Il Senato ha approvato in seconda lettura la riforma costituzionale sulla giustizia che prevede la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, modificando il Titolo IV della Costituzione. Il provvedimento, passato con 106 voti favorevoli, 61 contrari e 11 astenuti, tornerà ora alla Camera per il terzo dei quattro passaggi complessivi previsti. Al momento del voto le opposizioni hanno sollevato proteste in Aula, mostrando cartelli contro la riforma. Giorgia Meloni ha parlato di un passo decisivo per un sistema giudiziario più equo; per Antonio Tajani è una «giornata storica» e della realizzazione del «sogno di Berlusconi».
Ungheria e Serbia annunciano la costruzione di un nuovo oleodotto con la Russia
Mentre l’Unione Europea continua a imporre sanzioni contro la Russia, l’Ungheria si è accordata con la Serbia e la Federazione russa per potenziare il proprio approvvigionamento di gas. Il ministro ungherese degli Affari Esteri e del Commercio, Péter Szijjártó, ha infatti annunciato la costruzione di un nuovo oleodotto in collaborazione con i «partner» russi e serbi. Le parole di Szijjártó esprimono vicinanza alla Russia e l’intenzione ungherese di non allinearsi alle politiche dell’UE: «Mentre Bruxelles vieta l’energia russa, taglia i legami e blocca le rotte, noi abbiamo bisogno di più fonti e più rotte. L’Ungheria non cadrà vittima di queste decisioni disastrose». Secondo il portavoce del governo ungherese, Zoltan Kovacs, l’oleodotto potrebbe essere operativo entro il 2027. Esso avrà una capacità di 5 milioni di tonnellate all’anno e sarà lungo 300 chilometri.
Gli annunci di Szijjártó e Kovacs sono arrivati ieri, lunedì 21 luglio. Le dichiarazioni sono state rilasciate in seguito a una videoconferenza tra la ministra delle Miniere e dell’Energia serba, Dubravka Đedović Handanović, il primo viceministro dell’Energia russo, Pavel Sorokin, e lo stesso Szijjártó. In occasione dell’incontro, i tre funzionari hanno esaminato gli investimenti per il progetto e lo stato attuale dei preparativi per la costruzione. La costruzione del gasdotto, secondo quanto riporta il governo serbo, dovrebbe iniziare il prossimo anno e terminare nel 2027, anno in cui è previsto anche che il gasdotto entri in funzione. L’agenzia di stampa statale russa TASS riporta che l’opera sarà lunga un totale di 300 chilometri, di cui 180 in territorio ungherese e 120 in territorio serbo. Il progetto prevede anche la costruzione di una stazione di misurazione, che sarebbe edificata al confine tra i due Paesi. L’oleodotto dovrebbe collegare la raffineria di Százhalombatta, di proprietà della compagnia petrolifera e del gas ungherese MOL, con la città di Algyő, nell’Ungheria meridionale, e successivamente con la città serba di Novi Sad. Il progetto è sviluppato congiuntamente da MOL e dalla società serba Transnafta.
TASS riferisce che le discussioni tra Ungheria e Serbia per la costruzione dell’oleodotto vanno avanti da tempo, ma che quella di ieri rappresenta la prima indicazione pubblica della partecipazione della Russia ai colloqui. Lo scorso febbraio, il governo ungherese aveva già annunciato un investimento di 320 milioni nel progetto, dichiarando che gli studi di fattibilità erano già stati effettuati. In quello stesso periodo, Szijjártó scriveva che «oggi, non esiste sicurezza energetica ungherese senza la Serbia, e non esiste sicurezza energetica serba senza l’Ungheria». L’Ungheria dipende quasi interamente dal flusso di gas russo che arriva attraverso la Serbia, e uno dei motivi per cui il primo ministro ungherese Viktor Orbán si è spesso opposto all’imposizione di sanzioni contro la Russia o all’approvazione di pacchetti di aiuto all’Ucraina è proprio legato alla stabilità energetica del Paese: in diverse occasioni, l’Ungheria ha rimarcato il proprio bisogno di garanzie sull’approvvigionamento energetico, minacciando o ponendo il veto alle misure per poi sciogliere la riserva; è successo lo scorso gennaio, o più recentemente a giugno, insieme alla Slovacchia, che ha mantenuto la propria opposizione fino a qualche settimana fa. Con il progetto in attivo, l’Ungheria, sostengono le autorità ungheresi, non si limiterebbe al consumo di idrocarburi, ma diventerebbe anche un Paese di transito per il commercio di petrolio.
