domenica 26 Ottobre 2025
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Kneecap: il gruppo rap nord-irlandese indagato dall’antiterrorismo perché sta con la Palestina

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Negli ultimi giorni una band irlandese dell’Ulster sta occupando le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, per ragioni che c’entrano poco con la musica e tanto con la Palestina. La questione risale allo scorso aprile, quando il trio hip-hop dei Kneecap si è esibito sui palchi del Coachella, uno dei festival musicali più importanti del mondo, lanciando critiche allo Stato di Israele e denunciando il genocidio in Palestina: «I palestinesi non hanno nessun posto dove andare nella loro stessa terra, e vengono bombardati dai cieli. Se non lo chiamate genocidio, come c***o lo chiamate?». Il discorso del trio, accompagnato dalla proiezione di frasi di denuncia nei confronti di USA e Israele, ha scatenato un’ondata di indignazione dal mondo della musica, che ha portato alla cancellazione di diversi appuntamenti della band in giro per il mondo. Poco dopo, si è espresso lo stesso Regno Unito, aprendo una indagine di terrorismo contro il trio per delle frasi pronunciate in passato in sostegno ai gruppi di resistenza palestinesi e libanesi e contro i parlamentari britannici.

La polemica che sta interessando i Kneecap è sorta dopo la loro esibizione sui palchi del Coachella, festival musicale che si tiene nell’omonima vallata californiana. Il Coachella è un festival annuale nato nel 1999, che dal 2001 a oggi ha acquisito sempre più popolarità, diventando una delle manifestazioni musicali più partecipate e seguite al mondo. L’edizione di quest’anno si è tenuta dall’11 al 13 aprile e dal 18 al 20 aprile e ha ospitato artisti noti su scala mondiale quali Lady Gaga, e i Green Day. Per dare un’idea della popolarità del palcoscenico, si pensi che già ora sono disponibili i biglietti per l’edizione del 2026 (che si terrà tra il 10 e il 12 aprile e tra il 17 e il 19 aprile), e che l’accesso ordinario a uno dei due fine settimana costa 549 dollari, con biglietti speciali che superano i 10mila dollari di prezzo. L’esibizione dei Kneecap si è tenuta in occasione del secondo fine settimana di festival.

«Gli irlandesi non troppo tempo fa erano perseguitati per mano dei britannici; ma non venivamo bombardati dai cazzo di cieli senza nessun posto dove andare», ha detto uno dei tre artisti, mentre sullo sfondo venivano proiettate frasi di denuncia contro Israele e Stati Uniti: «Fanculo Israele, Palestina libera», e «Israele sta commettendo un genocidio contro il popolo palestinese. Sta venendo permesso dal governo statunitense che arma e finanzia Israele nonostante i suoi crimini di guerra», recitavano queste ultime. Dopo l’esibizione della band, sui giornali di tutto il mondo è scoppiato il caos. In molti hanno iniziato a chiedere a Goldenvoice, organizzatrice del festival, di prendere le distanze dalle frasi dei Kneecap. Naturalmente le critiche sono arrivate anche agli stessi Kneecap, tanto che negli USA c’è chi, come Sharon Osbourne – produttrice e conduttrice televisiva – ha chiesto che venisse ritirato il visto lavorativo della band. L’agenzia di booking statunitense Independent Artist Group, che ha sponsorizzato i loro visti di lavoro negli Stati Uniti, ha annunciato di avere rescisso il contratto con il trio; in Germania e Inghilterra, invece, sono state cancellate almeno 3 date in cui dovevano esibirsi.

