sabato 5 Luglio 2025
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Gaza, la tregua sembra vicina: presentata la bozza del cessate il fuoco

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Israele e Hamas sono «sulla soglia» del raggiungimento di un accordo per il cessate il fuoco a Gaza. A dirlo è il presidente uscente degli Stati Uniti, Joe Biden, dopo analoghe dichiarazioni da parte di diplomatici della Casa Bianca: «Nella guerra tra Israele e Hamas, siamo sull’orlo della realizzazione di una proposta che avevo illustrato nei dettagli mesi fa», ha annunciato Biden, mentre un funzionario informato sui negoziati ha parlato di una «svolta decisiva» avvenuta durante la notte. Secondo il funzionario, il testo dell’accordo, che prevede un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi, è stato consegnato dal Qatar a entrambe le parti. Nel frattempo, comunque, l’esercito israeliano non ha fermato la propria aggressione nella Striscia: solo ieri, lunedì 13 gennaio, a partire dall’alba, gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno 58 palestinesi in tutta Gaza, a cui vanno aggiunte altre 12 persone uccise nelle prime ore di oggi, mentre l’assedio israeliano del nord di Gaza ha superato la soglia dei 100 giorni.

Nelle ultime ore si parla di un cessate il fuoco imminente nella Striscia di Gaza. L’accordo, secondo i funzionari statunitensi, potrebbe arrivare entro questa settimana. I negoziati si sono svolti a Doha e hanno coinvolto figure chiave come i capi delle agenzie di intelligence israeliane Mossad e Shin Bet, oltre al primo ministro del Qatar, e a inviati dei presidenti Joe Biden e Donald Trump. Secondo le notizie diffuse dai media, nella serata di ieri i mediatori hanno consegnato a Israele e Hamas la bozza finale dell’accordo per porre fine alle aggressioni israeliane a Gaza. L’agenzia di stampa Reuters cita un anonimo funzionario della Casa Bianca che avrebbe detto che i negoziati sarebbero in fase avanzata e prevederebbero un primo scambio di prigionieri. Il notiziario saudita Asharq ha pubblicato una lista, che un funzionario di Hamas avrebbe confermato all’emittente NPR, di 34 ostaggi che l’organizzazione sarebbe pronta a liberare in cambio di un «indeterminato numero di prigionieri palestinesi e del ritiro parziale da Gaza». La lista comprende cinque donne soldato, cinque donne civili, due neonati e 22 uomini, tra cui i due cittadini israelo-americani Sagui Dekel-Chen e Keith Siegel.

I funzionari di entrambe le parti, pur non confermando la presenza di una bozza finale, hanno riferito di progressi. La delegazione di Hamas a Doha ha rilasciato una dichiarazione dopo un incontro con l’emiro del Qatar, Sheikh Tamim bin Hamad Al-Thani: «I negoziati su alcune questioni fondamentali hanno fatto progressi e stiamo lavorando per concludere presto ciò che resta». Anche il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Saar, ha detto ai giornalisti che si starebbero facendo progressi, affermando che «la situazione sembra parecchio migliore rispetto alle precedenti». Secondo Reuters, questa mattina dovrebbero continuare i colloqui tra i mediatori «per finalizzare i dettagli rimanenti», mentre il sito di informazione Axios ha parlato con tre funzionari anonimi degli USA, che hanno riferito che «oggi il segretario di Stato Tony Blinken presenterà un piano», in fase di lavorazione dallo scorso ottobre, «per ricostruire e governare Gaza dopo la guerra tra Israele e Hamas». Altre conferme che i negoziati sarebbero a buon punto sono arrivate dal consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, che è stato uno dei primi a esporsi pubblicamente.

Secondo un inviato in Palestina per l’emittente qatariota Al Jazeera, Tareq Abu Azzoum, che in questo momento si trova a Deir el-Balah, nell’area centrale della Striscia, «mentre i negoziati per il cessate il fuoco avanzano, i residenti di Gaza esprimono un miscuglio di emozioni tra ottimismo e profondo scetticismo. Hanno sopportato più di 15 mesi di guerra implacabile e sono ansiosi che venga annunciato un cessate il fuoco. Tutti seguono attentamente gli sviluppi». Lo stesso giornalista, tuttavia, riporta che nelle ultime ore gli attacchi non si sono fermati: «Qui a Deir el-Balah abbiamo sentito forti esplosioni per tutta la notte. Gli attacchi hanno raso al suolo una casa e hanno preso di mira un bar nella parte occidentale della città. È stato confermato che almeno otto civili sono stati uccisi». La situazione sembrerebbe analoga a Khan Younis, «dove testimoni riferiscono che un’altra casa è stata rasa al suolo», uccidendo una donna e alcuni bambini, mentre nel Governatorato di Nord Gaza, sotto assedio da 100 giorni, «le nostre fonti confermano che la portata delle operazioni militari si sta intensificando di minuto in minuto».

