lunedì 27 Ottobre 2025
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Perché il potere non vuole la verità sulla mafia: intervista a Salvatore Borsellino

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Una deriva politicamente autoritaria e narrativamente negazionista sul presunto ruolo degli apparati deviati dello Stato dietro alle stragi. È questa la denuncia indirizzata al governo dal fondatore del Movimento delle Agende Rosse Salvatore Borsellino, fratello del magistrato Paolo Borsellino, ucciso a Palermo il 19 luglio del 1992. Un allarme che, negli ultimi mesi, lo ha spinto a promuovere la nascita di un Coordinamento tra i familiari delle vittime delle stragi di mafia e terrorismo, con l’obiettivo di sviluppare una strategia unitaria di denuncia contro un sistema di potere che, nelle sue articolazioni istituzionali e mediatiche, sembra ignorare completamente le istanze della società civile su questi temi. Il tutto mentre in Commissione Antimafia si cerca in tutti i modi di allontanare le ombre dell’eversione nera e dei servizi segreti che si stagliano sulle stragi.

Salvatore Borsellino, come si sta approcciando l’Italia al 33° anniversario della strage di via d’Amelio?

Credo che in questi ormai più di trent’anni passati dall’esecuzione di quella strage non ci sia mai stato un periodo più nero di questo. È in atto, da parte del sistema di potere che oggi ci governa, una strategia di riscrittura della storia del nostro Paese, che di stragi è costellata, tesa a parcellizzare questi attentati, che invece fanno parte di un unico disegno eversivo, cancellandone da queste le responsabilità dell’eversione nera (e non solo di questa) e banalizzandone le cause a sole stragi di mafia. Laddove invece alla mafia è stato spesso affidato, dagli apparati dello Stato deviato, soltanto un ruolo esecutivo. La Commissione Parlamentare Antimafia, la cui presidenza è stata affidata a Chiara Colosimo (una persona che non ha evitato di esibire in una foto i suoi rapporti più che confidenziali con un terrorista come Luigi Ciavardini, condannato come esecutore della strage di Bologna), ha ristretto i suoi lavori alla sola strage di Via D’Amelio, isolandola dalle altre stragi (in particolare da quella di Capaci, a cui è invece indissolubilmente legata) e banalizzandone le cause a un dossier “mafia-appalti” che mai avrebbe potuto giustificare l’accelerata esecuzione della strage. 

Quali pensa siano le reali causali dietro a quell’attentato?

In primo luogo ritengo vi sia la trattativa tra mafia e Stato, alla quale mio fratello era assolutamente contrario e che avrebbe avversato con ogni mezzo. Poi vi è ciò che mio fratello aveva scoperto sulla strage di Capaci e su cui aveva detto che si aspettava di riferire all’autorità giudiziaria prima, se fosse stato il caso, di riferirne in pubblico. Sono in particolare queste parole, pronunciate il 25 di giugno in un incontro pubblico alla biblioteca comunale di Palermo, che determinano la sua condanna a morte. Paolo non verrà mai sentito dalla Procura di Caltanissetta, alla quale verrà invece, dopo la sua morte, chiamato irritualmente a collaborare alle indagini quel Bruno Contrada [allora numero due del SISDE, ndr] del quale, pochi giorni prima, Gaspare Mutolo gli aveva rivelato la collusione con la mafia. Penso anche, ma non ne ho le prove, che Paolo negli ultimi giorni della sua vita si fosse reso conto o avesse avuto notizie del coinvolgimento dei servizi e dell’eversione nera nella strage di Capaci e che per questo sia stata affrettata la sua esecuzione e sia stata fatta scomparire la sua agenda rossa.

Dal punto di vista processuale, a che punto siamo su via D’Amelio?

