Nel 2025 l’Italia ha registrato oltre 700 nidi di tartarughe marine Caretta caretta, il massimo storico secondo il progetto europeo LIFE Turtlenest coordinato da Legambiente. In due anni la nidificazione è cresciuta del 60%, con Sicilia (oltre 220 nidi), Calabria (180) e Campania (114) in testa. Il progetto, che coinvolge partner in Italia, Spagna e Francia, punta alla conservazione e al monitoraggio della specie. Si segnala inoltre l’arrivo di nuove femmine nidificanti. Legambiente chiede ora una tutela legale stabile per le spiagge di riproduzione.
Il numero di nuovi nidi è in crescita costa...
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Una persona sarebbe rimasta uccisa nel raid aereo condotto da Israele in Libano, riporta il ministero della Salute di Beirut. L’attacco costituisce l’ultima delle violazioni del cessate il fuoco tra i due Paesi da parte di Israele. Il raid è stato condotto contro un veicolo nei pressi della città di Nabi Sheet, regione di Baalbek, nel Libano orientale, e arriva a poche ore di distanza da un’altra operazione simile, portata a termine dall’esercito israeliano nella città di Tiro, nel Libano meridionale, nel corso del quale è stata uccisa una persona.
Zagora – Alle porte del deserto l’aria impregna il volto di terra e sabbia e le folate di vento rendono impossibile tenere gli occhi aperti. Durante il giorno la temperatura non si schioda dai quarantacinque gradi, per poi calare, di notte, senza mai scendere sotto i trenta. Ogni attività, in quel lasso di tempo che in alcune aree d’Italia viene definito come “controra”, è rigorosamente ferma, per poi ricominciare intorno alle 17.00 e attendere il fresco della sera.
Il Sud-est marocchino da più di un lustro soffre una grave siccità. Negli ultimi dieci anni, quelle coltivazioni che hanno caratterizzato il lavoro nelle aree rurali del Paese, focalizzate in special modo sulla produzione di cereali, sono state spazzate via dalla penuria d’acqua. Sono quindi numerose le persone che si sono viste obbligate a lasciare la propria terra e così sommarsi al fenomeno della diaspora marocchina. Dalle latitudini estreme del Marocco, sempre più persone si sono messe in viaggio per trasferirsi nelle principali metropoli del Paese e provare a cambiare il destino della propria vita. A questa situazione già drammatica, per la quale il governo di Rabat cerca di attuare programmi di salvaguardia delle poche coltivazioni rimaste, si è aggiunta l’alluvione che nel settembre del 2024 si è abbattuta sull’area e ha portato via con sé i pochi campi, molte case e, secondo le stime del governo, più di venticinque vite.
Immaginari cinematografici
L’ingresso della Kasbah, Ouarzazate
La regione del Draa-Tafilalet è una tra le più estese del Paese e ospita uno dei tratti di frontiera più delicati tra il Marocco e l’Algeria. Il confine che attraversa il deserto è presidiato dalle forze militari marocchine e il suo accesso è praticamente invalicabile a causa del pattugliamento militare e delle migliaia di mine antiuomo disseminate lungo tutto il perimetro della frontiera. La stessa regione è a sua volta divisa in due parti: l’area a sud confinante con l’Algeria è prettamente desertica, mentre la parte nord è attraversata dalla catena montuosa dell’Alto Atlante con cime che superano i tremila metri. Qui sono evidenti i tratti emblematici della cultura berbera, fortemente radicata nella regione.
Raggiungere da Marrakech la città di Zagora, capoluogo dell’omonima provincia e ultimo grande centro urbano prima della frontiera, può essere faticoso: due autobus partono ogni giorno dalla stazione della Città Rossa e tagliano la catena montuosa dell’Atlante attraverso il passo del Tizi n’Tichka. I tornanti che si susseguono per ore mettono a dura prova i passeggeri, mentre dal finestrino scorrono le immagini delle vallate, delle distese rocciose che si fanno spazio tra i picchi e, in alcuni punti, compaiono dei piccoli negozi di artigianato o delle tende gestite dagli apicoltori della zona.
