Centinaia di tunisini hanno organizzato due raduni di protesta contro quello che definiscono il regime autoritario del presidente Kais Saied, e hanno chiesto il rilascio dei prigionieri politici. Il primo raduno, tenutosi nella capitale Tunisi, chiede la liberazione della leader del Partito Destouriano Libero, Abir Moussi, ed è stato organizzato da membri del suo partito. Il secondo, anch’esso a Tunisi, è stato organizzato dai membri del Fronte di Salvezza Nazionale, un altro partito di opposizione. Le proteste arrivano dopo che sei oppositori politici di Saied hanno annunciato uno sciopero della fame per opporsi allo svolgimento del loro imminente processo.
Trump apre al disboscamento di 455 mila km² di foreste: nessuno potrà fare ricorso
Negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump ha approvato un decreto d’urgenza che elimina una serie di protezioni ambientali per oltre la metà delle foreste gestite dal Servizio forestale americano. Il motivo, si legge in un memorandum rilasciato dal Dipartimento dell’Agricoltura, sarebbe triplice: ridurre il rischio di incendi, contenere la diffusione di infestazioni e, soprattutto, aumentare la produzione di legname. Viene così dichiarato lo stato d’emergenza su una superficie pari a 455.000 chilometri quadrati che, con la rimozione dei vincoli ambientali, viene aperta al disboscamento. Il decreto impedisce inoltre che sulle foreste in questione possano essere avanzati ricorsi da parte di organizzazioni della società civile e limita anche la lista di alternative presentabili in fase di valutazione dei progetti di disboscamento.
Il memorandum del Dipartimento dell’Agricoltura statunitense è stato pubblicato giovedì 3 aprile. Esso parte dalla considerazione che circa «66.940.000 [circa 271mila chilometri quadrati] acri di terreni del Servizio Forestale Nazionale (NFS) sono a rischio di incendi molto elevato o elevato». A questi si aggiungono «circa 78.800.000 [circa 319mila chilometri quadrati] acri di terreni NFS già soggetti a, o a rischio di, infestazioni di insetti e malattie». L’amministrazione statunitense pone queste aree a rischio sotto stato di emergenza. Considerata la superficie soggetta sia a rischio incendi che a rischi sanitari, gli USA mettono sotto stato di emergenza 112.646.000 acri di terreno (circa 455 chilometri quadrati), poco meno del 60% dell’intero patrimonio forestale gestito dall’NFS.
Per ridurre i rischi a cui sono soggette le foreste statunitensi, il Dipartimento dell’Agricoltura chiede che vengano presi provvedimenti mirati, quali interventi di risanamento degli alberi o delle aree circostanti, o, appunto, l’abbattimento. L’intera superficie di 455 chilometri quadrati viene così spogliata dalle tutele di cui godeva, e aperta al disboscamento. Sebbene risulta difficile che essa venga abbattuta completamente, è certo che lo sarà almeno in parte. Il memorandum del 3 aprile, infatti, segue un decreto presidenziale del 1° marzo con cui il presidente Trump intensificava lo sfruttamento delle aree boschive, con l’obiettivo di produrre più legname e ridurre la dipendenza dal Canada. Lo stesso memorandum arriva in risposta all’attuazione del decreto del 1° marzo, e specifica che il Dipartimento ha individuato «43 milioni di acri [circa 174mila chilometri quadrati] adatti alla produzione di legname». In aggiunta, il memorandum stabilisce che «qualsiasi valutazione ambientale o dichiarazione di impatto ambientale richiesta per un’azione di emergenza autorizzata richiede l’analisi solo dell’azione proposta e dell’alternativa di non intervento e non è soggetta alla revisione amministrativa pre-decisionale a livello progettuale». In sintesi, esso impedisce che vengano presentati reclami amministrativi per le procedure di disboscamento.
Il disboscamento massiccio di una tale area, grande più dell’intero Stato della California, potrebbe comportare gravi rischi per l’ecosistema statunitense, compromettendo la tutela della biodiversità e riducendo la capacità di assorbimento delle emissioni di CO2 del Paese. Secondo alcuni studiosi, inoltre, potrebbe avere un effetto contrario a quello sperato e aumentare il rischio di incendi. Meno alberi, infatti, spiega lo scienziato Chad Hanson al Guardian, significa temperature più elevate, clima più arido e, dunque, vegetazione più propensa a fungere da “combustibile” per il propagarsi di un incendio.