La vicenda del maestro Gergiev a Caserta: quando le crociate di regime uccidono la cultura
È stato annullato il concerto, previsto per la prossima domenica 27 luglio alla Reggia di Caserta, del grandissimo direttore d’orchestra russo Valery Gergiev, reo di aver espresso simpatie per l’attuale presidente del suo Paese – almeno secondo i 700 intellettuali che, lo scorso 18 luglio, hanno indirizzato una lettera di protesta al governatore della Campania, Vincenzo De Luca.
Si tratta di una chiara crociata ideologica in chiave anti-russa più che anti-putiniana – crociata che si era già fatta sentire nel 2022 con l’annullamento di un corso universitario sul grande scrittore Dostoevskij, in quanto considerato un imprescindibile esponente della cultura russa. Apparentemente, per i benpensanti dell’Università Bicocca di Milano, andava stigmatizzato tutto ciò che è russo.
Così, ieri, lunedì 21 luglio, il governatore De Luca ha dovuto cedere alle «logiche di preclusione» e al «rifiuto di dialogare» dei 700 intellettuali, sorretti da numerosi partiti politici, e ha accettato di allontanare dall’Italia uno dei più grandi direttori d’orchestra al mondo, colpevole di aver espresso l’opinione che la guerra in Ucraina sia stata istigata dalla NATO per destabilizzare la Russia. Punto di vista vietatissimo nella nostra sedicente democrazia, la quale impone, come in un qualsiasi regime autoritario, un Pensiero Unico sui fatti ucraini.
Si tratta, tuttavia, di un Pensiero Unico pieno di contraddizioni: eccone una. Tutti sanno (ma molti cercano di dimenticare) che, sotto la presidenza di G.W. Bush, gli Stati Uniti hanno fatto molto di più di quanto la Russia di Putin stia facendo in Ucraina oggi. Infatti, nel 2003, gli USA hanno non solo invaso illegalmente il Paese sovrano dell’Iraq, ma l’hanno occupato per intero, bombardandolo selvaggiamente per ben 10 anni e al costo di oltre un milione di morti civili.
Eppure, per quanto all’epoca ci fossero forti proteste dirette contro Bush, non ci sono stati tentativi istituzionali di istigare un clima di odio verso la cultura e la società statunitensi. In Italia, i corsi universitari su Hemingway si sono tenuti regolarmente, nessuno si è sognato di cancellarli; e se il maestro statunitense James Levine non ha potuto tenere il suo concerto presso l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nel 2021, è soltanto perché egli è purtroppo deceduto tre mesi prima. Nessuno chiedeva l’annullamento del suo concerto perché avrebbe messo in buona luce la cultura statunitense – come il concerto di Gergiev metterebbe in buona luce la cultura russa.
In pratica, non c’è stata nessuna campagna per estirpare l’influenza statunitense in Italia. Non c’è stata un’«inchiesta sull’utilizzo di fondi pubblici» per fermare eventi filo-americani, come invece hanno chiesto i 700 intellettuali per bloccare ogni evento filo-russo nel territorio dell’Unione Europea. Non c’è stata la richiesta di un «fondo culturale dedicato agli artisti che si oppongono» al regime a stelle e strisce, come invece oggi quei 700 intellettuali vorrebbero che ci fosse contro la Russia. Evidentemente, le invasioni e le occupazioni sono accettabili quando a farle è un Paese alleato, non un Paese competitore.
