L’ex dittatore guineano Moussa Dadis Camara, condannato a 20 anni di carcere per le sue responsabilità dei massacri del settembre 2009 in Guinea, è stato graziato per «motivi di salute» dal capo della giunta della Guinea, sulla base di un decreto letto dal generale Amara Camara, portavoce presidenziale. Dopo un processo durato quasi due anni, nell’agosto 2024 Moussa Dadis Camara è stato condannato per crimini contro l’umanità. Il 28 settembre 2009, come verificato dall’ONU, almeno 156 persone furono uccise e centinaia di altre rimasero ferite durante la repressione di una manifestazione dell’opposizione in uno stadio di Conakry e dintorni, mentre almeno 109 donne furono violentate.
La responsabilità degli intellettuali
«Quanto a coloro che si sono limitati a guardare, nel silenzio e nell’apatia, il lento svolgersi di questa catastrofe nel corso degli ultimi anni, in quale pagina della storia meritano di essere inseriti?». È il 1966, queste sono parole di Noam A. Chomsky che, in apertura del suo celebre saggio The Responsibility of Intellectuals, scrive sulla guerra in Vietnam ; e in chiusura: «La storia recente sta a dimostrare che a noi americani poco importa quale sia la forma di governo che un paese ha, a patto che sia ‘aperto’ nel senso che diamo a questo termine, che sia cioè suscettibile di penetrazione economica e di controllo politico. Se per ottenere questo in Vietnam dobbiamo mettere in atto un genocidio, ebbene, sarà il prezzo che ci toccherà pagare in difesa della libertà e dei diritti dell’uomo».
Queste spietate considerazioni, con i debiti distinguo, rischiano di venire applicate con successo a quanto sta accadendo in Palestina, di cui siamo inevitabilmente complici, dal momento che facciamo parte di un sistema di alleanze, un sistema tuttavia che mostra un anacronismo di base perché perpetua vecchie metodologie e orizzonti superati dai fatti. Dal momento, ad esempio, che l’Urss non esiste più, perché persistono patti militari contro l’attuale Russia, persistono forse perché il governo russo non è sufficientemente democratico? È fuori di dubbio che la pace in Ucraina vada ricercata con ogni mezzo anche perché dovrà servire a porre fine a una situazione piena di rischi a largo raggio.
E ora che i cinesi, attraverso i loro progressi interni, stanno forse dimostrando agli asiatici che «i loro metodi possono essere migliori e più efficaci di quelli democratici», come ci comportiamo? così paventava Walter Rostow, analista della politica statunitense in Asia, nel lontano 1955, con parole riprese da Chomsky. E dunque, che cosa significa oggi aprire alla Cina e chiudere alla Russia? Che cosa ne dicono i nostri responsabili strategici, soprattutto nel campo dell’economia, come è logicamente sostenibile una tale contraddizione? Ovviamente non basterà sottolineare la gestione del governo russo oppressiva contro ogni forma di opposizione, così da fare apparire l’Europa una specie di succursale degli Stati Uniti che difende la libertà in Occidente.
Come reagiamo noi intellettuali all’idea di doverci rendere nemica la Russia, in quanto paese, mettendo in campo la vetusta concezione, un tempo valida, di un’ Urss che voleva dilagare nell’Europa occidentale? Perché non insistiamo, proprio in quanto europei, nella visione di una Russia che parzialmente fa anch’essa parte dell’Europa? Perché non ne facciamo seguire dei progetti di cooperazione? Perché abbiamo vanificato le prospettive di nuovi orizzonti che si potevano aprire dopo la caduta dell’Urss? Mikhail Gorbaciov scriveva nel 1987 (Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo) che era necessario il dialogo, che bisognava «rafforzare la fiducia tra le nazioni». Affermava, probabilmente anche con quella speciale astuzia sovietica nel voler apparire benevoli, che «il mondo non è più quello di un tempo e i suoi problemi nuovi non si possono affrontare sulla base di un pensiero mutuato dai secoli precedenti… Siamo passeggeri a bordo della stessa nave, la Terra, e non dobbiamo permettere che faccia naufragio. Non ci sarà una seconda Arca di Noè». E ancora:«noi …ripudiamo le aspirazioni egemoniche e le rivendicazioni globali degli Stati Uniti… Tuttavia rispettiamo il diritto del popolo degli Stati Uniti, come di ogni altro popolo, di vivere secondo le sue leggi, le sue tradizioni e i suoi gusti».
