sabato 5 Luglio 2025
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Il fondo Blackrock abbandona l’alleanza globale per la riduzione delle emissioni

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La grande finanza non si è mai dimostrata particolarmente sensibile alle tematiche ambientali. E ora che è anche cambiato il vento politico globale e la forza dei movimenti ambientalisti è inferiore rispetto a qualche anno fa, non serve nemmeno fingere. Così, il gruppo BlackRock, il più grande gruppo finanziario al mondo con 11 mila miliardi di dollari di asset in gestione, ha abbandonato l’alleanza globale di società che lavorano per raggiungere – attraverso la gestione dei propri investimenti – gli obiettivi di neutralità climatica. La decisione di BlackRock segue quella di altri sei grandi gruppi finanziari. Nonostante il ritiro, molti hanno confermato a parole il loro impegno individuale per la riduzione delle emissioni. Ma che queste intenzioni, in assenza di impegni scritti, si tramutino in fatti è ora una possibilità ancor più remota. Una decisione che dimostra come il presunto interesse delle élite finanziarie verso la decarbonizzazione e l’ambiente fosse di facciata.

L’alleanza globale degli assicuratori per l’obiettivo zero emissioni di carbonio, la Net Zero Asset Managers Initiative (NZAM), era stata creata nel luglio 2021 sotto l’ala dell’ONU. Nella primavera del 2023, aveva già perso gran parte dei suoi membri, tra cui i fondatori Scor, Axa e Allianz. Ora, a distanza di nemmeno un anno, si è quasi del tutto svuotata. Prima di BlackRock, ad abbandonare la nave ci sono stati Goldman Sachs, Wells Fargo, Citi, Bank of America, Morgan Stanley e JPMorgan Chase.

Nel complesso, si va indebolendo la pressione degli azionisti delle grandi multinazionali a favore di risoluzioni in difesa di ambiente e diritti sociali. In particolare, già lo scorso luglio l’associazione di investimento responsabile ShareAction aveva evidenziato una riduzione nel sostegno da parte dei grandi fondi finanziari ai cosiddetti criteri ESG (Environmental, Social e Governance) di sostenibilità. Nel 2022, i quattro maggiori gestori patrimoniali del mondo – Vanguard, Fidelity Investments, BlackRock e State Street Global Advisors – avevano ridotto il loro supporto alle proposte degli azionisti relative a questioni ambientali e sociali, sostenendo solo il 20% delle risoluzioni ESG, rispetto al 32% del 2021. Il calo di supporto da parte di questi gestori, tutti con sede negli Stati Uniti, sarebbe stato, ad esempio, influenzato dalle posizioni anti-ecologiche delle compagnie energetiche, le quali hanno ottenuto profitti record grazie alla guerra in Ucraina. BlackRock, in particolare, ha sostenuto solo il 16% delle risoluzioni legate al clima nelle aziende energetiche nel 2022, un drastico calo rispetto al 72% del 2021. Nel 2024, solo due risoluzioni degli azionisti legate alle politiche ambientali hanno ricevuto il sostegno della maggioranza dell’assemblea degli azionisti delle maggiori società USA quotate in borsa. Così, ora che le proteste ambientaliste sono un po’ scemate, l’attenzione mediatica e politica sulle tematiche ecologiche lo è altrettanto, e i big della finanza stanno tornando serenamente a sostenere i soliti settori che gli garantiscono guadagni certi.

Negli Stati Uniti, inoltre, banche e gestori patrimoniali subiscono da sempre la pressione di una dozzina di stati conservatori, i quali ritengono che iniziative come la NZAM violino le leggi antitrust, ostacolino lo sviluppo dei combustibili fossili e comportino un aumento dei prezzi. Ma, al di là delle attività di lobby, le entità economiche private difficilmente pensano ad altro che non sia il profitto. In balia delle logiche di mercato, la tutela dell’ambiente e la lotta ai cambiamenti climatici vivono solo finché portano a un aumento, o quantomeno non a un calo, dei ricavi. Come anticipato, un’altra pressione con un peso significativo è stata quella pubblica, ma non appena questa ha iniziato ad affievolirsi quasi tutti i grandi gruppi finanziari e industriali hanno gettato la maschera green. La tendenza vale anche e soprattutto per le grandi compagnie fossili che, da un anno a questa parte, hanno iniziato a ridimensionare o abbandonare gli obiettivi di riduzione delle emissioni promessi in precedenza. Shell, TotalEnergies e BP sono solo i principali colossi fossili che hanno deciso di fregarsene anche delle apparenze.

