sabato 5 Luglio 2025
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Il Mali ha iniziato a sequestrare l’oro alle multinazionali straniere

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L’azienda di estrazione mineraria Barrick Gold, la seconda più importante al mondo, ha dovuto interrompere le operazioni di estrazione dell’oro dal complesso minerario di Loulo-Gounkoto, in Mali, dopo che il governo ha sequestrato provvisoriamente le scorte estratte dal sito e le ha messe sotto custodia in una banca locale. La decisione è giunta in quanto il governo ritiene che l’azienda non stia rispettando i termini di un contratto che prevede una redistribuzione più equa delle ricchezze estratte dalla cava per tutte le parti in gioco.

La disputa tra Mali e Barrick ha inizio vari mesi fa. Nell’autunno scorso, il ministero delle Miniere e il ministero delle Finanze del Mali avevano accusato l’azienda di non rispettare i termini di un accordo siglato con il governo, finalizzato a raggiungere una più equa redistribuzione delle ricchezze derivanti dallo sfruttamento delle risorse minerarie del Paese. Tra i termini previsti, vi era un aumento della quota statale dei benefici economici generati dal complesso minerario di Loulo-Gounkoto. Il nuovo codice minerario approvato dalla giunta golpista di Assimi Goïta, in carica dal 2021, ha infatti aumentato la quota massima per gli investitori statali e locali sulle miniere dal 20% al 35%. Barrick ha dichiarato di aver effettuato verso il goveno un pagamento di 50 miliardi di CFA (85 milioni di dollari) all’inizio di ottobre, il quale non ha evidentemente soddisfatto il governo maliano. Secondo quanto sarebbe stato riferito a Reuters dai dipendenti di Barrick impiegati nella miniera, infatti, il valore complessivo dello stock di Loulo-Gounkoto, pari a 4 tonnellate metriche, è di circa 380 milioni di dollari. E se da un lato le riserve di Loulo-Gounkoto rappresentano circa un settimo della produzione d’oro stimata da Barrick per il 2025, queste costituiscono l’80% delle esportazioni del Mali nel 2023.

Nel settembre dello scorso anno, inoltre, le autorità maliane avevano arrestato e detenuto quattro dipendenti dell’azienda, mentre l’11 gennaio scorso, secondo quanto riferito dai dipendenti a Reuters, il governo ha iniziato ad applicare l’ordine provvisorio di sequestro delle scorte d’oro presenti nel sito. In una comunicazione di oggi (14 gennaio), Barrick ha infine annunciato la sospensione temporanea delle operazioni nel sito. Il governo, riferisce l’azienda, ha spostato le scorte di oro dalla miniera a una banca di custodia, impedendo fisicamente la spedizione e la vendita del materiale. «Barrick rimane impegnata in un rapporto costruttivo con il goveno maliano e con tutte le parti interessate per trovare una soluzione amichevole che garantisca la sostenibilità a lungo termine del complesso minerario di Loulo-Gounkoto e il suo contributo vitale all’economia e alle comunità del Mali» si legge nella nota odierna dell’azienda.

Quella con Barrick Gold non è l’unica controversia di questo genere tra il governo del Mali e le compagnie minerarie che operano nel settore. Nel novembre dello scorso anno, l’australiana Resolute Mining ha dovuto pagare 160 milioni di dollari al governo maliano per porre fine a una disputa fiscale. Pochi giorni prima, Bamako aveva arrestato tre dipendenti dell’azienda con l’accusa di falsificazione e danneggiamento di proprietà pubblica e con l’obiettivo di spingere Resolute Mining a pagare la cifra richiesta.

La progressiva riappropriazione delle risorse minerarie da parte del Mali, tramite politiche di nazionalizzazione, è solo una delle mosse proposte dall’amministrazione di Goïta da quando è salito al potere con il golpe del 2021. Burkina Faso e Niger, due Stati della fascia del Sahel, hanno prontamente seguito le orme del Mali e, nel novembre 2023, i tre Paesi hanno costituito l’Alleanza del Sahel (AES), della quale Goïta è presidente. L’obiettivo dichiarato dell’AES è «rivendicare la nostra sovranità nazionale» e costituire «un’alternativa a qualsiasi gruppo regionale artificiale, costruendo una comunità libera dal controllo di potenze straniere». Anche il Niger, d’altro canto, ha manifestato l’intenzione di nazionalizzare le proprie riserve di oro, petrolio e uranio, mentre il Burkina Faso ha fatto lo stesso con le proprie scorte di oro. I tre Paesi dell’AES, inoltre, stanno progettando la creazione di una nuova moneta comune regionale anticoloniale, che sostituisca il franco CFA muovendo un passo decisivo verso il recupero della sovranità nazionale e la decolonizzazione.

