lunedì 27 Ottobre 2025
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L’inganno dei disciplinari: da dove vengono realmente le carni dei salumi IGP

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Mortadella di Bologna, ma solo nella fantasia. Bresaola della Valtellina, fatta però con la carne in arrivo da Brasile, Austria, Uruguay e Paraguay. Prosciutti che di italiano hanno soltanto il nome perché l’ingrediente principale, la coscia di suino, viene importata da Austria, Francia, Germania, Olanda e Danimarca, i grandi produttori in Europa di carne di maiale. A volte l’origine delle materie prime è addirittura sconosciuta, per cui possiamo solo supporre una certa provenienza. Questa è la realtà della maggior parte dei salumi in vendita nei supermercati e spacciati come autenticamente italiani, anche se di italiano hanno ben poco. Per spiegare come tutto ciò sia possibile e ammesso per legge, dobbiamo fare un passo indietro e comprendere cosa siano le produzioni IGP. L’Indicazione Geografica Protetta è un marchio di qualità istituito dall’Unione Europea che identifica prodotti agricoli e alimentari con una qualità, reputazione o altre caratteristiche specifiche, direttamente legate al territorio di origine. L’IGP tutela il nome del prodotto e garantisce che almeno una fase del processo produttivo avvenga nella zona geografica designata. Pertanto, in teoria, se parliamo di Mortadella di Bologna IGP, dobbiamo aspettarci che almeno una fase della produzione di questo salume venga effettuata nel capoluogo felsineo, o perlomeno nei dintorni.

Made in Italy, ma non troppo

Sulla confezione di questo prosciutto crudo è visibile la dicitura “prodotto in Italia” accompagnata da una scritta più piccola “con carne origine UE”, ovvero con carne d’importazione proveniente da Paesi della Comunità Europea

I salumi sono uno di quegli alimenti in cui la confusione fra i prodotti italiani realmente tali, fatti con materia prima 100% italiana, e gli altri, è massima. Dai medesimi salumifici, con la stessa marca, escono ad esempio prosciutti fatti con suini nati e allevati in Italia e prosciutti fatti con cosce d’importazione. Esistono naturalmente delle differenze di qualità e sapore nei due prodotti, che per il consumatore medio non sono tuttavia facili da percepire. Spesso, infatti, si associa la qualità del cibo alla marca e all’azienda in sé, senza indagare  sul ventaglio di prodotti. Facciamo un esempio concreto: la confezione di prosciutto crudo Fratelli Beretta al supermercato. Per stessa dichiarazione del produttore, questo proviene da cosce di suino importate da Paesi UE, il che significa che la carne non è di suini nati e allevati in Italia. Tuttavia, sulla confezione del prodotto può comunque apporsi la dicitura «Prodotto in Italia» (o «Made in Italy») affiancata da una immagine del tricolore, visto che l’ultima lavorazione, cioè la stagionatura, è avvenuta in Italia – anche se materia prima e allevamento sono spesso di provenienza estera. 

Fortunatamente, in Italia dal 1° febbraio 2021 è obbligatorio indicare in etichetta l’origine della carne suina utilizzata nella produzione dei salumi. Questa misura, stabilita da un decreto, fornisce al consumatore informazioni chiare sul Paese di nascita, allevamento e macellazione degli animali. L’obbligo non si applica tuttavia ai prodotti con marchio DOP e IGP, ed è proprio con questi prodotti che si genera la confusione massima ed emergono gli aspetti più fuorvianti, se non ingannevoli, per il consumatore.

Mortadella di Bologna IGP

Parliamo di un prodotto simbolo di italianità e regionalità, un salume emiliano amatissimo in tutta Italia, da nord a sud. E se la mortadella bolognese non fosse nemmeno italiana? Le origini di questo prodotto apprezzatissimo risalgono probabilmente all’epoca etrusca e sono da ricercare nei territori di Felsina (antico nome di Bologna), ricchi di querceti che fornivano ghiande saporose ai numerosi maiali locali. Del legame con la città di Bologna si trova testimonianza già nel Quattrocento, quando i Visconti di Milano offrivano volentieri ogni anno un bue grasso alla città, per averne in cambio delle succulente mortadelle. Nel 1661, con il bando emesso dal cardinale Girolamo Farnese, che codificava la produzione di mortadella (uno dei primi esempi di disciplinare, simile a quelli attuali propri delle denominazioni a marchio DOP e IGP), viene ufficialmente riconosciuta l’unicità e l’esclusività del prodotto e della città di Bologna. 

Mortadella Bologna IGP – Il disciplinare indica solo le parti del suino utilizzabili, senza alcun vincolo sull’origine delle carni né sul tipo di allevamento. Dietro l’etichetta italiana, si celano spesso suini provenienti da allevamenti intensivi esteri, in particolare da Germania, Spagna e Olanda.