[di Simone Valeri]

Palestina: reportage dai campi profughi di Tulkarem sotto attacco

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CAMPO PROFUGHI DI NUR SHAMS, TULKAREM, PALESTINA OCCUPATA – Strade sventrate, case a pezzi, esplose, bruciate. Vari pali della luce abbattuti hanno tolto l’elettricità a una parte del campo. Il sistema idrico avrà bisogno di settimane prima di essere restaurato a causa dei danni subiti, mentre centinaia di famiglie rimangono senza acqua. Il campo profughi di Nur Shams sembra un campo di battaglia, e lo è stato, ancora una volta, appena qualche giorno fa: i fori dei proiettili sono ben visibili sulle facciate di molte case e le ferite ancora aperte sulle almeno 14 mila persone che lo abitano. Una donna anziana siede su uno sgabello davanti a una casa semi-distrutta: l’intera parete è crollata, quello che forse era un salotto dà ora sulla strada principale. «Cosa dobbiamo fare? Hanno distrutto tutto di nuovo», chiede, gli occhi pieni di dolore. «Vengono, uccidono, distruggono tutto. Cosa dobbiamo fare?». Poche parole mentre camminiamo nel fango della piazzetta, dove ormai la strada è solo un ricordo.

Le “piccole Gaza”

«Quella era una farmacia, quella una struttura dell’UNRWA» dice Ahmad, un abitante del campo che ci accompagna indicando due edifici gravemente danneggiati. E ancora: case senza un pezzo di parete, pilastri rotti che sembrano reggere per miracolo il piano soprastante. Le macerie sono accumulate al centro della piazza, mischiate alla terra e a pezzi di asfalto dei raid precedenti. Intanto, intorno si vedono famiglie al lavoro: chi aggiusta una porta, chi mette del nylon a una finestra, chi sta già ricostruendo il muretto distrutto con mattoni e cemento. Un ragazzo sta rimettendo in piedi il suo baracchino di legno da cui vendeva il caffè. «E se me lo distruggono un’altra volta, lo ricostruirò di nuovo» dice, quasi per confermare la forza e resistenza di quel popolo sotto occupazione da ormai 76 anni. 

I campi profughi di Tulkarem sono sotto attacco da prima del 7 di ottobre, anche se le incursioni sono aumentate a dismisura in quantità e violenza da quella data. I raid israeliani sono cominciati a marzo del 2023, dietro la motivazione ufficiale di smantellare le basi della resistenza armata palestinese. Ma le ragioni sono ben altre, ci spiega l’uomo che ci accompagna per il campo. «Vogliono distruggere i campi profughi per eliminare l’idea stessa di un possibile ritorno», afferma Ahmad. «Senza più rifugiati Israele è come se fosse legittimato a stare su quelle terre, che appartenevano ai nostri nonni. È per questo motivo che stanno anche cercando di smantellare e sostituire l’UNRWA», racconta. In Cisgiordania sono registrati 912.879 rifugiati; circa un quarto di loro vivono nei 19 campi profughi ufficiali, costruiti dall’agenzia UNRWA a seguito della Nakba, la “Catastrofe”, ossia l’esodo forzato di 700 mila palestinesi dalle terre su cui è stato poi fondato Israele. 

«Vogliono obbligare la gente ad andare via, ad abbandonare i campi. Per questo distruggono le infrastrutture, le case, le strade, tutto.»  E continua. «Questi raid sono anche punizioni collettive verso i residenti dei campi, accusati di ospitare la resistenza armata. Cercano di metterci gli uni contro gli altri», dice. «Ma non funziona» . 

Sono un’ottantina gli attacchi che i due campi profughi di Tulkarem hanno subito dal 2023 ad oggi. Migliaia le case danneggiate, centinaia quelle distrutte o rese inagibili. Molte famiglie di entrambi i campi hanno dovuto andarsene perché non avevano più da dove dormire. «Il nostro negozio di famiglia è stato attaccato due volte», dice Ahmad. «Per ora l’abbiamo chiuso, perché non possiamo permetterci di perdere nuovamente soldi» . 