Non emergono attualmente reali proposte e iniziative dal campo intellettuale o forse non sono abbastanza prese in considerazione. Fatta eccezione dei primi anni del governo Berlusconi, dove alcuni professori rivestivano ruoli ministeriali e di rappresentanza parlamentare, bilanciando la innegabile egemonia della sinistra, il ruolo propositivo è venuto a mancare, anzi è venuto a mancare, paradossalmente, anche quel sostegno acritico denunciato da Chomsky, per cui «gli intellettuali hanno perso più o meno interesse alla trasformazione totale del nostro modo di vivere». Gli intellettuali non contano più nulla. Le rare eccezioni (ad esempio, quella lucida di Massimo Cacciari) non sono in grado di suggerire forme di mobilitazione, di dissenso efficace, forse sono ammesse perché autorevoli, e anche perché rispondenti a un quadro predisposto.
L’apporto degli intellettuali nelle attività di governo e di progettazione sembra recentemente essersi ancora più rarefatto e non riesce in ogni caso a costruire alternative credibili (e decenti) a un sistema consolidato di pensiero. L’ignoranza dilaga in chi ci governa assumendo quasi forme di provocazione. Eppure «c’è effettivamente una sorta di consenso fra gli intellettuali che hanno conseguito potere e benessere economico», scriveva Chomsky «ad accettare la società così com’è facendosi paladini dei suoi valori». E di fatto questo accade anche per coloro che sono fortemente critici, non foss’altro perché si avvalgono dei media allineati, ricevendo consenso dal loro modo di operare.
Scriveva nel 1936 Denis de Rougemont, grande umanista svizzero, primo presidente del Consiglio d’Europa, nel suo strepitoso Diario di un intellettuale disoccupato (trad.it. Fazi editore, 1997), a tale proposito: il ruolo degli intellettuali «non sarebbe piuttosto quello di conoscere un po’ meglio della ‘gente’ ciò di cui la gente ha bisogno, quel che domanda realmente? Perché la gente non domanda quel che ha l’aria di domandare, e che ci si affretta a offrirle a buon mercato. In realtà si esprime male, tradisce il proprio pensiero, i propri desideri, non osa parlare, non ha formule per confessare il malessere, per domandare i ‘rimedi’ che ci vorrebbero. Non le è stato insegnato. Si è preferito prenderla in giro. La si è presa per quello che ha l’aria di essere…Come se il fine dei fini fosse quello di prendere in parola dei pover’uomini preventivamente abbrutiti dalla scuola, dalla stampa, dai partiti e dal cinema».
Una visione pessimistica, certamente, che tuttavia va tenuta presente se, come suggeriva G.K. Chesterton (1908),«in qualche modo bisogna trovare la maniera di amare il mondo senza fidarsene».
[di Gian Paolo Caprettini]
Ponte sullo Stretto, iter fermo: senza deroga UE, tempi più lunghi
L’iter per l’approvazione del Ponte sullo Stretto è in stallo. Nonostante gli annunci del Ministero delle Infrastrutture, il progetto non ha ancora ottenuto l’autorizzazione ambientale e non può essere approvato dal Cipess. Il problema principale riguarda tre siti di interesse comunitario, per cui le compensazioni ambientali previste sono insufficienti: serve una deroga della Commissione Europea, che richiede una risposta formale, allungando i tempi. Dopo un recente vertice, non è stato annunciato l’invio del progetto al Cipess. L’amministratore delegato di Stretto di Messina, Pietro Ciucci, ha confermato che i lavori potrebbero iniziare solo nel 2026, partendo con opere complementari.
Birmania, sono già oltre mille le vittime del terremoto, migliaia i dispersi
Sarebbero già oltre mille le vittime del violento terremoto di magnitudo 7.7 che ha scosso ieri la Birmania e che continua ancora oggi, con diverse violente scosse di assestamento in corso. Tuttavia, sono ancora migliaia le persone intrappolate sotto le macerie dei palazzi crollati, motivo per il quale si teme che il bilancio finale delle vittime possa essere di molto superiore. Inoltre, sono molte le persone che vivono in luoghi remoti del Paese, dove la comunicazione è normalmente difficile e dove si teme che i morti possano essere numerosi. In un Paese già devastato da una lunga guerra civile, i danni potrebbero essere incalcolabili.
