di volte in tutte le testate, contribuendo a costruire un’immagine di razionalità, controllo e necessità. Ancora più sbilanciata è la copertura del “diritto all’esistenza”, invocato per Israele in modo schiacciante rispetto alla Palestina, quasi che il riconoscimento di un popolo debba essere meritato e non intrinseco. Sommati, questi elementi concorrono a rimuovere la dimensione coloniale del conflitto e trasformano una popolazione assediata in un soggetto privo di diritti.
Cosa resta nella memoria collettiva
Le conseguenze non sono solo simboliche: i frame mediatici orientano la percezione pubblica, le scelte dei governi e, più in generale, ciò che passerà alla storia. «Raccogliere ora le prove di un inquadramento fazioso garantisce che il resoconto non possa essere cancellato», si legge nel report. Un’informazione che minimizza le violazioni, che evita parole come “blocco”, “apartheid”, “insediamenti illegali”, produce un immaginario depoliticizzato, dove la sofferenza palestinese appare inevitabile, quasi naturale. È in questo vuoto che si legittimano politiche estere compiacenti, ritardi nelle condanne e ambiguità diplomatiche. Il metodo impiegato dal rapporto non pretende di misurare l’intero spettro delle responsabilità giornalistiche, ma offre un dato oggettivo: l’omissione è una forma di parzialità quanto la menzogna. E quando coinvolge otto tra le più influenti testate occidentali, non è più un’anomalia: è un paradigma che impone di ripensare il ruolo dell’informazione, il suo rapporto con il potere e la sua capacità – o volontà – di raccontare ciò che avviene davvero, anche quando la verità disturba.
«Siamo sotto attacco: il tempo per agire è subito»: così riporta il documento redatto dal ministro della Difesa Guido Crosetto, ora al vaglio del Parlamento. A minacciare l’Occidente è l’Italia sarebbe la «guerra ibrida» portata avanti, in particolare, da Russia, Cina, Iran e Corea del Nord, combattuta tanto a colpi di disinformazione e pressione politica quanto di minacce cibernetiche. Per questo, l’Italia avrebbe bisogno della creazione di un’Arma Cyber, composta di almeno cinquemila unità tra personale civile e militare. La nuova unità sarebbe operativa tutto il giorno e tutti i giorni, contando su una capacità di 1.200-1.500 persone che aumenterebbero poi gradualmente. Solamente due settimane fa, Crosetto aveva dichiarato che l’esercito italiano avrebbe bisogno di almeno trentamila soldati in più.
Con «minaccia ibrida» si intendono «azioni coordinate in più domini condotte da attori statuali e non-statuali, al di sotto della soglia del conflitto armato e spesso non attribuibili, mirate a danneggiare, destabilizzare o indebolire». Si tratterebbe, in sostanza, della «disinformazione» e della «influenza politica» (tra le altre cose) esercitate dalla Russia, o della «strategia multi-vettoriale» della Cina, che «combina leve economiche, tecnologiche, informative e diplomatiche per indebolire l’UE e acquisire know-how strategico», o ancora di «azioni di terrorismo e attacchi cibernetici» da parte dell’Iran e dell’uso di «leve di pressione strategica» (quali «strumenti cibernetici, finanziari e informativi») da parte della Corea del Nord. A richiedere una protezione particolare, spiega il ministro, sarebbero tanto le infrastrutture critiche (energia, trasporti, telecomunicazioni, sanità, finanza) quanto la società civile, attraverso la costruzione di una resilienza alla disinformazione, alfabetizzazione digitale e co-regolamentazione dello spazio digitale. «Siamo sotto attacco e “bombe hybrid continuano a cadere”: il tempo per agire è subito», si legge nel rapporto.
I pericoli, per l’Italia, riguarderebbero in particolar modo settore energetico, infrastrutture critiche (porti, aeroporti, reti elettriche, sistemi di comunicazione) ed «ecosistema politico-sociale», il quale può essere oggetto di «ingerenze straniere, campagne di disinformazione e sfruttamento di divisioni sociali». Secondo il rapporto, nei primi sei mesi del 2025 sarebbero stati 1.549 gli «eventi cyber», in aumento del 53% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e il numero di «incidenti» confermato di 346 (+98%). Ad essere colpiti sarebbero soprattutto il settore sanitario e il comparto manufatturiero: «le nostre aziende sono bersagli facili», dichiara Crosetto. Per tale motivo sarebbe necessario, oltre al potenziamento di almeno «10/15 mila unità» degli organici militari dedicati al settore cyber, creare una vera e propria «Arma Cyber», composta di personale civile e militare per un totale di cinquemila unità, «con una prevalente componente operativa». Il primo obiettivo sarebbe quello di creare una capacità iniziale di 1.200-1.500 unità, successivamente potenziata.