La Mortadella di Bologna IGP è un prodotto di salumeria appartenente alla categoria degli insaccati cotti, preparato con una miscela di carni di suino. Essendo un prodotto IGP, il processo produttivo deve attenersi a un disciplinare di produzione, cioè a delle regole scritte e ben definite. I disciplinari di produzione per i prodotti DOP e IGP vengono predisposti dai Consorzi di Tutela. Si tratta di enti o associazioni che rappresentano gli interessi dei produttori, operano in un’area geografica ben definita e sono responsabili di decidere le regole di produzione, la qualità, la commercializzazione e la promozione del prodotto. Il Ministero dell’Agricoltura e l’ICQRF (Ispettorato Centrale Qualità e Repressione Frodi) sono incaricati di approvare i disciplinari, garantendo che siano conformi alla normativa italiana ed europea e che tutelino la qualità e la specificità dei prodotti DOP e IGP. Queste stesse autorità vigilano sull’applicazione delle regole del disciplinare, avvalendosi di organismi di controllo e certificazione come CSQA (Certificazione Sicurezza Qualità Agroalimentare) o CCPB (Consorzio per il Controllo dei Prodotti Biologici). L’infrazione di una o più regole dà luogo a reati punibili per legge. 

La fase finale e più importante per l’ottenimento di un marchio DOP o IGP è comunque sempre la registrazione a livello europeo in un apposito registro. Le autorità dello Stato membro devono approvare i disciplinari di produzione, ma è necessario che anche l’UE ritenga ammissibili e valide le domande di registrazione del marchio a livello europeo, in conformità al Regolamento (UE) 2024/1143. L’ammissibilità si basa però esclusivamente su aspetti burocratici e sulla presentazione della documentazione richiesta dalla UE allo Stato membro. In pratica chi decide, nel merito, sulla istituzione di un marchio DOP e IGP è lo Stato membro, non la UE. 

Chiariti questi aspetti di cornice legale, vale ora la pena di dare un’occhiata da vicino al disciplinare di produzione della Mortadella di Bologna IGP. All’articolo 2 del documento si stabilisce quella che è la «zona di elaborazione» del prodotto – termine che suggerisce che in tale zona avviene soltanto una delle varie fasi di produzione, cioè quella finale di cottura e confezionamento, mentre le fasi di nascita e allevamento dei suini, come anche quelle di macellazione, avvengono in altri luoghi. La zona di elaborazione comprende varie Regioni italiane: Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia, Veneto, provincia di Trento, Toscana, Marche e Lazio. 

All’articolo 3 del documento, intitolato Materie prime, non c’è alcun riferimento all’origine geografica delle materie prime stesse, ovvero delle carni di suino. In particolare, non si fa nessun cenno ai luoghi in cui tali animali nascono, sono allevati e macellati. L’unico elemento che viene illustrato nei dettagli è quanto concerne le parti specifiche del suino che possono essere impiegate nella preparazione della mortadella: «La Mortadella Bologna è costituita da una miscela di carni di suino ottenute da muscolatura striata appartenente alla carcassa». Quindi con «materie prime» si fa riferimento, nel disciplinare, soltanto alle parti dell’animale idonee all’utilizzo, non al luogo d’origine né tantomeno alle modalità di allevamento degli animali (intensivo, stato brado ecc.). Per questo motivo è logico ritenere che le carni della mortadella provengano in larga parte dall’estero, da Paesi forti produttori di suini come Germania, Spagna e Olanda in particolare, e solo in parte da suini allevati in Italia. Alcuni produttori industriali dichiarano esplicitamente l’uso di carni estere in mix con quelle italiane, come ad esempio Fiorucci, che lo scrive sul proprio sito web.

Il Prosciutto di Norcia IGP

Il disciplinare di produzione di questo salume scrive esplicitamente che «non vi è limitazione geografica all’origine dei suini». Questi, cioè, possono arrivare da ogni parte del mondo. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’indicazione dell’origine è del tutto assente. E non scriverla equivale a dire che non sussiste alcun vincolo.  

Dalla tabella emerge che, su diversi prodotti presi in esame solo il lardo di Colonnata e il salame d’oca di Mortara prevedono l’uso di carni 100% italiane. La finocchiona ammette carni sia italiane che estere, mentre per gli altri prodotti l’origine delle carni non è specificata nei disciplinari

Carni estere, nome italiano

Purtroppo, le produzioni IGP si contraddistinguono da sempre per adottare dei disciplinari “furbetti”: questo genere di prodotti, infatti, vengono di solito associati a una determinata zona geografica anche se la materia prima viene dall’altra parte del mondo. È sufficiente che solo una fase della lavorazione avvenga nella zona che dà il nome. Famosi sono i casi della Bresaola della Valtellina IGP, fatta con la carne di Zebù brasiliano, o dello Speck dell’Alto Adige IGP, con cosce provenienti da Germania e Paesi Bassi. La tabella pubblicata nella pagina precedente mostra un elenco abbastanza ampio dei salumi IGP italiani per i quali l’utilizzo di carni estere è comune e talvolta esplicitamente dichiarato dal disciplinare stesso. 

Tra tutte le IGP comprese in questo elenco, sono soltanto 2 quelle che per disciplinare di produzione devono impiegare carni italiane: il Lardo di Colonnata IGP e il Salame d’oca di Mortara IGP. Mentre la Finocchiona IGP prevede l’utilizzo sia di carne di suini italiani di razza Cinta Senese che di carne di suini proveniente dall’estero. In tutti gli altri casi non si richiede l’origine geografica specifica della carne (salvo un paio di casi in cui viene richiesta l’origine UE della carne) ma solo la tipologia (razza) di suino che deve essere impiegata per la produzione del salume.

