venerdì 21 Novembre 2025
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Thailandia, morta a 93 anni la regina madre Sirikit

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È morta a 93 anni a Bangkok la regina madre Sirikit, moglie del defunto re Bhumibol Adulyadej (Rama IX) e madre dell’attuale sovrano della Thailandia Maha Vajiralongkorn (Rama X). Ricoverata dal 2019 per problemi di salute, aveva contratto un’infezione il 17 ottobre. Nata nel 1932 in una famiglia aristocratica, era considerata una figura amatissima e simbolica: il 12 agosto, giorno del suo compleanno, è la festa della mamma in Thailandia. Durante i 70 anni di regno del marito sostenne progetti sociali e ambientali, difese le tradizioni artigianali e mantenne un ruolo influente anche nei periodi di turbolenza politica.

Tre raffinerie europee che lavorano petrolio russo sono “misteriosamente” saltate in aria

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Tre esplosioni in tre giorni hanno colpito altrettante raffinerie europee legate al petrolio russo: Ploiesti in Romania, Százhalombatta in Ungheria e Bratislava in Slovacchia. Un filo rosso collega i tre episodi: tutte e tre dipendono dal greggio di Mosca e sono state colpite in un momento cruciale della guerra energetica in atto. Mentre Washington vara nuove sanzioni contro i colossi energetici russi, Rosneft e Lukoil – “un atto ostile” secondo il presidente Putin – e l’UE approva lo stop al gas russo e il diciannovesimo pacchetto di misure punitive contro Mosca ma frena sull’uso degli asset russi congelati, le infrastrutture che ancora garantivano all’Europa un minimo margine di autonomia energetica vengono spazzate via da fiamme “inspiegabili”.

La stampa ufficiale liquida gli eventi come “incidenti tecnici”, ma l’impressione è che dietro ci sia molto di più: una strategia di sabotaggio sistematico, la stessa che tre anni fa fece saltare i gasdotti Nord Stream nel Baltico. Una guerra silenziosa, parallela a quella che avviene sul campo, che non mira solo a colpire Mosca, ma a piegare chi mantiene canali di approvvigionamento con Mosca e a ridisegnare gli equilibri di potere del Vecchio continente. Ricapitolando: il 20 ottobre un’esplosione ha devastato la raffineria di Ploiesti, in Romania, di proprietà di Lukoil Europe, filiale del colosso russo, ora sottoposto a sanzioni da parte di Washington. Poche ore dopo, un incendio ha colpito l’impianto ungherese di Százhalombatta, il più grande del Paese, sul Danubio a meno di 20 chilometri da Budapest, alimentato dal petrolio che arriva dal Druzhba. Due giorni più tardi, a Bratislava, in Slovacchia, una terza deflagrazione ha investito un altro impianto del gruppo MOL, della stessa compagnia ungherese colpita a Szazhalombatta, anche questa alimentata dal petrolio russo del Druzhba. Proprio con i dirigenti MOL si è confrontato il premier ungherese Viktor Orbán, che, in un’intervista alla radio Kossut, ha spiegato che l’Ungheria sta lavorando a un modo per “aggirare” le sanzioni USA contro le compagnie petrolifere russe. Budapest e Bratislava si sono imposte contro lo stop alle importazioni di gas russo. Entrambi i Paesi dipendono fortemente dalle forniture di Mosca e temono gravi ripercussioni economiche e sociali. Budapest ha definito il piano una minaccia alla sicurezza energetica nazionale, mentre Bratislava ha chiesto più tempo per adattarsi.

Tre episodi in 72 ore, nello stesso corridoio energetico che trasporta il greggio russo verso l’Europa centrale. I tre impianti hanno in comune che raffinano petrolio di fornitura russa e, ulteriore coincidenza, hanno registrato incidenti in una fase in cui i droni ucraini stanno intensificando gli attacchi alle raffinerie sul territorio russo. Se, citando Arthur Conan Doyle, «uUn indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova», quanto accaduto pare troppo perfetto per essere casuale. Gli episodi coincidono, infatti, con l’annuncio delle nuove sanzioni statunitensi e con l’aumento del prezzo del Brent: un tempismo talmente preciso da sollevare sospetti sulla reale dinamica di quanto accaduto. Anche i droni che in passato hanno colpito il ramo meridionale dell’oleodotto Druzhba – quello che rifornisce Ungheria e Slovacchia – evitano accuratamente il tratto diretto in Polonia, fedele alleata atlantica. Se si trattasse di sabotaggio, come sempre più osservatori ipotizzano, allora questi atti non sarebbero indirizzati soltanto contro la Russia – che ne soffre solo marginalmente – ma contro l’Europa, che perde ogni residuo di autonomia energetica e politica. La linea di frattura è sempre la stessa: punire i Paesi europei che tentano una politica energetica autonoma, colpire chi ancora mantiene legami con Mosca, costringere tutti gli altri a riallinearsi sotto il controllo di Washington.