Google assumerà hacker israeliani complici dei massacri in Libano e Palestina
Google ha raggiunto un accordo per l’acquisizione di Wiz, società israeliana di sicurezza informatica. Se finalizzato, l’acquisto, dal valore di 32 miliardi di dollari (pagati senza impiegare strumenti finanziari, come le azioni), sarà il più grande di sempre portato a termine dal gigante tecnologico statunitense. Tra le fila dell’azienda israeliana sono impiegate decine di ex membri dell’Unità 8200, l’ala militare israeliana specializzata in informatica e cyberspionaggio e coinvolta nell’automazione del genocidio palestinese, così come nell’attacco ai cercapersone avvenuto in Libano, nel quale sono stati uccisi decine di civili. L’operazione costituisce inoltre una notizia positiva per le finanze dello Stato di Israele, che vedrebbe così entrare circa 5 miliardi di dollari da utilizzare nella propria economia di guerra.
L’operazione da 32 miliardi di dollari, annunciata da Google nella seconda metà di marzo, dovrà essere definitivamente approvata dalle autorità competenti di regolamentazione. Come riportato da Forbes, l’entità dell’accordo ha attirato l’attenzione non solo per il prezzo record che Google è disposta a pagare, ma anche a causa del multiplo del suo valore rispetto al fatturato della società israeliana. In altre parole, Google sarebbe disposta a strapagare per acquistare Wiz. Senz’altro chi ci guadagnerà sarà Israele: dal punto di vista fiscale, l’acquisizione porterà circa 5 miliardi di dollari all’economia di guerra israeliana. Per Forbes il piano strategico dietro una mossa di questa portata potrebbe, tra le altre cose, rafforzare il portafoglio di sicurezza di Google Cloud e affrontare la carenza di talenti della sicurezza informatica. Per quanto concerne quest’ultimo punto, come fatto notare da Wikileaks, i “talenti” che in questo modo Google si garantirebbe sono ex membri dell’Unità 8200, ovvero l’ala informatica e di cyberspionaggio dell’esercito israeliano.
Ami Luttwak, uno dei fondatori di Wiz, sul suo profilo LinkedIn spiega di aver guidato un «team di ricerca e sviluppo mission critical» per l’Unità 8200, vincendo l’Israel Defence Award 2012. L’identità dei fondatori di Wiz, tutti ex Unità 8200, è riportata anche dal Times of Israel. Oltre a Luttwak ci sono Assaf Rappaport, Yinon Costica e Roy Reznik. E poi ci sono una cinquantina di dipendenti che provengono dall’Unità 8200, come documentato da un’inchiesta di Nate Bear che aveva anche esposto diversi ex membri dell’unità speciale israeliana che adesso lavorano per Google, Microsoft, Meta, Apple, Amazon, OpenAI e Nvidia. Come scritto nel già citato articolo del Time of Israel, Wiz non è l’unica società tecnologica israeliana fondata da personaggi provenienti dall’intelligence militare e al cui interno lavorano membri dell’Unità 8200. Infatti ci sono anche Check Point Software Technologies, Nice, Palo Alto Networks, CyberArk e Waze – quest’ultima già acquistata da Google per 1 miliardo di dollari.
L’Unità 8200 ha partecipato alla progettazione e alla programmazione degli algoritmi che hanno permesso l’automazione del genocidio a Gaza, partecipando a progetti quali Lavender, di cui L’Indipendente ha già parlato in merito all’utilizzo dell’intelligenza artificiale nel genocidio palestinese. Inoltre, tale unità è stata coinvolta nell’operazione di attacco in Libano che ha sfruttato i cercapersone nel tentativo di colpire Hezbollah, causando numerose vittime civili. Non sorprende che Google voglia acquisire una simile azienda, fondata da persone che hanno operato nell’Unità 8200 e con dipendenti che vi hanno fatto parte. Come già spiegato su L’Indipendente, sappiamo che le Big Tech come Google, Microsoft, Amazon, IBM e molte altre, fiancheggiano lo Stato di apartheid di Israele e il genocidio dei palestinesi e che, in generale, fanno parte di un complesso sistema che le lega all’intelligence militare. In merito alla questione israelo-palestinese, Google aveva addirittura fatto arrestare i propri dipendenti che si erano riuniti nel movimento No Tech for Apartheid, in protesta contro le commesse siglate dall’azienda con Israele.