Israele porta avanti la stessa tattica di distruzione delle infrastrutture, dei mezzi di sostentamento e delle abitazioni dei palestinesi nei campi profughi di varie città del nord della Cisgiordania. Ma i campo rifugiati di Tulkarem, insieme a quello di Jenin – colpito e assediato anche dalle forze di polizia dell’Autorità palestinese – vincono senza rivali il primo posto sul podio. Le “piccole Gaza”

Entriamo nelle vie più interne del campo. Qui dei teli neri sulle nostre teste coprono la visuale del cielo. «Sono contro i droni. Spesso attaccano buttando bombe così», racconta Ahmad. Poco più avanti, mi ferma davanti a un edificio gravemente danneggiato. Sulla parete di fronte molti manifesti di quelli che qui vengono considerati martiri, i caduti per mano di Israele. «Qui nel marzo scorso hanno lanciato un missile in un attacco aereo, in pieno giorno. Hanno ucciso 12 persone. Il più piccolo aveva 11 anni. Stavano giocando a calcio». Nur Shams Camp significa “la luce del sole”, perché sorge su una delle terre che per prima è baciata dai raggi dell’alba, ma sembra che solo il buio del dolore lo irradi negli ultimi mesi. Continuiamo a camminare per le vie strette di quel campo, nato con le tende UNRWA nel 1951 e diventato ad oggi una delle zone più popolose della città, con il suo groviglio di case, negozi, stradine. Un uomo si ferma a salutare Ahmad, lui ci è cresciuto tra queste vie, conosce tutti. «Hanno appena arrestato suo figlio nell’ultimo raid»,  mi dice indicandolo con un cenno mentre si allontana. «Ha solo sedici anni». Qua sembra che tutti abbiano un familiare morto per mano israeliana o rinchiuso nelle prigioni di Tel Aviv. 

La maggior parte delle persone che abitano nel campo sono discendenti dei profughi cacciati dalle loro case nella zona di Haifa nel 1948: le famiglie si conoscono da generazioni, i legami di solidarietà e mutuo appoggio sono la sola cosa che ne hanno permesso la sopravvivenza da ormai 78 anni. «Qui le persone si aiutano. Quando ci sono i raid, chi può scappa, e viene ospitato fuori dal campo. Anche per ricostruire, tutti collaborano» . Ma sta diventando troppo. Troppi danni, troppa devastazione. A ogni raid. 

Un gruppetto di giovani beve un caffè in piedi davanti alle macerie di una casa completamente crollata. Uno di loro ha al collo un M-16, tra le armi più usate dalla resistenza contro l’esercito di Tel Aviv. «Questa era casa mia», dice uno dei tre ragazzi indicando l’edificio abbattuto nell’ultimo raid. «Hanno messo una bomba dentro e l‘hanno fatto esplodere». Anche la casa accanto è chiaramente pericolante. Ma una donna apre la porta che ormai dà nel vuoto, non essendoci più le scale, e con un saluto dice qualcosa ai giovani in arabo. Sulle pareti intorno, i segni del boato si vedono ancora: vetri delle finestre scomparsi, intonaci danneggiati dai pezzi di casa volanti. «I jesh (i militari israeliani) hanno paura a confrontarsi con noi», dice il ragazzo armato. «Non vogliono affrontarci frontalmente. Preferiscono buttare le bombe e attaccare con i droni». Accende una sigaretta. «Loro hanno tutte le armi e le tecnologie più avanzate, aiutati dall’America e dall’Europa. Noi, abbiamo solo questi» dice mostrando il fucile. 

L’ultimo palestinese ucciso di Nur Shams Camp si chiamava Mahmoud Mohammad Khaled, aveva 22 anni. L’hanno ucciso nella notte del 24 dicembre, durante il raid natalizio. Aveva provato da solo a difendere le case del suo quartiere sotto attacco, mentre venivano invase dai militari di Tel Aviv. «E’ stato un eroe. Hanno dovuto mandare un drone perché non riuscivano a colpirlo», racconta uno di loro. «Eliminato un terrorista», dirà Israele. Per definire un ragazzo che difendeva la sua casa dall’invasione di un esercito straniero mentre distruggeva il quartiere dove vive.

Incontriamo altri giovani radunati intorno un piccolo fuoco. Alcuni sono membri della resistenza, gli M-16 appesi lungo il fianco. «A lui hanno ucciso due fratelli. Per questo ha preso le armi», dice Ahmad, accennando a un ragazzo che avrà poco più di vent’anni, uno sguardo molto serio e profondo. Un ragazzo ci porta a vedere la sua casa, o meglio, ciò che ne resta. «Attenzione, è pericolante» dice. I mobili che restano sono mezzo bruciati, una parte della casa è crollata e l’altra deve aver preso fuoco. Il soffitto e le pareti sono tutte nere di fuliggine. «Hanno messo una bomba e l’hanno fatta esplodere quando se ne sono andati», ci dice. «Si era appena sposato!» aggiunge un altro ragazzo, indicando il proprietario di casa. «Ma c’è una parte del campo che è la più distrutta di tutti. È come Gaza», dice. Andiamo. Usciamo dalla zona dei teli, nemmeno duecento metri e si apre uno scenario apocalittico. Non c’è vita in quella zona di case. Non c’è nessuno, e non c’è più ragione per starci. È tutto distrutto: saranno almeno una decina di edifici completamente devastati. Mura distrutte, case crollate, la strada di terra e fango ha ancora i segni freschi dei D9 che l’hanno calpestata. «Questa era una scuola dell’UNRWA» mi dice Ahmad, indicando un edificio a pezzi, completamente inagibile. «E qua hanno fatto saltare una casa per poter entrare coi mezzi direttamente fino alla strade interne» racconta il nostro nuovo accompagnatore. 

