domenica 26 Ottobre 2025
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Tra i candidati alle prossime amministrative ci sono 22 segnalati dall’antimafia

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Sono 22 i candidati alle prossime elezioni amministrative, che si terranno domenica 25 e lunedì 26 maggio, segnalati come “impresentabili” dalla Commissione antimafia. Di questi, ben 5 sono candidati nel Comune di Taranto. Lo ha reso noto Chiara Colosimo, presidente della Commissione, al termine dei lavori di verifica dei candidati. Delle 22 candidature, 10 risultano in violazione del codice di autoregolamentazione approvato dalla Commissione rispetto a casellario giudiziario e carichi pendenti, mentre le altre 12 violano il codice in quanto in passato furono già sindaci o componenti di giunta nei comuni sciolti per infiltrazione mafiose che tornano al voto.

Il termine “impresentabili” deriva dal Codice di autoregolamentazione delle candidature adottato nel 2015 e periodicamente aggiornato dalla Commissione, con l’obiettivo di prevenire infiltrazioni della criminalità organizzata nella politica locale. La rilevazione, eseguita dalla Direzione generale dei servizi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia, ha avuto per oggetto in totale 4.192 nominativi, forniti dagli elenchi dei candidati trasmessi dalla Commissione. Se Taranto “primeggia” con 5 nomi in lista, mentre non risultano candidati “impresentabili” a Genova, unico capoluogo di Regione al voto, così come a Ravenna.

Nella lista diramata da Palazzo San Macuto figurano:

  • Di Nardo Paolo (Giugliano in Campania), Unione di Centro Adesso Giugliano, condannato definitivamente per usura;
  • Pignatelli Gennaro (Giugliano in Campania), lista Guarino, colpito da un decreto di citazione a giudizio per frode informatica e accesso abusivo a sistema informatico;
  • Caruso Titina (Lamezia Terme), Forza Italia, a giudizio per bancarotta fraudolenta e trasferimento fraudolento di valori;
  • De Rango Franchino (Rende), Avanti Rende Libera, a giudizio per bancarotta fraudolenta;
  • Iorio Francesco (Rende), Libertà in Movimento, a giudizio per traffico illecito di rifiuti;
  • Basile Rossella (Taranto), Movimento Sportivo, a giudizio per riciclaggio;
  • Albano Mimma (Taranto), Noi Taranto, a giudizio per usura;
  • Milella Antonio Damiano (Taranto), Democrazia Cristiana, condannata in primo grado per turbata libertà degli incanti;
  • Ungaro Rosario (Taranto), Forza Italia, a giudizio per corruzione aggravata e turbata libertà degli incanti;
  • Renna Cataldo (Taranto), Forza Italia, a giudizio per traffico di influenze illecite.

I candidati inseriti tra gli “impresentabili” per aver ricoperto la carica di sindaco o di componente di giunte in comuni sciolti per mafia sono invece:

  • Russo Francesco (Orta Nova), Con Di Stasio Sindaco (già assessore del comune sciolto);
  • Sorrentino Elisa (Rende), Partecipazione Rende (già assessore);
  • Totera Fabrizio (Rende), Progressisti Democratici (già assessore);
  • Ziccarelli Domenico, Avanti Rende Libera (già assessore);
  • Camarda Antonino (Castiglione di Sicilia), Per Castiglione – Camarda Sindaco (già sindaco);
  • Monforte Salvatore (Castiglione di Sicilia), Cambiamo per Castiglione – Monforte Sindaco (già assessore);
  • Raiti Francesco (Castiglione di Sicilia), Per Castiglione – Camarda Sindaco (già assessore);
  • Farfaglia Salvatore (Castiglione di Sicilia), Per Castiglione – Camarda Sindaco (già assessore);
  • Astuti Salvatore (Palagonia), Senso Civico – Salvo Astuti Sindaco (già sindaco);
  • Lauria Michele Luca Francesco (Palagonia), Salvo Astuti Sindaco (già assessore);
  • Favata Francesco Paolo (Palagonia), Senso Civico – Salvo Astuti Sindaco (già assessore);
  • Colomba Giuseppina (Palagonia), Palagonia nel Cuore – Salvo Astuti Sindaco (già assessore).

Sulla formazione dell’elenco c’è poi un piccolo giallo: la Commissione Antimafia ha infatti indicato come “impresentabile” alle elezioni amministrative di Matera (le agenzie hanno infatti sin da subito parlato di 23 nominativi) Francesco Paolo Lafortezza, a processo per frode, indicato come appartenente alla lista Io Sud Matera. Il rappresentante di quest’ultima, Pasquale Antonio Di Lorenzo, ha però inviato una missiva a Chiara Colosimo per segnalare che, in realtà, Lafortezza non risulta candidato nella sua compagine. Il nome dell’“impresentabile” sarebbe stato presente, almeno in prima battuta, all’interno della Lista Acito-Udc, nelle cui liste ufficiali però non compare più. A ogni modo, la Commissione Antimafia ha risposto parlando di un «disguido occorso nelle attività di verifica».