Insomma, oltre a soddisfare i propri interessi economici, la mossa di Google soddisfa anche gli interessi di Israele e pone sempre di più la società tecnologica dalla parte dello Stato sionista. Certamente si trova in buona compagnia delle sorelle del Big Tech della Silicon Valley, in un intreccio sempre più fitto che coinvolge le agenzie e le unità di intelligence militare e i gruppi privati del settore tecnologico.
Germania, patto di governo tra conservatori e socialisti
I conservatori tedeschi dell’Unione Cristiano Democratica (UCD) hanno raggiunto un accordo di coalizione con i Socialdemocratici (SPD) per formare un nuovo esecutivo. L’accordo pone fine a settimane di contrattazioni tra il futuro cancelliere Friedrich Merz e l’SPD, e segue le elezioni di febbraio, vinte da UCD. Merz sostituirà così il dimissionario Olaf Scholz, esponente di SPD, sfiduciato dal parlamento lo scorso 16 dicembre.
Stellantis, è crisi solo per gli operai, per gli azionisti confermati i dividendi
Nonostante la produzione a picco registrata nel primo trimestre del 2025, che conferma la tendenza negativa del 2024, già definito un “anno nero” per Stellantis, l’azienda automobilistica ha proposto il pagamento dei dividendi per gli azionisti che dovrebbe essere pagato il prossimo 5 maggio. Come già l’anno precedente, in cui Exor, la società di proprietà degli Agnelli-Elkann prima azionista del gruppo, ha strappato una cedola di 697 milioni, anche quest’anno sembra che la crisi abbia risparmiato i vertici della società per colpire, invece, solo i lavoratori. Come ha spiegato il segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici (Fim-Cisl), Ferdinando Uliano, «Tutti gli stabilimenti di auto e veicoli commerciali sono in rosso e i dazi aggraveranno ulteriormente la situazione». Nei primi tre mesi del 2025 la produzione ha registrato un calo del 35,5%, segnando un record negativo che non si registrava dal 1956: «I dati sono allarmanti. Con una produzione di 109.900 unità, rispetto alle 170.415 dello stesso periodo dell’anno precedente, il gruppo ha raggiunto un livello produttivo che non si registrava da decenni», ha aggiunto lo stesso Uliano. In questo contesto, Stellantis ha proposto comunque un dividendo 2025 di 0,68 euro per azione, pari a un rendimento del 5%, in attesa dell’approvazione degli azionisti.
Il calo della produzione riguarda sia il comparto delle autovetture, che ha registrato una diminuzione del 42,5%, con solo 60.533 unità prodotte, che quello dei veicoli commerciali, che ha visto una contrazione del 24,2%, pari a 49.367 unità, rispetto a una crescita del 28,5% registrata nel 2024. «La situazione è grave e preoccupante in tutti gli stabilimenti. Nel 2024, almeno Pomigliano d’Arco sembrava rappresentare una rara eccezione positiva, ma oggi siamo di fronte a una situazione complessivamente molto negativa», ha spiegato ancora Uliano. Già nel 2024 i risultati dell’esercizio erano in rosso, con un utile netto di 5,5 miliardi di euro, in calo del 70% rispetto all’anno precedente e un flusso di cassa industriale negativo per sei miliardi di euro che rifletteva il calo dell’utile. Nonostante i risultati negativi, l’Assemblea degli azionisti aveva approvato un dividendo ordinario di 1,55 euro per azione, in aumento del 16% rispetto all’anno precedente. Il tutto a scapito degli investimenti in Ricerca e Sviluppo e dei lavoratori, che non hanno ancora ottenuto il rinnovo del Contratto Collettivo Specifico di Lavoro (Ccsl): «Confidiamo che Stellantis e le altre aziende ex Fiat facciano la loro parte per arrivare al rinnovo del contratto, dando una risposta diversa rispetto a Federmeccanica», ha affermato il segretario generale della Fim Cisl. La trattativa per il rinnovo è in corso da dicembre 2024 e i rappresentanti dei lavoratori chiedono un adeguamento medio dell’8,8% della paga base, invitando i vertici a non seguire le posizioni di rottura espresse nel rinnovo contrattuale di Federmeccanica-Assistal.