In conclusione, il marchio IGP fa pensare a un prodotto locale indissolubilmente legato a un determinato territorio. Attribuire una certificazione di qualità a un cibo e descriverne l’origine geografica implicherebbe che tale alimento provenga senza ombra di dubbio da un determinato territorio e che da questo dipendano le sue caratteristiche e modalità di preparazione (inclusa la ricetta tradizionale). Se parliamo di pomodoro di Pachino, di basilico genovese o di olio pugliese, nessuno si aspetta che la materia prima sia coltivata all’estero e poi confezionata in queste località. Sarebbe un’indicazione fuorviante, che trae in inganno, con un risultato senz’altro deludente. Lo stesso ragionamento andrebbe applicato alle produzioni IGP, a maggior ragione per via di un riconoscimento ufficiale e politico sia dello Stato italiano che della UE, ma a conti fatti non è così.

Campi Flegrei, scossa di magnituto 4.4: cittadini in strada

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Una forte scossa di terremoto ha colpito oggi l’area dei Campi Flegrei, a Napoli, ed è stata avvertita in tutta la città e nei comuni a nord. Il sisma, registrato alle 12.08 dall’Osservatorio Vesuviano dell’Ingv, ha avuto una magnitudo provvisoria di 4.4. Lungo e ondulatorio, il terremoto ha fatto oscillare i palazzi per diversi secondi, in particolare ai piani alti. Sono state evacuate la sede dell’Università Federico II a Fuorigrotta e diverse scuole dell’area flegrea. Molti cittadini, spaventati, si sono riversati in strada.

Corruzione a Venezia: la Procura chiede che il sindaco Brugnaro vada a processo

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La Procura di Venezia ha chiesto il rinvio a giudizio per il sindaco Luigi Brugnaro e altre 34 persone nell’ambito dell’inchiesta “Palude”, che ipotizza un vasto sistema corruttivo. Al centro ci sono le trattative per la vendita al magnate singaporiano Ching Chiat Kwong dell’area dei Pili, acquistata da Brugnaro prima del suo ingresso in politica, e di Palazzo Papadopoli, ceduto a un prezzo inferiore al valore stimato allo stesso Ching. Rischiano il processo anche direttore generale e il vicecapo di gabinetto di Ca’ Farsetti, Morris Cerron e Derek Donadini, nonché l’ex assessore Renato Boraso, accusato di aver incassato una tangente da 73mila euro. L’inchiesta tocca anche appalti pubblici, progetti edilizi e operazioni urbanistiche.

Nella richiesta formulata al gip, i pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini hanno confermato l’impianto accusatorio principale, ipotizzando il reato di corruzione a carico di Brugnaro e di vari esponenti della sua squadra. Le operazioni al centro della lente dei magistrati sono collegate: l’area di 41 ettari dell’area dei Pili, zona fortemente inquinata accanto a porto marghera, era stata intestata alla società “Porta di Venezia”, che nel 2017 confluì in un blind trust, e proposta al magnate Ching a un prezzo di un centinaio di milioni di euro al fine di sviluppare un progetto edilizio in cambio della promessa di un aumento di cubatura. Contestualmente, secondo i pm, il rappresentante in Italia di Ching, Luis Lotti, avrebbe anche concordato con Brugnaro, Donadini e Ceron di fare abbassare la valutazione dello storico Palazzo Papadopoli, comprato da una società di proprietà di Ching. Proprio nella cornice di questa operazione, ha ricostruito la Procura, sarebbe stata pagata una tangente da 73mila euro all’ex assessore Renato Boraso, che è stato arrestato nel luglio 2024. Quest’ultimo, secondo quanto attestato dal giudice per le indagini preliminari Alberto Scaramuzza nel luglio scorso, avrebbe «sistematicamente mercificato la propria pubblica funzione, svendendola agli interessi privati». Vari imprenditori sono infatti accusati di averlo pagato con consulenze immobiliari fittizie in cambio del suo aiuto a far avanzare i propri progetti grazie a pressioni sui funzionari comunali. In alcuni casi si procede per corruzione, in altri per turbativa d’asta. Boraso ha già patteggiato un totale di 3 anni e 10 mesi per alcune accuse.

In seguito alla richiesta di rinvio a giudizio, le opposizioni si mostrano unite nel chiedere un passo indietro a Brugnaro. «Da anni denunciamo con forza in Consiglio Comunale il conflitto di interessi del sindaco, la gestione privata della cosa pubblica – ha dichiarato Monica Sambo, segretaria comunale del Partito Democratico –. Oggi, con la chiusura delle indagini e la richiesta di rinvio a giudizio del sindaco, è ancora più urgente un gesto chiaro di responsabilità e, per una volta, di amore nei confronti di Venezia. Le forze politiche che hanno sostenuto Brugnaro fino a oggi non possono più fare finta di niente: devono smarcarsi da questo sistema, assumersi la responsabilità politica e voltare pagina». Sulla stessa scia la capogruppo del Movimento 5 Stelle al Consiglio regionale, Erika Baldin, la quale ha affermato che «proprio per tutelare il massimo bene di Venezia, è opportuno che il sindaco rassegni quanto prima le sue dimissioni, in modo da potersi difendere nel processo e aprire così una stagione nuova alla guida della città».