Libano, massicci attacchi israeliani nel Sud del Paese

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Aerei da guerra dell’esercito israeliano hanno effettuato un massiccio bombardamento su diversi insediamenti nel Libano del Sud. Lo ha reso noto l’agenzia di stampa libanese NNA, mentre l’IDF ha a sua volta dichiarato di aver colpito le infrastrutture militari del movimento Hezbollah, tra cui depositi di munizioni e lanciarazzi. Ferma la condanna degli attacchi israeliani da parte del premier libanese Nawaf Salam, il quale ha definito l’offensiva dell’IDF come una «escalation» pericolosa in vista delle prossime elezioni amministrative nella regione meridionale, previste per sabato.

La Guyana imporrà alle aziende di riparare i danni per le fuoriuscite di petrolio

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Il Parlamento della Guyana, piccolo Stato dell'America del Sud, ha approvato l’Oil Pollution Prevention, Preparedness, Response and Responsibility Bill 2025, un disegno di legge che stabilisce in modo esplicito la responsabilità delle aziende per i danni causati da fuoriuscite di petrolio, incluse quelle che avvengono in mare. La norma sull’inquinamento mira a rafforzare la tutela ambientale e la supervisione della nascente industria energetica
Per riuscire a costruire un sistema di prevenzione e risposta strutturato, la legge obbliga le compagnie a fornire garanzie finanziarie per coprire gli...

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Gaza, continuano i raid israeliani: almeno 54 morti dall’alba

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Dall’alba di oggi, almeno 54 persone sono state uccise negli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza. Lo ha riferito l’emittente Al Jazeera, citando fonti mediche. L’esercito israeliano ha intensificato i bombardamenti aerei e terrestri su tutta Gaza, in particolare nei pressi dell’ospedale al-Awda, nella parte settentrionale dell’enclave, che è una delle poche strutture mediche operative nel nord. Il ministro della Salute palestinese Majid Abu Ramadan ha dichiarato che negli ultimi giorni a Gaza sono stati registrati almeno 29 «decessi legati alla fame» tra bambini e anziani e che migliaia di altri sono a rischio.

In Argentina i pensionati guidano la protesta contro il neoliberismo del governo Milei

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Ieri, mercoledì 21 maggio, i pensionati argentini sono scesi nuovamente in piazza, venendo come ormai accade periodicamente repressi dalla polizia. Questa volta, la protesta si svolgeva in parallelo a una discussione parlamentare per aumentare le pensioni agli argentini, boicottata dalla maggioranza Milei. La manifestazione di ieri fa parte di un ampio moto di sollevamento popolare che da mesi scende ritualmente in piazza ogni mercoledì. I pensionati, di preciso, chiedono che il governo garantisca le pensioni, che le aumenti, e che si operi per contrastare l’aumento dei prezzi dei servizi essenziali. Col tempo, hanno radunato attorno a sé un’ampia frangia della popolazione argentina, che spazia dai politici ai sindacalisti, fino a raggiungere tifosi delle squadre calcistiche e membri del clero che operano nei quartieri più critici.

La protesta dei pensionati contro il governo Milei si tiene ogni mercoledì a Buenos Aires, davanti al palazzo del Congresso. Ieri, la protesta coincideva con la discussione di una proposta di legge avanzata dall’opposizione che si proponeva di aumentare le pensioni agli argentini, che in questo momento si attestano a 379.000 pesos (circa 292 euro). Per rendere più comprensibili tali cifre, si pensi che, secondo una analisi de La Nación risalente a inizio gennaio 2025, l’affitto medio di un bilocale di 50 metri quadri a Buenos Aires si attesta attorno ai 550.450 pesos, mentre quello di un monolocale di 40 metri quadri arriva a 465.091 pesos. In occasione della discussione erano presenti circa 124 deputati, mentre 133 erano assenti.

Come ormai accade da mesi, anche l’appuntamento tenutosi ieri è stato violentemente represso dai membri delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa armate di scudi e manganelli. Mentre i manifestanti si provavano ad avvicinare all’edificio oltrepassando il cordone di polizia, è esploso uno scontro con le forze dell’ordine, che hanno usato manganelli e spray al peperoncino sui dimostranti. Anche la protesta della scorsa settimana si era risolta in uno scontro con la polizia. In seguito alla manifestazione, sono stati registrati una decina di feriti, tra cui Francisco Padre Paco Olveira, sacerdote delle baraccopoli della capitale che si è schierato a fianco dei pensionati, e Nico Caropresi, presidente del Movimento dei Lavoratori Esclusi.