Anche quest’anno, nonostante i risultati disastrosi del gruppo, la società degli Agnelli-Elkann non sembra intenzionata a rinunciare agli utili, vedendosi costretta però a dimezzare i dividendi. La cedola sarà pari a 0,68 euro per azione ordinaria, corrispondente a un rendimento del 5%, mentre nel 2024 era stata pari a 1,55 euro (+16% rispetto al 2023). Se approvato dall’assemblea, il dividendo sarà staccato il 22 aprile e pagato il prossimo 5 maggio. Negli ultimi quattro anni, l’ex AD Tavares ha distribuito ai soci ben 23 miliardi di euro di dividendi, sacrificando però posti di lavoro e volumi di produzione per aumentare gli introiti. Il tutto è avvenuto mentre la società degli Elkann ha ottenuto ingenti aiuti di Stato e continua a pretendere sovvenzioni pubbliche per non licenziare i lavoratori.
Parallelamente, le prospettive di una ripresa della produzione sono offuscate dall’imposizione dei dazi da parte di Trump: «L’introduzione dei dazi da parte degli Usa è la tempesta perfetta per l’industria automobilistica europea», ha spiegato Uliano, aggiungendo che «Questi dazi colpiscono duramente il settore, in particolare la componentistica, mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro e aggravando una situazione che è già di per sé critica». Lo stesso ha anche contestato le soluzioni europee, definendole «insufficienti» e «inadeguate» di fronte alla gravità della crisi: «Il fondo di 2,8 miliardi di euro stanziato dall’Unione Europea è troppo esiguo per far fronte alla sfida storica che il settore automobilistico sta affrontando», ha affermato. Una crisi che sembra toccare poco i vertici della società, intenzionati comunque a ripartirsi gli utili.
[di Giorgia Audiello]
La macchina della propaganda europea
Dietro la retorica dei “valori europei”, l’Unione Europea ha messo in piedi una vera e propria macchina di propaganda istituzionale. Una strategia capillare, ben mascherata sotto il nobile scudo della “promozione dei valori democratici”, ma che, in realtà, si traduce in una gigantesca operazione di marketing politico. Una macchina attraverso la quale, sotto la generica motivazione degli aiuti alla democrazia e allo sviluppo, milioni di euro fluiscono nelle casse di ONG e centri studi che eseguono progetti con l’obiettivo di orientare le opinioni pubbliche dei Paesi membri e promuovere l’agenda politica di Bruxelles e l’integrazione europea. A dettagliarlo è il rapporto The Eu’s propaganda machine (La macchina della propaganda europea), redatto da Thomas Fazi – giornalista e ricercatore italiano – e pubblicato dal centro studi ungherese MCC Bruxelles. Un rapporto importante, perché per la prima volta svela in modo organico, e basato sullo studio diretto dei bilanci europei, il sistema attraverso il quale l’Unione Europea usa il terzo settore per quella che viene definita un’azione di «propaganda per procura» e «imperialismo culturale».
Le ONG come megafoni della Commissione
Sono diversi gli enti europei attraverso i quali si propagano i progetti di autopromozione di Bruxelles. Tra questi, un ruolo centrale spetta a CERV, un progetto avviato nel 2021 dalla Commissione Europea, che ha tra i propri scopi espliciti quello di «tutelare e promuovere i valori europei». Attraverso questi e altri progetti, l’Unione usa le ONG per promuovere i propri scopi politici tra i cittadini, in una modalità che, specifica il rapporto, appare paragonabile a come gli Stati Uniti usano organizzazioni come USAID, ossia l’ente che storicamente si occupa di promuovere l’ideologia statunitense e orientare le opinioni pubbliche dei Paesi in cui opera. Con una differenza sostanziale però, spiega Thomas Fazi a L’Indipendente: «mentre il compito di USAID è quello di svolgere funzioni di propaganda per gli Stati Uniti all’interno di Paesi stranieri, il CERV e gli altri progetti europei operano al fine di orientare l’opinione pubblica degli stessi Paesi membri dell’Unione Europea».
Secondo il rapporto, attraverso progetti che apparentemente si occupano di promuovere valori universali come la tutela delle minoranze, la riduzione delle discriminazioni e la promozione della democrazia, l’UE agisce al fine di «distorcere i dibattiti pubblici su questioni politiche chiave e per favorire una narrazione unilaterale» e utilizza i propri strumenti di bilancio come «arma per mettere a tacere il dissenso e consolidare la propria autorità, sollevando serie preoccupazioni per il declino democratico che si sta verificando in tutta Europa».