Purtroppo, a distanza di più di trent’anni, proseguono i depistaggi, anche quelli di Stato, rivelati soltanto con il processo Borsellino quater. Inoltre non si indaga come sarebbe necessario e non si è mai svolta nemmeno la fase dibattimentale di uno specifico processo su quella che sarebbe la scatola nera di quella strage, l’agenda rossa, sottratta dalla macchina di Paolo negli istanti immediatamente successivi all’attentato. Non solo: nei processi che si stanno svolgendo a Caltanissetta, su quelli che sono peraltro solo gli ultimi anelli di quel depistaggio di Stato sancito dal Borsellino quater, è stata pure respinta, per «mancanza di requisiti», la costituzione di parte civile mia e di altri familiari di vittime. Non solo dopo oltre trent’anni non abbiamo giustizia, ma ci viene negato anche il diritto di chiederla.

Lei ha protestato pubblicamente contro il testo del Decreto Sicurezza approvato dal governo Meloni. Cosa non la convince? 

Tralasciando gli altri aspetti assai critici del testo, quello che mi colpisce è la parte relativa alle facoltà che vengono date ai servizi segreti. Le cose che da sempre questi hanno fatto – tra le quali l’istigazione e la partecipazione a queste stragi – saranno da oggi coperte dalla legge. Potranno non solo infiltrarsi nelle strutture terroristiche ma anzi parteciparvi attivamente e assumerne il comando, detenere e utilizzare esplosivi, addirittura commettere omicidi rispondendone soltanto al capo del governo. In pratica quegli stessi reati che da sempre hanno commesso, ma per i quali dovevano, nel caso almeno fossero stati individuati, rispondere alla legge. Ora, per questi reati, saranno al di sopra delle leggi e il presidente del Consiglio, al quale dovranno risponderne, è arrivato addirittura a dire che il provvedimento è stato emanato come decreto e non discusso in Parlamento per questioni di urgenza, per rispondere alle aspettative dei cittadini. In realtà i cittadini, in particolare i familiari delle vittime di queste stragi, non sono stati neppure ascoltati, né dalle stesse commissioni parlamentari che stavano elaborando il provvedimento, né dallo stesso Capo dello Stato, il quale non ha neanche risposto al nostro appello.

Negli ultimi mesi, ha dato impulso alla nascita di un Coordinamento che riunisce i familiari delle vittime delle stragi cosiddette “di terrorismo” e “di mafia”. Ci racconti come è nata questa idea.

L’idea è nata proprio a causa del tentativo in atto da parte di questo governo di riscrivere la storia del nostro Paese, cancellando la responsabilità dei servizi e dell’eversione nera, parcellizzando lo studio delle stragi e banalizzandone le cause. Secondo quest’ottica, esse devono essere attribuite soltanto a quanti sono stati utilizzati come esecutori, escludendo da questi gli esecutori neofascisti. Inoltre, le ultime sentenze della magistratura hanno ancora di più allontanato la speranza di poter ottenere, nel corso della vita che mi resta, quella verità e quella giustizia per cui combatto da anni. Ho pensato allora che fosse necessario avere una voce comune, e quindi più forte e più incisiva, da parte delle associazioni dei familiari di vittime per quella che dovrebbe essere una esigenza di tutto il Paese – e che invece, troppo spesso, viene lasciata in carico soltanto a noi. 

Dato il contesto assai critico, che appello lancia alla politica e alla società civile?

Alla politica, sia di opposizione che di governo, non posso che lanciare l’appello di fare di tutto, ognuno nel proprio ruolo, per fare emergere la verità su queste stragi che hanno disseminato la storia d’Italia. Finché non emergeranno le verità e non ci sarà giustizia, il nostro Stato non potrà definirsi davvero democratico. Alla società civile posso dire di fare ognuno, per quanto piccola possa essere, la sua parte. È necessario non soltanto non essere complici, ma anche non essere indifferenti, non voltare la testa dall’altra parte, non dire «non è affar mio, sono gli altri, le autorità, a doverci pensare». Se riusciremo a farlo, questo Paese non avrà più bisogno di eroi. Che, in fin dei conti, sono soltanto uomini che hanno fatto fino all’ultimo il loro dovere e che sono stati costretti a diventare eroi, a morire come eroi, a causa anche dell’indifferenza di troppi.

