martedì 18 Novembre 2025
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Sassaiola bus, 9 Daspo per gli ultrà di Rieti

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Il questore di Rieti, Pasquale Fiocco, ha emesso nove Daspo nei confronti di tifosi ultrà della squadra locale, coinvolti nell’attacco al pullman dei sostenitori del Pistoia Basket 2000. Otto di loro saranno esclusi da manifestazioni sportive per cinque anni, il nono – già colpito da un provvedimento – per otto anni. Tra i nove ultrà reatini raggiunti dal provvedimento della Questura ci sono anche i tre in carcere per omicidio volontario per l’azione violenta che ha provocato la morte dell’autista del pullman ospite.

L’Europa congela le sanzioni a Israele con la scusa dell’accordo di tregua

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I ministri degli Esteri dell’Unione Europea hanno deciso di congelare la proposta di sanzionare Israele. «Al momento non procediamo, ma non le escludiamo nemmeno», ha detto l’alta commissaria per gli Affari Esteri Kaja Kallas, sostenendo che la decisione è stata presa a fronte della «fragilità» della situazione sul campo. Mentre Israele continua a violare il cessate il fuoco a Gaza bombardando e affamando la popolazione, l’UE sfrutta la ratifica dell’accordo per continuare a evitare di prendere contromisure nei confronti dello Stato ebraico, arrivando a lodarlo per il suo lavoro: «Dobbiamo constatare un miglioramento degli aiuti umanitari a Gaza», ha detto infatti Kallas, senza menzionare che finora Israele ha concesso un’apertura dei corridoi umanitari solo parziale.

L’unica misura concreta adottata dall’Unione dopo due anni di genocidio e 70 mila morti civili, dunque, è stata fermata ancora prima di entrare effettivamente in vigore. Le sanzioni, proposte lo scorso settembre, prevedevano iniziative tiepide, a una prima impressione volte più a dare l’impressione alla società civile (in rivolta in tutta europa) di star agendo concretamente che non atte a fermare genocidio e l’avanzare delle nuove colonie illegali in Cisgiordania. Tra timidi innalzamenti dei dazi doganali e sanzioni contro Hamas e «ministri estremisti», infatti, non vi era alcun accenno a misure quali il blocco del commercio di armi o della collaborazione di aziende e università europee con i progetti di ricerca dello Stato sionista destinati alla sorveglianza della popolazione palestinese.

L’UE prosegue così sulla linea del doppio standard, non applicando nessuna misura contro Tel Aviv (che a 10 giorni di cessate il fuoco ha ucciso oltre cento palestinesi, scaricando in un solo giorno 153 tonnellate di bombe su Gaza) ma proseguendo imperterrita con le sanzioni alla Russia. Con l’ultimo pacchetto di sanzioni, il 19° dall’inizio della guerra nel 2022, l’Unione introduce infatti nuove misure che mirano a colpire settori economici strategici per Mosca, oltre ad annunciare il completo stop all’importazione di gas e GNL dalla Russia entro due anni. Misure che non sono neanche lontanamente state messe sul piatto, nel caso di Israele: mentre infatti criticava la mancanza di volontà, da parte della Russia, di arrivare a un accordo di pace, l’alta commissaria Kallas ha infatti dichiarato che in Medioriente «il cessate il fuovo ha superato il primo stress test e penso che questa sia una buona prima fase, ma ovviamente dobbiamo lavorare su cosa possiamo fare in più per arrivare a una pace sostenibile», ammettendo che «c’è molto da fare per portare all’interno gli aiuti umanitari» e «per far durare il cessate il fuoco». Secondo l’Europa, la responsabilità di una possibile rottura dell’accordo di pace è da imputare ad Hamas, per il suo «rifiuto di deporre le armi» e i suoi attacchi «contro i civili palestinesi». Ma la minaccia di sanzioni rimane sul tavolo, almeno fino a che non si assisterà a un cambiamento «reale e duraturo».

