martedì 28 Ottobre 2025
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Un’enorme riserva di oro sta risalendo in superficie dal cuore della Terra

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Più del 99,999% dell’oro terrestre è nascosto dove nessuno può arrivare: nel nucleo metallico della Terra, oltre 3.000 chilometri sotto i nostri piedi. Ma qualcosa sta cambiando e a rivelarlo è un nuovo studio guidato dai geochimici dell’Università di Gottinga, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature. Analizzando le rocce vulcaniche delle Hawaii, i ricercatori hanno identificato le tracce di un isotopo del rutenio – un metallo prezioso strettamente associato all’oro – che non dovrebbe trovarsi lì, se non per una risalita avvenuta direttamente dal nucleo. Il tutto, secondo gli autori, indicherebbe che il nucleo non è un serbatoio completamente isolato, in quanto parte dei suoi materiali sta lentamente emergendo verso la superficie. Inoltre, se tale isotopo è riuscito a risalire, con lui starebbero risalendo anche platino e palladio, un tempo creduti irrimediabilmente intrappolati nel cuore del pianeta. «Quando sono arrivati i primi risultati, ci siamo resi conto che avevamo letteralmente trovato l’oro!», ha commentato il geochimico Nils Messling.

Il nucleo terrestre contiene una quantità di oro sufficiente a ricoprire l’intero pianeta con uno strato spesso mezzo metro. Questo perché, durante la formazione della Terra circa 4,5 miliardi di anni fa, gli elementi più pesanti come oro e rutenio migrarono verso l’interno, affondando nel nucleo attraverso la cosiddetta “catastrofe del ferro”. Da allora, quindi, il nucleo è stato considerato un compartimento chiuso e irraggiungibile. In tempi successivi però, un contributo esterno – sotto forma di meteoriti – ha portato altri metalli pesanti in superficie arricchendo la crosta terrestre, anche se la quantità disponibile è rimasta minuscola rispetto al totale planetario. In anni recenti, tuttavia, i ricercatori hanno individuato segnali di elementi come elio e tungsteno in risalita dal nucleo, ma finora non era mai stato possibile distinguere in modo certo isotopi provenienti da quella profondità. Per questo, spiegano gli autori, il rutenio offre un’opportunità unica: la sua forma isotopica nel nucleo – in particolare il rutenio-100 – è lievemente diversa da quella nel mantello. Grazie a tecniche di misurazione innovative, Messling e colleghi sono riusciti a identificare con precisione queste minuscole differenze in campioni di lava provenienti dalle Hawaii, aprendo la strada a una nuova linea di ricerca geochimica.

In particolare, rispetto al valore medio del mantello, le rocce delle Hawaii hanno mostrato un eccesso di questo isotopo che, secondo i ricercatori, può essere spiegato solo con una provenienza dal nucleo. Il dato, rafforzato da misure precedenti sugli isotopi del tungsteno, suggerisce secondo gli autori che una piccola ma rilevante quantità di materiale metallico stia effettivamente risalendo dalla profondità estrema del confine tra nucleo e mantello. «I nostri risultati non solo mostrano che il nucleo terrestre non è così isolato come si presumeva in precedenza. Ora possiamo anche dimostrare che enormi volumi di materiale del mantello surriscaldato – diverse centinaia di quadrilioni di tonnellate metriche di roccia – hanno origine al confine nucleo-mantello e risalgono fino alla superficie terrestre per formare isole oceaniche come le Hawaii», ha spiegato il professor Matthias Willbold, aggiungendo che la risalita non avviene né rapidamente, né in quantità utili all’estrazione, ma la scoperta ha implicazioni scientifiche di vasta portata. La ricerca, infatti, aprirebbe una nuova finestra sull’evoluzione geologica del nostro pianeta e, potenzialmente, su quella di altri mondi rocciosi: «I nostri risultati aprono una prospettiva completamente nuova sull’evoluzione delle dinamiche interne del nostro pianeta natale», concludono infatti gli autori.