Quanto costa questa macchina della propaganda europea? «Difficile dirlo – spiega Thomas Fazi – perché i fondi utilizzati per manipolare l’opinione pubblica non sono convogliati in progetti specifici, ma diffusi attraverso molteplici progetti diversi». Ci sono ad esempio gli 1,8 miliardi di euro destinati alla promozione di “Diritti e valori”, ma ci sono anche tante altre fonti, come i soldi destinati all’innovazione digitale ma destinati in parte alla lotta alla «disinformazione», termine ombrello attraverso il quale sempre più spesso si identificano tutte le opinioni difformi. «Le autorità europee amano sventolare la minaccia esterna contro la nostra democrazia, ma in realtà il principale agente che minaccia la democrazia in Europa è proprio la Commissione Europea», afferma l’autore. Come? Il rapporto The EU’s Propaganda Machine delinea e dettaglia un sistema complesso, con numerosi esempi e casi di studio.
La prima accusa è chiara: la Commissione Europea finanzia ONG e think tank che agiscono come sue “cheerleaders“, distorcendo l’idea stessa di società civile. È quello che il rapporto definisce «propaganda per procura». Molte organizzazioni sono rese finanziariamente dipendenti da Bruxelles e diventano di fatto veicoli per veicolare l’agenda della Commissione. Non si tratta di sostegno neutro al dibattito pubblico, ma di un’operazione costruita per rafforzare narrazioni pro-UE, screditare l’euroscetticismo e presentare l’integrazione europea come unica via possibile. Sotto la bandiera dell’impegno civico, afferma il rapporto, Bruxelles ha costruito una rete parallela di comunicazione che bypassa i governi nazionali e agisce direttamente sulla popolazione.
Imperialismo culturale e consenso artificiale
Dietro l’apparente neutralità della promozione dei “valori UE”, si cela un’operazione di omologazione culturale. Il rapporto parla esplicitamente di «imperialismo culturale»: la Commissione sostiene norme liberal-progressiste che, in molti Stati membri – in particolare dell’Europa centrale e orientale – entrano in collisione con i contesti storici e culturali locali. Il caso della promozione dell’agenda LGBTQ+ in nazioni come Ungheria o Polonia è emblematico. Si tratta di operazioni che, secondo il rapporto, non si limitano alla lotta alle discriminazioni per genere e identità sessuale, ma mirano all’ «adozione di linguaggi, comportamenti e politiche allineate ai principi progressisti dominanti a Bruxelles», anche a scapito della sensibilità democratica dei singoli Paesi.
Il sistema dei finanziamenti europei contribuisce, secondo il rapporto, a distorcere il dibattito pubblico e a indebolire il pluralismo. Si finanziano solo narrazioni che rafforzano l’integrazione europea, mentre le posizioni critiche restano marginalizzate e prive di mezzi. Così, scrive Fazi, «si crea l’illusione di un consenso diffuso attorno all’agenda dell’UE», mentre in realtà si tratta di un consenso costruito artificialmente, comprato con fondi pubblici. Le ONG finanziate vengono sistematicamente presentate come voci indipendenti della società civile, ma nei fatti sono parte organica dell’apparato europeo. «Questo – si legge nel rapporto – è un gigantesco conflitto di interessi mascherato da partecipazione democratica». E intanto i cittadini che non condividono l’agenda pro-UE vedono le loro opinioni espulse dal dibattito legittimo.
La lotta alle “fake news” come strumento di censura
Un altro capitolo del rapporto dettaglia la «promozione della censura». Il pretesto è quello – nobile, almeno in apparenza – di combattere la disinformazione. Ma in realtà, denunciano gli autori, si tratta spesso di screditare ogni voce critica. Alcuni progetti finanziati dal CERV in questo senso sono assolutamente espliciti. Come il progetto RevivEU, che ha ricevuto 645.000 euro nel biennio 2023/24 per «combattere le narrazioni euroscettiche emergenti già promulgate dalle élite autocratiche», nonché per «ravvivare l’attrattiva dell’UE nelle menti dei cittadini». O come il progetto Chi e come: contrastare la disinformazione che allontana i cittadini dal progetto europeo: 270.000 euro distribuiti a ONG e centri studi in vari Paesi (tra i quali anche l’Italia) per «identificare, mappare ed esporre temi, discorsi, attori e vettori che promuovono e trasmettono messaggi volti a minare la fiducia dei cittadini nelle politiche dell’UE». Bruxelles, continua il rapporto, finanzia anche la creazione di portali informativi “approvati”, algoritmi per indirizzare i contenuti considerati “affidabili” e piattaforme social modellate su narrazioni pro-UE. L’implicazione di questi progetti, afferma Thomas Fazi, è inequivocabile: «L’informazione deve tramutarsi in uno strumento di disciplinamento, e qualsiasi messaggio che diminuisca la fiducia nell’UE deve essere automaticamente etichettato come disinformazione».