Libia, ucciso il capo di una milizia

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Ieri in Libia è stato ucciso Abdel Ghani Al Kikli, capo dello Stability Support Apparatus (SSA), un’importante milizia armata del Paese affiliata al governo. Dopo la notizia della sua morte, a Tripoli sono scoppiati scontri per il controllo del territorio e il governo centrale ha annunciato la sospensione di tutti i voli all’aeroporto di Mitiga, nell’area metropolitana della capitale. Il governo ha dichiarato di avere ripreso controllo della situazione. È ancora ignoto come sia morto, ma pare sia stato attaccato in un’imboscata. Al Kikli era accusato di crimini contro le persone migranti e di aver partecipato attivamente alla loro cattura e detenzione.

La devastazione di Gaza vista attraverso le immagini di Google Earth

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Mercato del campo profughi, Jabaliya - sopra: 10 agosto 2023 sotto: 1° dicembre 2024

Davanti al silenzio e alla cosciente complicità delle istituzioni europee, i cieli di Gaza continuano a brillare a causa dei bombardamenti delle Forze di Difesa Israeliane; quella parte di popolazione della striscia ancora sopravvissuta al genocidio, da mesi ormai sta facendo i conti con la fame, a causa del blocco degli aiuti umanitari fermi alle frontiere. Ad informarci di tutto questo sono le immagini e le testimonianze che circolano sui social media, insieme al lavoro incessante dei giornalisti gazawi, che oltre che documentare questa situazione mettendo a rischio la propria stessa vita, sono stati costretti a vedere più di 200 colleghi morire sotto i bombardamenti. Informazioni a cui ora si aggiunge, inconsapevole, l’aggiornamento di Earth (il servizio di immagini satellitari di Google), che ha pubblicato da pochi le immagini della Striscia di Gaza aggiornate al dicembre 2024. Queste vanno a sostituire le precedenti rilevazioni che precedevano il 7 ottobre 2023, fornendo quindi una istantanea dall’alto di come oltre un anno di devastazione israeliana abbia cambiato la conformazione di Gaza. 

Ospedale Al Shifa, Gaza City – sopra: 10 agosto 2023 sotto: 1° dicembre 2024

Ospedale Al Shifa, Gaza City. La struttura ospedaliera più grande della striscia è rimasta operativa fino a marzo del 2024, momento in cui ha subito gravi danni a causa dei bombardamenti dell’esercito israeliano. L’Organizzazione Mondiale della Salute è riuscita ad accedervi il 6 aprile del 2024 e ha affermato che la quasi totalità delle apparecchiature sono andate distrutte o sono inutilizzabili. Rimasto completamente inoperativo, la sua condizione mette in luce la difficoltà estrema della popolazione gazawi di accedere al servizio sanitario.

Grande Moschea Omari, Gaza City – sopra: 10 agosto 2023 sotto: 1° dicembre 2024

Grande Moschea Omari, Gaza City. Situata nella parte antica della città, quest’edificio ha un’importanza storica inestimabile; costruita nel 406 come chiesa bizantina, diventa nel VII secolo la prima moschea di Gaza. Elemento essenziale della comunità gazawi, è stato tra i primi edifici ad essere bombardato dalle forze israeliane. Secondo le immagini dell’emittente turca TRT, la popolazione gazawi aveva iniziato un lento processo di restaurazione della struttura durante il cessate il fuoco infranto da Israele a marzo.

Centro culturale Rashad Shawa, Gaza City – sopra: 10 agosto 2023 sotto: 1° dicembre 2024

Centro culturale Rashad Shawa, Gaza City. Fulcro della cultura palestinese a Gaza, questo centro sorgeva a pochi metri dall’ospedale Al Shifa. Eretto nel 1985, nel corso degli anni ha ospitato varie performance artistiche, ed è stato visitato da personalità di spicco della politica internazionale, tra i quali il presidente del Sudafrica Nelson Mandela. Fu inoltre il luogo in cui si tennero alcuni incontri tra il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Yasser Arafat e il presidente degli Stati Uniti d’America Bill Clinton. Anche questo edificio è stato preso d’assalto dai bombardamenti israeliani nel novembre del 2023.

Gaza Arts and Crafts Village, Gaza City – sopra: 10 agosto 2023 sotto: 1° dicembre 2024

Gaza Arts and Crafts Village, Gaza City. Questo luogo, costruito nel 1998, ha rappresentato per più di due decenni un testimone dell’eredità gazawi nel corso dei secoli. Nato per fare fronte allo shock sociale della Nakba, questo centro artistico ha ospitato centinaia di artisti e artiste da tutto il mondo, con il fine di sviluppare la creatività, specialmente delle persone più piccole. In più di vent’anni ha avvicinato all’arte più di 10.000 bambine e bambini. Dalla cronologia satellitare si evince che l’edificio è stato raso al suolo già nella prima settimana di bombardamenti dell’ottobre 2023.