Davanti a noi, una via di melma e terra inizia proprio dove c’è il buco di una casa tra gli edifici. La gente è stata obbligata ad andare via. «Una piccola Gaza!» dice ancora il ragazzo.

Mentre riprendiamo la strada principale, ci avvicina una donna, vuole parlare.  «Israele very bad», dice alzando un dito come a sottolineare il peso delle sue parole. «America is very bad. Germania, Francia… kullo, kullo!». Tutti, tutti, dice. È arrabbiata con i governi europei, con gli aiuti americani a Israele, con la legittimazione che il mondo occidentale dà allo stato sionista. Lei ha perso due figli, uccisi per mano di Tel Aviv. «E’ madre di due martiri», ripete il nostro traduttore. Ma oltre ad avergli portato via due figli, la violenza di Israele continua a devastare la sua vita. Con gli aiuti occidentali. Di nuovo, nessuna parola. 

“Finchè ci sarà occupazione ci sarà resistenza”

Quando ci spostiamo nel campo rifugiati di Tulkarem, la famiglia di Qusay Okasha ci dà il benvenuto con la consueta gentilezza palestinese, che ci disarma come sempre. Sono tutti radunati in salotto: madre, padre, due sorelle con i figli e un marito, il fratello. Almeno cinque bambini girano tra le braccia dei vari famigliari o zampettano tra la nostra e l’altra stanza, in quella casa troppo piccola per contenere la numerosa famiglia. Ci offrono il caffè, poi una bottiglietta d’acqua a testa e ci sporgono un vassoio pieno di datteri, avvolti uno a uno in un tovagliolo di carta. I datteri in quel modo vengono sempre offerti dalle famiglie in lutto ai visitatori. 

Qusay aveva 24 anni. La sua foto, un M-16 stretto tra le mani e una bandiera bianco e nera dietro, è appesa al muro di fronte a me. Era un fighter Qusay, da vario tempo. L’hanno ucciso il 24 dicembre durante il raid di Natale. Nove persone sono morte in quelle 45 ore di incursione per mano dei militari, tra cui due donne e un ragazzo di 17 anni. Come a Nur Shamps Camp, decine di case sono state danneggiate, le strade distrutte, gli impianti idrici ed elettrici messi fuori uso. Il totale degli immobili compromessi o demoliti nel solo campo rifugiati di Tulkarem ha raggiunto così le 1200 unità.

«Mio figlio ha voluto fare la sua parte in quello che sta accadendo», comincia la madre. «Aveva preso questa scelta quando ha visto che la situazione qua continuava a peggiorare. Poi, con Gaza, e gli attacchi ai campi profughi… Era ricercato dai servizi israeliani; dopo che la maggior parte dei suoi amici sono stati uccisi, aveva deciso di non nascondere più la sua identità», dice. «Quella notte, quando è iniziato il raid, avrebbe potuto andare via, gli avevano offerto di scappare da qua. Ma lui ha rifiutato. Ha deciso di rimanere, per difendere il campo». Gli occhi di tutti sono cerchiati dalla tristezza, ma l’orgoglio e la profonda accettazione del destino del figlio la rendono forse più sostenibile. «Dopo che è diventato un martire, i jesh [militari israeliani, ndr] sono venuti qui, in questa casa, e hanno provato a entrare. Hanno sparato contro i muri,» continua il padre. 

La madre ci indica il divano – un materasso sopra una struttura di ferro – dov’è seduta. «Dormiva sempre qui. E questo era il suo cuscino» lo prende tra le mani, lo accarezza. Poi va a cercare una coperta e ce la mostra. «Qui c’è il suo sangue… quando è stato martirizzato i suoi amici hanno trasportato il suo corpo in questa coperta…» l’avvicina al volto, l’annusa. «Gli ho chiesto di portarmela indietro, volevo avere qualcosa per ricordare il suo odore… così è come se fosse vicino a me…» le lacrime iniziano a scorrere sulle sue guance. «Siamo orgogliosi di lui. E tutti lo amavano. Mio figlio non è il primo e non sarà l’ultimo martire».

