giovedì 6 Novembre 2025
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Israele ha arrestato due italiani che documentavano le violenze dei coloni sui palestinesi

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Israele ha arrestato due attivisti italiani di Mediterranea Saving Humans e Operazione Colomba, mentre stavano documentando le violenze dei coloni e dei soldati israeliani sui palestinesi in Cisgiordania. I volontari registravano un gruppo di coloni armati. Poco dopo, sono sopraggiunte sul posto le forze delle IDF per arrestare un civile palestinese; i soldati hanno fatto spegnere le videocamere ai volontari, e li hanno arrestati con l’accusa di intralcio a pubblico ufficiale. Due diverse fonti verificate che stanno seguendo il caso hanno confermato a L’Indipendente che i volontari italiani al momento non si trovano più sotto custodia delle autorità di Tel Aviv. Tuttavia la loro vicenda non può ancora dirsi conclusa. In mattinata uno di loro è stato ascoltato dall’Ufficio immigrazione israeliano e nelle prossime ore si attende la decisione delle autorità, che potrebbero ordinare la loro espulsione dal Paese.

L’arresto degli attivisti italiani è avvenuto ieri, giovedì 26 giugno. I due volontari si trovavano sulle colline a sud di Hebron, nel villaggio di Khirbet al-Rakiz, dove stavano filmando i coloni, armati di fucili. Poco dopo, sono arrivati sul posto i soldati israeliani, che hanno chiesto ai volontari i loro passaporti e hanno affermato che i due non avessero l’autorizzazione di filmarli, nonostante, sottolinea il quotidiano israeliano Haaretz, non esista davvero una legge che lo vieti; gli attivisti hanno spento le loro attrezzature, ma sono stati comunque arrestati e portati in stazione, dove sono stati sottoposti a un interrogatorio. Dopo l’interrogatorio, è stato loro ordinato di dirigersi presso l’Autorità Israeliana per l’Immigrazione di Ramla, nei pressi dell’aeroporto Ben Gurion, dove uno di loro si è recato questa mattina. Al momento nessuno dei due si trova sotto custodia delle autorità di Tel Aviv, ma entrambi attendono ancora la pronuncia dell’Ufficio immigrazione. Secondo Haaretz è molto probabile che i due volontari vengano espulsi; se dovesse accadere, è possibile che l’ordine di espulsione venga accompagnato da un divieto di reingresso dalla durata variabile.

Aeroporto di Brescia: la protesta dei lavoratori ferma il trasporto di armi

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Con il loro sciopero, i lavoratori dell’aeroporto di Montichiari, in provincia di Brescia, sono riusciti a bloccare il traffico di armi nel proprio scalo. La protesta intendeva contestare il traffico di armi da un aeroporto che, almeno in teoria, dovrebbe ospitare solo materiali di natura civile. I lavoratori, venuti a conoscenza del transito di un carico di missili, hanno così disertato dalle loro mansioni, bloccando il suo arrivo. «Una vittoria importante della lotta contro il traffico di materiale bellico nel nostro Paese», si legge nel comunicato del sindacato USB, che ha indetto lo sciopero, «in un momento storico dove i venti di guerra soffiano più forti che mai». In passato, i lavoratori si erano già mossi contro l’utilizzo militare delle piste. Uno di loro era stato oggetto di un provvedimento disciplinare da parte di GDA Handling, il gestore dell’aeroporto.

Lo sciopero all’aeroporto Montichiari è stato indetto per la giornata di mercoledì 25 giugno, in cui era previsto l’arrivo di un carico di missili nello scalo. I lavoratori si sono riuniti in presidio a partire dalle 11, per denunciare il traffico di attrezzatura militare in una struttura di natura civile, che finisce per coinvolgere direttamente gli stessi operatori: «Lavoratori civili sono vengono mandati bordo a caricare e scaricare queste armi», denuncia infatti il sindacato USB. «Abbiamo chiesto incontri, abbiamo chiesto spiegazioni, ma nessuno ci ha mai dato risposte esaustive». Lo sciopero di mercoledì si è svolto in parallelo al vertice della NATO dell’Aia, in cui i rappresentanti degli Stati membri hanno dato il via libera all’aumento delle spese militari al 5% del PIL entro il 2035. La protesta dei lavoratori di Montichiari contestava in generale il fiorire delle politiche belliciste del blocco Occidentale: «Mentre esportiamo armamenti nei vari teatri di guerra, ha detto un lavoratore, questi ci ritornano in casa sotto forma di inflazione». Non si tratta dunque solo di una «questione etico-morale, ma anche dei lavoratori: oltre al fatto che si mette a repentaglio la vita dei lavoratori che mobilitano queste armi», il continuo privilegiare gli investimenti bellici contribuisce a causare un «impoverimento del mercato del lavoro».