Piazza del milite ignoto, Gaza City – sopra: 10 agosto 2023 sotto: 1° dicembre 2024

Piazza del milite ignoto, Gaza City. In questo luogo, dove risiedeva la statua del milite ignoto eretta dopo la prima Nakba del 1948 e distrutta nel 1967 da Israele, fu edificato un parco con gli aiuti finanziari del regno di Norvegia. Il parco giochi all’interno e i bar intorno hanno rappresentato nel tempo un punto di ritrovo della popolazione gazawi, mantenendo un significato rilevante nella resistenza palestinese. Il Governo della città ha denunciato l’intervento dei bulldozer israeliani, finalizzato a spianare il luogo, nel quale non resta altro che sabbia e terra.

Palestine Stadium, Gaza City – sopra: 10 agosto 2023 sotto: 1° dicembre 2024

Palestine Stadium, Gaza City. Lo stadio nazionale e sede della selezione palestinese ha subito nel corso degli ultimi decenni vari bombardamenti; prima nel 2006 e poi nel 2012, in entrambe le occasioni fu ricostruito con i fondi della FIFA. Come si può notare dalle ultime immagini satellitari, lo stadio ospita un accampamento, dove, secondo quanto riportato da Middle East Monitor è stato situato dalle forze israeliane un campo di detenzione. Dalle immagini raccolte si possono osservare uomini e bambini svestiti accerchiati da carri armati.

Al-Quds Open University, Khan Yunis – sopra: 10 agosto 2023 sotto: 1° dicembre 2024

Al-Quds Open University, Khan Yunis. Edificata nel 1991, è la prima università pubblica, indipendente e in open learning dello stato palestinese. Caratterizzata dalla capacità di impartire insegnamento a distanza, è arrivata a contare anche 60.000 studenti. Distrutta a cavallo tra il 2023 e 2024, è possibile osservare attraverso le ultime rilevazioni risalenti al giugno del 2024 che è stata trasformata in campo base degli accampamenti militari israeliani. Nel novembre del 2024 il suo territorio è stato abbandonato ed è stata definitivamente rasa al suolo.

Al-Mashtal Club, Gaza City – sopra: 10 agosto 2023 sotto: 1° dicembre 2024

Al-Mashtal Club, Gaza City. Questa palestra ha ospitato il progetto Gaza Boxing Women, la scuola femminile di pugilato fondata da Reema Aburahma Osama Ayoub che nel corso degli anni ha ricevuto il sostegno del progetto Boxe Contro l’Assedio, promosso dalla ONG Coperazione internazionale Sud Sud e supportato dalla Palestra Popolare di Palermo, dalla Palestra Popolare Quarticciolo e dalla Palestra Popolare Valerio Verbano. Dopo la distruzione della palestra a Gaza, il progetto si è spostato negli accampamenti di Khan Yunis.

Mercato del campo profughi, Jabaliya – sopra: 10 agosto 2023 sotto: 1° dicembre 2024

Mercato del campo profughi, Jabaliya. Fondato a seguito della Nakba del 1948, quello di Jabaliya è il maggiore tra i campi profughi palestinesi. Secondo il censimento compiuto dall’UNRWA, nel 2023 erano più di 115.000 gli abitanti palestinesi nel campo, che si estende per 1,4 chilometri quadrati. Il mercato è stato uno tra i primi obiettivi dei bombardamenti israeliani, che colpirono a sorpresa il 9 ottobre 2023. 

Istituti scolastici, Jabaliya – sopra: 10 agosto 2023 sotto: 1° dicembre 2024

Istituti scolastici, Jabaliya. In questa rilevazione satellitare si possono intravedere i resti e le macerie di due scuole nel campo profughi di Jabaliya. Dal 7 ottobre 2023 sono più di 20.000 i bambini e le bambine uccise dai bombardamenti dell’esercito israeliano. Alle vittime si aggiungono più di 30.000 feriti e almeno un milione di bambini sfollati.

Our Rest, Gaza City – sopra: 10 agosto 2023 sotto:1° dicembre 2024

È necessario specificare che queste immagini sono aggiornate al dicembre del 2024. Nel corso di questi ultimi mesi Israele ha continuato a bombardare, devastando ulteriori infrastrutture tra le poche ancora in uso. In un punto residenziale di Gaza si può scorgere un simbolo che segnala quello che doveva essere un piccolo parco ora ridotto in macerie, chiamato «Our Rest», il nostro riposo. Appare dolorosamente ironico che un luogo adibito di ristoro nella natura sia divenuto un luogo di eterno riposo. Dovremmo essere coscienti del fatto che praticamente ogni angolo di questo fazzoletto di terra ha visto spezzarsi la vita di coloro che nelle nostre latitudini, spesso, sono solo numeri. In questo esercizio in cui si mettono a confronto i «prima e dopo» della striscia di Gaza, le immagini raccolte dal satellite sottolineano la responsabilità del nostro mondo, che ha dimenticato il «prima» e si è assuefatto dalle immagini del «dopo».