Proprio il Regno Unito è il Paese dove la polemica si è concentrata in maggior misura: dopo la forte ondata di critiche, infatti, l’antiterrorismo britannico ha fatto sapere di avere aperto una indagine contro la band per delle passate frasi. Di preciso, l’indagine riguarda due distinti episodi: il primo, di presunto inneggiamento a Hamas e a Hezbollah; il secondo un invito rivolto al pubblico a non fidarsi dei politici e a «sparare ai propri parlamentari locali». Quest’ultimo episodio ha sollevato parecchia indignazione nel Regno Unito facendo riemergere nel dibattito due casi di omicidio di politici risalenti al 2021. La band ha pubblicato un messaggio in cui sostiene che le frasi ripescate dall’antiterrorismo siano state decontestualizzate, prendendo le distanze dalle organizzazioni palestinese e libanese e scusandosi con le famiglie dei parlamentari uccisi. Poco dopo, il manager dei Kneecap, invitato a parlare alla televisione nazionale, ha ribadito la posizione della band: «questa storia non ha nulla a che fare coi Kneecap», ha dichiarato. «L’obiettivo di questa campagna è meramente quello di togliere forza agli artisti. Di dire alla prossima giovane band che non si può parlare di Palestina».

I Kneecap non sono nuovi a questo genere di uscite, ed è proprio sull’attivismo politico che hanno costruito parte della loro fama. Lo stesso nome del trio è volutamente provocatorio: Kneecap è infatti il termine inglese per “rotula” che a partire dagli anni ’70, nel contesto del conflitto nordirlandese, ha iniziato a venire utilizzato per quella pratica che in italiano definiamo gambizzazione. Con i musicisti si sono schierati diversi artisti che hanno condiviso una lettera aperta per difendere la loro libertà di espressione. I Kneecap, invece, hanno ribadito il loro sostegno alla causa palestinese, e hanno iniziato a diffondere sempre più contenuti di denuncia contro lo Stato di Israele.

Libia, migliora la situazione a Tripoli dopo il ritiro delle milizie

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A Tripoli la situazione si sta lentamente normalizzando dopo i recenti scontri armati tra le forze del Governo di unità nazionale e le potenti milizie locali. Le parti in conflitto si sono ritirate nei rispettivi quartier generali e il traffico è tornato regolare. Le autorità confermano la de-escalation, ma avvertono dei rischi legati a sabotaggi e infiltrazioni ostili. I cittadini sono invitati alla vigilanza, specialmente nelle aree sensibili. Intanto, alcune proteste contro il governo sono state disperse con colpi d’arma da fuoco in aria. Rimangono pattuglie e controlli nei quartieri critici e nei pressi dell’aeroporto Mitiga.

L’Italia raggiunge il 2% della spesa per la Difesa, ma la NATO vuole di più

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L’Italia ha raggiunto l’obiettivo NATO del 2% del PIL destinato alla difesa, come annunciato dal ministro Antonio Tajani durante un vertice in Turchia. Ma la soglia, stabilita nel 2014, potrebbe non essere più sufficiente: il nuovo segretario generale dell’Alleanza, Mark Rutte, spinge infatti per portare la spesa al 5%, suddivisa tra 3,5% per difesa e 1,5% per sicurezza. Tajani si dice aperto al dialogo, ma propone un approccio “3 più 2” più equilibrato. Nel 2024, 22 dei 32 membri Nato hanno raggiunto il 2%, rispetto ai soli tre del 2014. Polonia e Baltici superano il target, mentre Belgio e Spagna restano indietro. L’Italia ribadisce l’impegno per la sicurezza, anche in chiave infrastrutturale e cibernetica.

Nel corso del vertice tra ministri degli Esteri svoltosi ieri ad Antalya, il segretario generale dell’Alleanza, Mark Rutte, è tornato a ribadire che l’obiettivo del 2% «non è affatto sufficiente», in quanto in futuro saranno necessari «maggiori investimenti nei nostri requisiti militari di base e di ulteriori investimenti più ampi dedicati alla difesa, tra i quali le infrastrutture e la resilienza». Insistendo sulla necessità di «mantenerci al sicuro» e garantire la difesa da future aggressioni, Rutte ha dichiarato che «la maggior parte degli alleati è ora pronta a raggiungere l’obiettivo iniziale di spendere il 2% del PIL per la difesa quest’anno e molti hanno già annunciato piani per andare molto oltre».