In generale. dall’escalation del 7 ottobre, l’esercito israeliano ha ucciso direttamente almeno 42.289 persone, anche se secondo uno studio della rivista scientifica The Lancet, i morti diretti in questo momento ammonterebbero a oltre 64.000. La stessa rivista ha inoltre pubblicato una dettagliata analisi in cui sostiene che, considerando gli effetti indiretti del conflitto come l’interruzione dei servizi sanitari, la mancanza di acqua potabile e servizi igienici, il numero delle vittime potrebbe superare le centinaia di migliaia di persone, come peraltro affermato da una lettera di medici volontari nella Striscia.

[di Dario Lucisano]

Russia e Iran firmeranno un accordo di partenariato strategico globale

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Il Cremlino ha annunciato che venerdì 17 gennaio il presidente russo, Vladimir Putin, riceverà l’omologo iraniano Masoud Pezeshkian per discutere «le prospettive per un’ulteriore espansione della cooperazione bilaterale». Al termine dei colloqui, continua il comunicato ufficiale, ripreso dall’agenzia di stampa governativa russa TASS, i due leader firmeranno un accordo di partenariato strategico globale tra Russia e Iran e rilasceranno dichiarazioni ai media. Esso prevede un potenziamento della cooperazione in diversi settori «tra cui il commercio, gli investimenti, i trasporti, la logistica e la cultura, nonché le attuali questioni regionali e internazionali».

Proteste per Ramy: almeno 60 identificati

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Sarebbero almeno 60 i manifestanti identificati dalle forze dell’ordine per aver preso parte alle manifestazioni di Roma e Bologna in nome di Ramy Elgaml, il ragazzo morto dopo un inseguimento da parte dei carabinieri, durante il quale è stato speronato dalle volanti. Dopo la pubblicazione del video dell’inseguimento dal punto di vista dei carabinieri, sono scoppiate manifestazioni in diverse città italiane. A Torino, Roma e Bologna si sono verificati intensi scontri tra manifestanti e polizia, con lanci di oggetti, lacrimogeni, cariche e ore di guerriglia urbana. Il bilancio complessivo parla di otto agenti feriti a Roma, cinque a Torino e dieci lievemente contusi a Bologna.

In Scozia apre la prima sala per il consumo sicuro di sostanze del Regno Unito

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Il 13 gennaio 2025, Glasgow ha inaugurato "The Thistle", il primo centro del Regno Unito dedicato al consumo sicuro di sostanze. Situata presso l'Hunter Street Health and Care Centre, la struttura rappresenta una risposta concreta alla crescente emergenza sanitaria legata alla dipendenza da droghe, che ha colpito duramente la città negli ultimi anni. Con l’obiettivo di ridurre il numero di overdose e di promuovere condizioni di assunzione più sicure, il centro sarà operativo tutti i giorni, dalle 9:00 alle 21:00, e offrirà supporto a chiunque necessiti di consumare sostanze in modo controllato...

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La strage silenziosa dei senza fissa dimora: 408 morti nel 2024

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Nel 2024, 408 persone senza dimora sono decedute in Italia, un dato poco inferiore al tragico record del 2023 (415) ma superiore ai numeri del biennio precedente. Le vittime, prevalentemente uomini (93%) e stranieri (58%), avevano un’età media di 47 anni. Le principali cause di morte sono malori e ipotermia (40%), seguiti da eventi traumatici come aggressioni, cadute e incendi (42%). Il fenomeno, diffuso soprattutto nelle grandi città come Roma, Milano e Napoli, si sta espandendo anche ai centri più piccoli. L’analisi è stata effettuata dalla Federazione italiana organismi per le Persone senza dimora (fio.Psd), che nel divulgarne i risultati ha denunciato l’assenza di politiche nazionali sul diritto alla casa e chiesto strategie strutturate. Secondo l’Istat, nel 2021 i senza dimora censiti erano oltre 96mila, concentrati per metà in sei grandi città italiane.