Algeria, espulsi 15 diplomatici francesi

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L’Algeria ha espulso 15 diplomatici francesi. Di preciso, Algeri ha comunicato che i diplomatici francesi non erano dotati dei documenti necessari per accedere al Paese e ha denunciato la «ripetuta inosservanza delle procedure da parte francese». La Francia ha annunciato che risponderà alla decisione dell’Algeria definendola «ingiustificata». La notizia arriva sullo sfondo di un clima sempre più teso tra i due Paesi, inaugurato la scorsa estate, quando la Francia ha riconosciuto la sovranità del Marocco sulla regione marocchina del Sahara Occidentale, da anni controllata dai ribelli del Fronte Polisario, sostenuti dall’Algeria. Dopo un momento di alleggerimento delle tensioni, il mese scorso l’Algeria ha espulso altri 12 diplomatici francesi dal proprio territorio.

Ancora attacchi in Sudan: almeno 33 uccisi, il governo accusa gli Emirati Arabi

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Non si placano le violenze che da due anni infiammano il Sudan: ieri almeno 33 persone sono rimaste uccise in due attacchi che hanno colpito una prigione nella città di El-Obeid e la regione del Darfur. Il governo ha accusato dei raid il gruppo paramilitare Rsf, che contende il potere al presidente Abdel Fattah Abdelrahman Burhan. Le autorità denunciano da tempo l’ingerenza di attori stranieri interessati a destabilizzare il territorio per accaparrarsi le sue risorse. Tra questi vi sarebbero gli Emirati Arabi Uniti, con cui il governo sudanese ha annunciato pochi giorni fa il taglio di ogni rapporto diplomatico.

Oggi scioperano in tutta Italia i precari della ricerca dell’Università

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Oggi si ferma l’università pubblica, investita da uno sciopero nazionale che vede protagonisti migliaia di lavoratori precari del settore. La mobilitazione, indetta dalla FLC-CGIL e rapidamente sostenuta da numerose realtà associative, coinvolge una larga fascia del personale universitario. Infatti, il numero di addetti a tempo determinato, assegnisti e borsisti ha toccato quota 40 mila, a fronte di appena 53 mila docenti di ruolo. L’obiettivo dello sciopero è l’ampliamento degli organici e la relativa stretta alla precarietà. Come riportato in una nota del sindacato, si chiede poi la fine dei tagli al fondo ordinario di finanziamento delle università, che va a braccetto con il «contrasto di ogni politica di riarmo in questa stagione di ripresa dei conflitti internazionali».

Assegnisti, dottorandi, borsisti, specializzandi e ricercatori a tempo determinato, ma anche personale tecnico-amministrativo, docenti strutturati e associazioni studentesche, si uniscono in una mobilitazione che punta a denunciare la deriva di un sistema universitario sempre più povero di risorse, diritti e prospettive. La protesta si tiene in decine di città dello Stivale: da Roma a Milano, da Torino a Napoli, passando per Bologna, Pisa, Bari e Genova, sono stanno andando in scena cortei, presìdi e assemblee. «Contro le politiche sul precariato universitario, il definanziamento degli atenei e i tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) portati avanti dall’attuale Governo», recita la nota ufficiale della FLC CGIL, che chiede un’inversione di rotta radicale nelle politiche universitarie.

Tra le richieste centrali della mobilitazione, che evidenzia come l’università italiana si regga ormai sulle spalle di una forza lavoro temporanea, spesso esclusa da ogni forma di rappresentanza e tutela, vi sono un piano straordinario di stabilizzazioni, l’assunzione di almeno 40 mila unità — tra ricercatori in tenure-track, tecnologi e personale tecnico-amministrativo — e l’aumento di 5 miliardi di euro in cinque anni per rilanciare il sistema universitario pubblico. Una risposta strutturale, dunque, al progressivo svuotamento di risorse e tutele che ha colpito l’ambito della ricerca e quello della didattica. In parallelo, si chiede lo stop a ogni tentativo di reintrodurre surrettiziamente forme di lavoro precario, come il criticato “contratto di ricerca”. I due terzi dei precari sono legati a progetti PNRR e quindi se non si interviene «nel giro dei prossimi due anni ci sarà il licenziamento di migliaia e migliaia di persone, la loro espulsione dall’università», ha spiegato Luca Scacchi, responsabile docenza universitaria della FLC-CGIL.