La Polonia chiude il consolato russo

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La Polonia ha dichiarato che chiuderà il consolato russo a Cracovia, accusando Mosca di essere dietro il vasto incendio che ha colpito il centro commerciale di Varsavia nel 2024. L’accusa della Polonia è stata lanciata domenica dal primo ministro Donald Tusk, che ha dichiarato di sapere «con certezza» che i servizi segreti russi fossero dietro l’incendio dell’anno scorso. «A causa delle prove che i servizi segreti russi hanno commesso un riprovevole atto di sabotaggio contro il centro commerciale di via Marywilska, ho deciso di ritirare il mio consenso all’operazione del Consolato della Federazione Russa a Cracovia», ha dichiarato il ministro degli Esteri polacco. La Russia nega di essere coinvolta nell’incendio.

Perché il potere non vuole la verità sulla mafia: intervista a Salvatore Borsellino

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Una deriva politicamente autoritaria e narrativamente negazionista sul presunto ruolo degli apparati deviati dello Stato dietro alle stragi. È questa la denuncia indirizzata al governo dal fondatore del Movimento delle Agende Rosse Salvatore Borsellino, fratello del magistrato Paolo Borsellino, ucciso a Palermo il 19 luglio del 1992. Un allarme che, negli ultimi mesi, lo ha spinto a promuovere la nascita di un Coordinamento tra i familiari delle vittime delle stragi di mafia e terrorismo, con l’obiettivo di sviluppare una strategia unitaria di denuncia contro un sistema di potere che, nelle sue articolazioni istituzionali e mediatiche, sembra ignorare completamente le istanze della società civile su questi temi. Il tutto mentre in Commissione Antimafia si cerca in tutti i modi di allontanare le ombre dell’eversione nera e dei servizi segreti che si stagliano sulle stragi.

Salvatore Borsellino, come si sta approcciando l’Italia al 33° anniversario della strage di via d’Amelio?

Credo che in questi ormai più di trent’anni passati dall’esecuzione di quella strage non ci sia mai stato un periodo più nero di questo. È in atto, da parte del sistema di potere che oggi ci governa, una strategia di riscrittura della storia del nostro Paese, che di stragi è costellata, tesa a parcellizzare questi attentati, che invece fanno parte di un unico disegno eversivo, cancellandone da queste le responsabilità dell’eversione nera (e non solo di questa) e banalizzandone le cause a sole stragi di mafia. Laddove invece alla mafia è stato spesso affidato, dagli apparati dello Stato deviato, soltanto un ruolo esecutivo. La Commissione Parlamentare Antimafia, la cui presidenza è stata affidata a Chiara Colosimo (una persona che non ha evitato di esibire in una foto i suoi rapporti più che confidenziali con un terrorista come Luigi Ciavardini, condannato come esecutore della strage di Bologna), ha ristretto i suoi lavori alla sola strage di Via D’Amelio, isolandola dalle altre stragi (in particolare da quella di Capaci, a cui è invece indissolubilmente legata) e banalizzandone le cause a un dossier “mafia-appalti” che mai avrebbe potuto giustificare l’accelerata esecuzione della strage. 

Quali pensa siano le reali causali dietro a quell’attentato?

In primo luogo ritengo vi sia la trattativa tra mafia e Stato, alla quale mio fratello era assolutamente contrario e che avrebbe avversato con ogni mezzo. Poi vi è ciò che mio fratello aveva scoperto sulla strage di Capaci e su cui aveva detto che si aspettava di riferire all’autorità giudiziaria prima, se fosse stato il caso, di riferirne in pubblico. Sono in particolare queste parole, pronunciate il 25 di giugno in un incontro pubblico alla biblioteca comunale di Palermo, che determinano la sua condanna a morte. Paolo non verrà mai sentito dalla Procura di Caltanissetta, alla quale verrà invece, dopo la sua morte, chiamato irritualmente a collaborare alle indagini quel Bruno Contrada [allora numero due del SISDE, ndr] del quale, pochi giorni prima, Gaspare Mutolo gli aveva rivelato la collusione con la mafia. Penso anche, ma non ne ho le prove, che Paolo negli ultimi giorni della sua vita si fosse reso conto o avesse avuto notizie del coinvolgimento dei servizi e dell’eversione nera nella strage di Capaci e che per questo sia stata affrettata la sua esecuzione e sia stata fatta scomparire la sua agenda rossa.

Dal punto di vista processuale, a che punto siamo su via D’Amelio?

Purtroppo, a distanza di più di trent’anni, proseguono i depistaggi, anche quelli di Stato, rivelati soltanto con il processo Borsellino quater. Inoltre non si indaga come sarebbe necessario e non si è mai svolta nemmeno la fase dibattimentale di uno specifico processo su quella che sarebbe la scatola nera di quella strage, l’agenda rossa, sottratta dalla macchina di Paolo negli istanti immediatamente successivi all’attentato. Non solo: nei processi che si stanno svolgendo a Caltanissetta, su quelli che sono peraltro solo gli ultimi anelli di quel depistaggio di Stato sancito dal Borsellino quater, è stata pure respinta, per «mancanza di requisiti», la costituzione di parte civile mia e di altri familiari di vittime. Non solo dopo oltre trent’anni non abbiamo giustizia, ma ci viene negato anche il diritto di chiederla.