Il primo nome del 2024 è stato Darim Singh, un giovane di 32 anni proveniente dal Punjab, ritrovato senza vita sotto i portici di Piazza del Plebiscito a Napoli, a poche ore dal concerto di Capodanno. L’ultimo è stato Beye Cheikh, un senegalese di 35 anni morto di freddo sul lungomare di Martinsicuro (Teramo) nella notte di Santo Stefano. Tra loro, altre 406 vite spezzate in un anno, vittime di una “strage invisibile” che si consuma nel silenzio delle strade italiane. Secondo le statistiche della Federazione italiana organismi per le Persone senza dimora (Fio.Psd), i decessi registrati nel 2024, lievemente inferiori a quelli del 2023, sono in forte aumento rispetto ai 399 del 2022 e ai 250 del 2021. Questi dati mettono in luce un dramma che continua a crescere, colpendo per più di nove volte su 10 soggetti di sesso maschile, con un’età media di 47,3 anni, il più delle volte stranieri. Le circostanze dei decessi parlano di una vita ai margini: alcuni muoiono su una panchina, altri lungo un binario, su un marciapiede o in case abbandonate. Il 40% delle morti è attribuibile a malori improvvisi e al peggioramento di condizioni di salute già compromesse, spesso aggravati da condizioni di vita difficili e dalla mancanza di accesso a cure mediche adeguate. Un altro 42% è causato da eventi traumatici, come aggressioni, cadute, incendi, annegamenti e suicidi. Nonostante l’immaginario collettivo associ il fenomeno alle grandi città, esso si sta estendendo anche a centri di medie e piccole dimensioni.

La stagione invernale, con le sue rigide temperature, rappresenta il periodo più critico, durante il quale i decessi aumentano e l’attenzione mediatica si accende momentaneamente. Tuttavia, la tragedia è costante durante tutto l’anno. Secondo il Censimento permanente della popolazione e delle abitazioni dell’Istat del 2021, in Italia risultano iscritte all’anagrafe come senza tetto o senza dimora 96.197 persone, di cui il 38% sono stranieri. La metà di queste iscrizioni è concentrata in sei città principali: Roma (23%), Milano (9%), Napoli (7%), Torino (4,6%), Genova (3%) e Foggia (3,7%). «In questi anni in Italia – ha spiegato Cristina Avonto, presidente della Fio.Psd – è venuta meno una rete di tenuta che protegge queste persone dal crollare per motivi personali, familiari, economici; non si tratta di un problema derivante da fatalità o da una catena casuale di eventi: i dati sulle morti delle persone senza dimora dimostrano che i rischi di vivere in strada sono molteplici e presenti ogni mese, che va superata la logica emergenziale e che servono strategie organiche e strutturate in maniera continuativa e su tutto il territorio nazionale». La mancanza di un tetto non è infatti solo un problema di povertà materiale, ma riflette una carenza di strutture di supporto e inclusione sociale e la mancanza di politiche nazionali sull’abitare e sulla casa rappresenta un nodo cruciale.

[di Stefano Baudino]

Nigeria presunti attacchi islamisti, 40 morti

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Ieri, nello Stato nord-orientale del Borno, in Nigeria, si è verificato un attacco in cui sono morti 40 agricoltori della comunità Dumba. La notizia è stata data oggi dalle autorità locali, riportate dall’agenzia di stampa Reuters, che sospettano che dietro agli attacchi ci siano militanti islamisti appartenenti al gruppo armato Boko Haram e al suo ramo Islamic State West Africa Province (ISWAP), che dal 2009 conduce un’insurrezione nel nord-est della Nigeria. L’attacco di ieri si inserisce nel contesto di un peggioramento della crisi alimentare nello Stato del Borno, aggravata dalle inondazioni di settembre e da anni di insicurezza e sfollamenti causati dagli scontri.

Il fondo Blackrock abbandona l’alleanza globale per la riduzione delle emissioni

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La grande finanza non si è mai dimostrata particolarmente sensibile alle tematiche ambientali. E ora che è anche cambiato il vento politico globale e la forza dei movimenti ambientalisti è inferiore rispetto a qualche anno fa, non serve nemmeno fingere. Così, il gruppo BlackRock, il più grande gruppo finanziario al mondo con 11 mila miliardi di dollari di asset in gestione, ha abbandonato l’alleanza globale di società che lavorano per raggiungere – attraverso la gestione dei propri investimenti – gli obiettivi di neutralità climatica. La decisione di BlackRock segue quella di altri sei grandi gruppi finanziari. Nonostante il ritiro, molti hanno confermato a parole il loro impegno individuale per la riduzione delle emissioni. Ma che queste intenzioni, in assenza di impegni scritti, si tramutino in fatti è ora una possibilità ancor più remota. Una decisione che dimostra come il presunto interesse delle élite finanziarie verso la decarbonizzazione e l’ambiente fosse di facciata.

L’alleanza globale degli assicuratori per l’obiettivo zero emissioni di carbonio, la Net Zero Asset Managers Initiative (NZAM), era stata creata nel luglio 2021 sotto l’ala dell’ONU. Nella primavera del 2023, aveva già perso gran parte dei suoi membri, tra cui i fondatori Scor, Axa e Allianz. Ora, a distanza di nemmeno un anno, si è quasi del tutto svuotata. Prima di BlackRock, ad abbandonare la nave ci sono stati Goldman Sachs, Wells Fargo, Citi, Bank of America, Morgan Stanley e JPMorgan Chase.