[di Valeria Casolaro]

La storia dell’attacco alla sinagoga di Bologna è una bufala totale

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«Assalto alla sinagoga di Bologna», «Vandalizzata la sinagoga», «Presa di mira la sinagoga»: sono queste le parole che nei giorni scorsi hanno campeggiato sulle prime pagine dei giornali italiani, facendo risuonare l’allarme di un presunto attacco antisemita in una delle città più importanti della Penisola. Il riferimento è alle dure proteste avvenute la sera dell’11 gennaio nel capoluogo emiliano in solidarietà a Ramy Elgaml, 19enne di origine egiziana morto a Milano lo scorso novembre in circostanze controverse durante un inseguimento dei carabinieri. Eppure, nessun manifestante ha mai attaccato la sinagoga, dal momento che il corteo, nella via in cui si trova l’edificio, non ha mai messo piede. Tutto è partito quando, a poche ore dalla manifestazione, il sindaco di Bologna Matteo Lepore ha condannato l’azione dei dimostranti, esprimendo «particolare preoccupazione» per «gli atti vandalici e le minacce» che si sarebbero verificati «contro la Sinagoga di Bologna». Non è ancora chiaro chi abbia diffuso questa voce: sta di fatto che, subito dopo le dichiarazioni di Lepore, i giornali mainstream – incluse molte agenzie di stampa – l’hanno sparata ai quattro venti a suon di articoli e titoloni, senza mettere mano ad alcuna verifica e senza l’utilizzo del condizionale. Trasformando in una notizia una vera e propria fake news.

Partiamo dall’inizio. La manifestazione andata in scena a Bologna l’11 gennaio, nata per chiedere giustizia per Ramy Elgaml, è degenerata in atti di “guerriglia urbana” che hanno visto contrapporsi alcuni gruppi di manifestanti e le forze dell’ordine, con cariche, lanci di oggetti e lacrimogeni, sedie ribaltate e cassonetti incendiati: il corteo ha attraversato diverse vie del centro, comprese quelle vicine agli uffici della comunità ebraica di via de’ Gombruti. Qui finisce la cronaca dei fatti e inizia l’opera di disinformazione. La sinagoga di Bologna, situata in via Mario Finzi, non è stata nemmeno sfiorata dai manifestanti, che in quella strada non hanno mai messo piede. A confermarlo sono stati i militari dell’esercito che sorvegliano l’edificio e le telecamere di sicurezza. Le scritte “Free Gaza” e “Ramy Justice”, che hanno alimentato le accuse di antisemitismo, sono state trovate su muri di via de’ Gombruti, una strada parallela, e non su proprietà della sinagoga o della comunità ebraica. La prova del nove è arrivata con la dichiarazione di Daniele De Paz, presidente della comunità ebraica di Bologna, che a Repubblica ha detto: «Le sinagoghe non sono state toccate, non c’è stato alcun danno. Su questo voglio essere chiaro. Questa narrazione è stata innescata dal sindaco Lepore».

Nonostante tali precisazioni, il danno è stato fatto. L’ambasciatore d’Israele in Italia, Jonathan Peled, ha definito gli scontri «un grave attacco antisemita». Media e politici hanno cavalcato la notizia di una presunta offensiva anti-ebraica, alimentando un’ondata di indignazione basata su informazioni errate. Prova ne sono le prime pagine dei giornali – sia le edizioni cartacee che quelle online – del 13 gennaio: «Pretesti, non proteste. Nel corteo per Ramy vandalizzata la sinagoga a Bologna», il titolo di un articolo sul Foglio; «Vandalizzata la sinagoga del capoluogo emiliano», si è letto su La Verità; «Bologna, bombe carta e devastazioni: attacco alla sinagoga», scriveva Tgcom24; «A Bologna attacco alla sinagoga. I timori di una strategia», il titolo di un pezzo posizionato in prima pagina su Il Messaggero; «L’assalto alla sinagoga di Bologna ha una logica: la lotta al sistema liberal capitalistico occidentale», titolava l’editoriale di Andrea Cangini sull’Huffington Post; «Bologna, atti vandalici anche alla Sinagoga durante il corteo per Ramy», scriveva RaiNews24; «Scontri a Bologna a corteo Ramy, vandalizzata la Sinagoga: ira del sindaco», il titolo dell’AdnKronos. E così via, fino ad arrivare al titolone di prima pagina di Libero: «Fogna Rossa – diciotto poliziotti feriti a Roma e Bologna dove i manifestanti di estrema sinistra hanno preso di mira anche la sinagoga».