Nel frattempo, a Gaza si continua a morire. Di fatto, i palestinesi hanno raccontato ai giornalisti di non aver assistito a «nessun reale cambiamento», dall’inizio del cessate il fuoco: gli attacchi israeliani continuano, mentre gli aiuti umanitari sono ancora in gran parte bloccati. Il tutto nonostante Hamas stia mantenendo i propri impegni, con la restituzione, nella giornata di ieri, dei resti di due ostaggi. Per il vicepresidente USA, JD Vance, in visita a Tel Aviv per parlare degli sviluppi del prossimo futuro, il cessate il fuoco sta «andando meglio del previsto». E l’Europa sembra essere dello stesso parere.

Nelle carceri italiane stanno aprendo le prime stanze dell’affettività

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Nelle carceri italiane stanno aprendo le prime stanze dedicate ai colloqui intimi, in osservanza della sentenza della Corte Costituzionale che, quasi due anni fa, ha dichiarato illegittimo il divieto assoluto di affettività in carcere. Seguendo l’esempio degli istituti di Padova e Terni, il Lorusso e Cotugno di Torino si doterà, a partire dal primo novembre, di una stanza per gli incontri affettivi. Questi ultimi, proprio come per i colloqui, potranno essere richiesti dai detenuti una volta al mese, per una durata di un’ora. L’utilizzo del locale, privo della supervisione della polizia penitenziaria, è disciplinato da ordinanze interne che si rifanno alle linee guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP). Secondo quanto stabilito da quest’ultimo, non potranno accedere alla misura i reclusi sottoposti a isolamento sanitario o a regime di 41bis e coloro che hanno commesso durante la detenzione un’infrazione disciplinare o violato la legge, possedendo ad esempio microtelefoni o sostanze stupefacenti.

“L’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice”. Così si era espressa la Corte Costituzionale nel gennaio del 2024, con una sentenza che, richiamando la funzione educativa della pena, la serenità della famiglia e la salute psicofisica del detenuto, ha scardinato un tabù della società italiana: l’affettività in carcere. La sentenza, oltre ad avvicinare l’Italia a diversi Paesi europei, ha sancito che il detenuto ha il diritto di incontrare riservatamente non soltanto il coniuge, ma anche la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente, riferendosi dunque anche alle coppie di fatto o omosessuali.

Il primo istituto penitenziario ad adeguarsi alla strada tracciata dalla Consulta è stato quello di Terni, seguito da Padova e Torino. Le stanze dedicate agli incontri intimi sono arredate con un letto e annessi servizi igienici, non sono chiudibili dall’interno e la sorveglianza del personale di polizia penitenziaria è limitata all’esterno del locale. L’accesso da parte dei detenuti è regolamentato da ordinanze interne, compatibili con le disposizioni del DAP. Quest’ultimo è stato criticato dal sindacato di polizia OSAPP per il suo lavoro «fulmineo nell’applicare la sentenza della Corte Costituzionale e nell’organizzare l’intimità con una velocità che stupisce».

Dagli ultimi dati disponibili, la platea di potenziali beneficiari dei colloqui intimi è di circa 17mila detenuti. Sono esclusi quelli sottoposti a regime di 41bis e coloro che sono stati sospesi con sostanze stupefacenti, telefoni cellulari e oggetti atti a offendere. Per chi ha commesso un’infrazione disciplinare l’accesso è inibito per almeno sei mesi. L’ultima previsione, come rilevato da una parte della dottrina, rischia di attribuire alla misura una funzione disciplinare: sospendere un diritto in caso di infrazione introduce infatti una logica premiale, quando non apertamente punitiva.

Fincantieri: l’azienda italiana di Stato si butta nel business dei droni di sorveglianza

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Fincantieri, gruppo controllato dallo Stato e conosciuto per le sue navi militari e da crociera, ha firmato un’intesa strategica con la start-up italiana Defcomm, fondata dall’imprenditore Federico Zarghetta e specializzata nei droni per il settore marittimo, per accelerare lo sviluppo di unità navali autonome e droni di superficie destinati a missioni di sorveglianza, pattugliamento e raccolta dati. Il messaggio è chiaro: l’Italia non solo si riaffaccia sul mercato globale dei sistemi senza equipaggio, ma lo fa attraverso una società pubblica radicata nel tessuto economico nazionale, aprendo nuovi scenari industriali e politici.