Secondo quanto dichiarato dal ministro Crosetto, la soglia del 2% costituisce per l’Italia solamente «il punto di partenza», con l’obiettivo finale di assecondare le richieste dell’Alleanza e del presidente statunitense Donald Trump. Poco dopo il suo insediamento, infatti, Trump aveva chiesto che gli alleati arrivassero a spendere il 5% del PIL per il potenziamento del settore della difesa. Un obiettivo che l’Italia si affretta a raggiungere: per la prima volta nella storia, sotto la guida del governo Meloni, quest’anno il nostro Paese supererà la soglia dei 30 miliardi di spesa per il settore bellico, grazie soprattutto al taglio dei fondi per tutti gli altri ministeri.

Il summit svoltosi ieri costituisce comunque solamente un incontro preparatorio in vista del meeting ufficiale dell’Alleanza, previsto dal 24 al 26 giugno. Qui i Paesi renderanno conto nel dettaglio delle proprie manovre e dei piani di spesa per il riarmo.

Gaza, raffica di raid israeliani: almeno 54 morti nella notte

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Sono almeno 54 le persone rimaste uccise nella notte nella Striscia di Gaza a causa di pesanti e prolungati bombardamenti dell’esercito israeliano. Lo ha riportato nelle ultime ore il quotidiano israeliano Haaretz. Nello specifico, le IDF hanno colpito le aree di Jabalya e Beit Lahiya, nel nord dell’enclave, dove è stata presa di mira una scuola da poco riconvertita in rifugio per i palestinesi sfollati. Lì i militari israeliani hanno anche effettuato vari arresti. Bombardamenti e raid anche ad Al Qarara, a nord di Khan Yunis, nel sud della Striscia, dove si sono verificati anche attacchi contro tende.

Più alberi, meno morti: perché il verde urbano può salvare milioni di vite

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Aumentare le aree verdi nelle città non è solo una questione estetica o ambientale, ma una vera e propria strategia salvavita. Ad attestarlo è un nuovo studio della Monash University di Melbourne, che ha rivelato come incrementare del 30% la vegetazione urbana avrebbe potuto prevenire oltre un terzo delle morti globali legate a patologie aggravate dal caldo nel periodo compreso tra il 2000 e il 2019. In termini concreti, si parla di 1,16 milioni di vite potenzialmente salvate in vent'anni, grazie alla semplice presenza di più alberi, erba e piante nelle città. Lo studio non conferma soltanto i...

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Funivia del Faito, 25 indagati per la tragedia del 17 aprile

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Sono 25 le persone indagate dalla Procura di Torre Annunziata per la caduta della cabina della funivia del Faito, costata la vita a quattro persone. Tra gli indagati figurano il presidente dell’Eav, Umberto De Gregorio, e referenti della ditta Franz Part, che curava la manutenzione. Le accuse, a vario titolo, sono di omicidio colposo, lesioni colpose e condotte omissive. A 14 tecnici viene contestato di aver attestato l’assenza di criticità nell’impianto prima della riapertura. Il 23 maggio verrà conferito l’incarico ai periti per gli accertamenti tecnici irripetibili.

Cresce la tensione tra l’Algeria e l’ex padrone coloniale francese

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Emmanuel Macron

Nuovo capitolo nella crisi diplomatica tra Francia e Algeria. Nell’arco di quarantotto ore, Parigi e Algeri hanno proceduto a espulsioni reciproche di trenta dei loro agenti diplomatici e consolari, 15 francesi e 12 algerini. I rapporti tra i due Paesi, storicamente segnati da tensioni legate al passato coloniale, si sono ulteriormente deteriorati a partire dallo scorso anno, quando il presidente Emmanuel Macron ha espresso pubblicamente il sostegno alla posizione del Marocco sulla questione del Sahara occidentale, irritando profondamente Algeri – alleata degli indipendentisti saharawi. Mai dal 1962, anno dell’indipendenza algerina dal padrone coloniale francese, il legame diplomatico franco-algerino si era trovato ad un punto così basso, segno di una profonda divisione tra i due Paesi.