Non appena si raggiunge Zagora, sul calar della sera, ci si accorge rapidamente che i pochi turisti che fanno capolino nei riad (le abitazioni tradizionali marocchine con giardino interno spesso adibite ad alberghi) e nei ristoranti adiacenti, raggiungono l’area per usufruire dei tour organizzati tra le dune del Sahara dalle agenzie turistiche. Per i turisti la città sembra essere una semplice tappa di passaggio: dopo l’arrivo e il pernottamento, si raggiunge il deserto, si trascorre una notte in tenda e si ritorna nelle città principali.
Il senso di abbandono è palpabile. Nonostante l’afflusso dei visitatori sia basso, come dimostra la presenza di poche strutture destinate all’accoglienza turistica, il costo della vita sembra essere più alto rispetto ad altre aree del Paese più popolate e maggiormente interessate dal turismo. A questo modello, che tenta di inseguire un mercato ancora troppo sfuggente, si aggiunge il business delle produzioni cinematografiche. A centocinquanta chilometri di distanza da Zagora sorge la città di Ouarzazate, luogo in cui sono stati girati alcuni tra i più noti colossal di Hollywood e che ospita numerose produzioni audiovisive. «Ho collaborato con Bernardo Bertolucci» ci spiega Alì, artista dell’area, che, tra un racconto e l’altro, prova a fare pubblicità alla sua galleria d’arte. «Accompagnavo la produzione nella ricerca dei luoghi migliori per il film Il tè nel deserto» racconta all’interno del Cafè Littéraire Zagora. Fondato dieci anni fa, questo spazio accoglie varie opere artistiche e una piccola biblioteca con tomi in arabo e in francese. Anche in questo caso, il locale sembra essere spesso deserto.
Percorrendo la route 9 che porta fino all’ultimo paese prima della frontiera, si raggiunge Tagounit. Il centro urbano è un agglomerato di abitazioni ed esercizi commerciali a ridosso della stessa via principale. Il paese, secondo l’ultimo censimento del 2024, conta più di 15.000 abitanti, solo dieci anni fa, all’inizio della crisi idrica, la popolazione superava i 17.500 individui.
Palmeria a Zagora
«Provengo da una famiglia berbera nomade» mi spiega Karim, un uomo di quarant’anni nato a Tagounit. Karim rappresenta perfettamente il fenomeno che anno dopo anno sta spingendo un numero sempre maggiore di persone a lasciare le aree periferiche del Sud-est marocchino, per spostarsi verso le grandi città a nord e sulle coste del Paese. «Per sette anni ho vissuto a Casablanca, ho lavorato in un supermercato» ci spiega, mentre mostra alcune foto dell’epoca. Dopo l’esperienza che lo ha tenuto lontano dalla sua terra d’origine, Karim ha scelto di tornare a casa. «Odiavo quella città. È pericolosa, troppo frenetica; qui si sta bene, è tranquillo e ci conosciamo tutti». Nel paese Karim ha la sua famiglia: oltre ai genitori, una sorella è rimasta qui con il marito e i figli, l’altra, invece, si è stabilita definitivamente a Casablanca.
A Tagounit la carenza d’acqua è tangibile. Il sole del giorno rende ogni attività asfissiante e le stesse case, caratterizzate da poche finestre striminzite, lasciano intuire una vita che scorre tranquilla nella penombra. Le poche attività che animano il paese sono servizi di ristorazione e mercati; qui, tra i banchi, fanno capolino le angurie, specialità dell’area. «Bisogna assolutamente provare le angurie, vengono coltivate qui e sono deliziose» mi spiegano. Per quanto questi frutti rappresentino un vanto della zona, la loro coltivazione si somma ai problemi che stanno attanagliando il Sud-est del Paese. Il loro abbondare è infatti dovuto alla monocoltura intensiva, che ha sostituito la coltivazione dei cereali e che, per mantenere il ritmo delle esportazioni, necessita di una grande quantità d’acqua che, di conseguenza, viene levata alla popolazione locale.