A consolidare questa ipotesi, c’è come osserva Gianandrea Gaiani, quella che potremmo chiamare la “Dottrina Tusk-Sikorski”, dal nome del primo ministro e del ministro degli Esteri polacchi, che hanno di fatto sdoganato la legittimità degli attacchi terroristici a infrastrutture che rappresentino anche indirettamente interessi russi in Europa. Parafrasando il loro pensiero, infatti, sabotare infrastrutture legate alla Russia non sarebbe un crimine, ma un atto legittimo di difesa. Una teoria che giustifica atti di terrorismo sul suolo europeo, purché abbiano come bersaglio interessi russi – anche se quei bersagli coincidono con infrastrutture strategiche di Paesi dell’Unione. Sono esplicative, in questo senso, le dichiarazioni del premier polacco Donald Tusk: «Il problema con Nord Stream 2 non è che sia stato fatto saltare in aria. Il problema è che è stato costruito». Varsavia, che già nel 2022 aveva celebrato tramite un tweet di Radoslaw Sikorski, poi cancellato, la distruzione del Nord Stream con un eloquente «Grazie USA!», oggi legittima di fatto nuovi attentati. Nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri polacco ha pubblicamente incoraggiato gli ucraini a distruggere l’oleodotto Druzhba, esprimendo in un post su X la speranza che il comandante delle forze di sistema senza pilota delle Forze armate ucraine, Robert Brovdi, disabilitasse l’oleodotto Druzhba, dopodiché l’Ungheria avrebbe ricevuto petrolio via Croazia. Il messaggio è chiaro: colpire raffinerie, oleodotti o gasdotti legati agli interessi russi non solo è tollerabile, ma auspicabile. Una posizione che apre la porta a ogni arbitrio e mette l’Europa su un crinale pericoloso, dove la sicurezza energetica diventa strumento di guerra politica.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il vero intento delle sanzioni contro il petrolio russo è ridisegnare il continente e produrre un vantaggio economico per il petrolio USA. Non a caso, l’energia in Europa costa tre volte e mezzo più che negli Stati Uniti, le industrie chiudono o delocalizzano e la dipendenza dal gas e dal petrolio “alleato” cresce ogni giorno. Le raffinerie esplose non sono semplici infrastrutture danneggiate, ma simboli di un equilibrio che si vuole distruggere. Se le esplosioni in Romania, Ungheria e Slovacchia non sono state accidentali ma frutto di sabotaggio, vanno annoverate nella stessa categoria degli attentati ai gasdotti Nord Stream e vanno intese come tentativi di riorientare gli equilibri del continente attraverso una ridefinizione delle sue politiche energetiche: ridurre l’influenza dei Paesi fondatori, a cominciare dalla Germania – un tempo collegata direttamente alla Russia tramite il Nord Stream – e aumentare, invece, il peso dei Paesi di più recente adesione, quelli più strettamente legati agli Stati Uniti. In questa guerra energetica senza dichiarazioni né fronti ufficiali, l’Europa rischia di restare non un attore, ma il campo di battaglia.

USA sanzionano presidente colombiano Petro per accuse di traffico di droga

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L’amministrazione Trump ha imposto sanzioni al presidente colombiano Gustavo Petro, alla moglie Veronica Alcocer, al figlio Nicolás Petro Burgos e al ministro dell’Interno Armando Benedetti, accusandoli di favorire il traffico internazionale di droga. Il segretario al Tesoro Scott Bessent ha affermato che Petro avrebbe permesso ai cartelli di prosperare, annunciando “misure forti” per proteggere gli Stati Uniti. Le sanzioni aggravano le tensioni tra Washington e Bogotá, già in aumento dopo gli attacchi americani contro imbarcazioni sospettate di trasportare stupefacenti al largo del Sud America, e segnano un duro colpo ai rapporti con l’alleato colombiano.