La verità è che la protesta non era né di natura antisemita né diretta contro la sinagoga. Come spiegato dal questore Antonio Sbordone, il passaggio in via de’ Gombruti – dove si trovano gli uffici della comunità ebraica – è infatti avvenuto soltanto perché il corteo tentava di raggiungere la questura, dove erano stati portati due fermati. Gli slogan sui muri riflettevano il tema della manifestazione: giustizia per Ramy e solidarietà alla causa palestinese, nulla di più. Eppure, una corale narrazione distorta ha trasformato una protesta in un capro espiatorio per giochi politici e mediatici. Con buona pace della deontologia giornalistica.

[di Stefano Baudino]

L’Iraq annuncia un accordo sulla sicurezza con il Regno Unito

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Il primo ministro iracheno, Mohammed Shia al-Sudani, ha dichiarato che firmerà un accordo bilaterale sulla sicurezza e un accordo di partenariato strategico con la Gran Bretagna. L’annuncio è arrivato nel corso di un viaggio del primo ministro a Londra per una visita ufficiale. Gli accordi costituiscono «una delle pietre miliari più importanti nelle relazioni dell’Iraq con il Regno Unito. Posso descriverlo come l’inizio di una nuova era», ha detto al-Sudani all’agenzia di stampa Reuters, senza fornire ulteriori dettagli. L’accordo di sicurezza, ha aggiunto, rilancerà gli scambi bilaterali dopo la fine dei lavori della coalizione contro lo Stato islamico a guida USA, prevista nel 2026.

Torino, crolla il castello di accuse contro i movimenti ecologisti

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La Procura di Torino ha archiviato decine di denunce contro attivisti del movimento per l’ambiente Extinction Rebellion, accusati di reati di vario genere, come manifestazione non preavvisata, imbrattamento, invasione, violenza privata e detenzione abusiva di armi. Le accuse si riferivano a fatti avvenuti durante l’evento Climate Social Camp del 2023 e a una serie di proteste del movimento nei confronti della Regione Piemonte e del G7 Ambiente, Energia e Clima dello scorso aprile. «Le motivazioni della PM, convalidate dal GIP, sottolineano il diritto costituzionale e democratico al dissenso», scrivono gli attivisti, «e smontano, accusa dopo accusa, ogni denuncia».

Le condotte per cui gli attivisti erano stati denunciati riguardano tre manifestazioni distinte. La prima è del marzo del 2023, «quando venne rovesciato un quintale di letame all’ingresso del grattacielo della Regione Piemonte, per denunciare l’assenza di politiche strutturali per far fronte allo stato di siccità». Gli attivisti erano accusati, a vario titolo, di “violenza privata”, “deturpamento e imbrattamento” e “invasione”. Tutte le accuse sono cadute perché «gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole condanna». Di preciso, la PM ha chiarito che i casi non costituivano reato perché «l’accesso al palazzo era comunque garantito ai dipendenti», non erano stati fatti danni permanenti alla struttura e «non è stato occupato alcun terreno con la finalità di trarne profitto».