I pensionati scendono in piazza ormai da mesi per rivendicare pensioni più alte e garantite, e in generale per protestare contro le politiche del governo Milei. Una delle più significative risale a due mesi fa, quando alla protesta si sono uniti gli hinchas, tifosi di decine di club argentini che hanno messo da parte le rivalità sportive per proteggere i pensionati. La decisione degli ultrà è arrivata dopo gli episodi di violenza registratisi durante le manifestazioni precedenti, e ha reso la manifestazione ancora più partecipata. Col tempo, si sono uniti anche sindacalisti, politici, e membri del clero, che insieme iniziano a contestare la terapia di “shock economico” portata avanti dal presidente argentino. Questa passa per una drastica riduzione della spesa pubblica che finisce per colpire soprattutto le fasce più deboli della popolazione, come gli anziani che protestano contro i tagli alle pensioni. L’amministrazione Milei, oltre ad aver ridotto la spesa per le pensioni del 19%, ha eliminato un programma che rendeva gratuiti diversi farmaci, decisione che ha fatto esplodere le tensioni.

L’Europol fa un passo verso la sorveglianza massiva dei migranti

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Martedì 20 maggio, la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) del Parlamento Europeo ha approvato l’ampliamento del mandato di Europol per rafforzare il contrasto al traffico di migranti e alla tratta di esseri umani. Diverse organizzazioni della società civile hanno espresso preoccupazione, sostenendo che l’enfasi sulla sicurezza e sul controllo delle frontiere possa compromettere il rispetto dei diritti umani e il principio di accoglienza, nonché portare a un futuro ancorato alla sorveglianza di massa.

Passata con 56 voti a favore, 10 contrari e 3 astensioni, la riforma si inserisce in un contesto politico derivante dall’instabilità amministrativa del 2023, ovvero in un’epoca in cui i partiti moderati e di sinistra hanno cercato di adottare una linea più rigida sulla migrazione in vista delle elezioni europee del 2024, nella disperata speranza di attrarre il sostegno del centrodestra.

La rivoluzione dell’agenzia europea di coordinamento poliziesco porterà alla creazione di un nuovo organismo dedicato, ovvero Centro europeo contro il traffico di migranti (ECAMS), che fungerà da hub operativo per coordinare le attività degli Stati membri, di Eurojust e di Frontex. Per sostenere questa espansione, l’Europol riceverà per il biennio 2025-2027 un finanziamento aggiuntivo di 50 milioni di euro e 50 nuovi membri dello staff. La riforma prevede anche un ampliamento delle capacità dell’Europol nella raccolta e analisi dei dati, inclusi quelli biometrici come impronte digitali e riconoscimento facciale. 

Gli Stati membri saranno tenuti a rafforzare le infrastrutture dedicate alla lotta contro la tratta di migranti o a crearne di dedicate e a condividere con l’Europol le informazioni raccolte alle frontiere, indipendentemente dal fatto che le persone siano sospettate o meno di alcun crimine. Inoltre, l’Europol potrà collaborare con paesi terzi, anche non democratici, per estendere la portata delle sue banche dati. Sono già in corso valutazioni per stabilire partenariati con paesi come Egitto, Giordania, Israele, Marocco, Tunisia e Turchia.

La riforma rischia di instaurare un sistema binario in cui i migranti godrebbero di diritti inferiori rispetto ai cittadini europei. Questo sacrificio, giustificato con la promessa di “salvare vite umane”, solleva dubbi persino all’interno della classe politica europea. Già nel 2023, Finlandia, Germania e Polonia avevano espresso perplessità riguardo alla proporzionalità dell’intervento e al potenziale superamento della sovranità nazionale da parte di Europol. Le preoccupazioni della società civile si concentrano anche sull’espansione dei poteri dell’agenzia, la quale ha mostrato nel tempo diversi lati oscuri. 

Nonostante la sua ultima riforma sia risalente solamente al 2022, l’Europol chiede costantemente maggiori competenze e minori controlli, lamentando di dover impiegare tempo e risorse per rendere conto delle proprie azioni. L’agenzia non è particolarmente immacolata neppure sul frangente della legalità: in passato ha violato le normative UE sulla gestione dei dati, conservando informazioni che non aveva il diritto di archiviare. Questa illegittimità è stata successivamente sanata tramite un emendamento retroattivo approvato in fretta e furia da un Consiglio Europeo ansioso di soddisfare le esigenze securitarie dell’agenzia.

Alla vigilia del voto, la campagna “Protect Not Surveil“, sostenuta da 120 organizzazioni e accompagnata da una significativa raccolta firme, ha chiesto il rigetto totale della riforma, definendola un “cavallo di Troia” destinato ad ampliare la sorveglianza di massa. La coalizione ha sottolineato che la proposta di riforma di Europol rappresenta un’espansione opaca dei poteri di sorveglianza, criminalizzando ulteriormente migranti e organizzazioni solidali, aumentando il rischio di discriminazioni da parte delle autorità.