Il Consiglio di Stato condanna il sistema dei CPR: non tutelano dignità e salute

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Una sentenza del Consiglio di Stato fa tremare i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), stabilendo che lo schema di capitolato d’appalto utilizzato per la loro gestione non tutela a sufficienza il diritto alla salute e la dignità delle persone che vi sono recluse. I giudici amministrativi hanno accolto il ricorso di Asgi e Cittadinanzattiva, annullando il decreto ministeriale del 4 marzo 2024 e imponendo al Ministero dell’Interno di rivedere le norme che regolano l’assistenza sanitaria e la prevenzione del rischio suicidario. La pronuncia denuncia un «difetto di istruttoria» per il mancato coinvolgimento del Ministero della Salute e del Garante nazionale dei detenuti, e chiede di adeguare «scrupolosamente» il capitolato alla direttiva Lamorgese del 2022, superando le attuali «discrasie». Intanto, però, è proprio su quello schema annullato che si basano gli appalti per la gestione dei CPR in tutta Italia.

La decisione del Consiglio di Stato ha ribaltato la sentenza del TAR Lazio che aveva respinto il ricorso e riconosciuto la fondatezza delle censure mosse dalle associazioni: il capitolato non garantisce standard adeguati per le persone con vulnerabilità psichiatrica o in trattamento farmacologico, non prevede un piano anti-suicidiario, procedure di osservazione all’ingresso, né la necessaria formazione del personale. I giudici hanno evidenziato come, in assenza di una legge che disciplini dettagliatamente i «modi» del trattenimento – come recentemente rilevato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 96 del 2025 –, sia ancor più cruciale che l’amministrazione si avvalga del contributo di tutti i soggetti competenti, a partire dal Ministero della Salute e dal Garante nazionale.

La sentenza si basa anche su rapporti allarmanti, come quello del Garante nazionale dei detenuti del 2023 e del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) del 2024, che descrivono «situazioni assai problematiche» nei CPR: somministrazione diffusa di psicofarmaci non prescritti, mancanza di controllo sulla distribuzione dei farmaci, valutazioni superficiali sull’idoneità alla permanenza, carenza di assistenza psicologica e assenza di protocolli strutturati per prevenire l’autolesionismo e il suicidio. Inoltre, in alcuni centri è stata rilevata la «cronica mancanza di sistemi di chiamata all’interno delle aree detentive», con casi emblematici di decesso per soccorso tardivo.

Il Consiglio di Stato, pur non imponendo l’equiparazione integrale tra CPR e strutture carcerarie – per evitare di attribuire una connotazione sanzionatoria al trattenimento amministrativo –, ha affermato che le norme penitenziarie «possono essere presi come riferimento quando permettono di innalzare gli standard dell’assistenza sanitaria e psicologica». Ha inoltre indicato precise disposizioni della direttiva del 2022 che devono essere integrate nel capitolato, tra cui il diritto alla copia della scheda sanitaria in ogni momento, l’obbligo di una nuova valutazione medica in caso di emersione di incompatibilità e la tenuta di un registro degli atti autolesionisti e suicidari.

La pronuncia segna dunque una svolta, riconoscendo che il sistema attuale, delegato a soggetti privati orientati al profitto e privo di standard unitari, non garantisce i livelli minimi di tutela richiesti dalla Costituzione e dalle norme internazionali. Come ha scritto il Collegio, «Nelle more dell’indispensabile intervento del legislatore, le Amministrazioni competenti sono chiamate ad un attento esame della situazione fattuale nei Centri, affinché la riformulazione delle disposizioni impugnate del capitolato possa tener conto di ogni elemento rilevante, nella prospettiva di garantire livelli di assistenza socio-sanitaria in linea con le previsioni costituzionali e sovranazionali». Una condanna senza appello per un modello di detenzione amministrativa che continua a negare, nei fatti, il rispetto della dignità umana.

A far scattare l’allarme era stato, già lo scorso dicembre, quanto emerso dal rapporto del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, che ha dipinto un quadro agghiacciante delle condizioni all’interno dei CPR italiani. Esaminando i Centri di Milano, Gradisca d’Isonzo, Potenza e Roma, il Comitato ha denunciato misure di sicurezza eccessive (finestre con tripla rete, strutture a “gabbia”), la mancanza di attività ricreative e personale formato per gestire situazioni di forte stress, oltre a cibo avariato, scarse condizioni igieniche e carenza di beni di prima necessità. È stato inoltre criticato il ricorso a reparti antisommossa a rotazione anziché a figure professionali specializzate, la limitazione dei diritti fondamentali (accesso a un avvocato, informazioni sul trattenimento, notifiche a terzi) e la frequente inadempienza dei gestori rispetto ai capitolati d’appalto, con numerose indagini penali in corso. Il dossier fa riferimento a casi eclatanti — come il sequestro della gestione del CPR di via Corelli a Milano e le indagini su Palazzo San Gervasio —, dove sarebbero stati documentati abusi e la somministrazione segreta di psicofarmaci per “neutralizzare” le proteste.