Chiquita licenzia migliaia di lavoratori per le proteste nelle piantagioni

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La multinazionale attiva nel settore frutticolo bananiero Chiquita ha annunciato il licenziamento di «tutti» i braccianti giornalieri di Panama. La misura potrebbe coinvolgere oltre 5.000 lavoratori ed è stata adottata in risposta a uno sciopero lanciato contro una legge che introduce modifiche alle pensioni. Dal lancio dello sciopero nel mese di aprile, Chiquita denuncia perdite per 75 milioni di dollari. In suo favore si sono espressi il Tribunale del lavoro, che ha dichiarato illegale lo sciopero, e lo stesso presidente del Paese, José Raúl Mulino, che, dopo l’annuncio dei licenziamenti di massa, ha difeso le azioni della multinazionale. «Lo sciopero», tuttavia, «continua», ha dichiarato Francisco Smith, segretario generale del Sindacato dei Lavoratori dell’Industria Bananiera (Sitraibana). Nell’ultimo mese le mobilitazioni hanno coinvolto anche operai, docenti e altri sindacati, che, a partire dalla provincia di Bocas del Toro si sono riversati per le strade di tutto il Paese, organizzando blocchi e marce di protesta.

L’annuncio dei licenziamenti di massa da parte di Chiquita è arrivato lo scorso venerdì 23 maggio, a un mese dal lancio della mobilitazione dei lavoratori. Sebbene Chiquita non abbia specificato il numero di lavoratori oggetto del taglio, i media ipotizzano che la mossa potrebbe coinvolgere un numero di persone compreso tra le 5.000 e le 6.500 unità. In una conferenza stampa convocata poco dopo l’annuncio di Chiquita, il presidente panamense Mulino ha preso le parti della multinazionale: «L’azienda dovrà agire di conseguenza, licenziando coloro che sono necessari per salvare le sue attività a Bocas. Credetemi, mi fa male, ma questa intransigenza non è buona», ha affermato. «Lo sciopero è illegale», ha aggiunto Mulino. «Il passo successivo, secondo il Codice del Lavoro, è il licenziamento per giusta causa, perché questo è uno sciopero di fatto, non uno sciopero legittimo». Le parole del presidente panamense non stupiscono se si considera che l’industria delle banane di Panama rappresenta una parte significativa dell’economia del Paese: Panama è infatti il 13° esportatore di banane al mondo, e la produzione bananiera vale al Paese circa 273 milioni di dollari l’anno.

Il taglio dei lavoratori annunciato da Chiquita arriva in risposta alle mobilitazioni lanciate dai lavoratori, che avrebbero causato una perdita di 75 milioni di dollari all’azienda. Dopo essere stato annunciato lo scorso 23 aprile, lo sciopero è iniziato lunedì 28 aprile e da allora non accenna a fermarsi. I lavoratori, prevalentemente provenienti dalla provincia di Bocas del Toro, dove Chiquita possiede 5.000 ettari di terreno destinati alla produzione di banane, si sono riuniti sotto il Sitraibana e hanno trovato il sostegno di operai, docenti, lavoratori edili e altri sindacati di categoria. Le ragioni della protesta risiedono nell’approvazione del disegno di legge 462: approvato a marzo, esso introduce modifiche al Fondo di previdenza sociale che potrebbero portare a una riduzione delle pensioni e che, secondo Sitraibana, danneggerebbero particolarmente i lavoratori del settore bananiero. Le proteste hanno costretto il governo a discutere di possibili emendamenti per includere tutele per i lavoratori del settore, ma non hanno ancora portato a un’intesa. Per tale motivo, nonostante l’opposizione di governo, corti e azienda, lo sciopero continuerà.

Nell’arco di quest’ultimo mese, le proteste dei braccianti panamensi hanno preso diverse forme, dalla diserzione del lavoro nei campi alle marce per strada. I manifestanti hanno inoltre portato avanti diversi blocchi stradali, colpendo svincoli e punti di snodo infrastrutturali, che hanno causato danni significativi ai trasporti e all’approvvigionamento di beni. Solo a Bocas, riportano i quotidiani locali, sono attualmente attivi almeno 25bloqueos”. A causa dei blocchi stradali, la provincia di Bocas del Toro sta ormai affrontando una crescente carenza di carburante e di beni alimentari, tanto che il governo è stato costretto a organizzare una spedizione di riso in elicottero.