Nel complesso, si va indebolendo la pressione degli azionisti delle grandi multinazionali a favore di risoluzioni in difesa di ambiente e diritti sociali. In particolare, già lo scorso luglio l’associazione di investimento responsabile ShareAction aveva evidenziato una riduzione nel sostegno da parte dei grandi fondi finanziari ai cosiddetti criteri ESG (Environmental, Social e Governance) di sostenibilità. Nel 2022, i quattro maggiori gestori patrimoniali del mondo – Vanguard, Fidelity Investments, BlackRock e State Street Global Advisors – avevano ridotto il loro supporto alle proposte degli azionisti relative a questioni ambientali e sociali, sostenendo solo il 20% delle risoluzioni ESG, rispetto al 32% del 2021. Il calo di supporto da parte di questi gestori, tutti con sede negli Stati Uniti, sarebbe stato, ad esempio, influenzato dalle posizioni anti-ecologiche delle compagnie energetiche, le quali hanno ottenuto profitti record grazie alla guerra in Ucraina. BlackRock, in particolare, ha sostenuto solo il 16% delle risoluzioni legate al clima nelle aziende energetiche nel 2022, un drastico calo rispetto al 72% del 2021. Nel 2024, solo due risoluzioni degli azionisti legate alle politiche ambientali hanno ricevuto il sostegno della maggioranza dell’assemblea degli azionisti delle maggiori società USA quotate in borsa. Così, ora che le proteste ambientaliste sono un po’ scemate, l’attenzione mediatica e politica sulle tematiche ecologiche lo è altrettanto, e i big della finanza stanno tornando serenamente a sostenere i soliti settori che gli garantiscono guadagni certi.

Negli Stati Uniti, inoltre, banche e gestori patrimoniali subiscono da sempre la pressione di una dozzina di stati conservatori, i quali ritengono che iniziative come la NZAM violino le leggi antitrust, ostacolino lo sviluppo dei combustibili fossili e comportino un aumento dei prezzi. Ma, al di là delle attività di lobby, le entità economiche private difficilmente pensano ad altro che non sia il profitto. In balia delle logiche di mercato, la tutela dell’ambiente e la lotta ai cambiamenti climatici vivono solo finché portano a un aumento, o quantomeno non a un calo, dei ricavi. Come anticipato, un’altra pressione con un peso significativo è stata quella pubblica, ma non appena questa ha iniziato ad affievolirsi quasi tutti i grandi gruppi finanziari e industriali hanno gettato la maschera green. La tendenza vale anche e soprattutto per le grandi compagnie fossili che, da un anno a questa parte, hanno iniziato a ridimensionare o abbandonare gli obiettivi di riduzione delle emissioni promessi in precedenza. Shell, TotalEnergies e BP sono solo i principali colossi fossili che hanno deciso di fregarsene anche delle apparenze.

[di Simone Valeri]

Palestina: reportage dai campi profughi di Tulkarem sotto attacco

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CAMPO PROFUGHI DI NUR SHAMS, TULKAREM, PALESTINA OCCUPATA – Strade sventrate, case a pezzi, esplose, bruciate. Vari pali della luce abbattuti hanno tolto l’elettricità a una parte del campo. Il sistema idrico avrà bisogno di settimane prima di essere restaurato a causa dei danni subiti, mentre centinaia di famiglie rimangono senza acqua. Il campo profughi di Nur Shams sembra un campo di battaglia, e lo è stato, ancora una volta, appena qualche giorno fa: i fori dei proiettili sono ben visibili sulle facciate di molte case e le ferite ancora aperte sulle almeno 14 mila persone che lo abitano. Una donna anziana siede su uno sgabello davanti a una casa semi-distrutta: l’intera parete è crollata, quello che forse era un salotto dà ora sulla strada principale. «Cosa dobbiamo fare? Hanno distrutto tutto di nuovo», chiede, gli occhi pieni di dolore. «Vengono, uccidono, distruggono tutto. Cosa dobbiamo fare?». Poche parole mentre camminiamo nel fango della piazzetta, dove ormai la strada è solo un ricordo.

Le “piccole Gaza”

«Quella era una farmacia, quella una struttura dell’UNRWA» dice Ahmad, un abitante del campo che ci accompagna indicando due edifici gravemente danneggiati. E ancora: case senza un pezzo di parete, pilastri rotti che sembrano reggere per miracolo il piano soprastante. Le macerie sono accumulate al centro della piazza, mischiate alla terra e a pezzi di asfalto dei raid precedenti. Intanto, intorno si vedono famiglie al lavoro: chi aggiusta una porta, chi mette del nylon a una finestra, chi sta già ricostruendo il muretto distrutto con mattoni e cemento. Un ragazzo sta rimettendo in piedi il suo baracchino di legno da cui vendeva il caffè. «E se me lo distruggono un’altra volta, lo ricostruirò di nuovo» dice, quasi per confermare la forza e resistenza di quel popolo sotto occupazione da ormai 76 anni. 