Turchia, naufragio al largo di Bodrum: 17 migranti morti

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Una barca con migranti si è rovesciata la scorsa notte al largo della costa di Bodrum (Turchia, mare Egeo) dopo essere partita dalla costa turca. La Guardia costiera turca ha tratto in salvo solo due persone; un migrante afghano è riuscito a nuotare fino a riva e ha lanciato l’allarme. Il bilancio ufficiale dei corpi recuperati è di 16 migranti irregolari e un presunto scafista.

Quando Bulgakov scrisse a Stalin: un caso emblematico di lotta contro la censura

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In Italia, come in gran parte dell’Europa, è atto un processo che tenta di controllare la diffusione delle notizie online. Proprio in questi giorni si è discusso della possibilità di adottare una misura che prende il nome di Chat Control 2.0 e che prevedeva il controllo sistematico di tutti i messaggi privati scritti da noi utenti. La proposta è stata bocciata ma è allarmante anche solo il fatto che sia stata proposta. In un’epoca in cui la vita sociale, culturale e politica passa attraverso le piattaforme digitali, interrogarsi sulla natura della censura e sui confini della moderazione è vitale. Quanto la verità, o quella che viene presentata come tale, è filtrata dalle agende politiche di un determinato governo? Chi stabilisce cosa è lecito pensare, dire o diffondere? Per rispondere a questa domanda la vicenda di Michail Bulgakov ci aiuta a comprendere meglio le dinamiche in atto e la posta in gioco. Ma facciamo un passo indietro.

Nella Russia di Bulgakov, lontanissima dalla Russia di cui ci avevano fatto innamorare Tolstoj e Dostoevskij, le parole usate più spesso erano tradimento e fucilazione. L’altra parola che andava in gran voga in quegli anni era «nemico del popolo». E bastava davvero poco per guadagnarsi l’etichetta di nemico del popolo. I collezionisti di francobolli, gli esperti di religione, gli architetti, gli orientalisti, gli astronomi divennero rapidamente nemici del popolo. Se avevi un’idea, e quell’idea non era approvata dal Partito, eri un nemico del popolo. Ma anche se non avevi un’idea, eri un nemico del popolo, perché non ti eri impegnato a sufficienza per proteggere i sacri ideali della Rivoluzione. 

Quando il famoso piano quinquennale che avrebbe dovuto mostrare al mondo la forza produttiva dell’Unione Sovietica fallì, Stalin accusò gli ingegneri di aver sabotato e distrutto le macchine industriali, e li fece fucilare. Artisti, scrittori, intellettuali, musicisti caddero vittima di processi sommari; nessuno era al sicuro. Lo scrittore teatrale Mejerchol’d venne fucilato. Isaak Babel’, autore de La guardia a cavallo, venne giustiziato. Il poeta Osip Mandelstam venne spedito in un gulag dove morì pochi anni dopo la sua incarcerazione. Aleksandr Blok, anche lui poeta, scampato alle grandi purghe staliniane,  confesserà ai suoi amici pochi anni prima della morte: «Soffoco, soffoco, soffoco. Soffochiamo tutti. La rivoluzione mondiale si sta trasformando nell’angina pectoris mondiale». Questa era l’atmosfera che si respirava nella Russia degli anni Trenta.

Le parole di Blok mi sono rimaste a lungo impresse nella mente. Perché descrivono un clima che mi risuona fin troppo familiare. La battaglia contro la censura non è solo letteraria, è una battaglia per l’ossigeno. Se nella Russia di Stalin la repressione passava per la fucilazione fisica, oggi passa attraverso il regime della moderazione algoritmica, l’ombra della censura preventiva, la scomparsa digitale: post rimossi, account sospesi, algoritmi che puniscono la dissonanza. Il principio, però, è sempre lo stesso: controllare la parola, renderla docile, addomesticata, controllata. Fu in questo contesto che Michail Bulgakov decise di scrivere una lettera al governo sovietico. A Stalin in persona, per la precisione.

Il regista teatrale Vsevolod Meyerhold e sua moglie, l’attrice Zinaida Meyerhold-Reich. Leningrado (oggi San Pietroburgo), 1925. Vsevolod Meyerhold fu arrestato il 20 giugno 1939, torturato e condannato a morte mediante fucilazione il 1º febbraio 1940. Zinaida Meyerhold fu pugnalata a morte da intrusi sconosciuti