Villaggio nella catena montuosa dell’Alto Atlante
«Da un po’ di anni non abbiamo accesso costante all’acqua pubblica» mi spiega Karim mentre indica una cisterna in costruzione «è comune, infatti, che ogni casa abbia l’allaccio a un pozzo o un sistema indipendente di accumulo idrico. Ogni settimana viene quindi riattivato l’acquedotto pubblico e chi può fa la scorta».
Dalla siccità alle alluvioni
Al problema della siccità si sono sommate le alluvioni dello scorso anno, che hanno colpito, oltre al Sud-est marocchino, l’area sudoccidentale dell’Algeria e le parti interne del Sahara Occidentale, compresi gli accampamenti algerini di Tindouf. Secondo gli esperti questi fenomeni, un tempo impensabili, con il tempo saranno sempre più frequenti e con maggiore intensità. Le piogge, che si sono riversate su tutto il Paese e che nella provincia di Zagora hanno raggiunto i 200 millimetri d’acqua in soli due giorni, fortunatamente non hanno portato alla fuoriuscita dagli argini del fiume Draa, che attraversa tutta la regione e segna il confine con l’Algeria. Anche Karim ha subìto i danni della devastazione dell’acqua. «Questa era la mia casa» mi dice, indicandomi una distesa di rocce poco lontana dal paese sulla quale adesso sorge una capanna. «Sono rimaste in piedi solo le colonne che affiancavano il cancello, se le osservi puoi intuire che altezza raggiungeva la casa».
Da quel momento Karim, insieme a un suo amico, ha dato vita a un progetto di volontariato che accoglie persone provenienti da ogni parte del mondo per dare una mano nella ricostruzione. In cambio dell’alloggio, le persone volontarie lavorano per tre ore al giorno, la mattina o il tardo pomeriggio, e apprendono la tecnica tradizionale della costruzione dei mattoni. L’obiettivo è indubbiamente ambizioso: prima di procedere con l’edificazione, è necessario rimuovere tutti i detriti della precedente casa e procedere con la fabbricazione dei mattoni. Questi vengono creati attraverso un impasto di fango e terra e vengono poi lasciati essiccare al sole e in seguito accumulati.
Detriti e mattoni in costruzione, Tagounit
«Lavorare per questo progetto non è troppo pesante» spiegano Jaimie e Louis, due giovani di diciannove anni di Manchester. «Abbiamo finito le scuole superiori quest’estate e prima di iniziare l’università abbiamo deciso di trascorrere qui un mese». In alcune occasioni Karim accompagna le persone accorse per il progetto a visitare Tagounit e cerca di trasmettere alcuni tratti della cultura berbera dell’area. «È la quinta volta che vengo in Marocco» spiega Alba, una ragazza di vent’anni di Barcellona. «In Catalogna ho iniziato a studiare arabo da un anno, qui provo a metterlo in pratica. Mi piace stare qui, ho conosciuto la famiglia di Karim e amo stare in mezzo alla gente». Il progetto vede un flusso di persone quasi costante: la sera, vari volontari da ogni parte del mondo raggiungono Tagounit con l’unico autobus che, una volta al giorno, collega il paese a Marrakech.
Il richiamo del muezzin scandisce il ritmo della vita locale. La seconda preghiera del mattino dà il via al lavoro e, ancora una volta, è la quarta preghiera a sancire la fine della canicola pomeridiana. A quest’ora le persone volontarie raggiungono, a volte in moto, altre volte in autostop, il progetto. A sera, le volte in cui non si rimane a dormire nella capanna e si rientra a casa, si condivide un pasto cucinato insieme, mentre si chiacchiera con i nuovi arrivati. Quando si raggiunge la provincia di Zagora, ci si accorge che l’aridità avvolge ogni cosa. Il vento caldo leva il respiro e alza la terra a tal punto da non poter aprire più gli occhi. Un tempo, quest’area era puntellata da svariate oasi, le coltivazioni di cereali e datteri davano lavoro e nutrimento. Ci si chiede cosa il futuro potrà destinare a questa terra affacciata sul deserto del Sahara e se la sua popolazione avrà ancora la forza di restare e ricostruire.