Anzi, per le classi dirigenti occidentali, oggi il Paese di Putin è diventato non solo un concorrente, ma potenzialmente un nemico in guerra. Un nemico da abbattere per eliminare un competitore, certo, ma anche e soprattutto per potersi impadronire delle sue immense ricchezze energetiche.
Così, dal momento che non sono bastati 18 pacchetti di sanzioni per far crollare la Russia, né un’estenuante guerra per procura “fino all’ultimo ucraino” (e quindi fino all’ultimo russo), il Regno Unito, la Francia e la Germania hanno deciso di alzare la posta: hanno formato un’alleanza per spingere l’UE a contemplare un conflitto diretto con la Russia per dare il colpo di grazia al suo regime attuale.
Quei tre Paesi occidentali si ricordano bene, infatti, come il crollo dell’URSS nel 1989 abbia poi consentito all’UE e agli USA di insediare a Mosca il debole Boris Eltsin, disposto a consentire alle industrie energetiche europee e statunitensi di accaparrarsi buona parte delle enormi ricchezze russe. Così, la Francia, la Germania e soprattutto il Regno Unito vogliono fare oggi. E non solo per il petrolio: infatti, il crollo della Russia consentirebbe all’Europa – insieme agli Stati Uniti – di poter più facilmente aggredire in seguito la Cina, costretta a difendersi da sola. Anzi, per molti osservatori, questo è l’obiettivo principale dietro il tentativo di intrappolare e di indebolire la Russia provocando la guerra estenuante in Ucraina.
L’ondata di propaganda antirussa che imperversa in Italia e in Europa da tre anni, dunque, sembrerebbe servire ai tre Paesi occidentali appena menzionati per raccogliere consensi per una guerra anche nucleare dell’Europa contro la Russia.
Bisogna combattere questo indottrinamento e contrastare la propaganda dilagante antirussa. Bisogna creare legami e scambi tra il popolo italiano e quello russo a tutti i livelli. Legami d’amicizia che rendano poi più difficili i tentativi del Potere di trascinarci in una guerra demonizzando la Russia. Legami che renderebbero più difficile cancellare le espressioni della cultura russa, come il concerto che Valery Gergiev avrebbe dovuto tenere questa domenica alla Reggia di Caserta.
Gli USA si ritirano dall’UNESCO
Gli Stati Uniti d’America hanno annunciato che si ritireranno dall’UNESCO, l’agenzia dell’ONU che si occupa di promuovere la collaborazione e gli scambi culturali. L’annuncio è stato dato da Tammy Bruce, portavoce del dipartimento di Stato, che ha motivato la decisione del Paese sostenendo che le politiche dell’agenzia sarebbero «divisive», e in conflitto con «la nostra politica estera “America First”». A incidere sull’allontanamento dell’amministrazione Trump dall’UNESCO è anche la questione palestinese: «La decisione dell’UNESCO di ammettere lo “Stato di Palestina” come Stato membro è altamente problematica, contraria alla politica statunitense e ha contribuito alla proliferazione della retorica anti-israeliana all’interno dell’organizzazione», si legge nel comunicato di Bruce.
Sei ufficiali italiani andranno a processo per la strage di Cutro
Un passaggio cruciale verso la verità sulla morte di decine di migranti è stato compiuto: il Giudice per l’udienza preliminare di Crotone ha rinviato a giudizio sei ufficiali – quattro della Guardia di finanza e due della Guardia costiera – per il naufragio del caicco “Summer Love” avvenuto il 26 febbraio 2023, al largo di Steccato di Cutro, in Calabria. Nell’affondamento persero la vita 94 persone, tra cui 35 minorenni. L’accusa formulata dalla Procura parla di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo, aggravati da gravi negligenze e da un mancato coordinamento tra le forze impegnate nel salvataggio, che avrebbero causato ritardi nelle operazioni di soccorso e nella mancata attivazione del Piano SAR (Search and Rescue) prevista per la drammatica notte in cui si consumò la tragedia.