Lo sciopero assume però un significato più ampio. Come sottolineano anche l’USB e l’organizzazione giovanile Cambiare Rotta, si tratta di un momento di convergenza tra la lotta contro la precarietà e quella contro l’orientamento bellico assunto dalle politiche europee e italiane. A fronte di un aumento delle spese militari e della crescente subordinazione della ricerca pubblica agli interessi dell’industria bellica, i fondi per università e ricerca vengono tagliati, esponendo il sistema accademico a un vero e proprio «oscurantismo», come affermato dall’USB. Lo scorso 20 febbraio, la ministra dell’Università Anna Maria Bernini ha annunciato alla Conferenza dei rettori lo stop alla discussione in Parlamento sul disegno di legge riguardante il precariato accademico. Da un lato una scelta necessaria: Flc-Cgil e Adi avevano infatti portato il caso all’attenzione della Commissione europea, denunciando che il testo rappresentava un arretramento rispetto alla riforma del 2022 legata al PNRR, e proseguire con l’iter legislativo e reintrodurre di fatto, con un nuovo nome, il vecchio assegno di ricerca cancellato nel 2022 avrebbe potuto compromettere l’accesso ai fondi europei; dall’altro lato, una mossa strategica: sospendere il ddl ha significato mettere pressione ai rettori, spingendoli a prendere posizione pubblicamente. A oggi, a fronte di oltre 24 mila assegnisti in scadenza, solo poche centinaia potranno accedere al nuovo contratto di ricerca introdotto dalla riforma del 2022.

A riprova del fatto che la mobilitazione si gioca su più fronti, solo poche settimane fa lavoratrici e lavoratori dell’università sono tornati a protestare contro il Bando MAECI e l’Accordo di Cooperazione tra Italia e Israele – in cui si prevedono progetti di ricerca congiunti negli ambiti della tecnologia del suolo, dell’acqua e dell’ottica di precisione -, chiedendone la sospensione per «rischio di violazione del diritto internazionale e umanitario». Dopo le mobilitazioni del 2024, una nuova lettera aperta è stata infatti inviata al Ministero degli Affari Esteri (MAECI) e della Cooperazione Internazionale e alla Conferenza dei Rettori delle Università italiane (CRUI), accompagnata da una raccolta firme che ha già superato le 1.750 adesioni. I firmatari denunciano il legame tra il sottofinanziamento della ricerca in Italia e i fondi destinati a Paesi in guerra, come Israele, accusato di violenze indiscriminate contro i palestinesi.

Uno studio aiuta a capire perché l’area dei Campi Flegrei è sismicamente diversa dalle altre

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Sotto i Campi Flegrei esiste uno strato di crosta terrestre molto più fragile della norma, e questo potrebbe essere la chiave per comprendere la particolare attività sismica della zona: è quanto emerge dal lavoro condotto dai ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) in collaborazione con l’Università di Grenoble Alpes e Università di Bologna, i quali hanno dettagliato i loro risultati all’interno di un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista AGU Advances. Secondo quanto scoperto, analisi di laboratorio e immagini tridimensionali ad alta risoluzione del sottosuolo mostrerebbero che tra i 3 e i 4 chilometri di profondità esiste uno strato che presenta una permeabilità e porosità superiori a quanto ipotizzato in precedenza, caratteristica che faciliterebbe l’accumulo e l’intrappolamento dei fluidi magmatici responsabili dei sollevamenti del suolo e della sismicità periodica dell’area. «Questi fluidi, intrappolati, aumentano progressivamente in volume e pressione, innescando deformazioni del suolo e attività sismica», spiega Lucia Pappalardo, coautrice e ricercatrice INGV.