L’accordo prevede un cofinanziamento per accelerare la produzione delle piattaforme navali sviluppate da Defcomm, mezzi che – secondo quanto dichiarato da Fincantieri – hanno già superato test di lunga durata. I droni potranno operare in modo completamente autonomo, oppure, essere controllati a distanza, e saranno integrabili sulle unità navali del gruppo. L’obiettivo è duplice: servire clienti italiani e stranieri e, allo stesso tempo, rafforzare la cosiddetta “sovranità tecnologica” del Paese. Il progetto rientra nella più ampia strategia di modernizzazione della cantieristica nazionale, che punta sempre più verso la produzione militare e la difesa avanzata. Il nodo critico è evidente. In un momento in cui il dibattito pubblico in Italia si interroga sulla crescita della spesa militare e sul ruolo delle aziende di Stato nel settore della difesa, la mossa di Fincantieri segna un’ulteriore accelerazione verso una visione in cui sicurezza e industria diventano strettamente intrecciate. Non si tratta solo di innovazione tecnologica: è un segnale politico. L’Italia vuole inserirsi nella catena produttiva mondiale della sorveglianza marittima, un comparto che supera la costruzione navale tradizionale e tocca questioni geopolitiche, economiche e morali.

La presenza dello Stato in questa scelta industriale ne amplifica la portata e le responsabilità. Da un lato, lo sviluppo interno di tecnologie autonome rappresenta un passo verso una maggiore indipendenza strategica e un rafforzamento dell’apparato industriale nazionale, dall’altro, evidenzia una tendenza ormai consolidata: la progressiva concentrazione di risorse pubbliche e competenze nel settore militare, a scapito di altri ambiti essenziali come la sanità, la ricerca civile o l’istruzione. La scelta di Fincantieri si inserisce in una strategia che privilegia la sicurezza e la difesa come assi portanti dello sviluppo economico. Questo modello, che intreccia sempre più strettamente Stato e industria bellica, rischia di ridefinire le priorità del Paese, orientandolo verso una logica di potenziamento militare e controllo tecnologico. La sfida per l’Italia sarà quella di mantenere un equilibrio tra innovazione, autonomia e responsabilità sociale, evitando che la corsa alla sicurezza diventi un motore esclusivo di crescita a discapito della dimensione civile e democratica.

 

Siria: il Regno Unito rimuove HTS dalle organizzazioni terroristiche

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Il governo britannico ha rimosso Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), il gruppo che ha guidato il rovesciamento dell’ex presidente Bashar al-Assad lo scorso dicembre, dalla sua lista di organizzazioni terroristiche. HTS è stato inserito nella lista di organizzazioni terroristiche del Regno Unito nel 2017 perché affiliato ad Al Qaeda. La scelta britannica ha lo scopo di avvicinare il Paese al nuovo governo siriano, guidato proprio dal leader di HTS, Al Sharaa. Essa segue un’analoga misura presa dagli USA lo scorso luglio.

Perdite di quasi mezzo miliardo: Elkann si prepara a vendere Repubblica e La Stampa

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Dopo anni di cure dimagranti, John Elkann, patron di Stellantis e della holding Exor, cassaforte della famiglia Agnelli, sembra pronto a lasciare gli ultimi pezzi editoriali pregiati: le testate La Repubblica e La Stampa. Le trattative sono ben vive, con potenziali compratori già allo studio. Per La Stampa, la cui vendita appare in fase più avanzata, è in piedi da tempo una trattativa con il Gruppo Nem guidato da Enrico Marchi. Per Repubblica, invece, è allo studio una proposta greco-saudita del gruppo guidato da Kyriakos Kyriakou. A spingere verso la cessione sono i conti in rosso: le perdite accumulate ammontano a quasi mezzo miliardo, un dato che supporta quelle che in molti ritengono essere le intenzioni dell’imprenditore di disfarsi dei due giornali.

Alta è la preoccupazione dei giornalisti dei due quotidiani. Mercoledì 15 ottobre, in un comunicato, l’assemblea delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica ha affermato di seguire «con grande attenzione le insistenti indiscrezioni riguardanti la cessione di attività del gruppo Gedi e dello stesso quotidiano». I giornalisti hanno proseguito ritenendo «fondamentale chiarire che, a prescindere dall’esito di qualsivoglia trattativa, Repubblica è anzitutto un patrimonio delle sue lettrici e dei suoi lettori, un presidio di informazione autonoma e critica, fondamentale nel sistema democratico del Paese. La proprietà del gruppo Gedi – hanno concluso – deve sapere che il nostro giornale può essere in vendita, ma non sarà mai in vendita il nostro giornalismo».