Lo scorso martedì 13 maggio, il ministero degli Esteri francese ha convocato l’incaricato d’affari algerino per notificargli l’espulsione di 12 cittadini algerini titolari di passaporti diplomatici, entrati in Francia senza visto. La decisione segue quella algerina di domenica scorsa, con cui sono stati espulsi dal Paese 15 funzionari francesi in servizio ad Algeri ritenendo la loro presenza irregolare. «La Francia si riserva il diritto di adottare ulteriori misure a seconda dell’evoluzione della situazione», ha dichiarato il ministero degli esteri in un comunicato diffuso dopo il colloquio con il funzionario algerino. Il Ministro degli Esteri francese, Jean-Noël Barrot, durante un intervento sull’emittente televisiva BFMTV, ha annunciato l’espulsione di diplomatici algerini, definendo la decisione dell’Algeria come «ingiustificata e ingiustificabile». Secondo Jean-Noël Barrot, l’espulsione dei funzionari francesi è stata presa sulla base di una «decisione unilaterale delle autorità algerine di stabilire nuove condizioni di accesso al territorio algerino per i funzionari pubblici francesi titolari di un passaporto ufficiale, diplomatico o di servizio, in violazione dell’accordo bilaterale del 2013».

Le frizioni diplomatiche segnano un nuovo picco. Una simile situazione era avvenuta nel marzo scorso, quando il Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri algerino, Lounès Magramane, aveva ricevuto l’incaricato d’affari dell’Ambasciata francese in Algeria per denunciare atti unilaterali di espulsione intrapresi dalla Francia. Poi la questione si era ripetuta alla metà di aprile, nonostante pochi giorni prima il Ministro degli Esteri francese si fosse recato ad Algeri su invito del Presidente della Repubblica democratica popolare d’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, per discutere dei legami tra i due Paesi. Proprio alla metà del mese scorso, quando ci fu un altro scambio reciproco di espulsioni diplomatiche, la Francia si era allineata alla politica della “sedia vuota” adottata lo scorso anno dall’Algeria, richiamando il proprio ambasciatore dal Paese del Màghreb. L’Algeria aveva infatti già richiamato il proprio ambasciatore da Parigi il 30 luglio dello scorso anno, in seguito al capovolgimento francese pro-marocchino sulla questione del Sahara occidentale. Proprio da quel momento è iniziato il vigoroso precipitare dei legami diplomatici tra Francia e Algeria.

In occasione del riconoscimento francese delle istanze marocchine sul Sahara occidentale, l’Algeria espresse «grande rammarico e forte denuncia» ritenendo il governo francese come responsabile del probabile deterioramento delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Un altro strappo tra Francia e Algeria si consumò poi tra le fine di ottobre e l’inizio di novembre. Il 29 ottobre Macron si recò in visita in Marocco, dove incontrò il re Mohammed VI, per ristabilire le relazioni diplomatiche tra i rispettivi Paesi e stringere accordi commerciali. Come risposta, l’8 novembre, l’Algeria annunciò la sospensione del commercio con la Francia come misura di ritorsione per la decisione francese di voltare le spalle ad Algeri sulla questione del Sahara occidentale, dove da sempre l’Algeria è schierata a fianco del popolo Sahrawi, ospitando decine di migliaia di rifugiati nei campi profughi costruiti sul proprio territorio.

E così si arriva ad oggi, con una situazione diplomatica tra Francia e Algeria che segna un punto minimo mai visto dall’indipendenza algerina. E potrebbe non essere finita qui.

Indonesia, 18 separatisti papuani uccisi dall’esercito

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L’esercito dell’Indonesia ha ucciso 18 separatisti papuani durante un’operazione nella regione più orientale della Papua avvenuta ieri. A riferirlo sono stati oggi alcuni funzionari, i quali hanno aggiunto che sono morti anche tre civili. Durante l’operazione, l’esercito ha sequestrato decine di munizioni, tra cui un fucile d’assalto, archi e frecce e un’arma artigianale non specificata, ha affermato in un comunicato il portavoce militare Kristomei Sianturi. Quest’ultimo ha dichiarato che non ci sono state vittime tra i militari indonesiani.