Chiquita Brands International è nata nel 1984 dalle ceneri della United Fruit Company, la stessa azienda mandante del cosiddetto “Masacre de las Bananeras” del 1928. Lo scorso giugno, dopo un processo durato 17 anni, con una sentenza storica, una giuria dello Stato della Florida ha costretto Chiquita Brands International a risarcire le famiglie di nove delle vittime del gruppo paramilitare colombiano AUC (Forze di Autodifesa Unite della Colombia), che la multinazionale ha ammesso di aver finanziato per circa 13 anni. Tra il 1994 e il 2007, Chiquita ha infatti elargito alle AUC un centinaio di pagamenti, per un valore complessivo di 1,7 milioni di dollari, nella piena consapevolezza del loro ruolo nel massacrare e violare i diritti umani della popolazione civile.

USA, quattro radio fanno causa a Trump

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La National Public Radio e altre tre emittenti radiofoniche pubbliche del Colorado hanno intentato causa contro l’amministrazione Trump. Le radio, di preciso, contestano l’ordine esecutivo del presidente che prevede un taglio dei finanziamenti federali per le emittenti pubbliche. Secondo le emittenti radiofoniche, il decreto violerebbe il primo emendamento della Costituzione degli USA, che garantisce tra le altre cose le libertà di parola e stampa. In un comunicato, NPR accusa Trump di volere «punire» l’emittente per i suoi contenuti.

La NED statunitense sta tornando un’agenzia oscura in difesa dell’imperialismo

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Il National Endowment for Democracy (NED), fondazione privata senza scopo di lucro dedita alla «crescita e al rafforzamento delle istituzioni democratiche in tutto il mondo», ha rivisto la propria policy eliminando l’obbligo di rendere pubblici i finanziamenti elargiti a organizzazioni e gruppi esteri. Secondo il CEO, Damon Wilson, la fondazione avrebbe infatti un «dovere di distensione» per una nuova «politica del dovere di diligenza» nei confronti di coloro che vengono finanziati e che operano in Paesi considerati rischiosi. L’inversione di tendenza sconfessa l’azione politica trasparente che l’organizzazione – più volte accusata di essere nientemeno che il braccio “soft” della CIA e di aver finanziato gruppi e partiti che hanno rovesciato governi non graditi a Washington – sostiene di voler svolgere.

Secondo quanto riporta il sito della fondazione, sono oltre 1900 le sovvenzioni elargite «per sostenere i progetti di gruppi non governativi all’estero che lavorano per obiettivi democratici in più di 90 Paesi». Lo scorso 25 aprile, l’organizzazione ha aggiornato i propri elenchi di sovvenzioni pubbliche «attraverso un quadro di divulgazione recentemente migliorato». Gli elenchi pubblicati, che rifletterebbero il forte impegno di NED per la trasparenza, incorporano quelle che vengono definite «le migliori pratiche per proteggere la privacy e la sicurezza dei beneficiari in ambienti pericolosi». Per tale motivo, NED ha deciso di non pubblicare dettagli di identificazione personale per la protezione dei beneficiari. «Il nostro dovere è sostenerli non solo con le risorse, ma considerare la loro sicurezza in ogni fase del processo di concessione delle sovvenzioni», è scritto nel documento pubblicato il 25 aprile.

«Condividiamo pubblicamente le informazioni del beneficiario o del partner solo quando ciò è coerente con la loro sicurezza, il consenso e gli obiettivi del loro lavoro. Non pubblichiamo nomi, luoghi o dettagli di progetto che potrebbero mettere in pericolo individui che operano in ambienti ostili», riporta la dichiarazione. Il 28 aprile, nel tentativo di spiegare la decisione, Damon Wilson ha detto che il rischio che corrono certe organizzazioni finanziate nel mondo dal NED «impone di sostenere un dovere di diligenza senza compromessi e di bilanciare la trasparenza con la protezione delle vite umane». Insomma, nel tentativo di influenzare i Paesi stranieri, la trasparenza viene messa in secondo piano per poter raggiungere gli scopi dell’organizzazione, ovvero quelli degli Stati Uniti.