Il secondo caso risale a luglio del 2023, in occasione del Climate Social Camp, un incontro internazionale che coinvolge diverse associazioni ambientaliste. Di preciso, 14 persone furono individuate come presunte organizzatrici di un giro in bicicletta per la città e denunciate per “manifestazione non preavvisata”, “invasione” e “imbrattamento”. Tutte le accuse sono state archiviate perché prive di «elementi probatori» nei confronti degli indagati, nel caso della prima accusa, peraltro, forniti su presunti argomenti ad personam. La PM, infatti, scrive: «non costituisce prova il ruolo storico, se così può dirsi, di appartenenti al centro sociale Askatasuna di alcuni degli indagati riportati, atteso che occorre sempre provare la condotta materiale specifica attribuibile all’indagato». Alcuni degli indagati, sottolinea il decreto, erano frequentatori del noto centro sociale Askatasuna e, denuncia il movimento, erano stati individuati tra i partecipanti all’evento come organizzatori sulla base del fatto che fossero già noti alla Questura. Il fatto che alle forze dell’ordine non vadano a genio i militanti dell’Askatasuna non sembra essere una novità: 28 attivisti sono sotto processo con l’accusa di associazione a delinquere, mossa sulla base di intercettazioni raccolte tra il 2019 e il 2021.

Il terzo e ultimo caso risale ad aprile del 2024, quando gli attivisti di XR hanno protestato presso il G7 di Venaria Reale. I due indagati erano accusati di “detenzione abusiva di armi” perché avevano portato con sé un coltellino svizzero. La risposta della PM è puntuale: «è circostanza che può dirsi acclarata e nota anche agli operanti che i due indagati siano degli appartenenti al movimento di opinione Extinction Rebellion che, in passato ed ancora nel presente, organizza manifestazioni di dissenso piuttosto “scenografiche” e finora del tutto non violente, caratterizzate anche da scalate ad edifici per appendere striscioni con slogan rappresentanti le loro posizioni assicurati da imbragature e corde. Appare pertanto piuttosto ragionevole che i due coltellini multiuso, la cui appartenenza alle armi improprie è già di per sé discutibile, fossero portati dagli indagati per un giustificato motivo, data anche la presenza della corda che evidentemente serviva al montaggio di qualche attrezzo per la manifestazione». Insomma: denunciare dei manifestanti intenti ad arrampicarsi con corde e imbragatura perché hanno dietro un coltellino svizzero è, a suo modo, comico, perché è evidente che quelle “armi” servano loro a svolgere l’azione dimostrativa.

[di Dario Lucisano]

Torino, falsi contratti d’affitto per borse di studio: maxi-truffa ad Edisu

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80 studenti di nazionalità straniera sono coinvolti in un’inchiesta effettuata dalla guardia di finanza di Torino che ha scoperchiato un meccanismo di frode finalizzato all’indebito ottenimento di borse di studio erogate dall’Ente Regionale per il diritto allo Studio Universitario del Piemonte (Edisu), in assenza dei requisiti previsti. La truffa ammonterebbe a mezzo milione di euro. Un 37enne di origine ucraina residente a Torino avrebbe infatti stipulato contratti di locazione fittizi per quattro immobili, dichiarando formalmente la presenza di 66 studenti, mentre le indagini hanno accertato la residenza solo degli occupanti reali. Gli studenti risultavano ospitati da amici o vivevano altrove senza contratti regolari.

America Latina: le mosse di Russia e Cina per contendere agli USA il giardino di casa

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Lo storico dominio statunitense sul resto del continente, già messo in discussione dalla volontà di riscatto dei popoli e da molti governi del Centro e del Sud America, è apertamente sfidato anche da un altro fattore: la progressiva capacità di Russia e Cina di stringere alleanze commerciali, politiche e, in alcuni casi, addirittura militari con diversi Paesi del continente. Spinte dal risentimento contro l’egemonia americana e allettate da nuove prospettive di sviluppo e possibilità politico-commerciali, diverse nazioni del Sud America hanno da tempo aperto le porte alle due superpotenze riva...

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Il presidente dell’Emilia-Romagna vuole continuare a cementificare, nonostante i disastri

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Anno 2017: l’Emilia-Romagna è tra le prime regioni in Italia a dotarsi di una legge per limitare il consumo di suolo. Anno 2023: l’Emilia-Romagna, per l’ennesima volta, è la seconda regione in Italia per consumo di suolo. 815 ettari, equivalenti a quasi 1.200 campi da calcio coperti di cemento. Lo rileva ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), che ogni anno pubblica i dati su quanto si è costruito in Italia. Secondo l’Istituto, la cementificazione in Emilia-Romagna procede a pieno ritmo, nonostante la tanto decantata legge urbanistica del 2017, che avrebbe dovuto ridurre la proliferazione del cemento favorendo la riqualificazione di quartieri e aree dismesse. E stando ai programmi del neo-governatore Michele de Pascale, il consumo di suolo sembra destinato a crescere ancora.