La posizione del Parlamento sulla riforma sarà annunciata durante la riunione plenaria prevista per il 16-19 giugno. Se non saranno sollevate obiezioni, inizieranno i negoziati per l’attuazione della riforma.

In Spagna è stato ucciso un altro uomo che faceva parte della lista dei nemici dell’Ucraina

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Cinque colpi di pistola. Tre lo hanno colpito al corpo, quello mortale lo ha raggiunto alla nuca quando era già a terra. Una esecuzione in piena regola che sembra sgusciata da un film di spionaggio. La vittima è Andriy Portnov, stretto collaboratore dell’ex presidente ucraino filorusso Viktor Yanukovich, freddato il 21 maggio 2025 alle 9:15 del mattino a Pozuelo de Alarcón, un ricco sobborgo di Madrid davanti all’American School della città. L’uomo aveva appena accompagnato i suoi figli a scuola e stava risalendo sulla sua auto, quando è stato vittima dell’agguato. Gli assalitori, descritti come due o tre uomini, sono fuggiti in una vicina area boscosa. Non è ancora chiaro se l’omicidio abbia motivazioni politiche, personali o legate a un regolamento di conti, ma si tratta solo dell’ultima vittima di una lunga serie di morti sospette di ex alleati di Yanukovich. Il passato di Portnov e la sua presenza nella lista nera del sito ucraino Myrotvorets (dal 2015, con l’accusa di “traditore della patria”) suggeriscono un possibile collegamento con le tensioni geopolitiche tra Ucraina e Russia. L’ambasciatore russo Rodion Miroshnik ha ipotizzato che Portnov possedesse informazioni compromettenti sulle autorità ucraine, che Kiev avrebbe voluto nascondere.

Nato a Lugansk, Andriy Portnov è stato una figura di spicco della politica ucraina, strettamente legato alla comunità filorussa e all’ex presidente Viktor Yanukovych, e aveva alle spalle una lunga carriera nella pubblica amministrazione e nel mondo accademico. Prima di lavorare con Yanukovich, Portnov è stato vicino a Yulia Tymoshenko e membro del parlamento ucraino negli anni 2000. Tra il 2011 e il 2014 è stato vicecapo dell’amministrazione presidenziale, supervisionando questioni giudiziarie. Era fuggito in Russia nel 2014, dove aveva ottenuto la cittadinanza e in Ucraina era stato accusato di vari reati, fra cui corruzione e tradimento (fu poi assolto da quest’ultima accusa). Nel 2018 ha diretto brevemente il canale filorusso NewsOne. Il fatto che si trovasse in Spagna era ignoto al pubblico.

Dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, la Spagna, che ospita una significativa diaspora ucraina e russa, è stata teatro di diversi crimini di alto profilo di carattere trasversale, su cui si è ipotizzata la matrice dei servizi segreti di Mosca e di Kiev. Nel 2022, lettere bomba sono state inviate a obiettivi istituzionali, tra cui l’ambasciata ucraina a Madrid. Nel febbraio 2024, Maksim Kuzminov, un pilota russo disertore è stato ucciso ad Alicante: gli investigatori non esclusero la vendetta russa.

Nel caso dell’omicidio di Portnov, una pista si sta concentrando sulla lista di proscrizione del sito ucraino Myrotvorets, noto per schedare “nemici dell’Ucraina”, dove compariva proprio il suo nome. Dopo la sua morte, accanto al suo profilo è apparsa la scritta “eliminato”. Lanciato nel dicembre 2014 da Heorhij Tuka, il sito è gestito dal Centro Myrotvorets (secondo alcune fonti, sarebbe affiliato al Servizio di Sicurezza dell’Ucraina), ed è noto per pubblicare dati personali (indirizzi, numeri di telefono, profili social) di individui considerati “nemici dell’Ucraina”, spesso associati a posizioni filorusse o separatiste, nell’ambito del conflitto in Donbass e dell’Operazione Speciale,  inclusi politici, giornalisti, artisti come Jorit o Roger Waters e persino minori come Faina Savenkova, una scrittrice del Donbass. Sulla lista nera sono presenti anche alcune personalità italiane, tra cui il noto giornalista Giulietto Chiesa, il fotoreporter Giorgio Bianchi, lo scrittore e giornalista Franco Fracassi e la regista di reportage di guerra Sara Reginella. La piattaforma è stata accusata da organizzazioni come l’ONU e Human Rights Watch di violare la privacy e incitare alla violenza e il Parlamento europeo ne ha chiesto la chiusura.