Il National Endowment for Democracy (NED) è un’organizzazione non governativa che ha la forma della fondazione privata, ed è stata fondata nel 1983 con l’obiettivo dichiarato di far progredire la democrazia in tutto il mondo e contrastare l’influenza comunista all’estero, promuovendo istituzioni politiche ed economiche, come gruppi politici, gruppi imprenditoriali, sindacati e mercati liberi. Il NED riceve una dote finanziaria annua erogata dal Congresso degli Stati Uniti, il quale è anche il suo supervisore. Nel corso del tempo, il NED è stato accusato di rappresentare il soft power statunitense, nonché di essere un’estensione della CIA, e di aver finanziato partiti e gruppi politici coinvolti in cambi di regime in tutto il mondo. Uno degli esempi di queste azioni, come scritto nei loro libri da David Dent e William LeoGrande, sono i finanziamenti ai gruppi anti-sandinisti in Nicaragua, che avevano il fine di fermare la rivoluzione socialista iniziata nel 1979 con la presa del potere da parte del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN), che aveva cacciato il dittatore Anastasio Somoza con una insurrezione.

L’America Latina è stata senz’altro un’area di intervento molto sentito da parte del NED, ma ci sono altri esempi in giro per il mondo. Tra gli esempi più recenti di finanziamenti a gruppi ostili ai governi non graditi da Washington sono quelli della Thailandia nel 2020 e della Malesia nel 2021. Come spiegato dal Center for Renewing America, tra le varie attività svolte dal NED ci sono state quelle in sostegno della “primavera araba” del 2011, così come la “rivoluzione arancione” in Ucraina del 2004 e poi quella di Euromaidan del 2014 che ha portato al colpo di Stato. Al pari di USAID, il NED è stato aspramente criticato da Trump e da molti dei suoi fedeli alleati, su tutti Elon Musk.

Brasile: ok a perforazione di un pozzo di petrolio alla foce dell’Amazzonia

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L’agenzia ambientale IBAMA ha approvato il piano di emergenza in caso di sversamenti presentato da Petrobras, la compagnia petrolifera statale brasiliana, avvicinando l’autorizzazione finale alla perforazione di un pozzo nel blocco FZA-M-59, situato 160 km al largo dello stato di Amapá. L’area si sovrappone alla barriera corallina amazzonica, ecosistema scoperto nel 2016. Nonostante 29 analisti IBAMA avessero raccomandato di bocciare il piano per i rischi alla biodiversità, il progetto ha ricevuto sostegno politico, incluso quello del presidente Lula. Petrobras ha affittato una piattaforma da 1 miliardo di reais (circa 155 milioni di euro) fino a ottobre e punta a iniziare le operazioni entro giugno.

La protesta di duemila funzionari UE: “È ora di fare qualcosa per Gaza”

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«Le istituzioni dell’UE non sono riuscite a far valere la propria influenza politica, diplomatica ed economica per migliorare la situazione a Gaza». È questo il duro atto d’accusa al centro della lettera firmata da circa 2.400 funzionari europei e rivolta ai vertici dell’UE. A redigerla sono stati i membri del gruppo “EU Staff for Peace”, che, a un anno esatto dal loro primo appello, tornano a denunciare pubblicamente la paralisi morale e istituzionale dell’Unione davanti a una delle peggiori crisi umanitarie del nostro tempo. Una presa di posizione che soltanto adesso – a quasi due anni dall’inizio del genocidio a Gaza, con una popolazione decimata e affamata da mesi a causa delle azioni dell’esercito israeliano nell’enclave – raccoglie un’ampia adesione.