Allo stesso modo, il 18 ottobre il Cdr de La Stampa ha pubblicato un comunicato: «Le voci sulla possibile cessione de La Stampa e la sua eventuale separazione dal gruppo Gedi creano allarme e grande preoccupazione nelle redazioni. In gioco c’è infatti il destino di centinaia di posti di lavoro giornalistici e non». L’assemblea di redazione, «dopo un approfondito dibattito e nell’intenzione di poter lavorare senza ulteriori destabilizzazioni», ha chiesto un incontro con la proprietà, «perché sia l’azionista Exor a chiarire la situazione e a fornire le necessarie garanzie e prospettive». Il Cdr ha messo in chiaro che «questa o qualunque altra proprietà dovranno garantire gli attuali livelli occupazionali, la conferma e lo sviluppo dei progetti in cantiere o già in essere e gli investimenti necessari a sostenere il nostro lavoro in uno scenario sempre più competitivo».

Gli eloquenti numeri sembrano spiegare la determinazione di Elkann. Il quadro è drammatico: Repubblica, il giornale fondato da Eugenio Scalfari, ha perso, solo nel 2024, oltre 191.000 lettori (-6 per cento), scendendo a 98.400 copie cartacee con una perdita del 10,7 per cento. La Stampa ne ha salutati quasi 313.000 (-15,8 per cento), precipitando a 60.300 copie. Il digitale non offre sollievo: Repubblica ha quasi dimezzato le copie (da 36.975 a poco più di 20.000). Il gruppo Gedi nel 2024 ha chiuso con 224 milioni di fatturato e 15 milioni di perdite. Secondo le stime più recenti, il valore de La Stampa si aggirerebbe intorno ai 50 milioni di euro, mentre il totale di Gedi varrebbe 118 milioni. Nel frattempo Elkann investe lontano da Torino e Milano, costruendo un portafoglio di investimenti internazionale e sovente orientato verso il lusso e i beni di alto valore: da Louboutin a Hermès, da Philips all’Economist.

Il posto delle fragole e la scure del TAV

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La voce del fiume e del vento, un  lento cadere di foglie, il rosso, l’oro, le tinte brunite dell’autunno e lo splendore dei prati ancora verdi, disseminati di giallo tarassaco, in questa mattina che sa di primavera. Come ogni giorno, insieme a Gigio, il mio vecchio, amato cane, cammino lungo il sentiero che si dirama in mille varianti tra la fitta vegetazione del bosco fluviale. In questo che per me è diventato “il posto delle fragole”. ho visto, giorno dopo giorno, avvicendarsi le stagioni con i loro doni di fiori, frutti ed erbe. Ho colto la presenza furtiva degli animali della selva, la vita delle tane scavate in alto sopra il fiume, nella sabbia pietrificata. Dal folto dei rami le voci degli uccelli mi hanno raccontato di amori, nidi e addii; piccole, alate creature, merli, passeri, cinciallegre, tornate come sempre a svernare nei pruneti del fondovalle…

Accanto  alla selva, oltre il confine dei boschi, la campagna con i lavori agricoli, l’irrigazione dei prati nella canicola d’agosto, le fienagioni e il profumo del fieno, i voli dei corvi ed ora, dopo l’ultimo taglio dell’erba, le mucche al pascolo, ritornate dagli alpeggi alle stalle di pianura.

Bellezza, tenerezza che consola, e rabbia al pensiero che tutto questo può finire, inghiottito dalla grande, mala, inutile, costosissima opera che si chiama TAV.

Qui, proprio qui, su questa terra amata è previsto il raccordo tra la linea ferroviaria storica e la progettata linea ad Alta velocità Torino – Lyon, con un mastodontico ponte, nuovi fasci di binari, l’ennesima desertificazione, la stessa che ha devastato i castagneti e le foreste della Clarea ed ora scende lungo la Valle con i suoi cantieri di morte.