L’epicentro del sisma si trova a 10 km di profondità nei pressi della città di Sagaing, a pochi chilometri da Mandalay, la seconda città più grande del Paese. La scossa, verificatasi poco prima dell’una del pomeriggio, è stata talmente potente da essere stata avvertita con forza anche a Bangkok, in Thailandia, a mille chilometri circa di distanza. Qui, il crollo di un grattacielo in costruzione ha causato la morte di almeno 10 persone, anche se sono almeno ancora un centinaio gli operai dispersi. La scossa è stata inoltre avvertita anche in Cina, Cambogia e in India.
Secondo il Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS), a causare il sisma sarebbe stato lo sfregamento di due placche tettoniche, quella indiana e quella eurasiatica. Secondo le previsioni del Servizio, le scosse di assestamento potrebbero continuare per tutta la prossima settimana con magnitudo che potrebbe arrivare a 5, causando quindi potenzialmente ulteriori danni gravi. Le vittime potenziali del sisma di ieri, stima l’USGS, potrebbero superare le 10 mila unità, con danni economici che potrebbero arrivare a superare il PIL dell’intera Birmania.
In queste ore stanno cominciando ad arrivare i primi aiuti internazionali, in primis da Russia, India, Malesia e Singapore, mentre la Corea del Sud ha annunciato la mobilitazione di due milioni di dollari di fondi tramite varie organizzazioni internazionali. Il presidente Donald Trump ha inoltre dichiarato che gli Stati Uniti “aiuteranno” il Paese.
[di Valeria Casolaro]
Livorno, assalto a portavalori: bottino di 4 milioni
Nella serata di ieri una banda armata ha assaltato un portavalori sull’Aurelia a San Vincenzo (Livorno), ottenendo un bottino di circa 4 milioni di euro. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, la banda criminale, composta da una decina di elementi, ha fermato il portavalori con un furgone porta animali, sparando colpi in aria per fare scappare i vigilantes e facendo saltare il portavalori con l’esplosivo. I componenti della banda si sono dunque impossessati del denaro, per poi fuggire a bordo di tre auto. Nessuno è rimasto ferito, ma le persone che hanno assistito parlano di una rapina «da film». A sparire sarebbero stati i soldi delle pensioni.
Altri tre Comuni italiani sono stati sciolti per mafia
Su proposta del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il Consiglio dei Ministri ha deliberato ieri lo scioglimento dei consigli comunali di Tremestieri Etneo (Catania), San Luca (Reggio Calabria) e Poggiomarino (Napoli), «in considerazione degli accertati condizionamenti da parte della criminalità organizzata». Pochi giorni fa era arrivata la condanna dell’ex sindaco di Tremestieri Etneo Santi Rando a otto anni per voto di scambio politico-mafioso nelle amministrative 2015. San Luca, già sciolto per mafia altre due volte in 25 anni, aveva visto l’assenza di candidati alle elezioni comunali di giugno 2023. A Poggiomarino, lo scorso ottobre era stato arrestato, tra gli altri, l’allora sindaco Maurizio Falanga, che avrebbe preso parte a un patto politico-mafioso. Uno spaccato che non fa che rendere evidente come – in particolare nelle regioni a tradizionale insediamento mafioso – la criminalità organizzata continui a tenere in scacco grosse porzioni del territorio, influendo pesantemente sul suo scacchiere politico e amministrativo.