Lei ha protestato pubblicamente contro il testo del Decreto Sicurezza approvato dal governo Meloni. Cosa non la convince? 

Tralasciando gli altri aspetti assai critici del testo, quello che mi colpisce è la parte relativa alle facoltà che vengono date ai servizi segreti. Le cose che da sempre questi hanno fatto – tra le quali l’istigazione e la partecipazione a queste stragi – saranno da oggi coperte dalla legge. Potranno non solo infiltrarsi nelle strutture terroristiche ma anzi parteciparvi attivamente e assumerne il comando, detenere e utilizzare esplosivi, addirittura commettere omicidi rispondendone soltanto al capo del governo. In pratica quegli stessi reati che da sempre hanno commesso, ma per i quali dovevano, nel caso almeno fossero stati individuati, rispondere alla legge. Ora, per questi reati, saranno al di sopra delle leggi e il presidente del Consiglio, al quale dovranno risponderne, è arrivato addirittura a dire che il provvedimento è stato emanato come decreto e non discusso in Parlamento per questioni di urgenza, per rispondere alle aspettative dei cittadini. In realtà i cittadini, in particolare i familiari delle vittime di queste stragi, non sono stati neppure ascoltati, né dalle stesse commissioni parlamentari che stavano elaborando il provvedimento, né dallo stesso Capo dello Stato, il quale non ha neanche risposto al nostro appello.

Negli ultimi mesi, ha dato impulso alla nascita di un Coordinamento che riunisce i familiari delle vittime delle stragi cosiddette “di terrorismo” e “di mafia”. Ci racconti come è nata questa idea.

L’idea è nata proprio a causa del tentativo in atto da parte di questo governo di riscrivere la storia del nostro Paese, cancellando la responsabilità dei servizi e dell’eversione nera, parcellizzando lo studio delle stragi e banalizzandone le cause. Secondo quest’ottica, esse devono essere attribuite soltanto a quanti sono stati utilizzati come esecutori, escludendo da questi gli esecutori neofascisti. Inoltre, le ultime sentenze della magistratura hanno ancora di più allontanato la speranza di poter ottenere, nel corso della vita che mi resta, quella verità e quella giustizia per cui combatto da anni. Ho pensato allora che fosse necessario avere una voce comune, e quindi più forte e più incisiva, da parte delle associazioni dei familiari di vittime per quella che dovrebbe essere una esigenza di tutto il Paese – e che invece, troppo spesso, viene lasciata in carico soltanto a noi. 

Dato il contesto assai critico, che appello lancia alla politica e alla società civile?

Alla politica, sia di opposizione che di governo, non posso che lanciare l’appello di fare di tutto, ognuno nel proprio ruolo, per fare emergere la verità su queste stragi che hanno disseminato la storia d’Italia. Finché non emergeranno le verità e non ci sarà giustizia, il nostro Stato non potrà definirsi davvero democratico. Alla società civile posso dire di fare ognuno, per quanto piccola possa essere, la sua parte. È necessario non soltanto non essere complici, ma anche non essere indifferenti, non voltare la testa dall’altra parte, non dire «non è affar mio, sono gli altri, le autorità, a doverci pensare». Se riusciremo a farlo, questo Paese non avrà più bisogno di eroi. Che, in fin dei conti, sono soltanto uomini che hanno fatto fino all’ultimo il loro dovere e che sono stati costretti a diventare eroi, a morire come eroi, a causa anche dell’indifferenza di troppi.

Algeria, espulsi 15 diplomatici francesi

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L’Algeria ha espulso 15 diplomatici francesi. Di preciso, Algeri ha comunicato che i diplomatici francesi non erano dotati dei documenti necessari per accedere al Paese e ha denunciato la «ripetuta inosservanza delle procedure da parte francese». La Francia ha annunciato che risponderà alla decisione dell’Algeria definendola «ingiustificata». La notizia arriva sullo sfondo di un clima sempre più teso tra i due Paesi, inaugurato la scorsa estate, quando la Francia ha riconosciuto la sovranità del Marocco sulla regione marocchina del Sahara Occidentale, da anni controllata dai ribelli del Fronte Polisario, sostenuti dall’Algeria. Dopo un momento di alleggerimento delle tensioni, il mese scorso l’Algeria ha espulso altri 12 diplomatici francesi dal proprio territorio.

Ancora attacchi in Sudan: almeno 33 uccisi, il governo accusa gli Emirati Arabi

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Non si placano le violenze che da due anni infiammano il Sudan: ieri almeno 33 persone sono rimaste uccise in due attacchi che hanno colpito una prigione nella città di El-Obeid e la regione del Darfur. Il governo ha accusato dei raid il gruppo paramilitare Rsf, che contende il potere al presidente Abdel Fattah Abdelrahman Burhan. Le autorità denunciano da tempo l’ingerenza di attori stranieri interessati a destabilizzare il territorio per accaparrarsi le sue risorse. Tra questi vi sarebbero gli Emirati Arabi Uniti, con cui il governo sudanese ha annunciato pochi giorni fa il taglio di ogni rapporto diplomatico.