Per tutta la sua vita Bulgakov ebbe un rapporto drammatico con il potere sovietico. Il suo romanzo, Cuore di cane, risultò impubblicabile, perché con la sua ironia era troppo lontano dalla sensibilità sovietica. Dalla serietà mortale dell’Unione sovietica che non ammetteva la satira, in nessun caso e in nessun modo. La stessa sorte toccò alla commedia La vita del signor de Moliere, giudicato un dramma troppo borghese e per tale motivo estraneo ai sacri ideali della rivoluzione. Più passavano gli anni e più la censura si accanì contro Bulgakov. Le sue opere teatrali vennero sistematicamente ritirate, le sue pubblicazioni proibite, i suoi manoscritti respinti. La sua opera più celebre, Il maestro e Margherita, il capolavoro di Bulgakov che metta in scena un dramma farsesco dove il Diavolo in persona si aggira per le strade di Mosca seminando caos e scompiglio nella vita dei moscoviti, metafora e spietata satira del potere sovietico, non vide mai la luce, non mentre Bulgakov era ancora vivo. Fu allora, nel 1930, che decise di scrivere al Governo. «Dopo avere io stessa battuto a macchina le copie, consegnammo le lettere a sette indirizzi,» racconta Elena Sergeevna, la moglie di Bulgakov, I destinatari erano Stalin, Molotov, Kaganovič, Kalinin, Jagoda, Bubnov (all’epoca commissario alla Pubblica Istruzione). 

«Dopo che le mie opere sono state proibite, tra molti cittadini ai quali è nota la mia attività di scrittore, hanno cominciato a diffondersi voci che mi danno tutte lo stesso consiglio: scrivere un “dramma comunista” e inoltre rivolgermi al governo dell’Urss con una lettera di pentimento nella quale dovrei rinnegare le idee espresse nelle mie precedenti opere letterarie e assicurare che d’ora in poi lavorerò come scrittore compagno di strada, fedele all’idea del comunismo. (…) Non ho seguito questo consiglio. (…) Quanto al dramma comunista, non ho neppure provato a scriverlo, sapendo in partenza che non ci sarei riuscito. Il desiderio maturato in me di porre fine al mio supplizio di scrittore mi induce a rivolgermi al Governo dell’URSS con una lettera schietta».

Mi piace tantissimo questa parola: schietta. Una lettera schietta, scrisse Bulgakov. Una lettera sincera. Autentica. La sincerità destabilizza. È sovversiva. Fa crollare i sistemi, abbatte gli idoli, non guarda in faccia i dogmi e le istituzioni. Non s’inchina, non si prostra, non lusinga. E poi Bulgakov prosegue illustrando tutte le colpe dell’Unione Sovietica. La sua penna vibra di rabbia. Questo è un passaggio fondamentale ed è il motivo per cui tutti dovrebbero leggere questa lettera, per sentire questa rabbia, per assaporarne il sapore sulla lingua e farla propria. La rabbia è il contrario della rassegnazione, del cinismo, della depressione. «Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutti i posti… (…) sarò negli urli di quelli che si ribellano», dice Toad Joad, il protagonista di Furore, uno dei migliori romanzi di Steinbeck. Mia la rabbia, mia la furia, mia la forza, sembra dirci. Benedetto chi inveisce, chi protesta, chi non si rassegna. E lo stesso dovette provare Bulgakov.

Ogni riga, ogni sillaba di quella lettera sembrava dire: non ne posso più. Mejerchol’d prima di essere arrestato e fucilato aveva detto: «Dove una volta c’erano i migliori teatri del mondo, ora tutto è squallidamente regolato, aritmeticamente medio, sbalorditivamente mortale per la mancanza di talento. Voi avete fatto qualcosa di mostruoso! Avete eliminato l’arte!».

Lo scrittore Michail Bulkagov nel 1928

Anche Bulgakov era dello stesso parere. Come artista in primis ma come uomo soprattutto. Non ne posso più, questo è il succo di tale lettera, di chi stronca il dibattito, di chi reprime il dissenso, di chi vuole spegnere sul nascere qualsiasi pensiero critico. Non ne posso più di un sistema usato per non fare chiarezza ma per generare repressione e che decide in modo arbitrario di cosa si può parlare, quali opinioni è lecito avere, quali verità bisogna oscurare. 

«La lotta contro la censura, qualunque essa sia e sotto qualunque potere, è un mio dovere di scrittore, così come gli appelli alla libertà di stampa. Sono un appassionato sostenitore di questa libertà e suppongo che, se un qualsiasi scrittore pensasse di dimostrare che a lui non è necessaria, sarebbe come un pesce che dichiarasse pubblicamente di poter fare a meno dell’acqua».  Cos’altro aggiungere? Come commentare questo paragrafo perfetto in tutta la sua risolutezza? 