Dopo gli scontri armati avvenuti in estate e una prima bozza di tregua, Thailandia e Cambogia hanno firmato oggi l’accordo di cessate il fuoco. L’intesa è stata sottoscritta dal premier thailandese Anutin Charnvirakul e da quello cambogiano Hun Manet, accompagnati dal primo ministro malese Anwar Ibrahim e dal presidente USA Donald Trump. Quest’ultimo è volato in Asia per partecipare al vertice dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN) e siglare una serie di intese commerciali, a partire proprio da Cambogia e Thailandia.
Il presidente dell’Associazione Palestinesi in Italia (API), Mohammad Hannoun, non potrà mettere piede a Milano per un anno a causa di un foglio di via notificatogli nelle ultime ore. Oltre all’allontanamento, Hannoun è stato anche denunciato per istigazione alla violenza. «Mi dispiace di questo atto di aggressione nei miei confronti — ha commentato il presidente dell’API — che arriva mentre il nostro governo è complice diretto del genocidio a Gaza, dove fornisce armi per sterminare i gazawi». A quanto pare, i provvedimenti sarebbero nati in risposta ad alcune frasi che Hannoun avrebbe pronunciato durante il corteo del 18 ottobre scorso, commentando le esecuzioni pubbliche di Hamas: «Tutte le rivoluzioni del mondo hanno le loro leggi. Chi uccide va ucciso, i collaborazionisti vanno uccisi. Oggi l’Occidente piange questi criminali, dicono che i palestinesi hanno ucciso poveri ragazzi. Ma chi lo dice che sono poveri ragazzi?».
Secondo il questore di Milano, Bruno Megale, che ha firmato il foglio di via per Mohammad Hannoun, quest’ultimo si sarebbe reso protagonista di una serie di comportamenti “ritenuti idonei a turbare l’ordine e la sicurezza pubblica”, manifestando “una pervicace inclinazione a commettere reati contro l’ordine pubblico”. Ancora, secondo questa ricostruzione, il presidente dell’API risulta “esprimere una pericolosità sociale concreta e attuale”. Dura la reazione dell’associazione palestinese, che ha bollato il provvedimento come «un chiaro tentativo di intimidire chi si espone con coraggio e coscienza, per difendere la verità e denunciare crimini contro il popolo palestinese». «Colpire Hannoun — continua l’API — significa colpire chi, da più di quarant’anni, vive in Italia come parte attiva della comunità, portando avanti la voce dei senza voce, degli oppressi, di chi non ha mai smesso di credere nella giustizia. La sua presenza, la sua parola e il suo impegno sono testimonianze viventi di una storia di resistenza che attraversa frontiere e generazioni».
Come ammesso dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, Mohammad Hannoun «è attentamente monitorato dalle autorità competenti». D’altronde, soltanto un anno fa il presidente dell’API è stato raggiunto dal medesimo schema repressivo: foglio di via (di 6 mesi) accompagnato da una denuncia per istigazione a delinquere. Quello di Mohammad Hannoun non è tuttavia un caso isolato. L’anno scorso Zulfiqar Khan, l’Imam di Bologna, è stato espulso dall’Italia per le sue posizioni a sostegno della resistenza palestinese. A inizio 2024, per via di alcuni post pubblicati sui suoi profili social, nei quali era evidente il supporto alla Palestina e la critica al sionismo, un ventottenne è stato denunciato ai sensi dell’art. 270 bis c.p. (associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico), antisemitismo e incitamento alla jihad (o guerra santa).
Da venerdì pomeriggio a ieri sera si sono registrate 8 scosse con epicentro nella provincia di Avellino e avvertite in tutta la Campania. Ieri alle 21.49 il terremoto più forte, di magnitudo 4.0, che ha portato gli abitanti a scendere in strada. «Siamo in una soglia di attenzione molto elevata perché è un’area molto sensibile, ad alta pericolosità sismica», ha dichiarato Maurizio Pignone, sismologo dell’Osservatorio nazionale terremoti dell’INGV, precisando che «quella di questi giorni non è la stessa area che ha generato i terremoti dell’Irpinia, ma a circa 30 km più a nord dell’epicentro del 1980».