Andriy Portnov è stato uno stretto collaboratore dell’ex presidente ucraino filorusso Viktor Yanukovich

Oltre a Portnov, sono diversi i casi di omicidi di persone filorusse che erano inserite nella lista nera di Myrotvorets, come Oles Buzina (2015), giornalista e scrittore ucraino, assassinato a colpi di arma da fuoco il 16 aprile 2015, pochi giorni dopo che il suo indirizzo di casa era stato pubblicato sul sito di proscrizione. L’omicidio, collegato a gruppi nazionalisti estremisti, come Pravyj Sektor, fu definito dal presidente ucraino Petro Poroshenko come un “omicidio politico”. Il giorno prima dell’omicidio di Buzina, Oleg Kalashnikov, ex deputato del Partito delle Regioni, legato all’ex presidente filorusso Viktor Yanukovich, era stato freddato a colpi di arma da fuoco vicino alla sua casa a Kiev. Pochi giorni prima il suo indirizzo era stato pubblicato su Myrotvorets. Nello stesso giorno dell’omicidio di Kalashnikov, il 15 aprile 2025, Sergej Sukhobok, giornalista ucraino, titolare di un sito internet e di un piccolo giornale che sosteneva le ragioni dei ribelli del Donbass fu ucciso a Kiev da un commando.

Tra febbraio e aprile 2015, almeno otto politici e figure legate al Partito delle Regioni di Yanukovich, tutti con posizioni filorusse, sono stati trovati morti in circostanze sospette (spesso classificati come “suicidi” dai media ucraini). Tra questi ricordiamo: Olexandr Peklouchenko, ex governatore e membro del Partito delle Regioni, trovato morto a metà marzo 2015, ufficialmente per suicidio; Stanislav Melnik, ex deputato, trovato morto vicino a Kiev a fine febbraio 2015, anche questo classificato come suicidio; Mikhaïlo Tchetchetov, ex parlamentare, morto cadendo dal 17º piano di un palazzo a fine febbraio 2015, considerato un possibile omicidio mascherato da suicidio. Infine, va ricordato anche il caso di lya Kyva: l’ex deputato ucraino filorusso è stato ritrovato senza vita, nella neve, in una pozza di sangue in un parco fuori dal Velich Country Club, hotel di lusso a un’ora da Mosca. Un assassinio avvolto nel mistero, con indizi sulla responsabilità dei Servizi di Kiev e sul team di Vasyl Malyuk.

L’impronta dei servizi segreti ucraini in questi omicidi fa da contraltare ad altrettanto misteriose morti tra oligarchi, scienziati (come Andrey Botikov, uno dei ricercatori che ha contribuito a creare il vaccino russo Sputnik), politici (Pavel Antov, parlamentare russo del partito Russia Unita, trovato morto dopo una caduta dal terzo piano di un hotel di Rayagada, nello Stato indiano dell’Odisha) e attivisti filo-ucraini. Ricordiamo tra tutti il caso di Boris Nemcov, politico russo di opposizione, già considerato ex delfino di Eltsin, noto per le sue critiche a Putin e per il suo supporto alla sovranità ucraina. Già membro della Duma regionale di Jaroslav, leader di un piccolo partito liberale, l’RPR-Parnas, venne assassinato a colpi di pistola vicino al Cremlino la sera del 27 febbraio 2015. Cinque ceceni furono condannati come esecutori materiali, ma il mandante non è mai stato identificato. Nell’ultima intervista che aveva rilasciato, Nemcov aveva accusato Putin di volerlo morto.

Romania, respinto il ricorso per annullare le elezioni

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La Corte Costituzionale della Romania ha respinto il ricorso presentato dal candidato di destra George Simion per annullare le elezioni presidenziali. La decisione è definitiva, ma non sono ancora note le motivazioni. Simion ha criticato la sentenza della Corte, accusandola di «proseguire il colpo di Stato respingendo il nostro appello». Il candidato aveva presentato ricorso martedì 20 maggio, dopo aver perso le elezioni della scorsa domenica. Simion, in particolare, accusa Francia e Moldavia di aver interferito nelle elezioni e sostiene che la tornata elettorale del 18 maggio dovrebbe essere annullata, come è stata annullata quella di dicembre per analoghe motivazioni.

Gli astronomi hanno individuato il più grande campo di galassie mai osservato

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Comprende quasi 1.700 gruppi di galassie tra cui molti mai osservati prima, copre un intervallo di tempo cosmico di oltre 12 miliardi di anni ed è stato immortalato in un’immagine ritenuta tra le migliori del mese dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA): è il nuovo catalogo ritenuto senza precedenti e ottenuto grazie all’uso del telescopio spaziale James Webb, il quale ha permesso a un team di ricercatori guidati dall’Università di Aalto di ottenere risultati molto rilevanti e dettagliati in uno studio sottoposto a revisione paritaria e appena pubblicato sulla rivista scientifica Astronomy and Astrophysics. Analizzando una regione di cielo già nota e ampiamente studiata, chiamata COSMOS Web, e utilizzando – oltre al telescopio – un particolare algoritmo innovativo, gli esperti hanno rilevato una quantità e diversità di gruppi galattici tali che, secondo gli autori, permetteranno di effettuare studi senza precedenti riguardo a l’evoluzione di tali ammassi nella storia dell’universo: «Con questo campione, possiamo studiare l’evoluzione delle galassie in gruppi negli ultimi 12 miliardi di anni di tempo cosmico. Siamo in grado di osservare effettivamente alcune delle prime galassie formatesi nell’universo», commentano i coautori.