Non è la prima volta che gli operatori dello scalo di Montichiari denunciano la presenza di merci pericolose nell’infrastruttura: già lo scorso giugno i lavoratori addetti al carico e scarico avevano segnalato attività di trasporto di materiale bellico, tra cui armi ed esplosivi, «con tutti i conseguenti rischi per i lavoratori e le popolazioni limitrofe». A ottobre, invece, Luigi Borrelli, il rappresentante sindacale di USB presso l’aeroporto, ha denunciato pubblicamente i movimenti di carico e scarico di materiale bellico. In seguito a queste dichiarazioni, la società GDA Handling ha mosso nei suoi confronti una contestazione disciplinare. A marzo, dopo mesi di denunce, gli operatori dell’aeroporto hanno lanciato un presidio per contestare il presunto impiego militare della struttura, dichiarando di essere costretti a maneggiare materiale esplosivo. L’attrezzatura militare, ha sostenuto il personale aeroportuale, verrebbe trasportata per chilometri da lavoratori sprovvisti di patenti idonee alla gestione di materiali pericolosi, transitando vicino a edifici civili.

Migranti: la Grecia dispiega forze navali per ridurre gli arrivi

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La Grecia ha iniziato a dispiegare le proprie forze navali per ridurre gli sbarchi di persone migranti dalla Libia. L’iniziativa è stata lanciata a fronte dell’aumento di persone migranti dal Paese africano, da cui quest’anno sono sbarcate 7.300 persone tra Creta e Gavdos. La missione, sostenuta dal coordinamento europeo e libico, pattuglierà il sud di Creta. Essa era stata precedentemente annunciata lo scorso lunedì dal premier Mitsotakis e coinvolge due navi greche e una libica.

Von der Leyen dovrà affrontare un voto di sfiducia a causa del Pfizergate

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Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, dovrà affrontare un voto di sfiducia al Parlamento europeo, a seguito dello scandalo noto come “Pfizergate”. L’iniziativa è stata promossa dall’eurodeputato rumeno Gheorghe Piperea, del partito AUR e membro del gruppo Conservatori e Riformisti Europei (ECR). La mozione ha superato la soglia minima richiesta di 72 firme, raccogliendone 74 da eurodeputati di vari schieramenti: ECR, Patrioti per l’Europa, Europa delle Nazioni Sovrane, alcuni non affiliati e persino un membro del Partito Popolare Europeo (PPE). Il voto è atteso nella sessione plenaria di luglio, ma difficilmente potrà avere successo, anche a causa della complessità dei regolamenti europei che garantiscono all’esecutivo comunitario un sistema di inattaccabilità dalle sfiducie parlamentari che non ha pari nelle costituzioni dei Paesi democratici.

Nello specifico, il documento è stato sottoscritto da 32 deputati del gruppo conservatore ECR (in Italia vi fanno parte i deputati di Fratelli d’Italia), 23 del gruppo sovranista ESN (nato su iniziativa del partito Alternativa per la Germania), 4 di Patrioti per l’Europa (in Italia rappresentato dalla Lega), 1 del PPE (i popolari di centrodestra, in Italia rappresentati da Forza Italia) e 14 non iscritti. Il motivo della presentazione della mozione risiede nel cosiddetto “Pfizergate”, lo scandalo che ha travolto la presidente della Commissione per la gestione della campagna vaccinale con la multinazionale farmaceutica Pfizer. Al centro della polemica c’è la gestione riservata dei negoziati con Pfizer da parte di von der Leyen durante la pandemia: nel 2021, la presidente trattò l’acquisto di 1,8 miliardi di dosi di vaccino anti-Covid (per un valore di 35 miliardi di euro, in un pacchetto più ampio da 70 miliardi) tramite messaggi privati con l’amministratore delegato Albert Bourla. Di quelle dosi, meno del 20% è stato effettivamente utilizzato. La Commissione ha più volte rifiutato di pubblicare gli sms, nonostante le richieste della stampa. Lo scorso maggio, la Corte di Giustizia dell’UE ha accolto il ricorso della giornalista del New York Times, Matina Stevis-Gridneff, che chiedeva accesso agli SMS scambiati tra von der Leyen e Bourla, annullando la decisione della Commissione di negare l’accesso ai messaggi di testo.

La mozione ha comunque evidenziato spaccature anche all’interno dello stesso gruppo ECR, guidato da Fratelli d’Italia e dal partito polacco Diritto e Giustizia (PiS). Mentre tutti i 20 eurodeputati del PiS hanno firmato, l’italiano Nicola Procaccini (co-presidente ECR) ha messo in dubbio l’opportunità della mozione, osservando che questa coinvolgerebbe l’intera Commissione, compresi i commissari nominati dai governi ECR. «Non ritiene che una simile decisione avrebbe dovuto prima essere approvata dal gruppo?», ha scritto in una email interna. Anche i rapporti tra Meloni e von der Leyen complicano la linea del gruppo: negli anni del suo governo, la premier italiana ha infatti collaborato strettamente con la presidente della Commissione, e l’alleato Raffaele Fitto ricopre un ruolo di rilievo a Bruxelles.