Una tendenza in continua crescita, nonostante le alluvioni

In realtà, dall’approvazione della legge urbanistica del 2017, il consumo di suolo non si è mai arrestato, mantenendosi costantemente sopra la media nazionale, così come già accadeva in precedenza. Dal 2006 al 2022 in Emilia-Romagna sono stati cementificati 11.000 ettari (110 km²): un’area pari a quella dell’intero Comune di Firenze coperta di asfalto.

«Siamo la locomotiva d’Italia» era il cavallo di battaglia dell’ex presidente Stefano Bonaccini. Una locomotiva che tuttavia non viaggia sui binari ma sul cemento delle autostrade, che collegano i grandi hub della logistica disseminati tra Piacenza e Rimini, i colossi produttivi della filiera agroalimentare e i complessi alberghieri di un turismo ben poco sostenibile lungo la Riviera.

La notizia, già di per sé preoccupante, diventa allarmante alla luce del fatto che l’Emilia-Romagna ha subito quattro grandi alluvioni in meno di due anni. Come dimostrato, la pioggia caduta con grande intensità ha allagato le città agevolata dall’asfalto che impedisce al terreno di assorbire l’acqua. I dati rivelano che, ad oggi, l’8,9% della superficie regionale è impermeabile, contro il 7,1% della media nazionale, mentre il 60% del territorio è a rischio frane o allagamenti.

«Nemmeno le quattro alluvioni che hanno colpito la nostra regione sembrano averci insegnato qualcosa – ha dichiarato Legambiente – visto che sono ancora previste nuove strade, autostrade, poli logistici, ipermercati… Chiediamo alla Regione un cambio di rotta deciso».

Una delle cause della distruzione causata dalle alluvioni in Emilia-Romagna è stata proprio il cemento. Infatti, la pioggia caduta con grande intensità ha allagato le città aiutata proprio dall’asfalto che impedisce al terreno di assorbire l’acqua

Il compito di attuare questo cambio di rotta spetta al nuovo presidente della Regione, Michele de Pascale, che però, da sindaco e presidente della provincia di Ravenna, è stato tra i maggiori responsabili dell’aumento del consumo di suolo. Durante il suo mandato, Ravenna ha detenuto il record regionale di cementificazione: solo nel 2023 sono stati consumati 89 ettari di terreno, portando la città addirittura al secondo posto a livello nazionale di questa triste classifica. Tra i cantieri citati nel rapporto che contribuiscono a rendere sempre più fitta la giungla di cemento nella cittadina romagnola c’è l’ampliamento della zona del porto, che cresce sempre di più ospitando ora anche un terminal delle crociere per i turisti che vogliono farsi un giro in città, ma anche la costruizione di un nuovo quartiere e l’ampliamento della Statale Adriatica. Non solo: negli ultimi anni il Comune si è fatto notare anche per la cessione di 500 ettari del parco del Delta del Po a un magnate della Repubblica Ceca e per voler utilizzare i soldi del Pnrr per abbattere 70 pini a Lido di Savio, nonostante le proteste dei cittadini. 

Nessun cambiamento in vista

Gli annunci fatti in campagna elettorale dal neo presidente sembrano confermare la continuità con il passato, a partire dalla legge urbanistica del 2017, quella “a consumo zero”, che De Pascale vorrebbe annacquare ulteriormente introducendo nuove deroghe. «È l’unica legge italiana che ha cancellato previsioni edificatorie – ha dichiarato  – ma questa dinamica ha prodotto l’effetto opposto: tutti quelli che potevano hanno avviato i lavori, scatenando una corsa al cemento.»

Peccato che la legge contenga già numerose eccezioni al “consumo zero”, una serie di norme e di cavilli che hanno permesso di continuare a costruire ovunque sbandierando finti comportamenti virtuosi. Un esempio eclatante è il Comune di Bologna, dove, secondo ISPRA, tra il 2017 e il 2022 sono stati consumati 600 ettari di suolo, mentre il Comune dichiara che il consumo netto è nullo.