«Ora stanno attaccando i campi, li stanno provando a distruggere per obbligare le persone ad andarsene, a lasciarli. Noi siamo nati e cresciuti qui: non ce ne andremo mai», riprende il padre. E ancora. «Finché ci sarà occupazione, ci sarà resistenza. Mio figlio non è il primo e non sarà l’ultimo martire» dice, ripetendo la frase appena pronunciata dalla moglie. 

«Quando tornate nei vostri Paesi, raccontate la sofferenza che i palestinesi stanno vivendo, anche in questi campi. Parlate della vita dei campi profughi palestinesi. Io ero testimone della prima intifada, e anche della seconda intifada. E vi dico: la resistenza non finirà, finché ci sarà l’occupazione».

[testo e immagini di Moira Amargi, corrispondente dalla Palestina]

Gaza, raid uccidono decine di palestinesi durante colloqui per tregua

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Fonti mediche hanno riferito ad Al Jazeera che almeno 33 palestinesi sono stati uccisi in diversi attacchi israeliani nel nord di Gaza dall’alba di oggi. Sette persone sono state uccise e altre ferite in un raid aereo israeliano nel quartiere di Daraj, nella parte orientale di Gaza City, nella striscia di Gaza centrale. Altre quattro sono morte in due attacchi separati nel centro di Gaza City e nella sua parte occidentale. Nel frattempo il Times of Israel ha riportato il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar ha parlato di progressi nei negoziati in corso in Qatar per raggiungere un accordo di cessate il fuoco.

Il governo usa gli scontri per Ramy come scusa per accelerare sul ddl Repressione

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In seguito agli scontri avvenuti in varie città italiane durante la manifestazione in solidarietà a Ramy Elgaml, 19enne di origine egiziana morto a Milano lo scorso 24 novembre durante un inseguimento dei carabinieri, il governo spinge sull’acceleratore per la rapida approvazione del dibattuto DDL Sicurezza. Nelle ultime ore, la maggioranza sta infatti evidentemente cercando di sfruttare come pretesto i disordini che hanno coinvolto vari gruppi di manifestanti e forze dell’ordine per centrare l’obiettivo nel più breve tempo possibile. Presentato come un provvedimento necessario per proteggere l’ordine pubblico, il disegno di legge è però da tempo al centro di aspre polemiche per i concreti rischi che comporta sulla difesa delle libertà fondamentali, contemplando misure ispirate a logiche esclusivamente repressive che nulla hanno a che vedere con la tutela della sicurezza collettiva.

Il DDL Sicurezza si trova all’esame delle commissioni del Senato, i cui lavori riprenderanno questa settimana. In particolare, a spingere per accelerarne l’approvazione, nell’Esecutivo, sono stati il vicepremier Matteo Salvini, il ministro della Difesa Guido Crosetto e il sottosegretario leghista all’Interno Nicola Molteno, il quale ha dichiarato che il DDL sarebbe «l’unico strumento oggi in grado di tutelare e difendere il sacrificio di servizio e dedizione delle nostre Forze di Polizia». Eppure, con la scusa dell’auspicata “protezione” delle forze dell’ordine, si andrebbe ad approvare un testo estremamente eterogeneo, che accorpa in 38 articoli questioni assai diverse tra loro ed estranee alla tutela di chi è in divisa. Tra le misure più controverse vi è l’introduzione del carcere per chi partecipa a blocchi stradali o ferroviari – norma che colpisce duramente il diritto alla protesta pacifica -, la criminalizzazione delle occupazioni abusive, che da illecito civile diventano reato penale, e l’aggravante per i reati commessi in prossimità di stazioni ferroviarie, metropolitane o sui mezzi pubblici. Altro punto assai critico concerne la stretta sulla cannabis light – che vieta la coltivazione e la vendita di prodotti derivati dalla canapa, penalizzando un intero settore industriale e mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro – come anche la misura che rende facoltativo per il giudice il rinvio della pena per detenute madri in gravidanza o con figli piccoli. Per non parlare della misura che autorizza gli 007 non solo a infiltrarsi in organizzazioni criminali e terroristiche, ma addirittura a dirigerle, legittimando gravissimi reati quali associazione sovversiva, terrorismo interno e banda armata, contro cui si è espresso anche il coordinamento dei familiari delle vittime delle stragi di mafia e terrorismo.