I Campi Flegrei costituiscono una vasta caldera vulcanica situata nell’area metropolitana di Napoli. Si tratta di una delle aree vulcaniche più sorvegliate d’Europa, nota peraltro per il fenomeno del bradisismo — il periodico sollevamento e abbassamento del suolo — e per la sua lunga storia eruttiva. Nonostante negli ultimi decenni l’attività sismica e la deformazione del suolo abbiano suscitato diverse preoccupazioni, d’altra parte hanno anche acceso l’interesse scientifico verso le dinamiche profonde della zona. Per questo motivo, il team di scienziati ha deciso di indagare a riguardo utilizzando un pozzo geotermico profondo circa 3 chilometri per estrarre campioni rocciosi, combinando poi osservazioni dirette con simulazioni numeriche. Le immagini 3D del sottosuolo, poi, elaborate con tecniche avanzate, hanno permesso di analizzare le proprietà fisiche delle rocce e di ricostruire i meccanismi che regolano la circolazione dei fluidi e la possibile risalita del magma.

Secondo i risultati ottenuti dagli autori, intorno ai 2,5–2,7 chilometri di profondità si osserva una transizione cruciale: qui la crosta diventa più fragile, porosa e permeabile. «Al di sotto di questa soglia, la crosta appare più porosa e permeabile del previsto, e quindi meno resistente, favorendo l’accumulo di fluidi magmatici», spiegano gli autori, aggiungendo che, secondo le simulazioni, nelle epoche passate numerose piccole intrusioni di magma si sarebbero fermate proprio in quest’area, rafforzando la debolezza strutturale tra le rocce carbonatiche profonde e i tufi vulcanici superficiali. Si tratta di uno strato indebolito che, secondo i risultati, non solo funge da “trappola” per i fluidi magmatici profondi, ma potrebbe condizionare anche una futura fuoriuscita di magma, anche se non sempre tale meccanismo riesce a mantenerlo: se l’accumulo è rapido, potrebbe non raffreddarsi abbastanza e risalire, come accadde nel 1538, durante l’ultima eruzione che portò alla formazione del Monte Nuovo. In altri casi invece, spiegano gli autori, il magma potrebbe arrivare direttamente dalla profondità — a circa 7–8 km — superando la zona fragile. «Questa ricerca non influenza direttamente le nostre previsioni a breve termine, ma è un tassello fondamentale per comprendere il comportamento del vulcano e migliorare la nostra capacità di monitorarlo. Solo con una conoscenza sempre più dettagliata del sistema vulcanico e della sua dinamica possiamo sperare di anticipare segnali critici e ridurre i rischi per le persone», conclude Mauro Antonio Di Vito, Direttore dell’Osservatorio Vesuviano dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.

Congo orientale, almeno 100 morti dopo inondazioni

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Oltre 100 persone sono morte a causa dell’alluvione che negli scorsi giorni ha colpito un villaggio vicino alle rive del lago Tanganica, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC). Lo hanno riferito funzionari locali. Le inondazioni si sono verificate tra giovedì e venerdì, quando piogge torrenziali e forti venti hanno causato l’esondazione del fiume Kasaba. Le autorità locali hanno affermato che l’area colpita era accessibile solo tramite il lago Tanganica e non era coperta dalla rete di telefonia mobile, il che potrebbe ritardare gli sforzi di soccorso umanitario.

Stati Uniti e Cina annunciano il raggiungimento di un primo accordo sui dazi

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Stati Uniti e Cina hanno annunciato stamane la stipula di un accordo storico per la riduzione reciproca dei dazi doganali, segnando un’importante svolta nelle relazioni commerciali tra le due maggiori economie mondiali in un momento assai critico. L’intesa, raggiunta dopo intensi negoziati a Ginevra, prevede che, da mercoledì 14 maggio, Washington e Pechino sospenderanno per 90 giorni una parte dei loro dazi doganali punitivi. Secondo quanto confermato dal Segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent, le tariffe saranno ridotte di oltre 100 punti percentuali, portando l’aliquota di base al 10%. Una mossa che rappresenta un’inversione di rotta rispetto all’approccio aggressivo adottato in precedenza dall’amministrazione Trump, che aveva innalzato i dazi fino al 145%, provocando ritorsioni da parte di Pechino.