Oggi ho con me le mappe (reperite a fatica, da privati, perché neppure i Comuni vengono avvertiti dell’inizio ed entità degli interventi) dei futuri sondaggi geognostici, propedeutici all’inizio dei lavori sul territorio di Bussoleno. 

Ho portato anche la bandiera NO TAV , per piantarla sui terreni minacciati.

La bandiera sarà un grido, un segno di ribellione: la rassegnazione non abita questa Valle, perché nella resistenza del movimento NO TAV continuano a vivere la ragione e la forza della lotta partigiana e ridiventano attuali le istanze delle lotte operaie, sociali e ambientali del passato.

Lo sventolio della bandiera col treno crociato mi segue di lontano per un lungo tratto, mentre percorro la via del ritorno. 

Intorno, lo sguardo  si allarga alle case lungo la ferrovia e si alza alle frazioni – Falceagna, Pietrabianca, Lorano, Meisonetta – che costellano i pendii, fino alla cima del Rocciamelone già imbiancato dalla prima neve.  

Le montagne sembrano abbracciare, assorte e protettive, questo lembo di mondo che per noi è casa e vita.

Azerbaijan: rimossi i limiti al transito merci all’Armenia

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L’Azerbaigian ha rimosso tutte le restrizioni al transito merci verso l’Armenia, e inaugurato la prima spedizione dal Paese verso Erevan. Il transito di merci azere in Armenia è stato interrotto verso la fine degli anni ’80, quando iniziarono a emergere le frizioni che portarono alla guerra del Nagorno-Karabakh. La scelta di rimuovere le restrizioni da parte dell’Azerbaijan segue un accordo di pace raggiunto lo scorso agosto, che istituisce un corridoio tra l’Azerbaijan e la regione di Nakhchivian, exclave azera in territorio armeno. L’accordo non è ancora stato ratificato, e presenta ancora diversi nodi da sciogliere, tra cui la richiesta dell’Azerbaigian di modificare la costituzione dell’Armenia.

L’UE prepara il 19esimo pacchetto di sanzioni e il blocco totale al gas russo

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L’Europa chiude i rubinetti al gas russo. I ministri dell’Energia dell’Unione europea hanno approvato a maggioranza la proposta della Commissione UE per lo stop alle importazioni di gas e GNL da Mosca. La misura, destinata a entrare in vigore in più fasi, segna uno spartiacque nella politica energetica comunitaria: dal 1° gennaio 2026 sarà vietato stipulare nuovi contratti con la Russia, gli accordi a breve termine ancora in corso dovranno cessare entro il 17 giugno 2026, mentre quelli a lungo termine saranno definitivamente chiusi entro il 1° gennaio 2028. La serie di regole è stata rinominata dal ministro per il Clima danese, Lars Aagaard, “Pacchetto della libertà”, perché allontana le cancellerie europee dalla dipendenza energetica da Mosca.

La proposta di regolamento, spiega il Consiglio in una nota, costituisce un elemento centrale della tabella di marcia REPowerEU dell’UE: con questa decisione, l’UE compie un passo decisivo verso l’autonomia dalle forniture di Mosca: attualmente circa il 13% del gas consumato in Europa proviene ancora da Mosca. Solo Ungheria e Slovacchia si sono opposte, denunciando gravi rischi per la sicurezza energetica. I due Paesi senza sbocco sul mare stanno, infatti, lottando da tempo per mantenere le forniture russe esistenti. Da Budapest sono arrivate le critiche più dure: «Per noi l’approvvigionamento energetico non ha nulla a che fare con la politica. L’impatto reale di questo regolamento è che la nostra fornitura verrà uccisa. Non parlo dell’aumento dei prezzi. Parlo della sicurezza dell’approvvigionamento per le nostre famiglie», ha dichiarato il ministro degli Esteri Peter Szijjarto, presente a Lussemburgo per il voto, ribadendo che il Paese non intende rinunciare al gas russo senza alternative concrete. In risposta alla posizione ungherese, è intervenuto l’omologo polacco, Miłosz Motyka, che ha invitato a forme di “solidarietà europea” per sostenere le forniture di Budapest e Bratislava.