Vero è che il DDL Sicurezza introduce una serie di misure che, sulla carta, dovrebbero essere finalizzate alla tutela delle forze di polizia e alle esigenze di sicurezza collettiva, le quali paiono però orientarsi più a soddisfare le richieste corporative di alcuni sindacati delle forze dell’ordine. Tra i punti più discussi, vi è la norma che prevede la copertura finanziaria delle spese legali per poliziotti, militari e vigili del fuoco sotto processo per il loro operato: un meccanismo che, pur prevedendo una rivalsa in caso di condanna, potrebbe di fatto incentivare atteggiamenti irresponsabili. C’è poi l’introduzione del nuovo reato di rivolta, che si si applica anche nei casi di resistenza passiva agli ordini, ampliando notevolmente il margine di repressione contro i detenuti e le persone nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Un altro punto dibattuto è la norma sull’uso delle videocamere da parte degli agenti: sebbene venga prevista la possibilità di dotare le forze dell’ordine di strumenti di registrazione, non viene infatti introdotto l’obbligo di utilizzarli, limitando così la trasparenza e la documentazione degli interventi. Infine, una disposizione particolarmente controversa autorizza ogni agente a portare, senza necessità di licenza, armi personali diverse da quelle in dotazione ufficiale, misura che appare sproporzionata e priva di casi concreti che il giustifichino.

Gli intensi scontri tra manifestanti e polizia dopo la morte di Ramy si sono verificati nei giorni scorsi a Torino, Roma e Bologna, con lanci oggetti, lacrimogeni, cariche e ore di guerriglia urbana. Il bilancio complessivo parla di otto agenti feriti a Roma, cinque a Torino e dieci lievemente contusi a Bologna. Al momento, per la morte del 19enne sono indagate dalla Procura di Milano quattro persone, tra cui il vicebrigadiere alla guida della volante coinvolta, accusato di omicidio stradale in concorso con Fares Bouzidi, l’amico 22enne di Ramy che guidava lo scooter. Altri due carabinieri sono indagati per frode processuale, depistaggio e favoreggiamento, con l’accusa di aver intimidito un testimone per eliminare il filmato dello schianto. Le immagini riprese da una telecamera di sicurezza contrastano con le dichiarazioni ufficiali degli agenti, che avevano negato ogni collisione, sostenendo che lo scooter fosse caduto autonomamente e che avevano adottato tutte le misure per evitare lo scontro. Tuttavia, dall’audio del video emerge che durante l’inseguimento i militari avrebbero più volte invocato la caduta del mezzo, nonostante fossero consapevoli che Ramy avesse perso il casco.

[di Stefano Baudino]

Ponte sullo Stretto di Messina: bocciata la class action contro l’opera

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Il Tribunale di Roma ha respinto la class action di 104 cittadini contro la costruzione del Ponte sullo Stretto, dichiarandola inammissibile e imponendo ai ricorrenti il pagamento di quasi 300mila euro di spese legali. I ricorrenti contestavano alla Società Stretto di Messina la violazione di diligenza, correttezza e buona fede nel portare avanti il progetto, ritenuto privo di interesse strategico e non fattibile a livello ambientale, strutturale ed economico. I giudici hanno stabilito che l’azione non è giustificata, poiché non esisterebbero danni ambientali evidenti e la società starebbe agendo secondo la legge. Sono però ancora pendenti i ricorsi contro l’opera dei comuni di Reggio Calabria e Villa San Giovanni, su cui si esprimerà il TAR, e quello di Legambiente, Lipu e WWF.

Nella class action bocciata dal Tribunali, i firmatari chiedevano «la cessazione immediata da parte della società Stretto di Messina, di ogni atto o comportamento pregiudizievole dei diritti e degli interessi collettivi» e «di ogni attività tendente all’approvazione del progetto definitivo ed esecutivo». A loro dire andava infatti accertata «la responsabilità della società e il danno ingiusto» provocato «per la violazione del dovere di diligenza, correttezza e buona fede proseguendo nell’attività per la realizzazione del Ponte sullo Stretto, nonostante l’opera non abbia alcun reale interesse strategico e non è fattibile sotto i profili ambientali, strutturali ed economici». I giudici hanno però respinto il ricorso, affermando che «i ricorrenti hanno prospettato il pregiudizio in termini del tutto evanescenti ed ipotetici, avendo essi stessi ammesso che la procedura non ha ancora superato la fase di approvazione del progetto definitivo adottata dal Cipess e che tale adempimento dovrà essere preceduto dalla richiesta del MIT, dopo aver verificato la compatibilità delle valutazioni istruttorie (comprese quelle ambientali) acquisite dalla conferenza dei servizi, anche alla luce delle risultanze della valutazione di impatto ambientale, come disposto al comma 7 dell’art. 3, valutazione ancora in corso». I giudici scrivono dunque che «è di tutta evidenza quanto sia prematura l’iniziativa giudiziale degli odierni ricorrenti», che avrebbero agito «non solo in assenza di alcun effettivo danno ambientale che si sia iniziato a produrre in conseguenza di una condotta illecita, ma addirittura senza che il pregiudizio all’ambiente sia stato prospettato come imminente».