Ingerenze politiche: l’UE entra a gamba tesa

Il rapporto accusa apertamente la Commissione anche di operare «interferenze straniere» negli affari interni di Stati membri governati da forze euroscettiche. Succede in Ungheria, dove le ONG finanziate da Bruxelles hanno apertamente attaccato il governo Orbán. Succede in Polonia, dove si è creato un vero e proprio asse tra società civile “europeista” e Commissione per indebolire i conservatori del PiS. A volte l’ingerenza è diretta: con il congelamento di fondi strutturali e recovery fund per motivi politici. Altre volte è indiretta, ma forse ancor più insidiosa: usando alcune ONG locali per delegittimare governi eletti. «La Commissione – si legge – non si limita a promuovere valori: cerca attivamente di influenzare gli equilibri politici interni dei Paesi membri». Una strategia che mette in discussione la stessa sovranità popolare e democratica all’interno degli Stati membri.

Un esempio particolarmente interessante è quello della Romania, uno dei Paesi dove la Commissione ha investito di più nel finanziamento di progetti proUE tramite il programma CERV. Organizzazioni non governative e centri studi romeni sono stati destinatari di fondi con evidenti finalità dichiaratamente politiche: «contrastare la disinformazione che mina la fiducia nell’UE», «monitorare il linguaggio usato dai rappresentanti politici», «rafforzare la narrativa europea nei media locali». In alcuni casi, si sono finanziate attività che sfiorano la sorveglianza politica. Un progetto finanziato nel 2025 prevede di «controllare il linguaggio usato dai rappresentanti eletti sui social media e nei media tradizionali». In pratica, un sistema per mappare il dissenso e disinnescarlo. Tra questi il Blue4EU: oltre 375 mila euro donati da Bruxelles nel triennio 2024/26, in un progetto coordinato dall’Università Babeș-Bolyai, al fine di «migliorare il pensiero critico e la resilienza dei giovani nei confronti degli attuali movimenti estremisti e anti-UE» e la “Piattaforma per sfidare l’euroscetticismo”.
Proprio la Romania ha dimostrato tuttavia che, quando la propaganda non riesce ad arginare la crescita di partiti e personaggi politici invisi all’attuale leadership, ogni mezzo può diventare lecito. Dopo che il 24 novembre scorso il primo turno delle elezioni presidenziali era stato vinto a sorpresa dal candidato Calin Georgescu, definito di “estrema destra” e “filo-russo”, la Corte Costituzionale rumena ha prima deciso di annullare la consultazione perché il voto avrebbe subìto interferenze da parte della “propaganda russa” e poi ha escluso Georgescu dalla sua ripetizione con l’accusa di aver «minato l’ordine costituzionale e promosso un’organizzazione di stampo fascista». Decisioni che hanno spinto il celebre quotidiano liberale Financial Times a inserire il Paese tra i regimi ibridi e non pienamente democratici all’interno dell’annuale rapporto Global Democracy Index. In questo modo la Romania è diventata il primo Paese parte della UE a essere classificato non democratico. Tuttavia, dalla Commissione Europea, sempre pronta a intervenire a favore della democrazia in ogni contesto, questa volta non è arrivata nessuna condanna verso l’esclusione di Georgescu, e anzi l’azione della Corte Costituzionale è stata sostanzialmente appoggiata.
Il rapporto si conclude mettendo in luce un paradosso: tra i danni collaterali della macchina propagandistica europea non ci sono solo la democrazia e la sovranità popolare degli stessi cittadini europei, ma anche le stesse ONG. Usare la “società civile” come strumento politico genera sfiducia generale verso tutto il settore. «Le ONG autentiche rischiano di essere travolte dalla reazione contro il complesso UE-ONG», si legge. Si crea una confusione tra attivismo sincero e propaganda mascherata. E il rischio è che a pagarne il prezzo siano proprio le organizzazioni che lottano per i diritti, l’ambiente, l’inclusione sociale – non per compiacere Bruxelles, ma per rispondere a bisogni reali.