Nel maggio 2024, lo stesso gruppo di funzionari — provenienti dalla Commissione europea, dal Parlamento europeo e da diverse agenzie dell’Unione — aveva scritto ai presidenti delle tre principali istituzioni comunitarie, chiedendo una svolta politica nella gestione della crisi in Medio Oriente. Oggi, a distanza di un anno, la situazione non solo non è migliorata, ma è drammaticamente peggiorata: oltre 54mila le vittime a Gaza, secondo fonti ONU, e circa 1,5 milioni di persone sull’orlo della fame a causa dei blocchi israeliani degli aiuti umanitari. La nuova missiva, inviata nei giorni scorsi ai vertici UE, critica duramente le istituzioni europee, accusandole di aver «contribuito al clima di irresponsabilità che ha portato all’invasione su vasta scala della Striscia di Gaza in atto in questo momento». Per i firmatari, la risposta dell’Unione si è rivelata non solo insufficiente, ma anche tardiva.

«L’annuncio recente della revisione dell’accordo di associazione UE-Israele – a 20 mesi dall’inizio del conflitto, mentre migliaia di bambini rischiano la fame per il rinnovato blocco degli aiuti umanitari – solleva serie preoccupazioni sull’adeguatezza e sulla tempistica della risposta dell’Ue», ha dichiarato Zeno Benetti, uno dei co-autori della lettera. Il riferimento è alla decisione comunicata pochi giorni fa dall’Alta rappresentante per la politica estera Kaja Kallas di avviare una revisione dell’accordo commerciale tra Bruxelles e Tel Aviv, siglato nel 2000. Una mossa sollecitata da 17 dei 27 Stati membri, che potrebbe portare alla sospensione della partecipazione israeliana ai programmi europei di ricerca scientifica. Nell’appello, il gruppo EU Staff for Peace parla di una mossa «devastantemente tardiva per le migliaia di persone uccise a Gaza».

Tra le richieste già avanzate nel 2024 — e ribadite anche all’interno della nuova lettera — figurano la sospensione dell’accordo di associazione, il blocco delle esportazioni di armi verso Israele da parte dei Paesi UE e il pieno sostegno alle inchieste in corso della Corte penale internazionale e della Corte internazionale di giustizia. Proprio su quest’ultimo punto si concentra l’indignazione dei firmatari, i quali denunciano un «apparente doppio standard» delle istituzioni, accusandole di non prendere posizione contro i leader che hanno scelto di mantenere relazioni diplomatiche con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, attualmente ricercato dalla CPI per «crimini contro l’umanità e crimini di guerra». L’Ungheria, ad esempio, ha ospitato Netanyahu in visita di Stato per quattro giorni lo scorso aprile. La Polonia aveva preso in considerazione l’idea di invitarlo alla commemorazione della liberazione di Auschwitz, e il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha promesso di trovargli una via d’accesso «sicura» in Germania.

Il portavoce della Commissione, Balazs Ujvari, ha replicato affermando che i funzionari UE godono sì della libertà di espressione, ma questa deve essere esercitata tenendo conto di «una serie di obblighi derivanti dallo statuto del personale», evitando comunicazioni pubbliche. Nel frattempo, i membri del gruppo continuano a manifestare ogni giovedì durante la pausa pranzo davanti alle sedi del Consiglio europeo e della Commissione, a Bruxelles. Una presenza costante, simbolo di un dissenso (finalmente) crescente anche in seno alle istituzioni europee.

Dieselgate, condanna per frode a 4 ex manager Volkswagen

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A dieci anni dallo scandalo Dieselgate, il più grande nella storia dell’industria automobilistica tedesca, il tribunale di Braunschweig ha emesso quattro condanne contro ex manager Volkswagen per frode legata alla manipolazione dei test sulle emissioni. Due imputati sconteranno pene detentive, due hanno ottenuto condanne sospese. Restano fuori altri 31 imputati in procedimenti ancora aperti e l’ex CEO Martin Winterkorn, il cui processo è stato sospeso per motivi di salute. Lo scandalo, esploso nel 2015, è costato finora a Volkswagen circa 33 miliardi di euro. In Italia, 60mila consumatori riceveranno un risarcimento fino a 1.100 euro ciascuno.