Le informazioni sull’effettiva portata dell’accordo sono ancora lacunose, ma ciò che sappiamo con certezza è contenuto in una dichiarazione congiunta rilasciata alla stampa, in cui si legge che il governo della Repubblica Popolare Cinese e quello statunitense si impegnano ad adottare una serie di azioni «entro il 14 maggio». In primis, gli USA «modificheranno l’applicazione dell’aliquota aggiuntiva ad valorem sui dazi doganali di origine cinese (inclusi quelli delle regioni speciali di Hong Kong e Macao), sospendendo 24 punti percentuali di tale aliquota per un periodo iniziale di 90 giorni, mantenendo al contempo la restante aliquota ad valorem del 10% su tali articoli». Contestualmente, la Cina «modificherà l’applicazione dell’aliquota aggiuntiva ad valorem sui dazi doganali sugli articoli degli Stati Uniti», sospendendo «24 punti percentuali di tale aliquota per un periodo iniziale di 90 giorni e mantenendo al contempo la restante aliquota aggiuntiva ad valorem del 10% su tali articoli», adottando inoltre «tutte le misure amministrative necessarie per sospendere o rimuovere le contromisure non tariffarie adottate nei confronti degli Stati Uniti dal 2 aprile 2025». Nel testo si scrive che, successivamente, le parti «istituiranno un meccanismo per proseguire le discussioni sulle relazioni economiche e commerciali», che «potranno svolgersi alternativamente in Cina e negli Stati Uniti, o in un Paese terzo, previo accordo tra le Parti». Se necessario, inoltre, USA e Cina «potranno condurre consultazioni a livello operativo su questioni economiche e commerciali pertinenti».

L’annuncio ha avuto un impatto immediato sui mercati finanziari, con i futures statunitensi in rialzo di oltre il 2%. L’indice Hang Seng di Hong Kong è salito di quasi il 3% e i benchmark in Germania e Francia sono entrambi aumentati dello 0,7%. Intervenuto dopo i colloqui con i funzionari cinesi a Ginevra, il Segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent ha affermato che «entrambi i Paesi hanno rappresentato molto bene i loro interessi nazionali» e aggiungendo che le parti in causa hanno «interesse a un commercio equilibrato», con gli Stati Uniti che «continueranno a muoversi in quella direzione». «Ci auguriamo che gli Stati Uniti continuino a collaborare con la Cina per incontrarsi a metà strada sulla base di questo incontro, correggere radicalmente la pratica errata degli aumenti tariffari unilaterali, rafforzare costantemente la cooperazione reciprocamente vantaggiosa, mantenere uno sviluppo sano, stabile e sostenibile delle relazioni economiche e commerciali tra Cina e Stati Uniti e iniettare congiuntamente maggiore certezza e stabilità nell’economia mondiale», ha dichiarato invece un portavoce del ministero del Commercio cinese.

In questa fase, gli Stati Uniti appaiono dunque intenzionati a portare avanti trattative mirate con alcuni dei Paesi che, almeno a parole, erano stati colpiti dai dazi annunciati da Trump. Negli scorsi giorni, gli USA hanno siglato un intesa con il Regno Unito che ha azzerato i dazi fissati al 25% su acciaio e alluminio, mentre quelli sulle auto sono stati ridotti al 10% (tariffa base che rimane per tutti i Paesi). «Grazie alla nostra lunga storia e alla nostra fedeltà reciproca, è un grande onore avere il Regno Unito come nostro PRIMO annuncio», ha scritto lo scorso 8 maggio Donald Trump sul suo social Truth. «Seguiranno molti altri accordi, attualmente in fase avanzata di negoziazione!», ha aggiunto.

La svolta storica dei curdi è ufficiale: il PKK si scioglie e abbandona la lotta armata

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Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha annunciato lo scioglimento e la fine della lotta armata. La notizia arriva a seguito della dichiarazione finale del 12° congresso del partito, convocato dallo storico leader Abdullah Öcalan con una lettera dal carcere. La soluzione raggiunta dal partito ricalca quanto richiesto dallo stesso Öcalan: superare la retorica «ultranazionalista» di costituire uno Stato curdo in favore di una riorganizzazione «democratica» in cui curdi e turchi possano vivere sotto la stessa bandiera. Con la dichiarazione giunge così a compimento il più grande tentativo di riconciliazione mai avviato tra Turchia e PKK, in quella che è una delle più longeve lotte per la liberazione degli ultimi decenni.