Il telescopio spaziale James Webb è in funzione dal 2022 e, grazie alla sua sensibilità e risoluzione senza precedenti, consente agli astronomi di osservare oggetti molto lontani nello spazio e nel tempo. Quando guardiamo una galassia a miliardi di anni luce, infatti, la stiamo osservando com’era e come si presentava miliardi di anni fa. Questo principio, spiegano gli scienziati, ha permesso di ricostruire una sorta di archivio visivo dell’universo primordiale, dove le galassie erano più piccole, irregolari e attive nella formazione stellare. Per quanto riguarda la scoperta appena effettuata, i dati usati provengono dalla regione COSMOS Web, ora osservata anche da Webb. Per individuare con elevata precisione i gruppi di galassie, è stato utilizzato un algoritmo chiamato AMICO (Adaptive Matched Identifier of Clustered Objects), capace di identificare strutture spaziali attraverso la distribuzione delle galassie e la loro luminosità. Ne è risultato un catalogo vastissimo – il più vasto finora secondo gli autori – che spinge l’osservazione dei gruppi di galassie fino al cosiddetto redshift a z = 3.7, corrispondente a circa 12 miliardi di anni fa, ovvero ben oltre quanto fosse possibile in passato.

L’immagine di un gruppo di galassie, selezionata come Immagine del mese dell’ESA per aprile, risale a 6,6 miliardi di anni fa, a una distanza di 7,3 miliardi di anni luce, e rappresenta il nucleo del campione di grandi gruppi scoperto in questo progetto. Credit: ESA/Webb, NASA & CSA, G. Gozaliasl

Tutti risultati che, secondo il coautore a capo del team Ghassem Gozaliasl, sono fondamentali per comprendere la storia dell’universo perché “ospitano” materia oscura, gas caldo e buchi neri supermassicci, ovvero tutti elementi che influenzano il ciclo vitale delle galassie. «Le complesse interazioni tra queste componenti svolgono un ruolo cruciale nel plasmare i cicli vitali delle galassie e l’evoluzione dei gruppi stessi», spiega Gozaliasl, aggiungendo che tali ammassi non sono distribuiti in modo uniforme, ma si raggruppano in ambienti densi collegati da filamenti e pareti, formando la cosiddetta “rete cosmica”. Persino la nostra stessa galassia, infatti, la Via Lattea, fa parte di un piccolo gruppo chiamato Gruppo Locale, e le nuove osservazioni combinate con studi futuri, forse, potrebbero fornire nuove risposte alle domande riguardanti la storia dell’evoluzione dei corpi celesti a noi più noti. In tutti i casi, come descritto dagli autori, rimane il record di una scoperta definita mozzafiato e la speranza che possa dimostrarsi di estrema rilevanza per la comunità scientifica mondiale: «Quando osserviamo molto in profondità nell’universo, le galassie hanno forme più irregolari e stanno formando molte stelle. Più vicino a noi, la formazione stellare è ciò che chiamiamo ‘spenta’: le galassie hanno strutture più simmetriche, come le galassie ellittiche o a spirale. È davvero emozionante vedere le forme cambiare nel tempo cosmico. Possiamo iniziare a rispondere a tantissime domande su ciò che è accaduto nell’universo e su come si sono evolute le galassie», ha concluso Gozaliasl.

Per cosa si vota ai referendum dell’8 e 9 giugno: i cinque quesiti spiegati

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Referendum sì, referendum no. Ma quale referendum? L’appuntamento dell’8 e 9 giugno, che chiama gli italiani a decidere in materia di lavoro e cittadinanza, sta passando in sordina, complice la linea dell’astensionismo sposata dal governo e il disinteresse di media pubblici e privati che ne parlano molto poco e praticamente mai allo scopo di rendere chiari ai cittadini i temi sui quali sono chiamati ad esprimersi. I cinque quesiti, per i quali si potrà votare domenica 8 giugno (dalle ore 7 alle 23) e lunedì 9 (dalle 7 alle 15) sono di tipo abrogativo: votando sì si sceglierà quindi di cancellare parte dei testi di legge interessati modificandone nei fatti i contenuti, mentre votando no si sceglierà di lasciare le cose come stanno. Per rendere valido l’esito referendario è necessario che si rechino alle urne metà degli aventi diritto al voto più uno. Di seguito i cinque referendum, con i dettagli per capire su cosa – effettivamente – si è chiamati a decidere.