Secondo una ricerca la metà dei giovani vorrebbe crescere in un mondo senza internet

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Quasi la metà degli adolescenti preferirebbe vivere in un mondo privo di internet, mentre un numero analogo vorrebbe addirittura l’introduzione di un “coprifuoco digitale” per i social media: è quanto emerge da una nuova indagine condotta su 1.293 giovani tra i 16 e i 21 anni e pubblicata dal BSI, l’ente britannico di normazione, in occasione della plenaria 2025 del Comitato ISO per le politiche dei consumatori. Secondo i risultati, oltre i due terzi degli intervistati hanno riferito di un peggioramento del proprio stato d’animo dopo il tempo trascorso online, tendenza riscontrata anche in coloro che possiedono un’elevata familiarità con la tecnologia. Questi chiedono limiti, maggiore protezione e leggi più severe per tutelare la loro salute mentale e la loro privacy. «Il fatto che quasi la metà dei giovani preferisca crescere senza Internet dovrebbe essere un campanello d’allarme per tutti noi. Abbiamo l’opportunità di reinventare il mondo digitale in cui crescono i nostri figli. La loro salute mentale e il diritto a un’infanzia sana e sicura devono venire prima del profitto», commentano gli autori del rapporto.

Il BSI (British Standards Institution) è l’organismo nazionale di normazione del Regno Unito e si occupa di definire standard per la qualità, la sicurezza e la sostenibilità di prodotti e servizi, compresi quelli digitali. In occasione della sessione plenaria 2025 dell’ISO COPOLCO — il Comitato internazionale per la politica dei consumatori — il BSI ha pubblicato uno studio dedicato all’esperienza digitale degli adolescenti. L’indagine, condotta su un campione rappresentativo di giovani britannici tra i 16 e i 21 anni, mirava a comprendere l’impatto della tecnologia sulla loro quotidianità soprattutto dopo la pandemia da Covid-19, la quale ha spinto il 74% degli intervistati a trascorrere più tempo online. Lo studio rivela che, sebbene i ragazzi dichiarino un buon livello di consapevolezza sulle impostazioni di privacy e sul funzionamento degli algoritmi, molti adottano comportamenti rischiosi e chiedono interventi strutturali per migliorare l’ambiente digitale. Tra le misure proposte: verifiche dell’età obbligatorie, limitazioni all’uso notturno delle piattaforme e un maggiore impegno da parte delle aziende nel progettare tecnologie “a misura di adolescente”.

In particolare, i dati raccolti hanno mostrato una quotidianità dominata dalla dimensione virtuale: il 45% dei giovani passa oltre tre ore al giorno sui social, mentre solo il 49% dedica meno di due ore ad attività creative o sportive. Il 43% ha iniziato a usare i social prima dei 13 anni, aggirando i limiti legali, e il 40% ha creato account falsi. Preoccupante anche la discrepanza tra ciò che i giovani dichiarano e ciò che i genitori sanno, visto che il 42% degli intervistati ammette di mentire su quanto fa online. In molti casi poi, secondo quanto rilevato, la rete diventa un vero e proprio luogo dove si costruiscono identità fittizie e si compiono scelte rischiose, come la condivisione della posizione con sconosciuti, tendenza rilevata nel 29% dei partecipanti. «La tecnologia può essere positiva solo se sostenuta dalla fiducia che privacy, sicurezza e benessere non vengano compromessi», ha commentato Susan Taylor Martin, amministratrice delegata del BSI. Anche Daisy Greenwell, poi, fondatrice dell’iniziativa “Smart Phone Free Childhood”, ha sottolineato la necessità di un cambiamento profondo, affermando che «abbiamo costruito un mondo digitale pensato per tenere incollati i ragazzi, ma ora sono loro a chiedere limiti e tutele reali». Secondo il 79% degli intervistati, infatti, le aziende tecnologiche dovrebbero essere obbligate per legge a integrare misure robuste di protezione della privacy, mentre il 48% chiede un supporto attivo per imparare a proteggersi online.