Oggi non serve più un regime per far tacere le voci scomode. Basta la distrazione, il rumore, la paura di essere giudicati. È in atto un altro tipo di censura, più sottile e subdola, che lavora dentro di noi: l’autocensura. La censura, infatti, non inizia mai con la violenza ma con il consenso. I social e Internet ci stanno educando a credere che la libertà di parola sia un lusso e non un diritto. Ma ogni volta che accettiamo passivamente di essere sorvegliati per il nostro bene, ogni volta che un potere — politico, economico o tecnologico — ci convince che certi contenuti vanno filtrati per proteggerci, stiamo consegnando un frammento della nostra autonomia. Occorre tenerlo sempre a mente, ecco tutto.

Allerta rossa per tempesta tropicale “Melissa” nei Caraibi

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La tempesta tropicale Melissa sta imperversando nei Caraibi: forti piogge e inondazioni hanno provocato almeno un morto e cinque feriti ad Haiti, mentre l’allerta rossa è elevata anche in Giamaica e nella Repubblica Dominicana, dove sono attese frane e alluvioni lampo. La tempesta si sposta verso nord e potrebbe evolversi a uragano nei prossimi giorni.

Dopo anni di separatismo a Cipro nord vince l’idea di convivenza coi greco-ciprioti

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È raro vedere una capitale europea con una folla in piazza a festeggiare i risultati delle elezioni presidenziali, mentre a poche centinaia di metri di distanza, nell’altra metà della città, regna il silenzio e la quiete di una domenica sera qualsiasi. Nicosia, a Cipro, è l’ultima capitale divisa d’Europa, e qui la scena assume un significato particolare: nella centralissima Zahara Street, a due passi dalla zona smilitarizzata dell’ONU che da 51 anni separa le due comunità dell’isola, la folla festante di domenica scorsa, 19 ottobre, era turco-cipriota e si trovava, di fatto, in un altro Paese. La Repubblica Turca di Cipro del Nord, che domenica scorsa ha tenuto le elezioni presidenziali, non è riconosciuta dalla comunità internazionale: il governo ufficiale, quello del Sud, parla greco e ignora le attività dello Stato secessionista. Eppure, al di là della linea di cessate il fuoco tracciata oltre mezzo secolo fa, i meccanismi democratici sembrano funzionare: il candidato di centro-sinistra Tufan Erhürman, europeista e favorevole a una federazione con i greco-ciprioti, ha ottenuto un clamoroso 63% dei voti, sconfiggendo il rivale uscente, il nazionalista Ersin Tatar, vicino ad Ankara.

«Kıbrıs’ta AKP sandığa gömüldü» , «L’AKP seppellita nell’urna», rimbalza sui social turco-ciprioti dall’annuncio del risultato. L’AKP, partito di Erdoğan, non corre sull’isola, ma molti hanno vissuto il voto come un referendum tra restare ciprioti o avviarsi verso una futura, quasi inevitabile, assimilazione alla Turchia.

Ma soprattutto, è sembrata l’ultima possibilità di sbloccare quell’impasse che tiene l’isola ferma al 21 luglio 1974, quando un colpo di Stato orchestrato dai colonnelli greci per realizzare l’enosis – l’annessione alla “madre patria” – si concluse con l’invasione dell’esercito turco e l’occupazione del 37% del territorio. Da allora, molto è cambiato, ma non la divisione.

La convivenza tra le due comunità, come l’avevano immaginata gli ex colonizzatori britannici, durò appena tre anni; poi, dal 1963 al 1974 Cipro divenne una polveriera, dilaniata da scontri interetnici, enclavi, persone scomparse, fosse comuni e dall’intervento dei caschi blu dell’ONU. La maggioranza greco-cipriota, oltre l’80% della popolazione, non era disposta a condividere equamente il potere con la minoranza turcofona, circa il 20%.

Dopo l’invasione, i turco-ciprioti proclamarono la secessione. Nel 1983 nacque una seconda Cipro: uno Stato non riconosciuto, isolato dall’embargo e sostenuto solo da Ankara. Da allora, la storia dell’isola è rimasta sospesa in un’infinita discussione su come ricomporre la convivenza. Per trent’anni i cittadini delle due comunità poterono incontrarsi solo all’estero: sull’isola, i 158 chilometri di “buffer zone” dell’ONU restavano invalicabili.

Nel 2004 i greco-ciprioti sono entrati nell’Unione Europea; anche i turco-ciprioti, formalmente, ma la loro terra non riconosciuta no. Ora aperta al mondo ma ancora formalmente isolata. Inclusi solo sulla carta, vivono nel limbo delle dispute territoriali, sotto la presenza, o l’occupazione, a seconda dei punti di vista – dell’esercito turco. Stranieri in patria anche nella parte che amministrano.