L’Italia, insomma, si prepara alla guerra su tutti i fronti, facendo lievitare le spese per la Difesa alla cifra più alta di sempre (34 miliardi di euro previsti per il 2026). Solamente due settimane fa, infatti, il ministro aveva dichiarato che per essere pienamente efficiente e preparato alle minacce l’esercito italiano dovrebbe salire a duecentomila unità, aumentando di 30 mila il numero di uomini rispetto ai 170 mila attualmente disponibili.
Il Congresso degli Stati Uniti ha approvato una legge che obbliga il Dipartimento di Giustizia a rendere pubblici tutti i documenti relativi al caso Jeffrey Epstein entro 30 giorni dall’entrata in vigore. Il presidente Trump ha dichiarato di essere pronto a firmare il provvedimento. Intanto, l’ex segretario al Tesoro Larry Summers, che ha prestato servizio sotto la presidenza di Bill Clinton, ha annunciato che si ritirerà dagli impegni pubblici a seguito della pubblicazione di nuovi documenti riguardo allo stretto rapporto con Epstein.
A partire dal 2026, in Australia, milioni di famiglie potranno utilizzare l’elettricità senza pagarla per tre ore al giorno. Si tratta di un’iniziativa pubblica, battezzata “Solar Sharer”, pensata per sfruttare meglio l’energia solare prodotta durante il giorno, cercando di alleggerire la pressione sulla rete nazionale nelle ore serali. La misura prenderà il via in tre Stati - Nuovo Galles del Sud, Queensland sud-orientale e Australia Meridionale - dove il mercato elettrico è già liberalizzato. Se i risultati saranno positivi, il programma sarà esteso al resto del Paese entro il 2027.
In Aust...
Questo è un articolo di approfondimento riservato ai nostri abbonati.
Scegli l'abbonamento che preferisci (al costo di un caffè la settimana) e prosegui con la lettura dell'articolo.
Se sei già abbonato effettua l'accesso qui sotto o utilizza il pulsante "accedi" in alto a destra.
L'Indipendente non ha alcuna pubblicità né riceve alcun contributo pubblico. E nemmeno alcun contatto con partiti politici. Esiste solo grazie ai suoi abbonati. Solo così possiamo garantire ai nostri lettori un'informazione veramente libera, imparziale ma soprattutto senza padroni. Grazie se vorrai aiutarci in questo progetto ambizioso.
Al trentesimo vertice globale sul clima (COP30) si è conclusa la prima settimana di lavori tra avanzamenti disomogenei, tensioni politiche e qualche spiraglio di progresso. I negoziatori, riuniti a Belém in Brasile, sono ora chiamati a trasformare anni di discussioni in scelte politiche concrete. Più che di scelte per l’ambiente si parla di soldi. Sul tavolo, infatti, alle richieste di compensazioni da parte dei Paesi del sud globale fanno da contraltare le reticenze delle grandi nazioni industrializzate, restie a saldare il conto storico del proprio sviluppo industriale basato sulle fonti fossili per convincere gli Stati emergenti ad accettare di non seguire la medesima traiettoria. Sullo sfondo rimangono le proteste dei popoli indigeni che chiedono di rimettere al centro delle discussioni la protezione dell’ambiente e dei territori. Tutti i negoziati dovranno chiudersi necessariamente con un accordo entro venerdì, in caso contrario le discussioni slitteranno ai colloqui di Bonn del 2026 o, peggio, alla COP31.