Insomma, la matematica non è un’opinione ma i calcoli sul consumo di suolo si.  Il rapporto di Ispra che colloca l’Emilia-Romagna sul podio del cemento è stato messo in dubbio dalla Regione: «Quella adottata dall’Istituto superiore di ricerca e protezione ambientale fa riferimento anche a suoli che sono stati trasformati in maniera reversibile come, ad esempio, quelli connessi all’apertura di cantieri per la realizzazione di infrastrutture, di reti energetiche, ovvero di impianti fotovoltaici. Nel caso dell’Emilia-Romagna questo territorio incide per il 70% sul totale di consumo di suolo indicato da Ispra». In pratica, sostiene la Regione, i terreni occupati ora dai cantieri tornerebbero magicamente intatti e liberi una volta che i lavori saranno terminati. 

Nel frattempo, però, i lavori proseguono e Michele de Pascale non sembra intenzionato a fermarli. Nel suo discorso di insediamento ha lanciato un appello al governo per un “Patto sulle grandi opere”. Tra queste spicca il Passante di Mezzo di Bologna, una nuova autostrada a 18 corsie, situata a pochi chilometri dalla città, sulla quale transiteranno 65 milioni di veicoli l’anno. Contestato dalle associazioni ambientaliste e da numerosi cittadini, il progetto ha sollevato perplessità anche nella sua stessa maggioranza, con Alleanza Verdi e Sinistra che si è dichiarata contraria.

Un altro progetto controverso è quello del rigassificatore di Ravenna, fortemente voluto da Bonaccini e De Pascale nel 2022 e approvato a tempo di record. L’impianto, che sarà operativo nei prossimi mesi, consentirà di importare gas liquido via nave dagli Stati Uniti, con costi elevati sia sul piano economico che ambientale. «Una infrastruttura inquinante, costosa e inutile, che alimenta la crisi climatica» l’hanno definita i comitati contrari al progetto.

Era stata presentata come una misura di emergenza dopo che la guerra in Ucraina aveva ridotto le scorte di gas. Ora l’allarme è rientrato, i serbatoi nazionali sono di nuovo pieni, ma il grande impianto di Ravenna verrà inaugurato lo stesso in pompa magna tra pochi mesi, con una concessione di 25 anni.

[di Fulvio Zappatore]

Brescia: arrestati ed espulsi per una protesta contro Leonardo Spa in solidarietà con Gaza

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Sono stati rilasciati dopo oltre sette ore di fermo 23 attivisti che ieri hanno partecipato a una protesta nonviolenta davanti alla sede della Leonardo SpA di Brescia. I manifestanti fermati, appartenenti ai movimenti Extinction Rebellion, Ultima Generazione e Palestina Libera, sono stati denunciati per reati come “radunata sediziosa”, “imbrattamento” e “manifestazione non preavvisata”, mentre alcuni di loro sono stati colpiti da provvedimenti restrittivi come i fogli di via obbligatori, misura che li obbliga a lasciare la città. Alcune attiviste hanno inoltre denunciato trattamenti umilianti da parte delle forze dell’ordine, con perquisizioni invasive riservate esclusivamente alle donne. Il presidio, che ha paralizzato per alcuni minuti l’entrata e l’uscita dell’azienda, era stato organizzato per denunciare il legame tra crisi climatica, industria bellica e conflitti internazionali, con un focus particolare sul genocidio in corso in Palestina.

I manifestanti, incatenati davanti alla sede dell’azienda, hanno richiamato l’attenzione sull’implicazione di Leonardo, il colosso italiano della difesa e dell’aerospazio controllato per un terzo dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, nella fornitura di supporto militare a Israele. Nel corso della protesta, gli attivisti hanno ricordato che, come appurato da alcune recenti inchieste giornalistiche, Leonardo – i cui profitti sono lievitati dall’ottobre 2023 – ha fornito dopo lo scoppio del conflitto in Palestina materiale tecnico per gli aerei da addestramento israeliani, nonostante il governo italiano abbia sostenuto l’opposto. I manifestanti hanno inoltre evidenziato come l’industria bellica non solo uccida direttamente, ma aggravi la crisi climatica attraverso le ingenti emissioni provocate dalla produzione di armamenti.