Quesito 1 – Contratto di lavoro a tutele crescenti – Disciplina dei licenziamenti illegittimi

I referendum sul lavoro sono stati promossi dalla CGIL. Il primo quesito, che alle urne si presenterà su scheda verde, è tra i più complessi. Proporrà di abrogare la disciplina sui licenziamenti illegittimi del contratto a tutele crescenti del Jobs Act, introdotta dal governo Renzi. Secondo l’attuale legge, le persone assunte dopo il 7 marzo 2015 nelle imprese con più di 15 dipendenti non devono essere reintegrate dopo un licenziamento ritenuto illegittimo dal giudice del lavoro. Sono tanti i casi di illegittimità del licenziamento; i più gravi sono quelli intimati per ragioni discriminatorie, pervenuti tramite forma orale o di natura disciplinare ma con l’insussistenza del fatto materiale contestato – nei confronti dei quali anche l’attuale legge prevede il reintegro obbligatorio, oltre al risarcimento. Per tutti gli altri casi di illegittimità, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di un indennizzo economico compreso tra 6 e 36 mensilità di stipendio (proporzionali all’anzianità di servizio del dipendente, quindi al tempo trascorso in azienda, da qui l’espressione “contratto a tutele crescenti”), senza prevedere il reintegro obbligatorio. Se dovesse vincere il sì, si tornerebbe al sistema preesistente al Jobs Act di Matteo Renzi, disciplinato dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dalla legge Fornero del 2012. Rispetto a oggi, si amplierebbero i casi in cui il licenziamento illegittimo comporta il reintegro del lavoratore in azienda.

Va detto che sulla norma oggetto del primo quesito è intervenuta la Corte Costituzionale, stabilendo che il tempo passato in azienda non possa essere l’unico criterio per definire l’indennizzo. Nelle mani del giudice è così stata riposta la discrezionalità sul suo ammontare, fino al massimo previsto di 36 mensilità. L’abrogazione della disciplina eliminerebbe eventuali ripensamenti futuri della Consulta. Il ripristino della situazione ante 2015 modificherebbe anche il parametro di riferimento per il limite massimo di mensilità, che passerebbe da 36 a 24, come previsto dalla legge Fornero. Insomma, sulla bilancia si pesano le maggiori possibilità per un reintegro e il minor indennizzo nei casi di solo risarcimento economico. In generale, il fronte del sì viene costruito sulla volontà di ripristinare alcuni diritti sottratti ai lavoratori dal Jobs Act. Per contro, il mantenimento dello status quo gioverebbe alle imprese, che manterrebbero una maggiore discrezionalità in materia di licenziamenti e indennizzi.

Quesito 2 – Piccole imprese – Licenziamenti e relativa indennità

Il secondo quesito, presentato su scheda arancione, interviene sulle piccole imprese (con meno di 15 lavoratori), dove in caso di licenziamento illegittimo è prevista un’indennità economica di massimo sei mensilità. Se dovesse vincere il sì, tale limite verrebbe abrogato e l’entità dell’indennizzo andrebbe stabilita dal giudice di caso in caso, sulla base di una serie di criteri tra cui la gravità della violazione, l’età, la composizione familiare e la capacità economica dell’azienda, senza soglie minime o massime.

Votare sì comporta ripristinare maggiori tutele al lavoratore, optare per il no si traduce nella difesa delle imprese, che oggi, indipendentemente dalla capacità economica, possono essere obbligate al pagamento di un’indennità massima di sei mensilità. Ad ogni modo, il quesito non interviene sulle possibilità di reintegro nelle piccole imprese, la cui obbligatorietà non è prevista per tale tipologia di azienda.

Quesito 3 – Contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi

Il terzo quesito, che arriverà alle urne su scheda grigia, rimette al centro un’altra parte del Jobs Act, relativa ai contratti di lavoro a tempo determinato. Questa tipologia di prestazione disciplina oggi, in Italia, il lavoro di circa due milioni di persone. Attualmente, un contratto a tempo determinato può essere stipulato senza causale, cioè senza l’indicazione di un motivo specifico da parte del datore di lavoro, per una durata iniziale inferiore ai 12 mesi. Con la vittoria del sì, anche i contratti con una durata inferiore a un anno dovranno indicare la causale, in base alle regole previste dai contratti collettivi firmati dai sindacati (CCNL), con l’obiettivo dichiarato di diminuire i casi di ricorso ai contratti a termine a favore di quelli a tempo indeterminato. Tale obiettivo è sposato dai sostenitori del sì, mentre il fronte del no difende la flessibilità che l’attuale regime conferisce alle aziende.