Il Congresso del PKK si è tenuto dal 5 al 7 maggio, in due diverse sedi. Agli incontri hanno partecipato 232 delegati, che hanno discusso temi quali «la leadership, i martiri, i veterani, l’esistenza organizzativa del PKK e il metodo per porre fine alla lotta armata e costruire una società democratica». Alla chiusura del congresso, sono stati preannunciati lo scioglimento e l’abbandono delle armi da parte del PKK, confermati oggi, lunedì 12 maggio, con la pubblicazione della dichiarazione ufficiale. Con essa, il partito ripercorre la propria storia di lotta sin dalle origini, spiegando come, a partire dalla nuova apertura dei dialoghi, sia emersa l’esigenza di superare la prospettiva tradizionale del nazionalismo curdo, puntando piuttosto a realizzarne i principi all’interno della stessa Turchia. «Il PKK ha rotto la politica di negazione e anti-demolizione, ha portato il problema curdo verso una soluzione e ha completato la sua missione storica», si legge nella dichiarazione.

Con lo scioglimento del partito, il popolo curdo «costruirà la propria organizzazione in tutti i campi sotto la guida delle donne e dei giovani, si organizzerà con le proprie lingue, le proprie identità e le proprie culture su basi sufficienti, potrà difendersi dagli attacchi e costruire una vita democratica e comunitaria con lo spirito di mobilitazione», prosegue la dichiarazione. Non sono ancora chiare le modalità con cui verranno portati avanti questi obiettivi, ma perché ciò avvenga occorre che «il leader Apo [ndr. nome con cui viene chiamato Öcalan] gestisca e diriga il processo» e che vengano assicurati «il riconoscimento dei diritti della politica democratica e una sana garanzia legale» al popolo curdo. Per tale motivo, l’Assemblea Nazionale della Turchia ricopre un ruolo cruciale di «responsabilità storica», e con essa tutte le istituzioni civili, politiche e religiose, verso cui il PKK ha lanciato un appello. Su questa stessa base, il PKK ha esteso l’appello anche ai movimenti internazionali.

L’annuncio del PKK arriva al termine di un processo di riapertura dei dialoghi iniziato nella fine del 2024. Tutto è partito con un’apertura da parte di Devlet Bahçeli, leader del Partito del Movimento Nazionalista, il più grande alleato esterno del presidente turco. Bahçeli ha chiesto a Erdoğan di aprire un colloquio con Öcalan per porre fine al conflitto, che durava da oltre trent’anni, suggerendo la possibilità di liberare il fondatore del PKK in cambio di un suo eventuale ordine di deporre le armi. A dicembre, è stato ufficialmente rotto l’isolamento del leader del PKK, che ha ricevuto una visita di due deputati di DEM, il principale partito curdo del Paese. I colloqui si sono così fatti sempre più serrati, fino a quanto il 27 febbraio, dal carcere, Öcalan ha lanciato uno storico annuncio in cui ha chiesto a tutte le firme curde di abbandonare le armi e indire un congresso per deliberare uno scioglimento. Poco dopo, il PKK ha annunciato un cessate il fuoco temporaneo e organizzato il congresso richiesto da Öcalan.

Il conflitto tra Turchia e popolo curdo va avanti da 40 anni e ha causato circa 55.000 morti. Esso ha ampie ripercussioni sull’intera regione mediorientale, e in particolare sulla Siria, dove dodici anni fa è iniziata la rivoluzione del Rojava con la rivolta della città di Kobane. Il Kurdistan è infatti una regione montuosa compresa tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. I curdi costituiscono il più vasto popolo senza nazione al mondo (sono circa 30 milioni) e non sono riconosciuti dalla Turchia, che fino agli anni ’90 li chiamava “turchi di montagna”.