In due anni, i flussi energetici provenienti dalla Russia saranno chiusi, mentre Bruxelles si prepara a introdurre anche il 19° pacchetto di sanzioni contro il Cremlino. L’Alta rappresentante per la politica estera, Kaja Kallas, ha confermato che l’approvazione del nuovo pacchetto potrebbe arrivare «già questa settimana», segnando l’avvio di una fase di ulteriore pressione economica e politica nei confronti di Mosca, i cui risultati, lungi dalla retorica e dalle aspettative europee, tardano ad arrivare. Il pacchetto di sanzioni colpirà diversi settori: istituti bancari russi, piattaforme di criptovalute, profitti derivanti dall’export energetico e una “flotta ombra” del Cremlino attiva nell’elusione delle restrizioni. Per la Russia, la mossa rappresenta un colpo pesante nei confronti delle sue fonti di finanziamento e della capacità di esportare combustibili fossili verso l’Europa, con implicazioni che vanno al di là dell’energia per toccare l’ambito geopolitico e finanziario. Nel frattempo, Mosca ha reagito con una nota diplomatica rivolta all’Italia: «Non considerate di usare i nostri asset congelati», ha avvertito, segnalando che la contromisura potrebbe colpire interessi e beni russi all’estero. L’Europa appare dunque pronta a intensificare la pressione economica, ambientale e politica verso il Cremlino, proprio mentre sullo scacchiere globale si respira un’aria di distensione in attesa dell’incontro tra il presidente statunitense Donald Trump e il presidente russo Vladimir Putin.

Nonostante le sanzioni, la Russia non appare piegata come sperato da Bruxelles e Washington. L’economia di Mosca ha dimostrato una resilienza sorprendente, mostrando una tenuta maggiore del previsto: le sanzioni hanno imposto costi reali – il prodotto interno lordo russo è stimato essere circa il 10-12 % sotto la traiettoria prevista senza guerra e restrizioni. La caduta non ha, però, generato un collasso economico o il tracollo immediato dell’apparato statale: dopo una breve recessione nel 2022, l’economia russa ha registrato un boom nei due anni successivi e la ripresa nel 2023, i redditi in crescita, i salari reali ai massimi storici, la disoccupazione ai minimi e il controllo rigido dei flussi di capitale suggeriscono che Mosca ha saputo adattarsi. Sull’altro fronte, per l’Europa lo stop del gas russo comporta costi che rischiano di essere trasferiti sui consumatori: l’aumento della volatilità nei prezzi del gas è già documentato, con il benchmark europeo che si è attestato ben al di sopra dei livelli pre-crisi e con la dipendenza da fattori geopolitici e meteo più marcata che mai. La riduzione delle forniture e la necessità di importare GNL da Stati Uniti e Qatar a prezzi più elevati potrebbero spingere nuovamente verso l’alto le bollette energetiche. L’Italia, fortemente dipendente dal mercato spot e dalle infrastrutture di rigassificazione ancora limitate, rischia oscillazioni dei prezzi più marcate nei mesi invernali. Gli esperti avvertono che la transizione energetica non potrà compensare in tempi brevi la chiusura dei rubinetti russi. Così, mentre Mosca riorienta la propria economia e mantiene la leva energetica sul mercato globale, l’Europa si trova a fare i conti con l’altra faccia delle sanzioni: la prospettiva di un inverno più caro e un equilibrio energetico ancora fragile.

Slovacchia, condannato a 21 anni l’uomo che sparò al premier Fico

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Il tribunale di Banská Bistrica, in Slovacchia, ha condannato a 21 anni di carcere per terrorismo Juraj Cintula, poeta 72enne che il 15 maggio 2024 aveva sparato al primo ministro Robert Fico, ferendolo gravemente. L’attentato avvenne a Handlová durante un incontro politico: Cintula esplose quattro colpi da circa un metro, colpendo Fico all’addome, all’anca, alla mano e al piede. Il premier fu dimesso dopo 16 giorni di ricovero. Il giudice Igor Kralik ha ritenuto l’imputato colpevole di terrorismo, avendo agito per ostacolare il governo. Cintula ha affermato di non voler uccidere Fico ma fermarne le politiche.