Il voto di domenica ha scosso l’idea stessa di secessione: nessuno , dice lo tsunami elettorale per la “soluzione a due stati”, crede davvero che una repubblica grande meno del Molise, disseminato di basi militari, possa offrire un futuro a qualcuno. Nel Nord circola la lira turca, oggi crollata a 50 per un euro, e i cittadini turchi si muovono liberamente. L’economia, fondata su turismo, casinò, criptovalute e cemento, è al collasso; chi può emigra o cerca opportunità nella Cipro europea, dove però i greco-ciprioti li accolgono con diffidenza. Concittadini, ma sempre con le dovute distanze.

Non tutti, però, possono attraversare la Linea Verde controllata dall’ONU: né i cittadini turchi né i loro discendenti nati a Cipro dopo il 1974. Il destino dei 250.000 coloni anatolici, ormai pari ai turco-ciprioti, è il muro contro cui si sono infranti più volte i negoziati di pace: i greco-ciprioti non vogliono i coloni dentro casa e, d’altronde, alla terza generazione, è anche difficile immaginare espulsioni di massa. Resta il fatto che l’isola è troppo piccola per due Stati, ma lo scambio forzato di popolazioni – che fece di centinaia di migliaia di persone dei profughi – ha creato un labirinto di rivendicazioni e rancori tramandati di generazione in generazione.

Oggi, a Nord della Linea Verde, si festeggia la fine della presidenza Tatar e un possibile riavvicinamento all’Europa, ma pochi sanno come questo potrà realizzarsi.
Tra i turco-ciprioti, noti per la loro laicità, circola un detto: «In moschea si va solo per i funerali». Il velo è bandito dalla vita pubblica; l’alcol, i matrimoni civili, l’accettazione della comunità LGBT+ e la parità tra uomo e donna sono punti fermi di una società che si considera profondamente secolare.

Eppure  la crescente ingerenza di Ankara – che vede Cipro come un avamposto strategico nel Mediterraneo e una spina nel fianco di Bruxelles – sta facendo oscillare il secolarismo del nord e lascia segni evidenti, non solo nella cultura: un palazzo presidenziale faraonico e moschee sorte ovunque sono testimonianze del prezzo che i turco-ciprioti hanno pagato negli ultimi anni. Insieme alla pessima reputazione di “buco nero” del diritto e forziere dei capitali opachi di mezzo mondo.

Russi, cinesi, iraniani e persino israeliani investono in questo spicchio di Mediterraneo dove quasi tutto è possibile, fuori dai radar della comunità internazionale e delle istituzioni europee. Intanto, un numero indefinito di falsi studenti africani, ingannati con la promessa di un facile ingresso in Europa, finisce intrappolato nel circuito della schiavitù moderna: nei campi, nei cantieri o nei tanti sex club che punteggiano l’autostrada verso Guzelyurt (Morphou, come la chiamavano i greco-ciprioti).

Molti a Nord non amano i 30.000 soldati turchi di stanza sull’isola, ma hanno ancora viva la memoria degli scontri interetnici; e oggi, quella protezione dai nazionalisti greco-ciprioti presenta un conto salato che non tutti sembrano più disposti a pagare.

Starbucks, al centro del boicottaggio contro Israele, costretta a chiudere 200 negozi

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Sembra che il boicottaggio contro le aziende che appoggiano o finanziano Israele stia producendo i risultati sperati, almeno considerando le prestazioni delle grandi multinazionali finite nel mirino per il loro sostegno allo Stato ebraico, tra cui la nota catena statunitense di caffetterie Starbucks. L’azienda ha, infatti, annunciato che quest’anno chiuderà 200 punti vendita e taglierà oltre 900 posti di lavoro non legati alla vendita al dettaglio. La decisione si inserisce nel piano “Back to Starbucks” dell’amministratore delegato Brian Niccol per risollevare l’attività dopo un anno difficile. La catena statunitense non ha citato come motivazioni della chiusura di diversi punti vendita il boicottaggio legato alla questione palestinese da parte dei consumatori. Tuttavia, da diverso tempo l’azienda è finita nella bufera, al punto che negli USA alcune “celebrità” sono state attaccate da ondate di commenti critici sui social per essere state viste con il caffè Starbucks in mano.