Oggi scioperano in tutta Italia i precari della ricerca dell’Università

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Oggi si ferma l’università pubblica, investita da uno sciopero nazionale che vede protagonisti migliaia di lavoratori precari del settore. La mobilitazione, indetta dalla FLC-CGIL e rapidamente sostenuta da numerose realtà associative, coinvolge una larga fascia del personale universitario. Infatti, il numero di addetti a tempo determinato, assegnisti e borsisti ha toccato quota 40 mila, a fronte di appena 53 mila docenti di ruolo. L’obiettivo dello sciopero è l’ampliamento degli organici e la relativa stretta alla precarietà. Come riportato in una nota del sindacato, si chiede poi la fine dei tagli al fondo ordinario di finanziamento delle università, che va a braccetto con il «contrasto di ogni politica di riarmo in questa stagione di ripresa dei conflitti internazionali».

Assegnisti, dottorandi, borsisti, specializzandi e ricercatori a tempo determinato, ma anche personale tecnico-amministrativo, docenti strutturati e associazioni studentesche, si uniscono in una mobilitazione che punta a denunciare la deriva di un sistema universitario sempre più povero di risorse, diritti e prospettive. La protesta si tiene in decine di città dello Stivale: da Roma a Milano, da Torino a Napoli, passando per Bologna, Pisa, Bari e Genova, sono stanno andando in scena cortei, presìdi e assemblee. «Contro le politiche sul precariato universitario, il definanziamento degli atenei e i tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) portati avanti dall’attuale Governo», recita la nota ufficiale della FLC CGIL, che chiede un’inversione di rotta radicale nelle politiche universitarie.

Tra le richieste centrali della mobilitazione, che evidenzia come l’università italiana si regga ormai sulle spalle di una forza lavoro temporanea, spesso esclusa da ogni forma di rappresentanza e tutela, vi sono un piano straordinario di stabilizzazioni, l’assunzione di almeno 40 mila unità — tra ricercatori in tenure-track, tecnologi e personale tecnico-amministrativo — e l’aumento di 5 miliardi di euro in cinque anni per rilanciare il sistema universitario pubblico. Una risposta strutturale, dunque, al progressivo svuotamento di risorse e tutele che ha colpito l’ambito della ricerca e quello della didattica. In parallelo, si chiede lo stop a ogni tentativo di reintrodurre surrettiziamente forme di lavoro precario, come il criticato “contratto di ricerca”. I due terzi dei precari sono legati a progetti PNRR e quindi se non si interviene «nel giro dei prossimi due anni ci sarà il licenziamento di migliaia e migliaia di persone, la loro espulsione dall’università», ha spiegato Luca Scacchi, responsabile docenza universitaria della FLC-CGIL.

Lo sciopero assume però un significato più ampio. Come sottolineano anche l’USB e l’organizzazione giovanile Cambiare Rotta, si tratta di un momento di convergenza tra la lotta contro la precarietà e quella contro l’orientamento bellico assunto dalle politiche europee e italiane. A fronte di un aumento delle spese militari e della crescente subordinazione della ricerca pubblica agli interessi dell’industria bellica, i fondi per università e ricerca vengono tagliati, esponendo il sistema accademico a un vero e proprio «oscurantismo», come affermato dall’USB. Lo scorso 20 febbraio, la ministra dell’Università Anna Maria Bernini ha annunciato alla Conferenza dei rettori lo stop alla discussione in Parlamento sul disegno di legge riguardante il precariato accademico. Da un lato una scelta necessaria: Flc-Cgil e Adi avevano infatti portato il caso all’attenzione della Commissione europea, denunciando che il testo rappresentava un arretramento rispetto alla riforma del 2022 legata al PNRR, e proseguire con l’iter legislativo e reintrodurre di fatto, con un nuovo nome, il vecchio assegno di ricerca cancellato nel 2022 avrebbe potuto compromettere l’accesso ai fondi europei; dall’altro lato, una mossa strategica: sospendere il ddl ha significato mettere pressione ai rettori, spingendoli a prendere posizione pubblicamente. A oggi, a fronte di oltre 24 mila assegnisti in scadenza, solo poche centinaia potranno accedere al nuovo contratto di ricerca introdotto dalla riforma del 2022.

A riprova del fatto che la mobilitazione si gioca su più fronti, solo poche settimane fa lavoratrici e lavoratori dell’università sono tornati a protestare contro il Bando MAECI e l’Accordo di Cooperazione tra Italia e Israele – in cui si prevedono progetti di ricerca congiunti negli ambiti della tecnologia del suolo, dell’acqua e dell’ottica di precisione -, chiedendone la sospensione per «rischio di violazione del diritto internazionale e umanitario». Dopo le mobilitazioni del 2024, una nuova lettera aperta è stata infatti inviata al Ministero degli Affari Esteri (MAECI) e della Cooperazione Internazionale e alla Conferenza dei Rettori delle Università italiane (CRUI), accompagnata da una raccolta firme che ha già superato le 1.750 adesioni. I firmatari denunciano il legame tra il sottofinanziamento della ricerca in Italia e i fondi destinati a Paesi in guerra, come Israele, accusato di violenze indiscriminate contro i palestinesi.