Sette associazioni ambientaliste e civiche e un sindacato hanno depositato al TAR di Lecce un ricorso che contesta l’Autorizzazione integrata ambientale (AIA) rilasciata per la prosecuzione dell’attività siderurgica a combustione fossile nell’ex Ilva di Taranto. Il documento denuncia non solo vizi procedurali ma l’«inadeguatezza rispetto al contesto ambientale e sociale» della città, definita dall’Onu «zona di sacrificio» e «peso sulla coscienza collettiva dell’umanità». Le associazioni chiedono l’annullamento dell’AIA o, comunque, una pronuncia che apra la strada a un intervento di risanamento ambientale e sanitario definitivo.
A firmare il ricorso sono Medici per l’Ambiente ISDE Italia, Genitori Tarantini, Giustizia per Taranto, PeaceLink, Ambiente e Salute per Taranto, Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, Lavoratori Metalmeccanici Organizzati e il sindacato LMO. Le associazioni evidenziano come questa sia la prima AIA concessa in Italia a un impianto fossile dopo la dichiarazione ufficiale di emergenza climatica da parte dell’Unione Europea e della Regione Puglia, avvenuta nel 2019. Secondo i ricorrenti, l’autorizzazione «ignora volutamente il mutato quadro giuridico internazionale e le decisioni delle corti europee e nazionali», che negli ultimi anni hanno individuato parametri stringenti per la compatibilità tra attività industriale e tutela dei diritti umani e ambientali. In particolare, il provvedimento governativo non terrebbe conto delle sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) e della Corte di Giustizia dell’Ue, che impongono agli Stati membri di rispettare criteri specifici prima di autorizzare attività industriali inquinanti, alla luce degli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi del 2015.
Il ricorso, redatto dagli avvocati Ascanio Amenduni, Michele Macrì e Maurizio Rizzo Striano, con il supporto scientifico del professor Michele Carducci, docente di Diritto climatico comparato all’Università del Salento, elenca sei profili di illegittimità. Nello specifico, si parla infatti del «mancato rispetto dei requisiti stabiliti dalla Corte europea dei diritti umani per le decisioni sulla decarbonizzazione», della «errata rappresentazione dell’emergenza climatica e ambientale senza analisi preventiva dei rischi e benefici», della «violazione dei contenuti vincolanti indicati dalla Corte di giustizia Ue per l’impianto di Taranto», dell’«elusione delle Bat (Best available techniques) per la tutela ambientale e sanitaria» e «del pubblico tarantino dal processo decisionale, in violazione della Convenzione di Aarhus», nonché della «violazione del Codice dell’Ambiente che impone l’adeguamento alle nuove condizioni climatiche e normative».
Secondo i ricorrenti, inoltre, il documento autorizzativo non farebbealcun riferimento alle emissioni di CO2, alle norme internazionali di riduzione degli inquinanti, né alla Valutazione di Impatto Sanitario e alla tutela della salute delle generazioni future, nonostante la riforma costituzionale del 2022 abbia introdotto l’obbligo di tutela ambientale in chiave intergenerazionale. L’AIA permette ad Acciaierie d’Italia di produrre fino a 6 milioni di tonnellate di acciaio l’anno fino al 2038, utilizzando gli altoforni a carbon coke. Una decisione che si scontra con i drammatici dati sanitari del territorio: stando all’ultima consulenza della Procura, le diagnosi di cancro a Taranto sono state 2.679 nel 2020, 2.101 nel 2021 e 2.345 nel 2022.
«Se il Tar dovesse accogliere questa eccezione, la vicenda potrebbe approdare alla Corte costituzionale», avvertono i firmatari; e, qualora la giustizia nazionale non dia risposta, «il ricorso è già strutturato per arrivare alla Corte europea dei diritti umani». Le associazioni chiedono una sentenza che imponga all’esecutivo «un intervento definitivo per il risanamento ambientale della città» e che riconosca che la tutela della salute non può essere sacrificata sull’altare dell’interesse economico.