La decisione del Tribunale ha scatenato reazioni contrastanti. Il vicepremier Matteo Salvini, principale sostenitore dell’opera, ha esultato sui social: «Sconfitta per i signori del NO. Avanti per più sviluppo, lavoro e futuro in Sicilia, Calabria e resto d’Italia con il Ponte sullo Stretto.». Di segno opposto il commento del WWF Italia, che ha definito la condanna alle spese legali «priva di giustificazione e pericolosa», parlando di «una pagina nera per il diritto italiano, perché vengono colpiti semplici cittadini che hanno scelto di esercitare il proprio diritto di accesso alla giustizia». Gli avvocati dei ricorrenti, Aurora Notarianni e Giuseppe Vitarelli, hanno annunciato che proporranno immediato appello con richiesta di sospensiva, sostenendo che «la condanna alle spese nell’importo determinato possa essere frutto di un errore, non essendo la determinazione neppure motivata e non essendo rinvenibile nelle tariffe un conto importo».

Il 2025 sarà un anno cruciale per il destino dell’opera. Per quanto concerne la questione finanziaria, con un emendamento alla legge di Bilancio sono stati recentemente stanziati 1,5 miliardi, che hanno portato a circa 13 miliardi e mezzo di euro il suo costo complessivo. Il ponte vero e proprio ha un costo stimato di circa 5 miliardi, mentre oltre 8 miliardi sono destinati a opere accessorie e compensative sul territorio calabrese e siciliano. All’appello manca ancora il progetto definitivo con il piano economico-finanziario. Spetterà al Cipess – il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile presieduto dalla presidente del Consiglio – dare il proprio timbro definitivo. Contestualmente, è ancora pendente il ricorso congiunto presentato dal Comune di Villa San Giovanni e dalla Città Metropolitana di Reggio Calabria al TAR del Lazio, il cui esame è previsto per domani, che solleva interrogativi sulla regolarità del progetto in relazione a norme ambientali e urbanistiche. Anche Legambiente, Lipu e WWF hanno proposto ricorso, che sarà però esaminato con procedura ordinaria. E dunque con tempistiche più lunghe.

[di Stefano Baudino]

Roma: assolti gli studenti della Sapienza per le proteste pro-Palestina

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Il Tribunale di Roma ha assolto Stella Boccitto, di 30 anni, arrestata con l’accusa di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale durante una protesta avvenuta lo scorso 16 aprile alla Sapienza contro la cooperazione scientifica dell’Ateneo con Israele. Il fatto non costituisce reato, ha stabilito il giudice, respingendo la richiesta di otto mesi di carcere avanzata dal Pubblico Ministero nel processo per direttissima. L’avvocato Francesco Romeo, legale della giovane, ha definito il procedimento «frutto di una gestione isterica delle forze dell’ordine». Alcune settimane fa è stato assolto anche il secondo dei due studenti arrestati in occasione delle manifestazioni studentesche a Roma, Albarq Mohammed Ali Jummah, accusato di danneggiamento per essere salito su un’auto e aver parlato al megafono durante la protesta.

La decisione del Tribunale di Roma è stata annunciata il 9 gennaio, a oltre sei mesi dai fatti. La ragazza, nello specifico, era accusata di resistenza aggravata a pubblico ufficiale, condotta che Boccitto avrebbe assunto colpendo un dirigente del commissariato San Lorenzo, macchiandosi così anche di lesioni a pubblico ufficiale. Il tribunale, tuttavia, ha respinto tutte le accuse: «L’assoluzione dimostra non solo la mia innocenza ma il tentativo di criminalizzare chi chiede la fine del genocidio in Palestina e delle complicità di governo e università con Israele», ha dichiarato Boccitto. A questa dichiarazione fa eco una nota condivisa da diverse realtà palestinesi del Paese, tra cui l’Unione Democratica Arabo Palestinese e i Giovani Palestinesi: «Questo processo ha messo in luce il tentativo di criminalizzare il movimento di solidarietà e le mobilitazioni contro il genocidio in Palestina e contro la complicità dell’Italia», si legge nella nota. In concomitanza con l’udienza, si è tenuto un presidio di solidarietà a Piazzale Clodio, davanti al Tribunale di Roma.