Nello specifico, il Comune di Tremestieri Etneo è stato sciolto per mafia dopo la condanna appena rimediata in primo grado, col rito abbreviato, dall’ex sindaco Santi Rando per voto di scambio. Insieme a lui è stato condannato a sette anni e due mesi Pietro Alfio Cosentino, accusato di concorso esterno e voto di scambio-politico mafioso e inquadrato dai pm come il collegamento tra politica e Cosa Nostra. È cognato del boss Vito Romeo, cui sono stati inflitti sei anni. Condannato anche Francesco Santapaola, cugino di secondo grado dello storico capomafia Nitto. Tra le altre condanne, spiccano anche quelle stabilite per i carabinieri Antonio Battiato e Antonio Cunsolo (quattro anni e quattro mesi di reclusione per ciascuno). A San Luca, comune sciolto per mafia per ben tre volte dal 2000 ad oggi, la situazione si è mostrata in tutta la sua criticità quando, alle elezioni del giugno 2024, nessuno si presentò come candidato sindaco. Lo scioglimento del consiglio comunale sarebbe motivato da presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’amministrazione locale, con le indagini della commissione d’accesso agli atti che avrebbero evidenziato come il potere della criminalità organizzata abbia compromesso il buon andamento dell’azione dell’amministrazione comunale del sindaco uscente Bruno Bartolo. Quest’ultimo, eletto nel 2019 dopo una fase in cui il Comune era stato commissariato ancora per mafia, aveva deciso di non riproporre la sua candidatura, negando però che vi fosse stata alcuna pressione o condizionamento da parte della ‘ndrangheta. La notizia dello scioglimento per infiltrazioni di Poggiomarino è invece arrivata proprio mentre andava in scena l’udienza del processo che vede alla sbarra l’ex sindaco del comune napoletano, Maurizio Falanga, per i suoi presunti legami con la Camorra. Insieme a lui sono imputati il suo vice Luigi Belcuore e l’imprenditore Franco Carillo, ritenuto l’intermediario del patto politico-mafioso con il boss Rosario Giugliano, che si sarebbe giocato sulla promessa di affidamenti di appalti pubblici in cambio di sostegno elettorale. L’inchiesta della Dda che ha poi portato all’apertura del processo è nata dalle dichiarazioni di un ex boss pentito, che ha parlato agli inquirenti degli intrecci mafia-politica dietro alla competizione elettorale.
Secondo i dati più recenti, fino alla fine del 2024 sono stati 386 i consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose (25 dei quali annullati a seguito di ricorso), cui ovviamente vanno aggiunti gli ultimi scioglimenti. A questi occorre inoltre sommare quelli di 7 aziende ospedaliere, cinque in Calabria e due in Campania. Tracciando un bilancio all’interno di un articolato dossier, nel novembre del 2023 Avviso Pubblico aveva rilevato come le infiltrazioni nei Comuni, «lungi dal costituire un dato episodico», rappresentano un «dispositivo strutturale dei clan», capaci di ottenere «occasioni strategiche di radicamento territoriale e di arricchimento». In particolare, l’associazione aveva evidenziato che, sebbene «non manchino pressioni, minacce e intimidazioni sulle amministrazioni o durante il delicato momento delle campagne elettorali», la strategia privilegiata dai clan «è quella utilitaristica», che li spinge «a sfruttare ogni varco e ogni relazione possibile, anche con l’imprenditoria». Proprio per questo motivo, nonostante fino a oggi il 95% degli scioglimenti si concentri in quattro regioni del Sud – Calabria, Campania, Sicilia e Puglia – risultano ormai in crescita esponenziale anche gli scioglimenti di Enti Locali nel territorio del Nord e del Centro Italia, il cui retroterra economico si presenta estremamente funzionale agli investimenti illegali delle mafie.
[di Stefano Baudino]
Scarichi non depurati nell’ambiente: Val d’Aosta e Sicilia costano una maxi multa all’Italia
L’Italia dovrà pagare una multa di 10 milioni di euro, più una penalità di 13,7 milioni ogni sei mesi di ritardo nell’adeguarsi alla direttiva europea sul trattamento delle acque reflue urbane. La sanzione, emessa dalla Corte di giustizia dell’UE, deriva da una violazione accertata già nel 2014 e mai risolta. Nonostante i progressi, persistono infatti gravi irregolarità negli agglomerati di Castellammare del Golfo, Cinisi, Terrasini e Courmayeur, dove lo scarico non trattato delle acque reflue danneggia l’ambiente. L’UE, dopo anni di richiami, ha perso la pazienza, imponendo ora misure più severe per garantire il rispetto delle norme.