Dopo 7 anni non è ancora partito il processo contro chi augura la morte a Ilaria Cucchi

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Sette anni dopo aver ricevuto un violento messaggio di odio via social, Ilaria Cucchi – sorella di Stefano Cucchi, 31enne ucciso nel 2009 dopo aver subito percosse da parte di esponenti dei carabinieri mentre si trovava in custodia cautelare – è ancora in attesa che si apra il processo contro l’autore. L’hater, nascosto dietro il nome “Dentone”, le augurava di morire tra atroci sofferenze. La donna, oggi senatrice, denunciò subito l’uomo, ma da allora è iniziata un’odissea giudiziaria fatta di errori procedurali, rinvii e rimpalli di competenze. Il 13 maggio 2025, il Tribunale di Roma ha dichiarato la propria incompetenza territoriale: tutto verrà trasferito a Milano. Intanto, il tempo scorre e il rischio prescrizione si fa ogni giorno più concreto.

Era il 19 ottobre 2018 quando un utente pubblicò sul social Twitter (attuale X) un commento carico d’odio contro Ilaria Cucchi, oggi parlamentare nelle file di Alleanza Verdi e Sinistra. «Vorrei far patire alla sorella di Stefano Cucchi, di cui non me ne frega un c***o che nome abbia, far patire due volte quello che hanno fatto al fratello. Le auguro di morire patendo ogni dolore sia fisico che mentale. Tr**a!», scriveva l’uomo, che si trincerava dietro all’anonimato. Un attacco vile e gratuito, rivolto a chi da anni chiede verità e giustizia per una delle vicende più drammatiche della cronaca italiana.

Ilaria Cucchi si rivolse subito alla magistratura. Tuttavia, come ricostruito dalla stessa in un post sui social, la risposta delle istituzioni fu da subito debole, e alla donna fu detto che mancavano gli strumenti per poter risalire all’identità del profilo. Così, con l’aiuto del suo avvocato Fabio Anselmo e di alcuni giornalisti, la senatrice decise di indagare da sola. E ci riuscì, identificando l’autore. Ma anche dopo aver fornito il nome del responsabile, la giustizia italiana non ha proceduto con efficacia. La prima reazione fu la richiesta di archiviazione da parte della pm Antonia Giammaria, oggi trasferita al ministero della Giustizia. I giudici, però, la rigettarono, ordinando l’apertura del processo. Da allora, tuttavia, si è aperto un percorso tortuoso scandito da rinvii tecnici: la prima udienza, prevista per il 4 novembre 2024, fu rimandata al 24 febbraio 2025 per un errore nella notifica all’imputato. Anche la seconda data saltò, per un vizio procedurale nei termini della notifica. Si arriva così al 13 maggio di quest’anno, quando arriva l’ennesima beffa: il Tribunale di Roma si dichiara territorialmente incompetente, poiché l’imputato risiede in Lombardia. Dopo tre udienze inutili, dunque, tutto viene trasferito a Milano.

Il caso è emblematico di un sistema giudiziario che troppo spesso lascia sole le vittime. Secondo il rapporto pubblicato lo scorso anno dalla Commissione europea per l’efficienza della giustizia (CEPEJ), nel 2022 in Italia un processo civile di primo grado richiedeva in media 540 giorni, tra i più alti in Europa. Sul versante penale, invece, la durata media dei procedimenti in Europa è pari a 133 giorni in primo grado, 110 in secondo grado e 101 in terzo grado. In Italia, invece, il procedimento penale dura in media 355 giorni in primo grado, 750 in appello e 132 in Cassazione. Una differenza assai significativa.

Dopo anni di depistaggi e omertà, solo nell’aprile del 2022 i carabinieri responsabili del violento pestaggio ai danni di Cucchi, Alessio Di Bernardo e Raffaele d’Alessandro, sono stati condannati in via definitiva per omicidio preterintenzionale. Per loro è stata stabilita la pena di 12 anni di carcere. Nel processo bis sul caso Cucchi, dove sono alla sbarra esponenti dell’Arma per il reato di depistaggio, nel dicembre scorso il Procuratore generale ha chiesto in appello 3 assoluzioni e 2 condanne.

Belgio: una sentenza stabilisce che il tracciamento dei dati inserzionistici è illegale

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La Corte di appello belga ha decretato che il Transparency and Consent Framework (TCF), l’inquadramento che viene adoperato da innumerevoli portali per profilare i dati degli utenti, non è compatibile con le leggi europee. In sostanza, la decisione giuridica sancisce ufficialmente che gran parte del mondo inserzionistico della Rete naviga nell’illegalità, violando sistematicamente la sicurezza e i diritti dei soggetti tutelati dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR).