I campi profughi di Tulkarem sono sotto attacco da prima del 7 di ottobre, anche se le incursioni sono aumentate a dismisura in quantità e violenza da quella data. I raid israeliani sono cominciati a marzo del 2023, dietro la motivazione ufficiale di smantellare le basi della resistenza armata palestinese. Ma le ragioni sono ben altre, ci spiega l’uomo che ci accompagna per il campo. «Vogliono distruggere i campi profughi per eliminare l’idea stessa di un possibile ritorno», afferma Ahmad. «Senza più rifugiati Israele è come se fosse legittimato a stare su quelle terre, che appartenevano ai nostri nonni. È per questo motivo che stanno anche cercando di smantellare e sostituire l’UNRWA», racconta. In Cisgiordania sono registrati 912.879 rifugiati; circa un quarto di loro vivono nei 19 campi profughi ufficiali, costruiti dall’agenzia UNRWA a seguito della Nakba, la “Catastrofe”, ossia l’esodo forzato di 700 mila palestinesi dalle terre su cui è stato poi fondato Israele. 

«Vogliono obbligare la gente ad andare via, ad abbandonare i campi. Per questo distruggono le infrastrutture, le case, le strade, tutto.»  E continua. «Questi raid sono anche punizioni collettive verso i residenti dei campi, accusati di ospitare la resistenza armata. Cercano di metterci gli uni contro gli altri», dice. «Ma non funziona» . 

Sono un’ottantina gli attacchi che i due campi profughi di Tulkarem hanno subito dal 2023 ad oggi. Migliaia le case danneggiate, centinaia quelle distrutte o rese inagibili. Molte famiglie di entrambi i campi hanno dovuto andarsene perché non avevano più da dove dormire. «Il nostro negozio di famiglia è stato attaccato due volte», dice Ahmad. «Per ora l’abbiamo chiuso, perché non possiamo permetterci di perdere nuovamente soldi» . 

Israele porta avanti la stessa tattica di distruzione delle infrastrutture, dei mezzi di sostentamento e delle abitazioni dei palestinesi nei campi profughi di varie città del nord della Cisgiordania. Ma i campo rifugiati di Tulkarem, insieme a quello di Jenin – colpito e assediato anche dalle forze di polizia dell’Autorità palestinese – vincono senza rivali il primo posto sul podio. Le “piccole Gaza”

Entriamo nelle vie più interne del campo. Qui dei teli neri sulle nostre teste coprono la visuale del cielo. «Sono contro i droni. Spesso attaccano buttando bombe così», racconta Ahmad. Poco più avanti, mi ferma davanti a un edificio gravemente danneggiato. Sulla parete di fronte molti manifesti di quelli che qui vengono considerati martiri, i caduti per mano di Israele. «Qui nel marzo scorso hanno lanciato un missile in un attacco aereo, in pieno giorno. Hanno ucciso 12 persone. Il più piccolo aveva 11 anni. Stavano giocando a calcio». Nur Shams Camp significa “la luce del sole”, perché sorge su una delle terre che per prima è baciata dai raggi dell’alba, ma sembra che solo il buio del dolore lo irradi negli ultimi mesi. Continuiamo a camminare per le vie strette di quel campo, nato con le tende UNRWA nel 1951 e diventato ad oggi una delle zone più popolose della città, con il suo groviglio di case, negozi, stradine. Un uomo si ferma a salutare Ahmad, lui ci è cresciuto tra queste vie, conosce tutti. «Hanno appena arrestato suo figlio nell’ultimo raid»,  mi dice indicandolo con un cenno mentre si allontana. «Ha solo sedici anni». Qua sembra che tutti abbiano un familiare morto per mano israeliana o rinchiuso nelle prigioni di Tel Aviv. 

La maggior parte delle persone che abitano nel campo sono discendenti dei profughi cacciati dalle loro case nella zona di Haifa nel 1948: le famiglie si conoscono da generazioni, i legami di solidarietà e mutuo appoggio sono la sola cosa che ne hanno permesso la sopravvivenza da ormai 78 anni. «Qui le persone si aiutano. Quando ci sono i raid, chi può scappa, e viene ospitato fuori dal campo. Anche per ricostruire, tutti collaborano» . Ma sta diventando troppo. Troppi danni, troppa devastazione. A ogni raid. 