Il presidio è stato però interrotto immediatamente con l’arrivo della Polizia, a bordo di cinque volanti. Gli agenti hanno subito prelevato gli attivisti, che sono stati condotti in questura, mentre sul posto sono giunti anche i Vigili del fuoco, i Carabinieri e la Polizia locale. «Nonostante si trattasse di una manifestazione completamente pacifica e tutti i partecipanti avessero fornito i propri documenti identificativi, le forze dell’ordine hanno deciso comunque di condurre le persone in questura e trattenerle in stato di fermo, in contrasto con quanto previsto dall’articolo 349 del codice di procedura penale», hanno denunciato in una nota gli attivisti, sottolineando che l’articolo in questione «stabilisce che il trasferimento negli uffici di polizia può avvenire solo nel caso in cui non sia possibile identificare le persone sul posto». Per giustificare il trasferimento in questura, hanno riferito gli attivisti, nel verbale è stato fatto riferimento «ai reati di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337), oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341-bis) e rifiuto di fornire indicazioni sulla propria identità personale (art. 651), nonostante fossero stati forniti tutti i documenti e nessuno avesse opposto resistenza». Inoltre, si legge ancora nella nota «si è appreso che molte delle persone identificate come donne sono state costrette a spogliarsi e a eseguire piegamenti sulle gambe, trattamento non riservato alle persone di sesso maschile».

«Leonardo è la prima produttrice bellica europea e contribuisce alla morte di migliaia di persone nei conflitti in corso e nel genocidio in Palestina – ha dichiarato una delle attiviste presenti alla protesta nel corso del presidio -. È necessario interrompere questa complicità e riconvertire le risorse investite nella guerra per affrontare la crisi climatica e garantire un futuro migliore». Nel comunicato in cui hanno dettagliato le motivazioni e gli obiettivi della loro azione dimostrativa, gli attivisti hanno inoltre rilanciato l’appello contro il DDL Sicurezza, chiedendo al presidente Mattarella di non promulgare una legge che, a loro avviso, reprime il diritto alla protesta e limita le libertà democratiche. «Di recente il Presidente ha dichiarato di aver promulgato leggi che non condivideva – si legge nel documento –. Anche questa legge non è condivisibile in un Paese democratico e siamo sicuri che anche il Presidente sia conscio di ciò. Il governo di un paese democratico deve ascoltare le ragioni di coloro che protestano, non arrestarli». Il disegno di legge si trova ora all’esame delle commissioni del Senato, i cui lavori riprenderanno questa settimana.

[di Stefano Baudino]

Gaza, la tregua sembra vicina: presentata la bozza del cessate il fuoco

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Israele e Hamas sono «sulla soglia» del raggiungimento di un accordo per il cessate il fuoco a Gaza. A dirlo è il presidente uscente degli Stati Uniti, Joe Biden, dopo analoghe dichiarazioni da parte di diplomatici della Casa Bianca: «Nella guerra tra Israele e Hamas, siamo sull’orlo della realizzazione di una proposta che avevo illustrato nei dettagli mesi fa», ha annunciato Biden, mentre un funzionario informato sui negoziati ha parlato di una «svolta decisiva» avvenuta durante la notte. Secondo il funzionario, il testo dell’accordo, che prevede un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi, è stato consegnato dal Qatar a entrambe le parti. Nel frattempo, comunque, l’esercito israeliano non ha fermato la propria aggressione nella Striscia: solo ieri, lunedì 13 gennaio, a partire dall’alba, gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno 58 palestinesi in tutta Gaza, a cui vanno aggiunte altre 12 persone uccise nelle prime ore di oggi, mentre l’assedio israeliano del nord di Gaza ha superato la soglia dei 100 giorni.

Nelle ultime ore si parla di un cessate il fuoco imminente nella Striscia di Gaza. L’accordo, secondo i funzionari statunitensi, potrebbe arrivare entro questa settimana. I negoziati si sono svolti a Doha e hanno coinvolto figure chiave come i capi delle agenzie di intelligence israeliane Mossad e Shin Bet, oltre al primo ministro del Qatar, e a inviati dei presidenti Joe Biden e Donald Trump. Secondo le notizie diffuse dai media, nella serata di ieri i mediatori hanno consegnato a Israele e Hamas la bozza finale dell’accordo per porre fine alle aggressioni israeliane a Gaza. L’agenzia di stampa Reuters cita un anonimo funzionario della Casa Bianca che avrebbe detto che i negoziati sarebbero in fase avanzata e prevederebbero un primo scambio di prigionieri. Il notiziario saudita Asharq ha pubblicato una lista, che un funzionario di Hamas avrebbe confermato all’emittente NPR, di 34 ostaggi che l’organizzazione sarebbe pronta a liberare in cambio di un «indeterminato numero di prigionieri palestinesi e del ritiro parziale da Gaza». La lista comprende cinque donne soldato, cinque donne civili, due neonati e 22 uomini, tra cui i due cittadini israelo-americani Sagui Dekel-Chen e Keith Siegel.