Argentina, accordo preliminare da 20 miliardi di dollari con l’FMI
Il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato di avere raggiunto un accordo preliminare con l’Argentina per un piano di salvataggio da 20 miliardi di dollari (circa 18,1 miliardi di euro). I prestiti dovrebbero venire erogati nell’arco di 48 mesi, e dovrebbero «sostenere la prossima fase del programma di stabilizzazione e riforma interno dell’Argentina». L’accordo deve ora essere approvato dal consiglio esecutivo del Fondo. Nel corso degli anni, l’Argentina ha accumulato un debito di circa 40 miliardi di dollari con l’FMI. Questo finanziamento sevirebbe, come annunciato da Milei in occasione dell’apertura dell’anno politico, a risanare il debito con la Banca Centrale, così da eliminare i controlli valutari dell’istituto finanziario e attirare potenziali investitori.
Germania: l’ufficio immigrazione espelle gli stranieri che manifestano per Gaza
Nonostante non siano stati condannati da alcun tribunale, le autorità di Berlino espelleranno dalla Germania quattro cittadini stranieri (tre europei e uno statunitense) che hanno preso parte ad azioni per la Palestina. Tutti e quattro hanno infatti ricevuto una notifica dell’Ufficio Immigrazione di Berlino, per mezzo della quale veniva comunicata la fine del soggiorno in Germania e l’obbligo di abbandonare il Paese entro il 21 aprile. Per il cittadino statunitense, oltre l’espulsione è stata notificata l’interdizione da tutta l’area Schengen per due anni. Gli attivisti sono accusati di aver tentato di impedire l’arresto di un manifestante e di aver preso parte al tentativo di occupazione della Freie Universität di Berlino, lo scorso 17 ottobre 2024. Su di essi pendono inoltre accuse di antisemitismo e di sostegno indiretto ad Hamas.
I cittadini in questione sono Cooper Longbottom (statunitense), Kasia Wlaszczyk (polacca), Shane O’Brien (irlandese) e Roberta Murray (irlandese). Gli ordini di espulsione, emessi ai sensi della legge tedesca sull’immigrazione, hanno scatenato obiezioni interne dovute al fatto che tre dei quattro sono cittadini di Stati membri dell’Unione Europea. Sebbene secondo la legge tedesca sull’immigrazione, le autorità non abbiano bisogno di una condanna penale per emettere un ordine di espulsione, i cittadini europei godono della libertà di movimento tra i Paesi UE, la quale può essere limitata solo con sentenze di un tribunale. Diverso il caso del cittadino statunitense, al quale sono stati anche notificati due anni di interdizione all’area Schengen.
Tutti sono accusati di aver preso parte al tentativo di occupazione della Freie Universität del 17 ottobre 2024, ma a ciascuno vengono contestate infrazioni differenti – dall’aver ostacolato l’arresto di un manifestante all’aver dato del “fascista” ad un poliziotto. «Quello che stiamo vedendo qui proviene direttamente dal modo di agire dell’estrema destra» ha detto l’avvocato di due dei manifestanti, Alexander Gorski, a The Intercept. «Si nota anche negli Stati Uniti e in Germania: il dissenso politico viene messo a tacere prendendo di mira lo status di immigrazione dei manifestanti». Proprio in queste settimane, infatti, negli Stati Uniti ha suscitato parecchio scalpore l’arresto di Mahmoud Khalil, lo studente palestinese della Columbia University, residente permanente USA, stato sequestrato dal suo condominio per accuse relative alle attività pro-palestinesi del campus.
In Germania il sostegno allo Stato di Israele è fortissimo. D’altronde, come deciso dal governo Scholz nel giugno 2024, gli stranieri, per avere la cittadinanza tedesca devono esprimere fedeltà a Israele. Gli stranieri che vorranno il passaporto teutonico devono infatti dimostrare di condividere i “valori tedeschi”, tra cui il diritto di Israele a esistere. E la repressione del dissenso rispetto al genocidio in corso in Palestina è costante. Si viene perseguiti con qualunque motivazione, dall’aver esposto bandiere palestinesi (comprese quelle disegnate sulle magliette) al pronunciare il motto “Dal fiume al mare, La Palestina sarà libera”. Questa frase è diventata praticamente fuori legge in Germania, come denunciato dalla sinistra berlinese, che racconta anche di un concerto interrotto dalla polizia dopo che è stata sentita questa frase.