Questa sanzione non è un fulmine a ciel sereno: il caso affonda le radici in una lunga storia di inadempienze. Già nell’aprile del 2014, la Corte aveva stabilito che l’Italia non aveva rispettato gli obblighi derivanti dalla direttiva comunitaria. All’epoca, erano stati individuati ben 41 agglomerati urbani in cui le acque reflue non venivano adeguatamente raccolte e trattate. Da allora, il numero di località non conformi si è ridotto, ma quattro di esse – Castellammare del Golfo, Cinisi, Terrasini in Sicilia e Courmayeur in Valle d’Aosta – continuano a scaricare i propri reflui in aree sensibili, continuando a provocare un grave danno ambientale. L’inerzia italiana ha portato la Commissione Europea a deferire nuovamente il Paese nel giugno del 2023, poiché, dopo oltre vent’anni dalla scadenza del termine per il recepimento della direttiva e nove anni dopo la prima condanna, le irregolarità non erano state sanate. La nuova sentenza della Corte UE, pronunciata il 27 marzo, ha certificato la persistente inadempienza, determinando così l’imposizione della maxi-multa.
Nello specifico, i giudici di Lussemburgo hanno attestato nella loro pronuncia che l’assenza di trattamento delle acque reflue urbane «costituisce un danno all’ambiente e deve essere considerata come particolarmente grave». Nonostante esso risulti diminuito nel tempo «grazie alla riduzione significativa del numero di agglomerati» non a norma, passato dai 41 contestati nel 2014 a quattro, secondo la corte persiste «un pregiudizio all’ambiente», che risulta «tanto più grave se si considera che i quattro agglomerati non conformi scaricano le loro acque reflue in aree sensibili». Le sanzioni imposte sono il risultato della valutazione di tre fattori principali: la gravità dell’infrazione, la sua durata e la capacità finanziaria dello Stato membro. Nonostante i progressi compiuti, il ritardo accumulato è stato giudicato eccessivo. La multa semestrale da 13,7 milioni di euro non avrà effetto retroattivo, ma si applicherà a partire dalla data della sentenza e verrà riscossa automaticamente fino a quando l’Italia non avrà completato le misure necessarie per conformarsi alla direttiva.
Per acque reflue urbane si intende l’insieme delle acque di scarto domestiche e industriali convogliate in reti fognarie a partire da un agglomerato urbano. Le prime provengono da insediamenti di tipo residenziale e sono costituite prevalentemente dai “rifiuti” del metabolismo umano e delle attività domestiche. Le seconde variano in funzione della tipologia di attività industriale condotta in un dato stabilimento e possono essere classificate come “pericolose” o “non pericolose” per l’ambiente. Pertanto, tali acque di scarto, che certamente non possono essere reimmesse nell’ambiente tal quali, devono essere sottoposte a dei rigorosi trattamenti atti a depurarle. Nel 2021, l’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) aveva reso noti dati che sottolineavano quanto la quota di acque reflue urbane raccolte e trattate in linea con gli standard dell’UE fosse in aumento in tutta l’Unione, con oltre il 90% delle acque reflue urbane raccolto e trattato in conformità alla relativa direttiva comunitaria. Con circa il 56% delle acque reflue trattate in conformità con la direttiva UE, il nostro Paese si posizionava poco sopra i peggiori della classe. Oggi ci troviamo di fronte a una situazione in progressivo miglioramento, ma che vede ancora la sussistenza di gravi irregolarità. Su cui l’UE, evidentemente, non vuole più soprassedere.
[di Stefano Baudino]
Israele bombarda Beirut e uccide 22 persone a Gaza
Nella giornata di oggi, l’esercito israeliano ha colpito Beirut per la prima volta da quando, a fine novembre, è entrato in vigore il cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah. L’agenzia di stampa nazionale libanese ha affermato che «gli aerei da guerra israeliani hanno colpito il quartiere Hadath, nella periferia meridionale di Beirut», riferendosi a un’area densamente popolata che ospita edifici residenziali e scuole. Nel frattempo, proseguono i massicci raid israeliani su Gaza e aumenta il bilancio delle vittime: 22 persone sono state uccise questa notte a Gaza City e Khan Younis, tra cui donne e bambini.