La plenaria conclusiva della prima settimana ha restituito un clima sospeso. Molti governi hanno espresso apertamente la loro delusione per la lentezza dei lavori, tanto che il maestro di cerimonia del Vertice, il presidente brasiliano Lula, sta valutando di tornare personalmente a Belém per imprimere nuovo slancio dopo esser stato chiaro fin dal suo discorso inaugurale: la COP30 deve segnare la traiettoria per l’uscita progressiva dalle fonti fossili. Non più le vaghe sfumature linguistiche prive di impegni concreti come phase down (riduzione graduale) o transitioning away (transizione graduale), con cui si erano chiuse all’insegna degli accordi al ribasso i precedenti vertici, ma impegni concreti e databili. Alcune potenze, tra cui Francia, Germania, Danimarca e Regno Unito, sostengono apertamente la proposta. Altri Paesi, come l’Italia, restano scettici quando non apertamente ostili. La divisione emerge chiaramente anche sull’obiettivo di contenimento del riscaldamento globale entro gli +1,5 °C. Le piccole isole e diversi Paesi latinoamericani chiedono che sia richiamato in modo netto, mentre i Paesi arabi e l’India preferiscono riferirsi all’intero Accordo di Parigi, lasciando aperta la soglia dei 2°C. Intanto, anche il presidente del vertice, André Correa do Lago, ha intuito che serve una svolta per evitare che la COP30 si risolva in un nulla di fatto come le precedenti. Motivo per cui ha indetto un Mutirão, una “mobilitazione collettiva”, che prenderà la forma di una riunione a livello ministeriale e dei capi-delegazione in queste ore.
Tra i pochi accordi, di facciata ratificati fino ad ora, c’è quello per la lotta contro la “disinformazione climatica”, così come richiesto da tredici Paesi per la prima volta nella storia dei vertici sul clima. Al riguardo è stata anche firmata una dichiarazione che stabilisce impegni internazionali comuni per promuovere un’informazione corretta e fondata su ciò che indica la comunità scientifica. Contraria, l’Italia, la cui Presidente del Consiglio Meloni ha tra l’altro scelto di non essere presente alla COP30, seguendo la linea dell’alleato Donald Trump che da gennaio ritirerà di nuovo gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi.
Ad ogni modo, come preannunciato, è la finanza climatica il grande nodo ancora irrisolto. Il percorso “Road to Belém” prevede di mobilitare la cifra di 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Una somma apparentemente enorme ma che, in realtà, rappresenta poco più dello 1% del PIL globale, che nel 2024 è stato di circa 110.000 miliardi. Tuttavia, per comprendere l’entità del passo da fare, basta sapere che nel 2022 ci si accordò per 190 miliardi l’anno, una cifra di sette volte inferiore, oltretutto mai erogata totalmente. I cosiddetti fondi di compensazione sono le risorse che i Paesi del Sud globale chiedono ai Paesi ricchi perché hanno contribuito molto meno alla crisi climatica, ma ne subiscono gli impatti peggiori. Non sono aiuti caritatevoli, bensì soldi ritenuti dovuti per finanziare adattamento, transizione energetica e riparare perdite e danni causati in larga parte dalle emissioni storiche del Nord globale. Questo principio è già riconosciuto negli accordi ONU sul clima (dalla Convenzione del 1992 all’Accordo di Parigi), che impegnano i Paesi industrializzati a fornire finanza climatica e hanno portato alla creazione di un fondo ad hoc per «perdite e danni». Ma al di là del principio, c’è appunto da trovare un accordo sulla somma da destinare.
Ed oltretutto non è nemmeno la questione economica più difficile da stabilire. Il nodo più esplosivo è infatti stabilire precisamente quali Stati devono pagare e quali devono ricevere: le regole ONU sul clima sono ancora basate sulla divisione del 1992 tra “Paesi sviluppati” e “in via di sviluppo”. In questa seconda categoria restano anche grandi emettitori come Cina, India o Arabia Saudita, che rivendicano lo status di Paesi in via di sviluppo e quindi il diritto a ricevere fondi, non l’obbligo di contribuire in modo paragonabile a UE o USA. Molti Paesi occidentali insistono invece perché questi grandi emergenti diventino anche donatori netti, dato il loro peso economico e climatico attuale. Lo scontro su come aggiornare – o meno – questa mappa del mondo è uno dei punti che rischia di bloccare il nuovo sistema di finanza climatica.