In un simile contesto, mettere in dubbio qualsiasi azione di Israele in Germania è pressochè impossibile. Così, è molto difficile che possano levarsi voci di dissenso che denuncino il genocidio in corso in Palestina, che prosegue senza sosta ogni giorno che passa.
Pena di morte: nel mondo 1518 esecuzioni in un anno, è il dato più alto dal 2015
Il numero di esecuzioni capitali, a livello globale, ha raggiunto nel 2024 il livello più alto dal 2015. Sono infatti 1.518 le persone messe a morte in 15 diversi Stati del mondo. È quanto emerge dall’ultimo rapporto di Amnesty International sull’uso della pena di morte nel mondo, pubblicato sul portale dell’organizzazione. La stragrande maggioranza delle esecuzioni note si è verificata in Iran, Iraq e Arabia Saudita, Paesi responsabili dell’aumento complessivo delle pene capitali. I dati diramati nel report non includono le migliaia di persone che si crede siano state giustiziate in Cina, che continua a rappresentare il Paese con il più alto numero numero di esecuzioni al mondo, così come in Corea del Nord e in Vietnam, dove si ritiene che la pena capitale venga ancora largamente applicata.
Nel complesso, Iran, Iraq e Arabia Saudita hanno fatto registrare il totale di 1380 esecuzioni. Rispetto al 2023, l’Iraq è passato da almeno 16 ad almeno 63 esecuzioni (quasi il quadruplo), l’Arabia Saudita da 172 ad almeno 345 e l’Iran da almeno 853 ad almeno 972. In questi tre Paesi è avvenuto circa il 91% delle esecuzioni documentabili. In alcuni stati del Medio Oriente, spiega Amnesty, la pena di morte «è stata usata per mettere a tacere difensori dei diritti umani, dissidenti, manifestanti, oppositori politici e minoranze etniche». Nella regione sono 8 i Paesi che hanno applicato la pena di morte, ovvero Egitto, Iran, Iraq, Kuwait, Oman, Arabia Saudita, Siria e Yemen. Più del 40 per cento delle esecuzioni avvenute nel 2024 ha riguardato «illegalmente» reati legati alla droga. Secondo il diritto internazionale dei diritti umani e gli standard internazionali, infatti, la pena capitale deve essere limitata ai «reati più gravi», nel cui novero non rientra questa tipologia di reato. Le esecuzioni per reati collegati agli stupefacenti sono fioccate in Cina, Iran, Arabia Saudita, Singapore e, presumibilmente, Vietnam. L’organizzazione lancia l’allarme su quegli Stati che hanno manifestato l’intenzione di introdurre la pena capitale per questi reati, come Maldive, Nigeria e Tonga, i quali «devono essere denunciati e incoraggiati a mettere i diritti umani al centro delle loro politiche sulle droghe».
Per quanto concerne la Cina, non si conoscono le statistiche legate alle esecuzioni, poiché le informazioni sulla pena capitale sono classificate come segreti di Stato, ma Amnesty classifica il Paese al primo posto per numero di persone giustiziate. Altro capitolo riguarda gli Stati Uniti, dove le esecuzioni sono in costante aumento dalla fine della pandemia. Nel 2024 sono state messe a morte 25 persone, una in più del 2023. In Texas è raddoppiato il numero di condannati alla pena capitale (da 3 a 6) e quattro Stati – Georgia, Indiana, Carolina del Sud e Utah – hanno ripreso a giustiziare condannati. Amnesty evidenzia come il nuovo presidente Donald Trump abbia più volte invocato la pena di morte nei confronti di «stupratori violenti, assassini e mostri», alimentando «la falsa convinzione che la pena capitale abbia un effetto deterrente unico contro la criminalità».
Amnesty dà anche atto di novità positive. Infatti, sebbene la quantità di esecuzioni siano aumentate, il 2024 ha registrato il numero più bassi di Stati (15) che le hanno portate a termine. Ad oggi, 113 Stati hanno totalmente abolito la pena di morte e 145 l’hanno eliminata dalle leggi o dalla prassi. Sono invece 54 gli Stati che mantengono in vigore la pena capitale, ma quelli che eseguono condanne a morte sono solo un terzo di essi. Per la prima volta, inoltre, più di due terzi di tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite si sono espressi a favore della decima risoluzione dell’Assemblea generale per una moratoria sull’uso della pena di morte.