I dazi americani ancora non ci sono, ma stanno già bloccando le esportazioni italiane
I dazi annunciati dal presidente statunitense Donald Trump sugli alcolici europei non sono ancora entrati in vigore, ma in Italia si registrano già conseguenze rilevanti per l’economia e in particolare per le aziende del settore. Da circa una settimana, infatti, le esportazioni di alcolici verso gli Stati Uniti sono letteralmente bloccate, con migliaia di bottiglie ferme nei porti e nelle cantine della Penisola, senza sapere se e quando le spedizioni riprenderanno. Se non verranno posticipati, i dazi annunciati dal capo della Casa Bianca sugli alcolici europei dovrebbero entrare in vigore il prossimo 2 aprile, cosa che ha messo in massima allerta gli importatori statunitensi, i quali hanno deciso di cancellare tutti gli ordini, nel timore di dover pagare il 200% dei dazi su ogni bottiglia: come ha spiegato Sandro Sartor, presidente e amministratore delegato dell’azienda vinicola toscana Ruffino, se una nave (il vino viene esportato solo via mare) partisse in questi giorni da Livorno, arriverebbe negli USA dopo la metà di aprile, con i dazi probabilmente già in vigore. Il presidente di Unione italiana vini (Uiv), Lamberto Frescobaldi, ha spiegato, invece, che «gli importatori statunitensi di vino non sono in grado di fare piani aziendali non conoscendo le condizioni di mercato da qui al brevissimo termine» e questa situazione ha creato una «fase di stallo». Le associazioni di categoria hanno già chiesto l’intervento del governo nella speranza che possa cerare di rimuovere i dazi, evitando così un impatto considerevole sui produttori italiani. Secondo i dati dell’Unione italiana vini, nel 2024 il 24% dei vini italiani esportati era diretto negli USA per un valore di 1,93 miliardi di euro.
Dopo che l’amministrazione Trump, lo scorso 12 marzo, aveva imposto tariffe al 25% su acciaio e alluminio provenienti dall’UE, l’esecutivo comunitario aveva risposto con dazi di ritorsione su vari prodotti statunitensi dal valore complessivo di 26 miliardi di euro l’anno. La decisione di Bruxelles, a sua volta, ha spinto Trump a imporre tasse sui prodotti vinicoli europei allargando la guerra commerciale tra USA e UE. In questo contesto, l’Italia è particolarmente esposta, in quanto gli Stati Uniti sono il terzo paese di destinazione delle merci italiane e le regioni più a rischio risultano la Lombardia, l’Emilia-Romagna, la Toscana, il Veneto e il Piemonte, che insieme esportano più di due terzi del totale delle merci italiane vendute oltreoceano. Recentemente, i tre consorzi di tutela del prosecco (Prosecco Doc, Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg e Asolo Prosecco Docg), che insieme esportano negli Stati Uniti quasi 150 milioni di bottiglie, hanno scritto una lettera al ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, per chiedere un suo intervento: «Il venir meno di un mercato simile comporterebbe la necessità di individuare paesi alternativi ove andare a collocare queste produzioni e, nell’emergenza, questo comporterebbe di sicuro una pesante contrazione del valore, con ripercussioni per le nostre aziende, sia in termini economici che sociali», si legge nella lettera. Il 19 marzo, invece, il presidente e il segretario generale di Uiv, Lamberto Frescobaldi e Paolo Castelletti, hanno discusso l’argomento con il ministro degli Esteri Antonio Tajani.
Sebbene si citi spesso il settore agroalimentare, quest’ultimo non è quello più importante per le esportazioni italiane: la penisola, infatti, esporta oltreoceano prevalentemente macchinari, articoli farmaceutici e mezzi di trasporto, mentre importa farmaci, prodotti dell’estrazione di minerali e materie prime. Complessivamente, l’Italia vende agli USA merci per 67 miliardi di euro, e ne importa per 25 miliardi. Il settore agroalimentare rappresenta complessivamente solo il 9% di tutte le esportazioni nazionali negli Stati Uniti e il 5% delle importazioni. In generale, Stati Uniti e Unione Europea hanno la più grande relazione commerciale al mondo, scambiandosi un quantitativo di beni, servizi e investimenti che non ha eguali per nessun’altra coppia di Paesi. Nel 2024 le due nazioni si sono scambiate 864 miliardi di euro di beni, di cui 531 è il valore della vendita di prodotti europei negli Stati Uniti e 333 quello dei prodotti statunitensi all’Unione Europea. La nazione europea che esporta di più oltreoceano è la Germania, che di conseguenza è anche quella più esposta ai dazi, seguita da Paesi Bassi, Francia e Italia, rispettivamente l’undicesimo, il dodicesimo e il tredicesimo partner commerciale degli Stati Uniti.