La CGIL è scesa in pizza a Roma, insieme ad alcune sigle politiche tra le quali PD e AVS, per protestare a favore di aumenti di salari e pensioni, oltre che degli investimenti nella sanità e nella scuola e per dire no al riarmo. Dalla piazza, Landini lascia intendere che potrebbero essere convocate le piazze contro la Manovra di Bilancio del governo Meloni, ma che per oggi “ vogliamo dimostrare che c’è una parte molto importante di questo Paese che chiede dei cambiamenti”. In piazza anche il giornalista Sigfrido Ranucci, al quale è stata espressa solidarietà per l’attentato recentemente subito.
L’ultra fast fashion non ha intenzione di rallentare, né tantomeno di fermare la sua corsa. Il colosso cinese Shein, ignorando qualsiasi tipo di opposizione, si appresta a sbarcare in Francia con negozi fisici. Non in un posto qualunque. Il primo esperimento di vendita al pubblico avverrà a partire da novembre all’interno del BVH, storico grande magazzino nel cuore del Marais, in un edificio fondato nel 1856. Un ingresso fatto non a caso, ma per “onorare” il ruolo centrale della Francia, e Parigi nello specifico, come storica città della moda. Le parole del presidente esecutivo di Shein, Donald Tang, in merito alla questione, stridono un po’: «Scegliendo la Francia come luogo per sperimentare il retail fisico, onoriamo la sua posizione di capitale chiave della moda e abbracciamo il suo spirito di creatività ed eccellenza». E hanno fatto storcere la bocca a numerosissimi marchi, alcuni dei quali hanno deciso di abbandonare il grande magazzino. Anche i sindacati locali non hanno gradito la novità, mettendo in guardia su probabili ripercussioni sulla sopravvivenza del negozio stesso.
L’avvento di Shein e simili è stato un duro colpo per il mondo della moda, che sta mettendo in seria crisi tutto il comparto. Incrementare la sua presenza sul territorio francese (si prevedono altre aperture, ovviamente, presso i grandi magazzini Galeries Lafayette nelle città di Digione, Reims, Grenoble, Angers e Limoges), aggiunge ulteriori minacce ravvicinate a decine di negozi e marchi che si vedono spiazzati dalla concorrenza. Oltre al fatto che potrebbe contribuire ad inondare il mercato europeo più velocemente di capi usa & getta, con le conseguenze del caso nella gestione dei rifiuti tessili europei.
Questa apertura, che sembra quasi un affronto, anche alla luce delle politiche intraprese dalla Francia per ostacolare il fast fashion introducendo nuove tasse, si inserisce perfettamente nel piano di Tang per per diventare un marchio “rispettabile”, saltare gli ostacoli imposti dall’Europa ed agevolare la sua quotazione in borsa. La Francia è quindi il posto giusto: primo perché è il suo secondo mercato più grande in Europa, dopo solo la Germania; secondo perché aprire negli Stati Uniti, principale mercato globale di Shein, con le ostilità manifestate da Trump, sarebbe decisamente più complicato.
Più fattibile sbarcare in Europa, nonostante la Commissione Europea stia indagando attualmente su Shein per rischi legati a prodotti illegali, ed il mese scorso sia stata approvata una legislazione per tentare di arginare l’impatto ambientale del fast fashion.
Un’onda sulla quale si sta muovendo anche il governo italiano che, dopo un incontro con le associazioni del settore (Camera della Moda, Federmoda Cna e Federazione Moda Confartigianato Imprese), ha manifestato urgenza di prendere misure contro il fast fashion e fronteggiare l’arrivo massiccio di prodotti a basso costo e di scarsa qualità. Negli ultimi anni il numero degli acquisti su piattaforme di e-commerce estere e dirette verso i paesi europei è aumentata esponenzialmente (spesso si tratta di prodotti di piccole dimensioni per articoli che non superano mai i 150€). Solo nel 2024 sono stati importati 4,6 miliardi di articoli di basso valore, quasi il doppio rispetto ai 2,3 miliardi del 2023 e agli 1,4 miliardi del 2022. Stiamo parlando di quasi 12 milioni di pacchi al giorno, con Temu e Shein a dominare la classifica. I prodotti di queste aziende fanno gola anche da questa parte del globo: si può trovare di tutto di più, perfettamente in linea con le tendenze del momento (ma non solo), orientate a fasce di consumatori di tutte le età (giovani, giovanissimi, adulti,…) con prezzi concorrenziali al limite dell’incredibile. Girare su questi siti è come entrare in un moderno Paese dei Balocchi, dove ogni desiderio può trovare il suo corrispondente in un oggetto fisico che può raggiungere ogni luogo a distanza di pochi click. Difficile resistere. Difficile pensare agli aspetti etici (i prodotti sono realizzati da manodopera sfruttata), a quelli ambientali (molto spesso non rispettano le norme UE in materia di sicurezza, soprattutto per quanto riguarda l’uso delle sostanze chimiche), e ai possibili rischi per la salute umana, mentre si surfa tra milioni di oggetti dal design non certo “eco” ma indubbiamente attuale ed accattivante.