I funzionari di entrambe le parti, pur non confermando la presenza di una bozza finale, hanno riferito di progressi. La delegazione di Hamas a Doha ha rilasciato una dichiarazione dopo un incontro con l’emiro del Qatar, Sheikh Tamim bin Hamad Al-Thani: «I negoziati su alcune questioni fondamentali hanno fatto progressi e stiamo lavorando per concludere presto ciò che resta». Anche il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Saar, ha detto ai giornalisti che si starebbero facendo progressi, affermando che «la situazione sembra parecchio migliore rispetto alle precedenti». Secondo Reuters, questa mattina dovrebbero continuare i colloqui tra i mediatori «per finalizzare i dettagli rimanenti», mentre il sito di informazione Axios ha parlato con tre funzionari anonimi degli USA, che hanno riferito che «oggi il segretario di Stato Tony Blinken presenterà un piano», in fase di lavorazione dallo scorso ottobre, «per ricostruire e governare Gaza dopo la guerra tra Israele e Hamas». Altre conferme che i negoziati sarebbero a buon punto sono arrivate dal consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, che è stato uno dei primi a esporsi pubblicamente.

Secondo un inviato in Palestina per l’emittente qatariota Al Jazeera, Tareq Abu Azzoum, che in questo momento si trova a Deir el-Balah, nell’area centrale della Striscia, «mentre i negoziati per il cessate il fuoco avanzano, i residenti di Gaza esprimono un miscuglio di emozioni tra ottimismo e profondo scetticismo. Hanno sopportato più di 15 mesi di guerra implacabile e sono ansiosi che venga annunciato un cessate il fuoco. Tutti seguono attentamente gli sviluppi». Lo stesso giornalista, tuttavia, riporta che nelle ultime ore gli attacchi non si sono fermati: «Qui a Deir el-Balah abbiamo sentito forti esplosioni per tutta la notte. Gli attacchi hanno raso al suolo una casa e hanno preso di mira un bar nella parte occidentale della città. È stato confermato che almeno otto civili sono stati uccisi». La situazione sembrerebbe analoga a Khan Younis, «dove testimoni riferiscono che un’altra casa è stata rasa al suolo», uccidendo una donna e alcuni bambini, mentre nel Governatorato di Nord Gaza, sotto assedio da 100 giorni, «le nostre fonti confermano che la portata delle operazioni militari si sta intensificando di minuto in minuto».

In generale. dall’escalation del 7 ottobre, l’esercito israeliano ha ucciso direttamente almeno 42.289 persone, anche se secondo uno studio della rivista scientifica The Lancet, i morti diretti in questo momento ammonterebbero a oltre 64.000. La stessa rivista ha inoltre pubblicato una dettagliata analisi in cui sostiene che, considerando gli effetti indiretti del conflitto come l’interruzione dei servizi sanitari, la mancanza di acqua potabile e servizi igienici, il numero delle vittime potrebbe superare le centinaia di migliaia di persone, come peraltro affermato da una lettera di medici volontari nella Striscia.

[di Dario Lucisano]

Russia e Iran firmeranno un accordo di partenariato strategico globale

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Il Cremlino ha annunciato che venerdì 17 gennaio il presidente russo, Vladimir Putin, riceverà l’omologo iraniano Masoud Pezeshkian per discutere «le prospettive per un’ulteriore espansione della cooperazione bilaterale». Al termine dei colloqui, continua il comunicato ufficiale, ripreso dall’agenzia di stampa governativa russa TASS, i due leader firmeranno un accordo di partenariato strategico globale tra Russia e Iran e rilasceranno dichiarazioni ai media. Esso prevede un potenziamento della cooperazione in diversi settori «tra cui il commercio, gli investimenti, i trasporti, la logistica e la cultura, nonché le attuali questioni regionali e internazionali».