Il processo di primo grado, che si aprirà il 14 gennaio prossimo a Crotone, dovrà stabilire le responsabilità individuali dei sei ufficiali per i quali la Procura ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio. Si tratta di Giuseppe Grillo (capoturno della sala operativa del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia), Alberto Lippolis (comandante del ROAN), Antonino Lopresti (ufficiale in comando tattico), Nicolino Vardaro (comandante del Gruppo aeronavale di Taranto), Francesca Perfido (ufficiale di ispezione dell’IMRCC di Roma) e Nicola Nania (in servizio al V MRSC di Reggio Calabria). I magistrati hanno individuato una lunga serie di carenze, tra cui una «mancanza di coordinamento» e difetti nella comunicazione tra Guardia di finanza e Guardia costiera, con relativa violazione delle «regole di ingaggio» stabilite dal regolamento del 2005 e da un accordo tecnico operativo, configurando, secondo l’accusa, vere e proprie «gravi negligenze». La Summer Love aveva lasciato le coste turche con a bordo circa 180 persone, tra cui prevalentemente cittadini afghani e pachistani. La nave si è spezzata a circa 80 metri dalla costa, in condizioni di mare agitato (vento di forza 4-5), piombando in acqua in pochi istanti. Secondo quanto appurato dall’inchiesta, alcuni pescatori costieri furono i primi soccorritori, poiché né la Guardia costiera né la Guardia di finanza erano intervenuti in tempo utile.
La notizia del rinvio a giudizio ha suscitato reazioni contrastanti. Il vicepremier e ministro Matteo Salvini ha commentato sui suoi social network: «Una sola parola: vergogna. Processare sei militari, che ogni giorno rischiano la vita per salvare altre vite. Vergogna». Anche il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha espresso solidarietà, dicendosi convinto che i militari «dimostreranno la loro innocenza». Mentre le opposizioni auspicano che il processo stabilisca la verità giudiziaria su quanto accadde a Cutro quella notte, secondo l’avvocato Francesco Verri, che assiste le famiglie delle vittime, «se ciascuno avesse fatto il suo dovere, 94 fra donne e uomini, bambine e bambini sarebbero salvi: ora un processo stabilirà le responsabilità individuali. Ma è certo che lo Stato, quella sera, stette a guardare». Oltre al processo contro i membri delle forze dell’ordine, un secondo filone giudiziario ha visto già condannati quattro presunti scafisti, compreso l’autista meccanico Gun Ufuk. Condanne pesanti (tra gli 11 e i 20 anni), per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e naufragio colposo, confermate anche in Cassazione il 11 giugno.
A squarciare il velo di silenzio attorno alle presunte responsabilità statali dietro alla tragedia era già stata un’indagine di Lighthouse Reports, condotta con testate europee tra cui Domani e Le Monde nell’estate del 2023, che aveva accusato Italia e Frontex di gravi omissioni e tentativi di insabbiamento in merito alla strage di Cutro. Il rapporto aveva infatti rivelato che l’imbarcazione “Summer Love” sarebbe stata avvistata sei ore prima del naufragio da un aereo Frontex, che segnalò anche condizioni meteo avverse. Nonostante i segnali di pericolo (maltempo, sovraffollamento, mancanza di salvagenti), spiega l’inchiesta, né l’Italia né Frontex avviarono un’operazione di salvataggio. Il dossier ha accusato inoltre Frontex di aver nascosto testimonianze chiave e ridimensionato il numero di chiamate satellitari ricevute dai naufraghi.