Si cerca ancora un accordo anche sulla riduzione delle emissioni, le cosiddette Nationally Determined Contributions (NDC). Gli impegni presi nell’Accordo di Parigi sono giudicati insufficienti, ma solo 114 Paesi su 194 hanno presentato nuovi impegni aggiornati. Secondo le stime ONU, con gli impegni attuali il mondo viaggia verso un riscaldamento ben oltre 1,5 °C, più vicino ai 2,5-3 °C. Per restare negli obiettivi di Parigi servirebbero tagli molto più rapidi entro il 2030, e proprio su quanto accelerare – e chi deve farlo per primo – si sta consumando il braccio di ferro tra Nord globale e grandi economie emergenti.
In questo quadro difficile, arriva però qualche notizia positiva. La prima è che il fondo “perdite e danni”, cioè il meccanismo istituito per fornire assistenza finanziaria ai paesi in via di sviluppo che sono colpiti in modo sproporzionato dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici, è diventato operativo: nella prima settimana di negoziati è stato anche pubblicato il primo bando per le richieste di finanziamento. La seconda sarebbe l’istituzione del nuovo Tropical Forest Forever Facility, un fondo d’investimento che punta a difendere le aree forestali e che ha raccolto 5,5 miliardi di dollari da 53 Paesi per proteggere un miliardo di ettari di foreste tropicali. Un risultato significativo, ma non privo di incognite e potenziali punti critici, dato che si è scelto di subordinare la tutela delle foreste a logiche di investimento finanziario.
Gli Stati Uniti hanno firmato un accordo con l’eSwatini, stato dell’Africa meridionale, per esternalizzare le persone migranti che entrano nel Paese. I dettagli dell’accordo non sono ancora stati pubblicati, ma secondo indiscrezioni mediatiche il Paese africano ospiterebbe fino a 160 persone; è noto, inoltre, che l’eSwatini riceverà 5,1 milioni di dollari in cambio dell’accoglienza delle persone migranti. L’eSwatini è solo l’ultima degli Stati africani ad avere accettato di accogliere cittadini di Paesi terzi espulsi dagli USA. Tra gli altri paesi figurano il Sud Sudan, il Ghana e il Ruanda.
La Commissione Federale per la Sanità svizzera ha approvato una legge per la legalizzazione della cannabis, che verrà discussa nei prossimi mesi. Il risultato è frutto di un percorso intrapreso dalla Svizzera oltre trent’anni fa e che l’ha portata, nel 2021, a iniziare a sperimentare la vendita controllata di cannabis ad uso adulto. Dopo i primi risultati positivi dei progetti pilota avviati in città come Basilea, Zurigo e Losanna, ora l’iter parlamentare per una legge nazionale di legalizzazione ha preso il via, con l’obiettivo dichiarato di tutelare la salute pubblica e i minori, riducendo il mercato nero e i rischi per la salute.
Correvano gli anni ’90 quando la Svizzera, da sempre liberale nei confronti della cannabis e del suo utilizzo, venne soprannominata la Giamaica delle Alpi. Senza nessuna regolamentazione particolare in Ticino diversi negozianti avevano iniziato a vendere infiorescenze di cannabis con livelli medio-alti di THC, come profumatori per armadi ed ambienti. Un’operazione resa possibile da un vuoto legislativo che aveva messo in moto due processi: la nascita del primo settore moderno su larga scala di produzione di cannabis, con serre e capannoni sterminati, e la gran parte dei contadini svizzeri trasformati nel giro di due anni in canapicoltori, e il flusso interminabile di “turisti”, specialmente italiani, che andavano oltreconfine per godere dei frutti della pianta delle meraviglie, non di rado cercando – con scarso successo vista la solerzia delle dogane – di riportare a casa un po’ di quelle verdi emozioni. L’esperimento durò pochi anni e fu stroncato da diverse procure che, di punto in bianco, arrestarono produttori e rivenditori. Ma il piglio antiproibizionista del Paese neutrale per eccellenza, che prospera nel cuore dell’Europa senza far parte dell’unione, non si è mai spento. E oggi, mentre diversi esperimenti di legalizzazione sono attivi in città come Zurigo, Berna, Basilea e Losanna, la Commissione federale per la Sanità, forte dei primi buoni risultati ottenuti, ha approvato una legge per la legalizzazione della cannabis, che si discuterà nei prossimi mesi.