Un gruppetto di giovani beve un caffè in piedi davanti alle macerie di una casa completamente crollata. Uno di loro ha al collo un M-16, tra le armi più usate dalla resistenza contro l’esercito di Tel Aviv. «Questa era casa mia», dice uno dei tre ragazzi indicando l’edificio abbattuto nell’ultimo raid. «Hanno messo una bomba dentro e l‘hanno fatto esplodere». Anche la casa accanto è chiaramente pericolante. Ma una donna apre la porta che ormai dà nel vuoto, non essendoci più le scale, e con un saluto dice qualcosa ai giovani in arabo. Sulle pareti intorno, i segni del boato si vedono ancora: vetri delle finestre scomparsi, intonaci danneggiati dai pezzi di casa volanti. «I jesh (i militari israeliani) hanno paura a confrontarsi con noi», dice il ragazzo armato. «Non vogliono affrontarci frontalmente. Preferiscono buttare le bombe e attaccare con i droni». Accende una sigaretta. «Loro hanno tutte le armi e le tecnologie più avanzate, aiutati dall’America e dall’Europa. Noi, abbiamo solo questi» dice mostrando il fucile. 

L’ultimo palestinese ucciso di Nur Shams Camp si chiamava Mahmoud Mohammad Khaled, aveva 22 anni. L’hanno ucciso nella notte del 24 dicembre, durante il raid natalizio. Aveva provato da solo a difendere le case del suo quartiere sotto attacco, mentre venivano invase dai militari di Tel Aviv. «E’ stato un eroe. Hanno dovuto mandare un drone perché non riuscivano a colpirlo», racconta uno di loro. «Eliminato un terrorista», dirà Israele. Per definire un ragazzo che difendeva la sua casa dall’invasione di un esercito straniero mentre distruggeva il quartiere dove vive.

Incontriamo altri giovani radunati intorno un piccolo fuoco. Alcuni sono membri della resistenza, gli M-16 appesi lungo il fianco. «A lui hanno ucciso due fratelli. Per questo ha preso le armi», dice Ahmad, accennando a un ragazzo che avrà poco più di vent’anni, uno sguardo molto serio e profondo. Un ragazzo ci porta a vedere la sua casa, o meglio, ciò che ne resta. «Attenzione, è pericolante» dice. I mobili che restano sono mezzo bruciati, una parte della casa è crollata e l’altra deve aver preso fuoco. Il soffitto e le pareti sono tutte nere di fuliggine. «Hanno messo una bomba e l’hanno fatta esplodere quando se ne sono andati», ci dice. «Si era appena sposato!» aggiunge un altro ragazzo, indicando il proprietario di casa. «Ma c’è una parte del campo che è la più distrutta di tutti. È come Gaza», dice. Andiamo. Usciamo dalla zona dei teli, nemmeno duecento metri e si apre uno scenario apocalittico. Non c’è vita in quella zona di case. Non c’è nessuno, e non c’è più ragione per starci. È tutto distrutto: saranno almeno una decina di edifici completamente devastati. Mura distrutte, case crollate, la strada di terra e fango ha ancora i segni freschi dei D9 che l’hanno calpestata. «Questa era una scuola dell’UNRWA» mi dice Ahmad, indicando un edificio a pezzi, completamente inagibile. «E qua hanno fatto saltare una casa per poter entrare coi mezzi direttamente fino alla strade interne» racconta il nostro nuovo accompagnatore. 

Davanti a noi, una via di melma e terra inizia proprio dove c’è il buco di una casa tra gli edifici. La gente è stata obbligata ad andare via. «Una piccola Gaza!» dice ancora il ragazzo.

Mentre riprendiamo la strada principale, ci avvicina una donna, vuole parlare.  «Israele very bad», dice alzando un dito come a sottolineare il peso delle sue parole. «America is very bad. Germania, Francia… kullo, kullo!». Tutti, tutti, dice. È arrabbiata con i governi europei, con gli aiuti americani a Israele, con la legittimazione che il mondo occidentale dà allo stato sionista. Lei ha perso due figli, uccisi per mano di Tel Aviv. «E’ madre di due martiri», ripete il nostro traduttore. Ma oltre ad avergli portato via due figli, la violenza di Israele continua a devastare la sua vita. Con gli aiuti occidentali. Di nuovo, nessuna parola. 

“Finchè ci sarà occupazione ci sarà resistenza”

Quando ci spostiamo nel campo rifugiati di Tulkarem, la famiglia di Qusay Okasha ci dà il benvenuto con la consueta gentilezza palestinese, che ci disarma come sempre. Sono tutti radunati in salotto: madre, padre, due sorelle con i figli e un marito, il fratello. Almeno cinque bambini girano tra le braccia dei vari famigliari o zampettano tra la nostra e l’altra stanza, in quella casa troppo piccola per contenere la numerosa famiglia. Ci offrono il caffè, poi una bottiglietta d’acqua a testa e ci sporgono un vassoio pieno di datteri, avvolti uno a uno in un tovagliolo di carta. I datteri in quel modo vengono sempre offerti dalle famiglie in lutto ai visitatori. 