Bangladesh: protesta per l’aereo precipitato su una scuola
Centinaia di studenti sono scesi in piazza a Dacca, capitale del Bangladesh, per chiedere spiegazioni sull’incidente aereo avvenuto di ieri, in cui un aereo dell’aeronautica militare si è schiantato su una scuola, uccidendo 31 persone di cui almeno 25 bambini. Gli studenti chiedono che vengano resi noti i nomi delle vittime e dei feriti, che l’aeronautica militare risarcisca le loro famiglie, e che vengano modificate le procedure di addestramento dei piloti dell’aeronautica. Il governo ha reso noto di stare collaborando con le autorità militari, scolastiche e ospedaliere per redigere un elenco delle vittime, e che l’aeronautica militare non potrà più usare aerei da addestramento per sorvolare aree popolate.
Le grandi aziende evadono di più, ma i controlli sono tutti sulle piccole imprese
L’equazione fiscale italiana appare sempre più squilibrata: da un lato le grandi aziende e i grandi patrimoni sono responsabili di una consistente quota di evasione, dall’altro sono le piccole e medie imprese (PMI) ad essere sottoposte in maniera più pervasiva ai massicci controlli dall’Agenzia delle Entrate. Come attestato da un recente rapporto pubblicato dal Centro studi di Unimpresa, nel 2024, su 189.578 accertamenti ordinari avviati, ben 81.027 – ossia il 43% – riguardano le PMI, mentre solo 1.677 (0,9%) hanno interessato i grandi contribuenti. I quali, come dimostrano i dati acquisiti direttamente dai database dell’Agenzia delle Entrate, generano però un’evasione assai più significativa.
La frammentazione del quadro emerge chiaramente: le piccole imprese hanno subito 73.056 accertamenti (38,5% del totale), che hanno generato una maggiore imposta accertata di 5.115 milioni di euro, ovvero il 35,9% dei 14,2 miliardi complessivi. Le medie aziende sono state sottoposte a 7.971 ispezioni (4,2%), con un’imposta accertata di 3.983 milioni (28%). I grandi contribuenti hanno subito molti meno controlli – non si arriva nemmeno all’1% del totale –, ma l’imposta loro accertata è stata di 3.181 milioni (22,4%). Se si guarda al totale dell’attività ispettiva, i professionisti hanno subito 19.845 controlli (10,5%), con un’imposta di 329 milioni (2,3%), mentre per gli enti non commerciali i numeri si fermano a 3.292 accertamenti (1,7%), con un impatto di 163 milioni (1,1%). Una larga fetta – ossia 82.062 accertamenti (43,3%) – rientra nella categoria “accertamenti diversi”, generando 1.432 milioni (10%).
«I numeri confermano, ancora una volta, che le piccole e medie imprese italiane restano il bersaglio privilegiato del fisco. È l’ennesima dimostrazione di un accanimento selettivo e miope, che penalizza il tessuto produttivo più fragile e vitale del nostro Paese», ha affermato Marco Salustri, consigliere nazionale di Unimpresa. «Colpire le PMI è facile: sono più esposte, meno attrezzate sul piano legale e più vulnerabili sul fronte finanziario. Ma questa strategia non produce giustizia fiscale, né getta le basi per una riscossione più efficace. Anzi, genera sfiducia e alimenta un clima di ostilità verso le istituzioni». Da tempo, Unimpresa chiede una riforma equa e coraggiosa del sistema di accertamento, che veda al «criteri proporzionali, una maggiore attenzione ai grandi patrimoni e strumenti premiali per chi si mette in regola».
La criticità di tale sperequazione è ancora più evidente se si considerano i dati diramati lo scorso aprile dalla CGIA di Mestre, che ha raccolto le statistiche dell’Agenzia dell’Entrate, attraverso cui si conferma come il fenomeno dell’evasione sia concentrato nei grandi contribuenti, mentre piccoli imprenditori e lavoratori autonomi si trovano a rappresentare una quota marginale del debito fiscale. Come emerge dalla ricerca, negli ultimi 25 anni ben 1.279,8 miliardi di euro in tasse, contributi, imposte, bollette, multe e altri oneri non sono stati riscossi: una cifra che quasi potrebbe coprire metà del debito pubblico. Di questi importi, il 64,3% – ovvero 822,7 miliardi di euro – è imputabile alle società di capitali, tra cui Spa, Srl, consorzi e cooperative, mentre solo il 12,2% deriva dai piccoli imprenditori, artigiani, commercianti e liberi professionisti.