Il 15 maggio del 2021 la legge federale svizzera sugli stupefacenti viene modificata per permettere studi pilota con la vendita controllata di cannabis ad uso adulto. Siccome però la legge prevede che venga utilizzata solo cannabis biologica espressamente prodotta nel Paese elvetico, la partenza vera e propria è il febbraio del 2023, con la città di Basilea, a cui hanno poi fatto seguito Zurigo, Losanna e altri, per un totale di 6 progetti ad oggi autorizzati. Il più grande è quello della città di Zurigo, che è appena stato rinnovato fino al 2028 e attualmente coinvolge 2300 persone che aumenteranno fino a 3 mila. Tutti i progetti prevedono la vendita, in farmacia o negozi appositi, di infiorescenze di cannabis, alcuni anche hashish, estratti, prodotti edibili e cartucce per le vape-pen. I partecipanti devono rispondere a diversi criteri (cittadinanza nel cantone, già consumatore di cannabis, etc). Dopo i colloqui per l’idoneità, si riceve una tessera di ammissione allo studio, che consente di accedere ai punti vendita autorizzati. Una volta selezionato, al partecipante viene assegnato un profilo da seguire: monitoraggio del consumo, questionari periodici e raccolta dati attraverso strumenti validati nella fase di ricerca.
Nel frattempo stanno già arrivando i primi risultati, come quelli del Grashaus Project, in corso a Basilea, dai quali si evince che la prima tendenza riscontrata è quella dello spostamento dei consumatori verso vendite regolamentate e metodi di consumo “a basso rischio”, come prodotti edibili ed estratti, con un calo del mercato nero fino al 50%. Il professor Michael Schaub, direttore scientifico dell’Istituto svizzero per le dipendenze, che dirige lo studio, ha commentato così: “Il fatto che abbiamo potuto registrare tali primi successi, anche grazie a una consulenza professionale mirata nei punti vendita, è uno sviluppo promettente. Perché l’obiettivo del progetto pilota, ovvero mettere a disposizione dei consumatori prodotti sicuri e di alta qualità provenienti da fonti controllate e quindi ridurre al minimo in particolare i rischi per la salute, è ovviamente sempre al centro dell’attenzione. Speriamo di destigmatizzare l’uso della cannabis e di creare una base basata sull’evidenza per l’ulteriore dibattito sulla legalizzazione in Svizzera”.
Nel frattempo però, senza nemmeno aspettare la fine di questi progetti sperimentali, che hanno una durata media di 5 anni, in Svizzera è stata approvata dalla Commissione federale una legge per la legalizzazione della cannabis. La fase di consultazione pubblica è stata aperta il 29 agosto e si è chiusa il primo dicembre 2025. Da lì è iniziata la discussione parlamentare, che durerà circa due anni, prima dell’approvazione finale. “La salute pubblica e la tutela dei minori dovrebbero essere al centro di una rinnovata politica sulla cannabis. Agli adulti dovrebbe essere garantito un accesso alla cannabis rigorosamente regolamentato”, si legge in un comunicato del Parlamento svizzero che spiega la bozza di legge, che prevede di rendere legale l’autoproduzione casalinga di cannabis, divieto di pubblicità e vendita ai minori e controlli rigorosi sulla qualità. Le novità riguarderebbero il fatto che lo Stato vuole assicurarsi che il sistema non generi incentivi commerciali al consumo. E quindi prevede dispensari nei vari cantoni, con apposita licenza, ma che per la vendita online si prospetta un unico sito gestito dal governo. Inoltre le vendite sono orientate verso un modello non-profit, regolato dallo Stato, che prevede che i profitti vengano reinvestiti “nella prevenzione, nella riduzione del danno e nel supporto alle dipendenze”. Altro discorso per coltivatori e produttori, per i quali “dovrebbe essere consentita la produzione commerciale a scopo di lucro”.
Ti ricordiamo che il nostro giornale non ospita alcuna pubblicità e non riceve alcun contributo pubblico. È un progetto che esiste solo grazie a Voi lettori.
Per continuare a leggere senza limiti e accedere a tutti i contenuti esclusivi, abbonati adesso al costo di un caffè a settimana. Oltre a sostenere un progetto editoriale unico nel suo genere, potrai beneficiare di un’informazione verificata, di qualità, coraggiosa e senza filtri.
Noi e terze parti selezionate utilizziamo cookie o tecnologie simili per finalità tecniche e, con il tuo consenso, anche per altre finalità come specificato nell'informativa sulla privacy.