Non a caso, uno dei principali bersagli della strategia “trumpiana” dei dazi è proprio Berlino che negli anni, a partire soprattutto dall’introduzione dell’euro, ha accumulato un enorme surplus commerciale grazie alla moneta unica, alla compressione dei salari e alle politiche di austerità che hanno indebolito la domanda interna. Il tutto non solo a danno degli Stati Uniti, ma anche e soprattutto degli altri Paesi europei. Nel colpire in particolare Berlino, però, i dazi statunitensi finiscono per ripercuotersi su tutti i Paesi UE, Italia compresa. Essendo un’unione doganale, infatti, l’UE si relazione commercialmente con gli altri Stati come entità unica: tutti gli Stati membri applicano e sono sottoposti agli stessi dazi e, di converso, uno Stato extra Ue non può applicare dazi ai prodotti di una specifica nazione europea, ma ai prodotti dell’Unione nel suo complesso. All’Italia converrebbe, dunque, avere relazioni bilaterali con Washington, cosa però esclusa dalla sua appartenenza all’UE. Per le stesse ragioni, sarà difficile che il governo italiano potrà intervenire sulle politiche dei dazi stabilite da Trump, come richiesto dalle associazioni di categoria del settore vinicolo. Al contrario, quello degli alcolici potrebbe essere solo il primo dei settori colpiti nel contesto della guerra commerciale intrapresa da Trump contro l’Ue e le politiche mercantiliste di Berlino.
[di Giorgia Audiello]
In tre anni in Italia sono più che raddoppiati i minori detenuti in carcere
In tre anni, dal 2021 al 2024, gli adolescenti detenuti negli Istituti Penali per Minorenni (IPM) sono passati da 139 a 311, con un aumento del 124%. Guidano la classifica Campania, Lombardia e Sicilia, rispettivamente con 48, 44 e 40 detenuti minorenni, dunque con un’età compresa tra i 14 e i 17 anni. A rivelarlo è l’ultimo rapporto del Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (Gruppo CRC), una rete di organizzazioni del Terzo Settore impegnate a tutelare i diritti dei minori. Il Gruppo CRC, a differenza del governo che ha intrapreso la strada della repressione, sottolinea il ruolo che le disuguaglianze territoriali giocano nella vita dei ragazzi, condizionandone il percorso di crescita.
La popolazione complessiva degli IPM ammonta a 519 persone: ai 311 adolescenti si aggiungono 208 ragazzi con età compresa tra i 18 e i 24 anni. In alternativa al carcere, 968 minori scontano la pena in comunità principalmente private (quelle ministeriali accolgono soltanto 26 dei 968 ragazzi). Sono invece quasi 16mila i minorenni presi in carico dai servizi sociali. Tanto quest’ultimo quanto il ricorso alle comunità sono dei fenomeni con un trend in calo nel triennio 2021-2024, a differenza invece della detenzione negli IPM. Si tratta di un segnale di criticità del sistema di giustizia minorile italiano, che per anni è stato un “modello di riferimento per un percorso educativo e di risocializzazione sempre considerato prioritario rispetto alla detenzione”, come sottolinea il Gruppo CRC.
L’indirizzo politico del governo Meloni, legato alla stretta repressiva di cui il decreto Caivano è simbolo, ha giocato un ruolo attivo nello smantellamento di questo modello virtuoso, a maggior ragione se si considera l’attenzione rivolta più al “merito” che alle diseguaglianze che inevitabilmente influenzano la crescita di bambini e ragazzi. Ridurre il disagio giovanile a un tema di ordine pubblico vuol dire reprimere al posto di educare, per una scelta che “premia” in un primo momento con la soddisfazione delle masse ma a lungo termine provoca inevitabili fallimenti.
[di Salvatore Toscano]