Ampliando lo sguardo sul continente europeo, si nota come l’Italia non sia affatto l’unico Paese in cui i grandi evasori concentrano i loro affari. Un rapporto dell’Ong Tax Justice Network ha infatti recentemente rivelato che l’Europa ospita molte delle giurisdizioni più permissive in tema di tassazione, rendendola un rifugio per grandi aziende, ricchi professionisti e organizzazioni criminali che vogliono evadere il fisco. Complessivamente, l’UE contribuisce infatti a un terzo delle perdite fiscali mondiali.
25 Paesi tra cui l’Italia chiedono a Israele di fermarsi a Gaza: Netanyahu rifiuta
I ministri degli Esteri di 25 Paesi del cosiddetto “blocco Occidentale”, tra cui l’Italia, hanno rilasciato un comunicato per chiedere a Israele di fermare i massacri a Gaza. La dichiarazione chiede l’immediata apertura delle frontiere per garantire alla popolazione l’accesso agli aiuti umanitari e critica il sistema di distribuzione alimentare pensato da Israele, che dal suo avvio ha portato all’uccisione di oltre 900 palestinesi da parte dell’esercito dello Stato ebraico. L’appello (tardivo) giunge in un momento catastrofico per Gaza, travolta dalla carestia e invasa dai carri armati israeliani, che hanno raggiunto per la prima volta Deir al Balah e sfollato decine di migliaia di abitanti. Qualche ora dopo la sua pubblicazione, Israele ha risposto ai Paesi coinvolti, sostenendo che le loro parole sono «scollegate dalla realtà», mentre all’orizzonte non sembra ancora emergere alcuna intenzione di adottare misure concrete per fermare il genocidio.
L’appello per fermare la guerra a Gaza è stato firmato, oltre che dall’Italia, dai ministri degli Esteri di Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Giappone, Islanda, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Nuova Zelanda, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, e dal Commissario europeo per l’Uguaglianza e le Crisi. «La guerra a Gaza deve finire ora», si legge nella dichiarazione. I rappresentanti dei Paesi condannano il modello di distribuzione degli aiuti e il rifiuto da parte del governo israeliano di fornire assistenza umanitaria alla popolazione civile di Gaza. I ministri condannano il piano di creare una maxi-città umanitaria a Rafah (di cui abbiamo parlato in un articolo de L’Indipendente) e si oppongono a qualsiasi iniziativa volta a modificare il territorio o la demografia nei Territori Palestinesi Occupati, tra cui il piano di insediamento E1 per ampliare gli insediamenti tra Gerusalemme e Maale Adummim. Chiedono così la cessazione immediata delle aggressioni e l’apertura delle frontiere per fare entrare gli aiuti, rilanciando il piano arabo per Gaza. Qualche ora dopo la pubblicazione della dichiarazione, il ministero degli Esteri israeliano ha rilasciato un comunicato in cui condanna l’appello dei Paesi occidentali e attribuisce le responsabilità di quanto accade a Gaza ad Hamas.
La dichiarazione dei ministri degli Esteri del blocco Occidentale è a dir poco tardiva e, come al solito, si limita alle parole. Le cose che i Paesi potrebbero fare per porre un reale freno a Israele sono diverse, e appena una settimana prima dell’appello l’UE ha bloccato la revisione dell’Accordo di Associazione con Israele, ponendo un veto di fatto alle sanzioni. Nel frattempo, a Gaza, la popolazione civile muore di fame, il rischio di carestia è sempre più imminente e le malattie dovute alla malnutrizione si diffondono. Il numero di pazienti ricoverati per problemi di malnutrizione nella clinica di Gaza City di Medici Senza Frontiere è quasi quadruplicato in meno di due mesi, e un terzo di tali pazienti è composto da bambini di età compresa tra i tre mesi e i due anni. Nel fine settimana sono morte almeno 20 persone a causa della carestia, mentre nella sola mattina di oggi, 22 luglio, è stato riportato il decesso di tre bambini di età compresa tra i 40 giorni e i 12 anni. Il numero totale di morti per fame è salito così ad almeno 90: tra questi, 80 bambini e 10 adulti.