Questo sito web utilizza i cookie per migliorare la tua esperienza durante la navigazione nel sito. Di questi, i cookie che sono classificati come necessari sono memorizzati sul tuo browser in quanto sono essenziali per il funzionamento delle funzionalità di base del sito web. Utilizziamo anche cookie di terze parti che ci aiutano ad analizzare e capire come utilizzi questo sito web. Questi cookie vengono memorizzati nel tuo browser solo con il tuo consenso. Hai anche la possibilità di rinunciare a questi cookie, Ma l'opt-out di alcuni di questi cookie può influenzare la tua esperienza di navigazione.
I cookie necessari sono assolutamente indispensabili per il corretto funzionamento del sito web. Questi cookie assicurano le funzionalità di base e le caratteristiche di sicurezza del sito web, in modo anonimo.
Cookie
Durata
Descrizione
__cf_bm
1 hour
This cookie, set by Cloudflare, is used to support Cloudflare Bot Management.
cookielawinfo-checkbox-advertisement
1 year
Set by the GDPR Cookie Consent plugin, this cookie is used to record the user consent for the cookies in the "Advertisement" category .
cookielawinfo-checkbox-analytics
11 mesi
Questo cookie è impostato dal plugin GDPR Cookie Consent.Il cookie viene utilizzato per memorizzare il consenso dell'utente per i cookie della categoria "Analytics".
cookielawinfo-checkbox-functional
11 mesi
Il cookie è impostato dal consenso dei cookie GDPR per registrare il consenso dell'utente per i cookie della categoria "Funzionale".
cookielawinfo-checkbox-necessary
11 mesi
Questo cookie è impostato dal plugin GDPR Cookie Consent. Il cookie viene utilizzato per memorizzare il consenso dell'utente per i cookie della categoria "Necessario".
cookielawinfo-checkbox-others
11 mesi
Questo cookie è impostato dal plugin GDPR Cookie Consent.Il cookie viene utilizzato per memorizzare il consenso dell'utente per i cookie della categoria "Altro".
cookielawinfo-checkbox-performance
11 mesi
Questo cookie è impostato dal plugin GDPR Cookie Consent. Il cookie viene utilizzato per memorizzare il consenso dell'utente per i cookie della categoria "Performance".
CookieLawInfoConsent
1 year
CookieYes sets this cookie to record the default button state of the corresponding category and the status of CCPA. It works only in coordination with the primary cookie.
csrftoken
1 year
This cookie is associated with Django web development platform for python. Used to help protect the website against Cross-Site Request Forgery attacks
JSESSIONID
session
New Relic uses this cookie to store a session identifier so that New Relic can monitor session counts for an application.
viewed_cookie_policy
11 mesi
Il cookie è impostato dal plugin GDPR Cookie Consent e viene utilizzato per memorizzare se l'utente ha acconsentito o meno all'uso dei cookie. Non memorizza alcun dato personale.
wpEmojiSettingsSupports
session
WordPress sets this cookie when a user interacts with emojis on a WordPress site. It helps determine if the user's browser can display emojis properly.
I cookie funzionali aiutano ad eseguire alcune funzionalità come la condivisione del contenuto del sito web su piattaforme di social media, la raccolta di feedback e altre caratteristiche di terze parti.
Cookie
Durata
Descrizione
yt-player-headers-readable
never
The yt-player-headers-readable cookie is used by YouTube to store user preferences related to video playback and interface, enhancing the user's viewing experience.
yt-remote-cast-available
session
The yt-remote-cast-available cookie is used to store the user's preferences regarding whether casting is available on their YouTube video player.
yt-remote-cast-installed
session
The yt-remote-cast-installed cookie is used to store the user's video player preferences using embedded YouTube video.
yt-remote-connected-devices
never
YouTube sets this cookie to store the user's video preferences using embedded YouTube videos.
yt-remote-device-id
never
YouTube sets this cookie to store the user's video preferences using embedded YouTube videos.
yt-remote-fast-check-period
session
The yt-remote-fast-check-period cookie is used by YouTube to store the user's video player preferences for embedded YouTube videos.
yt-remote-session-app
session
The yt-remote-session-app cookie is used by YouTube to store user preferences and information about the interface of the embedded YouTube video player.
yt-remote-session-name
session
The yt-remote-session-name cookie is used by YouTube to store the user's video player preferences using embedded YouTube video.
ytidb::LAST_RESULT_ENTRY_KEY
never
The cookie ytidb::LAST_RESULT_ENTRY_KEY is used by YouTube to store the last search result entry that was clicked by the user. This information is used to improve the user experience by providing more relevant search results in the future.