Gaza, raid israeliani causano almeno 29 morti in 24 ore

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Nelle ultime 24 ore, sono almeno 29 i palestinesi rimasti uccisi negli attacchi israeliani effettuati a Gaza, mentre altri 94 sono rimasti feriti. Lo ha attestato il Ministero della Salute dell’enclave, che ha aggiunto che nei giorni scorsi sono stati recuperati anche quattro corpi di persone uccise in precedenti raid. Secondo quanto affermato dal ministero in una dichiarazione su Telegram, i massacri israeliani nella Striscia hanno causato la morte di 52.862 persone e il ferimento di altre 119.648 dal 7 ottobre 2023. Da quando Israele ha violato il cessate il fuoco il 18 marzo di quest’anno, almeno 2.749 palestinesi sono stati uccisi e altri 7.607 sono rimasti feriti..

Giovedì si svolgeranno i primi colloqui di pace diretti tra Russia e Ucraina

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Brusca accelerata diplomatica nel percorso per cercare di porre fine alla guerra in Ucraina. Sabato, il presidente ucraino Zelensky aveva proposto a Putin un cessate il fuoco senza condizioni della durata di 30 giorni a partire da oggi, lunedì 12 maggio. Putin ha risposto ieri con una controproposta: un incontro diretto da tenersi giovedì prossimo a Istanbul. Kiev ha reiterato la propria richiesta di iniziare la tregua oggi, ma, dopo le esortazioni di Trump, ha accettato: «Sarò in Turchia questo giovedì 15 maggio e mi aspetto che anche Putin venga in Turchia. Personalmente», ha scritto Zelensky in un post su X. Malgrado le tensioni inziali, insomma, il colloquio a Istanbul dovrebbe tenersi, anche se ancora si attendono le risposte di Trump e Putin.

La proposta di tregua di Zelensky è arrivata sabato 10 maggio dopo un incontro tenutosi a Kiev tra il presidente ucraino e i leader di Francia, Germania, Polonia e Regno Unito. In seguito al vertice, i rappresentanti dei vari Stati hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui annunciano la loro proposta per un cessate il fuoco «pieno e incondizionato a partire da oggi». Nella dichiarazione, i leader suggeriscono che «qualora la Russia rifiutasse un cessate il fuoco completo e incondizionato, dovrebbero essere applicate sanzioni più severe ai suoi settori bancario ed energetico, con particolare attenzione ai combustibili fossili, al petrolio e alla flotta ombra», e annunciano di avere già concordato il 17° pacchetto di sanzioni dell’UE contro la Russia, da coordinare con le sanzioni imposte dal Regno Unito e dalla Norvegia, nonché dagli «Stati Uniti». Alla prima proposta di Kiev, è seguita quella di Putin, che ha avanzato l’ipotesi di riesumare i colloqui diretti a Istanbul «senza alcuna precondizione». «La Russia è pronta a condurre negoziati seri con l’Ucraina: l’obiettivo è eliminare le cause profonde del conflitto», si legge in un comunicato riportato dall’agenzia di stampa statale russa TASS. «Putin non ha escluso l’ipotesi di un accordo di cessate il fuoco durante i negoziati con Kiev».

Il presidente turco Erdogan ha accettato di buon grado la proposta di Putin, e ha invitato le parti a riprendere i colloqui «da dove si erano interrotti» nel 2022. In un primo momento, dopo la controproposta russa, l’Ucraina sembrava volere accettare la ripresa dei colloqui solo a condizione che prima venisse implementato il cessate il fuoco di 30 giorni. Questa richiesta era inizialmente sostenuta dall’inviato speciale degli USA per la questione Ucraina, Keith Kellogg, ma dopo una dichiarazione di Trump sembrano essere cambiate le cose: «L’Ucraina dovrebbe accettare immediatamente. Almeno saranno in grado di determinare se un accordo è possibile o meno, e se non lo è, i leader europei e gli Stati Uniti sapranno a che punto è la situazione e potranno procedere di conseguenza», si legge nel post di Trump. Qualche ora dopo, è arrivata la risposta affermativa di Zelensky a Putin. La Russia non si è ancora espressa sulla possibilità di istituire un cessate il fuoco temporaneo a partire da oggi, ma per come stanno le cose ora sembra che i colloqui si dovrebbero svolgere a prescindere dall’entrata in vigore della tregua. Resta ignoto anche chi prenderà parte ai colloqui.