Israele ha inoltre intensificato la campagna terrestre, lanciando un’invasione su nove blocchi situati nell’area sudoccidentale del Governatorato di Deir al Balah. Secondo le prime stime delle Nazioni Unite, la misura dovrebbe coinvolgere tra le 50.000 e le 80.000 persone, di cui 30.000 rifugiate in 57 campi per sfollati. Con quest’ultimo ordine, rimarca l’ONU, l’area di Gaza sottoposta a ordini di sfollamento o all’interno di zone militarizzate da Israele è salita all’87,8%, lasciando «2,1 milioni di civili stipati in un frammentato 12% della Striscia, dove i servizi essenziali sono crollati». La progressiva riduzione delle aree umanitarie rispecchia il piano Carri di Gedeone, lanciato da Israele lo scorso maggio, e viaggia in parallelo con l’iniziativa di creare un maxi-campo umanitario a Rafah dove rinchiudere i palestinesi nell’ottica di una successiva espulsione della popolazione dalla Striscia. Israele non ha cessato neanche le violenze: solo ieri ha ucciso almeno 60 palestinesi e preso d’assalto una sede dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Anzio, si ribalta peschereccio: un disperso
Momenti di paura ad Anzio nella mattina di martedì 22 luglio: un peschereccio si è ribaltato a largo del porto a causa del mare agitato, e un pescatore risulta disperso. L’allarme è scattato poco dopo le 8. Sul posto sono intervenuti i sommozzatori dei vigili del fuoco, i carabinieri e la guardia costiera, impegnati nelle ricerche dell’uomo. Il figlio, che era con lui a bordo, è stato tratto in salvo, mentre si teme che il padre sia rimasto chiuso all’interno della cabina. Nelle ultime ore il mare mosso, causato dal forte vento, ha già messo in difficoltà diversi bagnanti nella zona, con vari salvataggi effettuati dai soccorritori.
Burger vegetali: quanto sono salutari? Facciamo chiarezza
Basta solo scrivere o pronunciare l’aggettivo «vegetale» per suscitare in qualsiasi persona l’idea di cibo sano, fresco e sostenibile. In effetti in molti casi è proprio così: i cibi vegetali sono senz’altro dei buoni alimenti – nella loro versione naturale, non processata e non raffinata dall’industria alimentare. Ma sarebbe sbagliato pensare che la dicitura “vegetale” sia sempre sinonimo di “sano”: le patatine fritte del McDonald’s sono in teoria un cibo vegetale, ma contengono oltre 20 additivi chimici e sono fritte in un olio che è molto tossico. Persino lo zucchero bianco e le marmellate col 20% di frutta sono cibi perfettamente vegetali, ma è noto che di salutare al loro interno non vi è nulla.
I burger vegetali sono alimenti che, negli ultimi anni, hanno visto una diffusione enorme sul mercato e su cui l’industria si è buttata a capofitto dopo aver fiutato il grande margine di profitto da generare. Questo è stato possibile anche grazie al diffondersi delle diete vegane o plant based, cioè quelle diete in cui la maggior parte degli apporti alimentari sono costituiti da cibi vegetali e il cibo animale viene relegato ad una piccolissima fetta o escluso completamente. Sebbene preparare un burger vegetale sia una cosa piuttosto semplice che richiede pochi minuti, sia in casa che in una fabbrica (per la versione industriale dell’alimento), ciò che ci propone l’industria – per la maggior parte dei casi – è invece tutt’altro che semplice e salutare. Vediamo nel dettaglio cosa sono i burger vegetali in commercio.