Una concorrenza spietata e sleale che sta facendo drizzare le orecchie tutte le associazioni di categoria, per cui si stanno cercando di prendere provvedimenti, sia in termine di tassazione, sia sull’introduzione di requisiti da rispettare per la gestione dei rifiuti derivanti dagli articoli messi in vendita (seguendo la scia della responsabilità estesa del produttore, EPR).
Nella giornata di ieri, è arrivata una possibile svolta storica nell’inchiesta sull’omicidio di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione Siciliana ucciso a Palermo il 6 gennaio 1980: l’ex prefetto Filippo Piritore, 74 anni, allora funzionario della Squadra mobile e successivamente prefetto del capoluogo siciliano, è stato posto agli arresti domiciliari con l’accusa di aver depistato le indagini facendo sparire il guanto del killer, la “prova regina” citata dall’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni in Parlamento. Per i pm di Palermo, Piritore avrebbe nel tempo «reso dichiarazioni rivelatesi del tutto prive di riscontro, con cui ha contribuito a sviare le indagini» anche funzionali «al rinvenimento del guanto (mai ritrovato)», in un’operazione che ha «gravemente inquinato e compromesso» le investigazioni.
Il presunto depistaggio
Come si legge nelle carte, quel guanto di pelle marrone – lasciato sul pianale dell’auto guidata dai sicari – «già nell’immediatezza dei fatti, rappresentava per gli inquirenti dell’epoca una fonte di prova privilegiata essendo, appunto, ‘l’unico oggetto’ che avrebbe potuto condurre all’identificazione dell’assassino». Della sua esistenza restano solo una fotografia e alcuni riferimenti negli atti, tra cui una relazione della Squadra mobile con un appunto a mano dello stesso Piritore: «Consegnato 7-1-80 alla guardia Di Natale, Scientifica, per il dottor Grasso (allora sostituto procuratore responsabile delle indagini, ndr)». Interrogato come testimone a settembre 2024, l’ex prefetto ha confermato questa versione, affermando: «Sono certo di avere dato il guanto al Di Natale… Posso dire con certezza che la direttiva di consegna del guanto al dottor Grasso proveniva da lui, non ricordo se impartita direttamente o mi fu riferita». Per i magistrati, però, si tratta di un racconto «inverosimile e illogico». Sia l’agente Di Natale che l’allora pm Pietro Grasso lo hanno infatti smentito categoricamente: il primo ha dichiarato di non aver mai conosciuto personalmente Grasso e di non aver ricevuto il guanto; il secondo ha affermato: «Nulla ho mai saputo del ritrovamento di un guanto, apprendo solo ora tale circostanza», escludendo «di avere impartito disposizioni al fine di farmi personalmente consegnare il guanto in questione». Secondo l’accusa, il «falso recapito» a Grasso, a sua insaputa, è stato «il modo ingannevole consono per la definitiva dispersione del reperto».