Quesito 4 – Responsabilità per infortuni sul lavoro

Il quarto quesito, presentato su scheda rosa, interviene su uno dei nervi scoperti del lavoro in Italia: la sicurezza. Nel nostro Paese ogni anno muoiono sul lavoro più di mille persone, a cui si aggiungono centinaia di migliaia di infortuni di varia entità. Il quarto quesito, relativo alla catena committente-appaltatore-subappaltatore, intende aumentare la responsabilità dell’imprenditore committente, che è colui che ordina la prestazione lavorativa, in casi di infortuni e di malattie professionali del lavoratore. Ad oggi, in base al principio della responsabilità solidale, possono risponderne sia il committente sia l’appaltatore e gli eventuali subappaltatori, fatta eccezione per i danni causati da rischi specifici dell’attività eseguite da questi ultimi due soggetti. I rischi specifici possono consistere, ad esempio, nell’esposizione a rumori o ad agenti chimici oppure nella movimentazione manuale dei carichi. Se dovesse vincere il sì verrebbe meno questa eccezione e il committente sarebbe sempre responsabile solidale con appaltatore e subappaltatore. «Cambiamo le leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità dell’imprenditore committente significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro», ha dichiarato la CGIL.

I sostenitori del sì puntano ad aumentare la responsabilità degli imprenditori in caso di ricorsi ad appalti e subappalti, spingendoli verso controlli e verifiche più dettagliate. L’obiettivo è di ridurre incidenti e morti sul lavoro. Secondo il fronte del no, invece, la disciplina vigente è corretta, ritenendo giusto l’attuale grado di responsabilità in capo al committente, che scarica parte dei rischi lungo la catena del lavoro.

Quesito 5 – Cittadinanza italiana

Chiude l’appuntamento referendario il quesito sulla cittadinanza italiana (scheda gialla). Ad oggi i cittadini extracomunitari immigrati in Italia devono risiedere consecutivamente nella nazione per un periodo minimo di dieci anni prima di poter avviare le pratiche per l’ottenimento della cittadinanza, periodo abbassato a cinque anni per coloro ai quali è stato riconosciuto lo status di apolide o di rifugiato, e a quattro anni per gli immigrati che hanno la cittadinanza di un altro paese UE. In caso di vittoria del sì si tornerebbe alle regole esistenti prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 91 del 5 febbraio 1992, abbassando i termini a cinque anni per gli immigrati extracomunitari e lasciandoli invariati per rifugiati e immigrati da Paesi parte dell’Unione Europea.

Niente cambierebbe invece rispetto alle altre condizioni accessorie che sono richieste per poter ottenere la cittadinanza, che rimarrebbero in vigore. Tra queste: la conoscenza della lingua italiana, l’obbligo di dimostrare di avere un reddito giudicato congruo, il rispetto degli obblighi tributari e l’assenza di cause ostative collegate alla sicurezza della Repubblica.

Secondo i fautori del sì, questo quesito non è un corpo estraneo al tema del lavoro trattato nei precedenti quattro. Le difficoltà di accesso alla cittadinanza, infatti, si prestano bene allo sfruttamento sul posto di lavoro e al caporalato. Inoltre, affermano, che negli oltre trent’anni trascorsi dal 1992 ha preso piede la concezione di cittadinanza come sentimento e condivisione di pratiche, piuttosto che come appartenenza fondata su una discendenza di sangue.

Posizioni dei partiti e questioni aperte

La maggioranza al governo ha invitato i suoi elettori all’astensione, così da non far raggiungere il quorum ed evitare il cambiamento di uno status quo difeso dalla rappresentanze degli imprenditori ma non da quelle dei lavoratori. Le opposizioni si sono invece divise. A favore di tutti e cinque i referendum c’è soltanto l’Alleanza Verdi-Sinistra Italiana. Formalmente ci sarebbe anche il Partito Democratico, ma va segnalata una spaccatura interna tra la linea dei cinque sì sposata dalla segretaria Elly Schlein e una corrente minoritaria che ha invece annunciato il parere favorevole a due dei cinque quesiti, su sicurezza e cittadinanza, proprio come +Europa. Sulla cittadinanza è d’accordo anche Italia Viva, nel suo unico sì ai referendum dell’8 e 9 giugno: i quesiti sui contratti a tutele crescenti e sulla reintroduzione delle causali nei contratti a tempo determinato sono stati bocciati dal partito di Renzi, che conferma dunque quanto fatto al governo col Jobs Act. Italia Viva ha poi lasciato libertà di voto ai propri elettori sui restanti quesiti: responsabilità in caso di incidenti sul lavoro e licenziamenti nelle piccole imprese. La libertà di voto il Movimento 5 Stelle l’ha indicata per il referendum sulla cittadinanza, mentre ha sposato in modo convinto i quesiti sul lavoro. Azione ha optato invece per una posizione quasi speculare, annunciando il voto favorevole al quesito sulla cittadinanza e quello contrario alle quattro richieste riguardanti il lavoro.

Al di là dei partiti, i referendum dell’8 e 9 giugno stanno mobilitando ampi settori della società civile. I sostenitori dei sì, oltre a convincere indecisi e controparte, devono fare i conti con un’immagine al momento compromessa del referendum, alla luce della disapplicazione operata dalla classe politica verso alcuni suoi esiti, tra cui la vittoria del sì alla consultazione sull’acqua pubblica, risalente al 2011.