Cibi ricomposti con grande uso di additivi
Possiamo controllare tutti i supermercati di ogni catena, ma alla fine per il 99% dei prodotti chiamati burger vegetali l’offerta è sempre la stessa: cibi ultra-processati a base di materie prime di bassissima qualità, additivi e insaporitori vari, studiati ad arte per dare la massima sapidità e suscitare nel consumatore la falsa idea di cibo salutare e sostenibile per il pianeta. Una delle convinzioni più diffuse in noi consumatori, infatti, è proprio quella di contribuire alla riduzione di emissioni di CO₂ acquistando qualsiasi cosa che sia “vegetale” e limitando tutto ciò che è “derivato animale”. Tutto ciò purtroppo è falso. I burger dell’industria, dunque, non sono affatto un composto semplice di ceci, zucchine e carote (per fare un esempio che tutti possono preparare a casa e poi cuocere in forno o in padella), ma si caratterizzano per essere un ammasso di sostanze di dubbia qualità, unite e amalgamate tra loro da additivi e esaltatori di sapidità. In Italia, i burger vegetali più venduti e conosciuti (se non altro per ragioni storiche e di età anagrafica) sono quelli di una nota azienda che da sempre riveste la propria immagine e basa il marketing sulla contrapposizione tra vegetale e animale, e che usa il motto «no al colesterolo». Ma se il marketing è una cosa, la realtà nutrizionale e l’analisi delle materie prime di cui si compone un alimento sono tutt’altra, e dal confronto delle due cose possiamo ottenere molte informazioni utili per le nostre scelte di spesa.
Come si può vedere dall’elenco degli ingredienti nella foto in alto, di cibo vegetale vero e proprio c’è poco o niente. I componenti sono estratti di sostanze vegetali o parti di alimenti (proteine di soia concentrate e reidratate, glutine di frumento) ricomposte e unite a additivi, zuccheri (destrosio, estratto di malto), amidi, sale e insaporitori vari (estratto di lievito, alginato di sodio, estratto di lievito essiccato). Il tutto additivato di oli raffinati industriali (non estratti a freddo) di pessima qualità, come olio di colza e olio di girasole.
Altri prodotti, del tutto sulla stessa lunghezza d’onda di quello appena mostrato, contengono persino dei conservanti, e sono pubblicizzati anch’essi in TV come prodotti naturali e sani. Da notare, infine, che tutti questi prodotti ultra-processati, ma “Veg”, ottengono punteggi elevati e giudizi di ottima qualità nutrizionale sulle applicazioni usate per fare la spesa da tante persone. Anche se la qualità nutrizionale abbiamo visto essere molto bassa.
Esistono dei prodotti di qualità?
Ma allora non si salva nessun prodotto vegetale tra i burger in vendita nei supermercati? In realtà qualcosa si salva: basta cercare con attenzione e leggere la lista degli ingredienti. Nella foto di seguito, vi mostriamo un esempio di burger vegetale da supermercato che può valere la pena di prendere in considerazione, se non si ha la possibilità di preparare in casa questi alimenti. Il prodotto che ho selezionato è biologico, a differenza degli altri esempi visti finora, ed è composto solamente da alimenti interi e vegetali: non ci sono additivi, conservanti, zuccheri o esaltatori di sapidità.
La lista ingredienti ci parla di miglio (un cereale senza glutine), piselli, carote, ceci, riso, sale, succo di limone, curry (mix di spezie). Una bella differenza con i prodotti mostrati in precedenza. Infine, è cotto al forno invece che fritto: questo significa che non è venuto a contatto con dei pessimi oli industriali da frittura e dunque preserva una maggiore qualità nutritiva. Ovviamente, se ci pensate, la stessa ricetta può essere replicata e preparata in casa con un semplice composto di tutti questi ingredienti, frullati e poi cotti a piacere in forno o padella. Con del buon olio extravergine, magari.