L’assoluzione di Boccitto arriva qualche settimana dopo l’analoga conclusione del processo contro Albarq Mohammed Ali Jummah, di 27 anni, l’altro ragazzo arrestato nel corso della manifestazione del 16 aprile. Quest’ultimo era stato fermato qualche ora prima della ragazza e accusato di danneggiamento per essere salito sul tetto di una macchina. Proprio dopo il suo arresto la situazione è diventata più tesa, e le forze dell’ordine hanno deciso di caricare i ragazzi. Durante la protesta, gli studenti hanno sfilato in un corteo di circa 300 persone in occasione di una seduta del Senato Accademico in cui gli organi dell’ateneo avrebbero discusso l’eventuale sospensione del bando MAECI (del Ministero degli Esteri) di collaborazione con le università israeliane. Le mobilitazioni presso l’Università La Sapienza di Roma si sono mosse sullo sfondo di un generale moto di protesta che ha interessato gli atenei di tutto il Paese. Oggetto delle contestazioni è stata la collaborazione degli istituti universitari – e dell’Italia stessa – con le realtà israeliane. Le proteste degli universitari, poi estesesi anche al tema della militarizzazione degli atenei, sono andate avanti per tutto il 2024 attraverso cortei, flash mob e occupazioni, e hanno dato vita a quella che è stata ribattezzata col nome di “intifada studentesca”, rilanciata per il nuovo anno accademico da diverse realtà universitarie.

[di Dario Lucisano]

Serbia, manifestazioni antigovernative: migliaia in piazza

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Continuano le proteste per il crollo della tettoia della stazione ferroviaria di Novi Sad, in Serbia, che ha causato la morte di 15 persone. Ieri, decine di migliaia di persone sono scese in piazza a Belgrado, davanti al tribunale supremo del Paese, per chiedere spiegazioni sull’incidente, denunciando violazioni dei diritti civili in quello che si è ormai trasformato in un moto anti-governativo. Numerosi gli studenti scesi in piazza, che hanno annunciato uno sciopero dalle lezioni. La manifestazione è iniziata con 15 minuti di silenzio per commemorare le vittime del crollo della tettoia. Parallelamente, si è tenuta una manifestazione anche nella città meridionale di Nis.

Croazia, Milanovic confermato presidente

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Il presidente uscente Zoran Milanović ha vinto il ballottaggio per le elezioni presidenziali in Croazia, riconfermando la propria carica con uno schiacciante 73%. Milanović, esponente del Partito Socialdemocratico di Croazia, si è scontrato con il conservatore Dragan Primorac, dell’Unione Democratica Croata, partito di cui fa parte anche il premier in carica, Andrej Plenković, con cui è attualmente in corso una complicata coabitazione. Milanović è noto per le sue posizioni critiche nei confronti della posizione assunta da UE e NATO nella guerra russo-ucraina, anche se ha sempre condannato la Russia per l’aggressione. Ricoprirà la carica di presidente per altri cinque anni.

La scoperta di nuovi tessuti scheletrici fa progredire il potenziale della medicina rigenerativa

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È stato scoperto un nuovo tessuto scheletrico. Si chiama “lipocartilagine” e, secondo gli scienziati, potrebbe rivoluzionare in futuro la medicina rigenerativa e l’ingegneria tissutale. È quanto emerge dal lavoro di un team di ricercatori guidati dall’Università della California (UC) di Irvine, i quali hanno dettagliato i loro risultati all’interno di un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Science. Il tessuto, ricco di cellule piene di grasso chiamate lipocondrociti, combinerebbe morbidezza ed elasticità con una resistenza straordinaria, aprendo...

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Birmania, raid militare colpisce villaggio nel Kachin: almeno 15 morti

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In Birmania un attacco aereo sferrato dai militari su un affollato mercato di un villaggio nello Stato settentrionale di Kachin ha causato la morte di almeno 15 persone e il ferimento di altre 10. Lo hanno reso noto i ribelli del locale gruppo etnico, l’Esercito per l’indipendenza Kachin (Kia), che vede tra le sue file circa 7mila combattenti, controlla la regione e combatte contro la giunta golpista. Quest’ultima ha preso il potere in Birmania con un colpo di Stato del febbraio 2021. Il KIA ha dichiarato che tutte le persone uccise erano civili ed erano o cercatori d’oro o commercianti.