A gettare ombre sulla figura di Piritore sarebbero anche i contenuti di alcune conversazioni intercettate in cui l’ex prefetto, non sapendo di essere ascoltato, confidava alla consorte il proprio stress dopo l’interrogatorio del 17 settembre: «”Figura di merda, non ricordavo un cazzo…. Io poi gliel’ho detto… ‘guardi secondo me… dico saranno sparite negli anni ’90 perché dico prima nell”80 servivano da solo… non potevano servire solo per le impronte digitali…e dopo è venuto il Dna…quindi sono sparite da…se sono state occultate negli anni ’90…quando si è scoperto il Dna” ». E ancora, il 22 settembre: «Rompere i coglioni dopo quarantacinque anni… Qualche cosa fanno», con la moglie che gli risponde: «Ma che fanno…! Non fanno un cazzo… dopo quarant’anni che cazzo devono fare… sei tu che sei tipo uccello del malaugurio». Dalle intercettazioni, secondo il giudice che ha convalidato l’arresto, «emergeva nuovamente la profonda preoccupazione del Piritore per la possibilità di venire coinvolto in iniziative giudiziarie […], atteggiamento questo incompatibile con la posizione di un funzionario che ha compiuto il proprio dovere pur non ricordando i dettagli delle operazioni svolte a causa del tempo decorso».
La giudice delle indagini preliminari ha condiviso la ricostruzione della Procura, motivando gli arresti domiciliari affermando che «nella delineata condotta posta in essere dal Piritore, vi è manifesta la volontà di reiterazione al fine di inquinare le acquisende prove». Secondo la gip, infatti, «Piritore ha voluto fornire indicazioni ulteriormente fuorvianti sulle sorti della prova regina dell’omicidio in Pregiudizio di Piersanti Mattarella», e «chi opera in tal modo manifesta una pervicacia nella volontà delittuosa che collide con qualsivoglia prognosi favorevole circa il suo futuro comportamento consentendo un giudizio di concreta possibilità che egli possa commettere delitti della stessa natura di quello per il quale si procede. Cosa che – conclude la giudice – ha fatto dal 1980 giovane poliziotto ed in continuità ha continuato a fare ad oggi, sempre tacendo, occultando e quando necessario depistando, chiaramente andando al di là della tutela di sé stesso e della sua posizione».
Ombre nere su Palermo
Nell’inchiesta spunta anche il nome di Bruno Contrada, all’epoca dirigente della Mobile e poi numero due del Sisde, arrestato il 24 dicembre 1992 e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per i suoi appurati legami con Cosa Nostra. Secondo le carte, Contrada – di cui una sentenza irrevocabile (di cui la CEDU annullò successivamente gli effetti penali per ragioni giuridiche) ha accertato i rapporti con i boss Michele Greco e Totò Riina proprio nel 1980, anno in cui venne assassinato Mattarella – sarebbe stato informato da Piritore del ritrovamento del guanto. Lo stesso Piritore ha ammesso: «Avvisai subito il dirigente della Mobile, nella persona di Contrada, che evidentemente mi disse di avvisare il dottor Grasso». I due, secondo gli inquirenti, erano legati da amicizia: Contrada, almeno secondo quanto riportato nelle agende di quest’ultimo, partecipò al battesimo della figlia di Piritore un mese dopo il delitto. Come hanno testimoniato numerosi amici e collaboratori di Giovanni Falcone, quest’ultimo si diceva convinto che dietro il fallito attentato all’Addaura – ordito ai suoi danni nel giugno del 1989 – aleggiasse proprio la figura di Contrada.
L’omicidio Mattarella presentò da subito elementi che fecero supporre una convergenza tra mafia ed eversione neofascista. Fu proprio Giovanni Falcone a ipotizzare che gli esecutori materiali del delitto potessero essere Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari). A supporto di questa tesi, Falcone citò in Commissione Antimafia (1988) la dichiarazione di Cristiano Fioravanti, che accusò il fratello Valerio di essere uno degli esecutori. In un’audizione del 1990, Falcone parlò di «mandanti sicuramente all’interno della mafia, oltreché ad altri mandanti evidentemente esterni», lasciando intendere una possibile compenetrazione delle due piste. Tuttavia, le indagini non raccolsero prove conclusive e la pista fu archiviata. Un nuovo fascicolo indica oggi come possibili esecutori due mafiosi: Antonino Madonia (già ergastolano per numerosi omicidi eccellenti) e Giuseppe Lucchese. Secondo questa ricostruzione, sarebbe stato Madonia a sparare. Con la svolta dell’arresto di Piritore, però, potrebbe riaprirsi uno scenario ben più ampio e problematico.
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