I cookie di performance sono utilizzati per capire e analizzare gli indici di performance chiave del sito web che aiuta a fornire una migliore esperienza utente per i visitatori.
Cookie
Durata
Descrizione
SRM_B
1 year 24 days
Used by Microsoft Advertising as a unique ID for visitors.
I cookie analitici sono utilizzati per capire come i visitatori interagiscono con il sito web. Questi cookie aiutano a fornire informazioni sulle metriche del numero di visitatori, la frequenza di rimbalzo, la fonte del traffico, ecc.
Cookie
Durata
Descrizione
_clck
1 year
Microsoft Clarity sets this cookie to retain the browser's Clarity User ID and settings exclusive to that website. This guarantees that actions taken during subsequent visits to the same website will be linked to the same user ID.
_clsk
1 day
Microsoft Clarity sets this cookie to store and consolidate a user's pageviews into a single session recording.
_ga
2 years
The _ga cookie, installed by Google Analytics, calculates visitor, session and campaign data and also keeps track of site usage for the site's analytics report. The cookie stores information anonymously and assigns a randomly generated number to recognize unique visitors.
_ga_*
1 year 1 month 4 days
Google Analytics sets this cookie to store and count page views.
_gat_gtag_UA_178106852_1
1 minute
Set by Google to distinguish users.
_gid
1 day
Installed by Google Analytics, _gid cookie stores information on how visitors use a website, while also creating an analytics report of the website's performance. Some of the data that are collected include the number of visitors, their source, and the pages they visit anonymously.
bugsnag-anonymous-id
never
BugSnag/Juicer sets this cookie for bug reporting and other analytical purposes.
CLID
1 year
Microsoft Clarity set this cookie to store information about how visitors interact with the website. The cookie helps to provide an analysis report. The data collection includes the number of visitors, where they visit the website, and the pages visited.
MR
7 days
This cookie, set by Bing, is used to collect user information for analytics purposes.
SM
session
Microsoft Clarity cookie set this cookie for synchronizing the MUID across Microsoft domains.
vuid
1 year 1 month 4 days
Vimeo installs this cookie to collect tracking information by setting a unique ID to embed videos on the website.
I cookie pubblicitari sono utilizzati per fornire ai visitatori annunci pertinenti e campagne di marketing. Questi cookie tracciano i visitatori attraverso i siti web e raccolgono informazioni per fornire annunci personalizzati.
Cookie
Durata
Descrizione
_fbp
3 months
This cookie is set by Facebook to display advertisements when either on Facebook or on a digital platform powered by Facebook advertising, after visiting the website.
_tt_enable_cookie
1 year 24 days
Tiktok set this cookie to collect data about behaviour and activities on the website and to measure the effectiveness of the advertising.
_ttp
1 year 24 days
TikTok set this cookie to track and improve the performance of advertising campaigns, as well as to personalise the user experience.
ANONCHK
10 minutes
The ANONCHK cookie, set by Bing, is used to store a user's session ID and verify ads' clicks on the Bing search engine. The cookie helps in reporting and personalization as well.
fr
3 months
Facebook sets this cookie to show relevant advertisements by tracking user behaviour across the web, on sites with Facebook pixel or Facebook social plugin.
MUID
1 year 24 days
Bing sets this cookie to recognise unique web browsers visiting Microsoft sites. This cookie is used for advertising, site analytics, and other operations.
test_cookie
16 minutes
doubleclick.net sets this cookie to determine if the user's browser supports cookies.
VISITOR_INFO1_LIVE
6 months
YouTube sets this cookie to measure bandwidth, determining whether the user gets the new or old player interface.
VISITOR_PRIVACY_METADATA
6 months
YouTube sets this cookie to store the user's cookie consent state for the current domain.
YSC
session
Youtube sets this cookie to track the views of embedded videos on Youtube pages.
yt.innertube::nextId
never
YouTube sets this cookie to register a unique ID to store data on what videos from YouTube the user has seen.
yt.innertube::requests
never
YouTube sets this cookie to register a unique ID to store data on what videos from YouTube the user has seen.