Qusay aveva 24 anni. La sua foto, un M-16 stretto tra le mani e una bandiera bianco e nera dietro, è appesa al muro di fronte a me. Era un fighter Qusay, da vario tempo. L’hanno ucciso il 24 dicembre durante il raid di Natale. Nove persone sono morte in quelle 45 ore di incursione per mano dei militari, tra cui due donne e un ragazzo di 17 anni. Come a Nur Shamps Camp, decine di case sono state danneggiate, le strade distrutte, gli impianti idrici ed elettrici messi fuori uso. Il totale degli immobili compromessi o demoliti nel solo campo rifugiati di Tulkarem ha raggiunto così le 1200 unità.

«Mio figlio ha voluto fare la sua parte in quello che sta accadendo», comincia la madre. «Aveva preso questa scelta quando ha visto che la situazione qua continuava a peggiorare. Poi, con Gaza, e gli attacchi ai campi profughi… Era ricercato dai servizi israeliani; dopo che la maggior parte dei suoi amici sono stati uccisi, aveva deciso di non nascondere più la sua identità», dice. «Quella notte, quando è iniziato il raid, avrebbe potuto andare via, gli avevano offerto di scappare da qua. Ma lui ha rifiutato. Ha deciso di rimanere, per difendere il campo». Gli occhi di tutti sono cerchiati dalla tristezza, ma l’orgoglio e la profonda accettazione del destino del figlio la rendono forse più sostenibile. «Dopo che è diventato un martire, i jesh [militari israeliani, ndr] sono venuti qui, in questa casa, e hanno provato a entrare. Hanno sparato contro i muri,» continua il padre. 

La madre ci indica il divano – un materasso sopra una struttura di ferro – dov’è seduta. «Dormiva sempre qui. E questo era il suo cuscino» lo prende tra le mani, lo accarezza. Poi va a cercare una coperta e ce la mostra. «Qui c’è il suo sangue… quando è stato martirizzato i suoi amici hanno trasportato il suo corpo in questa coperta…» l’avvicina al volto, l’annusa. «Gli ho chiesto di portarmela indietro, volevo avere qualcosa per ricordare il suo odore… così è come se fosse vicino a me…» le lacrime iniziano a scorrere sulle sue guance. «Siamo orgogliosi di lui. E tutti lo amavano. Mio figlio non è il primo e non sarà l’ultimo martire».

«Ora stanno attaccando i campi, li stanno provando a distruggere per obbligare le persone ad andarsene, a lasciarli. Noi siamo nati e cresciuti qui: non ce ne andremo mai», riprende il padre. E ancora. «Finché ci sarà occupazione, ci sarà resistenza. Mio figlio non è il primo e non sarà l’ultimo martire» dice, ripetendo la frase appena pronunciata dalla moglie. 

«Quando tornate nei vostri Paesi, raccontate la sofferenza che i palestinesi stanno vivendo, anche in questi campi. Parlate della vita dei campi profughi palestinesi. Io ero testimone della prima intifada, e anche della seconda intifada. E vi dico: la resistenza non finirà, finché ci sarà l’occupazione».

[testo e immagini di Moira Amargi, corrispondente dalla Palestina]

Gaza, raid uccidono decine di palestinesi durante colloqui per tregua

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Fonti mediche hanno riferito ad Al Jazeera che almeno 33 palestinesi sono stati uccisi in diversi attacchi israeliani nel nord di Gaza dall’alba di oggi. Sette persone sono state uccise e altre ferite in un raid aereo israeliano nel quartiere di Daraj, nella parte orientale di Gaza City, nella striscia di Gaza centrale. Altre quattro sono morte in due attacchi separati nel centro di Gaza City e nella sua parte occidentale. Nel frattempo il Times of Israel ha riportato il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar ha parlato di progressi nei negoziati in corso in Qatar per raggiungere un accordo di cessate il fuoco.

Il governo usa gli scontri per Ramy come scusa per accelerare sul ddl Repressione

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In seguito agli scontri avvenuti in varie città italiane durante la manifestazione in solidarietà a Ramy Elgaml, 19enne di origine egiziana morto a Milano lo scorso 24 novembre durante un inseguimento dei carabinieri, il governo spinge sull’acceleratore per la rapida approvazione del dibattuto DDL Sicurezza. Nelle ultime ore, la maggioranza sta infatti evidentemente cercando di sfruttare come pretesto i disordini che hanno coinvolto vari gruppi di manifestanti e forze dell’ordine per centrare l’obiettivo nel più breve tempo possibile. Presentato come un provvedimento necessario per proteggere l’ordine pubblico, il disegno di legge è però da tempo al centro di aspre polemiche per i concreti rischi che comporta sulla difesa delle libertà fondamentali, contemplando misure ispirate a logiche esclusivamente repressive che nulla hanno a che vedere con la tutela della sicurezza collettiva.