A ben guardare, Starbucks non è una di quelle aziende che finanzia direttamente la distruzione di Gaza e non ha nemmeno filiali in Israele dal 2003. Inoltre, in una dichiarazione del 2014, l’azienda aveva apertamente dissipato le voci secondo cui l’amministrazione, insieme al fondatore Howard Schultz, contribuirebbe finanziariamente al governo israeliano o al suo esercito. La compagnia, però, è finita nel mirino degli attivisti a favore della Palestina e, in generale, di coloro che sono attenti alla situazione in Medio Oriente, in seguito al fatto che l’azienda ha rimosso un post del sindacato Starbucks Workers United su Twitter/X che esprimeva solidarietà al popolo palestinese. Successivamente, l’azienda ha intentato causa al sindacato per violazione del marchio, dichiarando la sua neutralità e cercando così di non perdere clienti né da una parte né dall’altra. Una mossa che non è piaciuta agli attivisti e che li ha portati a inserire la catena di caffetterie nella lista di aziende da boicottare, stilata dalla rete BDS.

In una dichiarazione, l’amministratore delegato della società, Niccol, ha affermato che l’azienda ha rivisto il proprio portafoglio di punti vendita e chiuderà quelli che non soddisfano le aspettative dei clienti o non mostrano un percorso verso la redditività. Inoltre, Starbucks eliminerà anche una serie di posizioni aperte non ancora ricoperte, insieme agli attuali 900 posti di lavoro non al dettaglio, in quella che Niccol definisce una «decisione difficile». Sebbene la dirigenza non parli apertamente di boicottaggio della catena, già nel 2023, successivamente a scioperi e a varie manifestazioni che si erano svolte contro Starbucks per la questione palestinese, le azioni della società erano scese di oltre il 7%, secondo un articolo della BBC. In una lettera al personale, il precedente amministratore delegato, Laxman Narasimhan, aveva scritto che «Le città di tutto il mondo, incluso il Nord America, hanno assistito a un’escalation di proteste. Molti dei nostri negozi hanno subito episodi di vandalismo. Vediamo manifestanti influenzati dalla falsa rappresentazione sui social media di ciò in cui crediamo».

A coordinare la campagna di boicottaggio contro le aziende che sostengono Israele è la Rete BDS (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni), così temuta da Tel Aviv da accusare i suoi coordinatori di terrorismo. Tra le altre aziende inserite nella lista del boicottaggio compaiono anche Carrefour, McDonald’s, Domino’s Pizza, Pizza Hut e Papa John, HP, Puma e ESTÉE LAUDER. Il crollo delle azioni e delle vendite di alcuni di questi colossi dimostra che il boicottaggio è uno strumento efficace per sostenere la Palestina e mettere in difficoltà Israele: già lo scorso anno il direttore finanziario di McDonald’s, Ian Border, aveva infatti avvisato che le vendite del gruppo sarebbero diminuite a causa degli avvenimenti in Palestina. In seguito alle sue dichiarazioni, nel marzo 2024 le azioni della compagnia erano crollate del 3,9% perdendo quasi 7 miliardi di dollari in un giorno, mentre già a febbraio il gigante degli hamburger aveva riportato un calo significativo di vendite nella sua divisione commerciale internazionale. Un’altra azienda che ha subito gravi conseguenze per la campagna di boicottaggio lanciata da BDS è la catena di supermercati Carrefour. La multinazionale, infatti, aveva stretto una serie di partenariati strategici con Israele, aperto filiali negli insediamenti illegali e sostenuto attivamente l’esercito israeliano durante l’assedio della Striscia di Gaza. Quest’anno, dopo anni di vendite in calo, il gruppo francese ha ceduto la sua rete di 1.188 punti vendita alla società italiana NewPrinces Group, in un’operazione da un miliardo di euro.

Le attività di boicottaggio stanno, dunque, producendo l’effetto per cui sono state pensate anche e soprattutto nei confronti dei colossi multinazionali, segno che si tratta effettivamente di uno dei modi più diretti e efficaci da parte dei cittadini per aiutare la Palestina e ostacolare le aziende legate in modi diversi a Israele. Anche Starbucks, pur non dichiarandolo esplicitamente, potrebbe avere subito le conseguenze di questa campagna a favore del popolo palestinese.

Belgio frena sul prestito all’Ucraina con asset russi

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Il presidente del Consiglio europeo ha registrato la forte opposizione del primo ministro belga Bart De Wever al piano che prevede un prestito di 140 miliardi di euro all’Ucraina finanzato con beni russi congelati. De Wever ha chiesto garanzie complete sul rischio finanziario e ha sollevato preoccupazioni su possibili ritorsioni da parte di Russia qualora i beni vengano sequestrati, sostenendo che il Belgio non intende assumersi l’onere da solo. Al termine del vertice, i leader dell’UE hanno lasciato il tema in sospeso, affidando alla Commissione europea l’incarico di elaborare “opzioni” e rinviando una decisione definitiva al prossimo incontro di dicembre.