La pronuncia rappresenta l’esito di una battaglia legale durata sette anni, iniziata con l’introduzione stessa del GDPR nel 2018. Un primo, rilevante traguardo era già stato raggiunto nel 2022, quando – a seguito delle segnalazioni di numerose organizzazioni non governative, tra cui l’Irish Council for Civil Liberties (Irlanda), la Panoptykon Foundation (Polonia), Stichting Bits of Freedom (Paesi Bassi), la Ligue des Droits Humains (Belgio), nonché dei ricercatori Dott. Jef Ausloos e Dott. Pierre Dewitte – il Garante per la protezione dei dati del Belgio aveva riconosciuto che il sistema TCF  “rappresenta un rischio significativo nei confronti dei diritti fondamentali e della libertà dei soggetti, in particolare quando sono coinvolti dati personali su grande scala, attività di profilazione, predizione di comportamente e la conseguente sorveglianza dei soggetti stessi”.

La presa di posizione della Corte di appello annulla a causa di errori procedurali la decisione assunta dal Garante, tuttavia approfondisce la questione per porre fine a una serie di ambiguità tecniche che hanno permesso ai raccoglitori di dati di muoversi oltre i limiti consentiti dalla legge. Il tribunale ha infatti definito che le TC Strings, i codici di riferimento dei dati utente, sono da considerare come dati personali e come tali devono essere trattati, a partire dalla richiesta di consenso.

Il peso di questo chiarimento normativo può non apparire subito evidente. Tuttavia, colossi come Microsoft, Google, Amazon, X e, più in generale, circa l’80% delle entrate generate dalla pubblicità basata su offerte in tempo reale (RTB) poggiano sul TCF. Una fetta rilevante dell’ecosistema pubblicitario online si fonda infatti su un sistema d’asta che dipende strettamente dai dati raccolti tramite il TCF, il quale a sua volta si regge su quelle classiche finestre informative in cui i siti web chiedono agli utenti il consenso al trattamento dei dati. La Corte belga ha di fatto stabilito che quei nebulosi popup non bastano a legittimare le successive violazioni del GDPR.

Interactive Advertising Bureau (IAB), l’azienda pubblicitaria statunitense che aveva proposto il TCF come standard di riferimento, gioisce del fatto che i giudici le abbiano riconosciuto solamente una “responsabilità limitata” e rimarca che siano già pronte delle eventuali modifiche al TCF, le quali promettono di risolvere gli elementi critici sollevati nel 2022 dal Garante dei dati.

Le conseguenze concrete di questa presa di posizione restano, al momento, imprevedibili. Quasi l’80% dei ricavi di Google proviene dalla pubblicità, una dipendenza strutturale che accomuna molte realtà aziendali che vivono — o sopravvivono — grazie al web. L’eventuale smantellamento forzato del TCF rischia di innescare un terremoto tecnico-finanziario dalle ricadute profonde, compromettendo anche i delicati equilibri diplomatici con gli Stati Uniti, patria delle Big Tech più potenti e combattive. Più realistico immaginare una soluzione graduale: un percorso condiviso tra i regolatori europei e IAB per riformare il sistema TCF, correggendone le criticità senza ricorrere però a misure radicali e destabilizzanti.

Nel contesto italiano, la decisione belga arriva in un momento cruciale. All’inizio del mese, il Garante per la protezione dei dati personali ha avviato una consultazione pubblica sul modello “pay or ok”, il sistema adottato da molte testate giornalistiche per imporre agli utenti la scelta tra sottoscrivere un abbonamento o acconsentire al trattamento dei propri dati per poter accedere ai contenuti. Il riconoscimento dell’illegalità del TCF rappresenta un elemento rilevante a sostegno di chi si oppone a questa discutibile pratica commerciale e potrebbe spingere il Garante italiano ad adottare posizioni che impatteranno su tutta l’Unione Europea.

[16/05/2025: aggiunto un paragrafo per approfondire la decisione della Corte d’appello belga.]