Germania: stop alle restrizioni sull’uso delle armi a lungo raggio a Kiev

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Il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha annunciato che la Germania, la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti avrebbero concordato l’abolizione dei limiti all’uso di armi occidentali da parte di Kiev, consentendole di impiegare armi a lunga gittata per colpire il territorio russo. La notizia arriva dopo la segnalazione da parte ucraina di un massiccio attacco russo verso il Paese, in seguito al quale Trump ha criticato duramente Putin, affermando che il presidente russo fosse «completamente impazzito». Commentando la notizia, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che si tratta di una mossa «potenzialmente pericolosa», che va contro gli sforzi per raggiungere un accordo, mentre dagli altri Paesi non sembrano essere arrivate conferme. Il ministro degli Esteri tedesco, Johann Wadephul, ha tuttavia precisato che da ora in poi le autorità tedesche non informeranno più il pubblico sulle forniture di armi all’Ucraina, come parte di una strategia volta a nascondere le proprie mosse a Mosca.

L’annuncio di Merz è arrivato ieri, lunedì 26 maggio, in un’intervista al WDR Europaforum, conferenza internazionale sull’Europa che si tiene ogni anno in Germania: «Non ci sono più restrizioni alla gamma di armi fornite all’Ucraina: né dai francesi, né dagli inglesi, né da noi, né dagli americani», ha detto il cancelliere. «Ciò significa che ora l’Ucraina può difendersi, in particolare attaccando le posizioni militari in Russia», ha precisato. «Fino a poco tempo fa, salvo rare eccezioni, non poteva farlo». Merz ha spiegato che proprio l’abolizione delle restrizioni sarebbe stata una delle ragioni della sua visita a Kiev lo scorso 10 maggio, assieme ai leader di Francia, Regno Unito e Polonia. Malgrado l’annuncio, il cancelliere non ha specificato quando esattamente il divieto cesserà di essere applicato, né fino a che punto l’Ucraina potrà attaccare la Russia, e i vari Paesi da lui citati non hanno ancora rilasciato alcun commento sulle sue dichiarazioni. È insomma ancora presto per dire se l’annuncio di Merz sia una mossa diplomatica per mettere pressione su Putin o se si tratti di un effettivo via libera militare.

Quotidiani tedeschi e media specializzati ipotizzano che, con questo annuncio, Merz stia aprendo la strada per la consegna di missili da crociera Taurus a Kiev, come del resto suggeriva durante la campagna elettorale. I missili tedeschi Taurus sono stati a lungo al centro del dibattito relativo alle forniture di armi da inviare a Kiev, per la loro ampia capacità di gittata e la loro portata distruttiva. La Russia si è sempre opposta al loro potenziale invio all’Ucraina, affermando a più riprese che la consegna di simili armi avrebbe significato un’escalation nella guerra e sarebbe stata letta come un coinvolgimento diretto dell’Occidente.

In generale, il dibattito sulla consegna di armi a lunga gittata a Kiev è uno dei più accesi da tempo. L’ultima volta che è finito al centro dell’attenzione risale allo scorso novembre, quando l’ex presidente degli Stati Uniti Joe Biden aveva annunciato di aver autorizzato l’Ucraina a utilizzare missili a lungo raggio ATACMS per colpire la regione russa del Kursk, dove all’epoca l’Ucraina controllava ancora alcune postazioni. In seguito, la Francia e il Regno Unito si erano espresse a favore di concedere un’autorizzazione all’impiego di armi a lunga gittata a Kiev. Trump, invece, criticò aspramente Biden per la sua decisione e, in generale, si è sempre opposto a una possibile concessione a Kiev.

La Corea del Sud ha vietato all’ex premier di viaggiare all’estero

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La polizia sudcoreana ha vietato all’ex primo ministro Han Duck-soo e all’ex ministro delle Finanze Choi Sang-mok di viaggiare all’estero. La notizia è stata data dall’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap, che ha precisato che il divieto sarebbe stato imposto a metà maggio. I due, nello specifico, sono finiti in mezzo all’indagine per insurrezione avviata dopo che il deposto presidente Yoon Suk Yeol ha provato a imporre la legge marziale lo scorso 3 dicembre. Secondo quanto riferito da Yonhap, Han e Choi sarebbero stati interrogati ieri da un’unità speciale di polizia.