Il DDL Sicurezza si trova all’esame delle commissioni del Senato, i cui lavori riprenderanno questa settimana. In particolare, a spingere per accelerarne l’approvazione, nell’Esecutivo, sono stati il vicepremier Matteo Salvini, il ministro della Difesa Guido Crosetto e il sottosegretario leghista all’Interno Nicola Molteno, il quale ha dichiarato che il DDL sarebbe «l’unico strumento oggi in grado di tutelare e difendere il sacrificio di servizio e dedizione delle nostre Forze di Polizia». Eppure, con la scusa dell’auspicata “protezione” delle forze dell’ordine, si andrebbe ad approvare un testo estremamente eterogeneo, che accorpa in 38 articoli questioni assai diverse tra loro ed estranee alla tutela di chi è in divisa. Tra le misure più controverse vi è l’introduzione del carcere per chi partecipa a blocchi stradali o ferroviari – norma che colpisce duramente il diritto alla protesta pacifica -, la criminalizzazione delle occupazioni abusive, che da illecito civile diventano reato penale, e l’aggravante per i reati commessi in prossimità di stazioni ferroviarie, metropolitane o sui mezzi pubblici. Altro punto assai critico concerne la stretta sulla cannabis light – che vieta la coltivazione e la vendita di prodotti derivati dalla canapa, penalizzando un intero settore industriale e mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro – come anche la misura che rende facoltativo per il giudice il rinvio della pena per detenute madri in gravidanza o con figli piccoli. Per non parlare della misura che autorizza gli 007 non solo a infiltrarsi in organizzazioni criminali e terroristiche, ma addirittura a dirigerle, legittimando gravissimi reati quali associazione sovversiva, terrorismo interno e banda armata, contro cui si è espresso anche il coordinamento dei familiari delle vittime delle stragi di mafia e terrorismo.

Vero è che il DDL Sicurezza introduce una serie di misure che, sulla carta, dovrebbero essere finalizzate alla tutela delle forze di polizia e alle esigenze di sicurezza collettiva, le quali paiono però orientarsi più a soddisfare le richieste corporative di alcuni sindacati delle forze dell’ordine. Tra i punti più discussi, vi è la norma che prevede la copertura finanziaria delle spese legali per poliziotti, militari e vigili del fuoco sotto processo per il loro operato: un meccanismo che, pur prevedendo una rivalsa in caso di condanna, potrebbe di fatto incentivare atteggiamenti irresponsabili. C’è poi l’introduzione del nuovo reato di rivolta, che si si applica anche nei casi di resistenza passiva agli ordini, ampliando notevolmente il margine di repressione contro i detenuti e le persone nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Un altro punto dibattuto è la norma sull’uso delle videocamere da parte degli agenti: sebbene venga prevista la possibilità di dotare le forze dell’ordine di strumenti di registrazione, non viene infatti introdotto l’obbligo di utilizzarli, limitando così la trasparenza e la documentazione degli interventi. Infine, una disposizione particolarmente controversa autorizza ogni agente a portare, senza necessità di licenza, armi personali diverse da quelle in dotazione ufficiale, misura che appare sproporzionata e priva di casi concreti che il giustifichino.

Gli intensi scontri tra manifestanti e polizia dopo la morte di Ramy si sono verificati nei giorni scorsi a Torino, Roma e Bologna, con lanci oggetti, lacrimogeni, cariche e ore di guerriglia urbana. Il bilancio complessivo parla di otto agenti feriti a Roma, cinque a Torino e dieci lievemente contusi a Bologna. Al momento, per la morte del 19enne sono indagate dalla Procura di Milano quattro persone, tra cui il vicebrigadiere alla guida della volante coinvolta, accusato di omicidio stradale in concorso con Fares Bouzidi, l’amico 22enne di Ramy che guidava lo scooter. Altri due carabinieri sono indagati per frode processuale, depistaggio e favoreggiamento, con l’accusa di aver intimidito un testimone per eliminare il filmato dello schianto. Le immagini riprese da una telecamera di sicurezza contrastano con le dichiarazioni ufficiali degli agenti, che avevano negato ogni collisione, sostenendo che lo scooter fosse caduto autonomamente e che avevano adottato tutte le misure per evitare lo scontro. Tuttavia, dall’audio del video emerge che durante l’inseguimento i militari avrebbero più volte invocato la caduta del mezzo, nonostante fossero consapevoli che Ramy avesse perso il casco.

[di Stefano Baudino]