L’architettura istituzionale dell’Unione europea rende estremamente complesso sfiduciare la Commissione per più ragioni convergenti. Innanzitutto, per il fatto che a tal fine occorre sia il voto favorevole di almeno due terzi dei voti espressi (escludendo le astensioni) sia la maggioranza assoluta degli attuali 720 eurodeputati, (dunque almeno 361 sì). Se da un lato le astensioni abbassano il numero di voti espressi e quindi teoricamente riducono la soglia dei due terzi, dall’altro non intaccano i 361 voti necessari, anzi rendono più difficile raggiungere quella cifra fissa. La richiesta di un quorum così elevato garantisce che solo una solida maggioranza trasversale a partiti e Paesi possa staccare la spina all’esecutivo comunitario. E costituisce inoltre una protezione in favore dell’esecutivo che non ha pari nelle costituzioni dei Paesi democratici. Inoltre, la procedura impone un intervallo minimo di tre giorni tra presentazione e voto, lasciando tempo ai gruppi di riorganizzarsi e convincere gli indecisi. Una combinazione di fattori che rende sostanzialmente velleitario questo tipo di tentativo: finora tutte le mozioni di sfiducia contro la Commissione hanno fallito l’obiettivo di raggiungere contemporaneamente entrambi i quorum.

A Los Angeles cittadini e polizia si fronteggiano usando il riconoscimento facciale

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Le retate degli agenti dell’immigrazione statunitense continuano a colpire duramente la comunità di Los Angeles. Paramilitari mascherati, privi di codici identificativi, fermano auto e pedoni per catturare residenti e raggiungere così la quota delle fatidiche 3.000 detenzioni giornaliere imposta dall’amministrazione Trump a sostegno della politica delle deportazioni di massa. La città ha reagito, tuttavia l’indignazione degli abitanti è stata accolta dall’intervento congiunto della polizia, della Guardia Nazionale e dei Marines. Con il passare dei giorni, nella spirale repressiva sono entrate in campo anche le tecnologie di riconoscimento biometrico, le quali vengono utilizzate dalle autorità per individuare con maggiore precisione i propri bersagli, ma che vengono adottate anche dal basso per documentare e contrastare i numerosi abusi di potere. Un sistema di controllo che ora, grazie a un artista locale, anche i cittadini stanno iniziando a utilizzare per sorvegliare gli abusi di polizia e aggirare gli stratagemmi che molti agenti adoperano per oscurare il proprio codice identificativo.

Una email interna visionata da 404 Media rivela che il personale dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) ha cominciato a utilizzare un’applicazione per smartphone capace di confrontare i volti immortalati dagli agenti con due distinti archivi governativi. Il primo è il database dei servizi di verifica dei viaggiatori del Customs and Border Protection (CBP), il quale contiene i dati biometrici raccolti normalmente nei checkpoint statunitensi; il secondo è il Seizure and Apprehension Workflow del Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS). Non è da escludere che, in un futuro, possano venire integrate anche le informazioni di BITMAP, un database contenente dettagli accumulati con le collaborazioni poliziesche transfrontaliere.

I documenti interni rivelano che il software – chiamato Mobile Fortify App – “offre agli utenti funzionalità di verifica dell’identità biometrica in tempo reale utilizzando impronte digitali contactless e immagini facciali acquisite tramite fotocamera […] senza la necessità di dispositivi di raccolta secondari”. L’app è stata sviluppata per identificare soggetti sconosciuti agli agenti ed è persino dotata di un “campo di addestramento non dal vivo”, utile per esercitarsi a scattare immagini in maniera rapida ed efficiente, così da essere più efficienti una volta che si viene schierati sul campo. L’app non è però la prima incursione dell’ICE nel mondo del riconoscimento facciale: in passato era emerso un contratto da oltre tre milioni di dollari con Clearview, controversa azienda tecnologica che estrae dati dai social media, la cui attività è considerata illegale in Europa.

Strumenti di questo tipo, però, cominciano a diffondersi anche tra i cittadini, che li impiegano per contrastare gli eccessi delle forze dell’ordine. L’artista losangelino Kyle McDonald ha lanciato il portale FuckLAPD.com, un servizio online pensato per aiutare i cittadini a identificare quegli agenti della polizia di Los Angeles che, intenzionalmente, celano il proprio distintivo, rendendosi irriconoscibili per vie ufficiali. L’applicazione elabora i dati direttamente sul dispositivo dell’utente – senza caricamenti esterni – e li confronta con un archivio di oltre 9.000 fototessere di agenti ottenute da registri pubblici.

Già nel 2018, McDonald aveva ideato un sistema simile: ICESPY, dedicato all’identificazione del personale ICE. In quel caso, l’archivio fotografico era stato costruito attingendo a immagini e dati estratti da LinkedIn, il più noto social network dedicato al mondo del lavoro. Una scelta strategica, ma anche profondamente simbolica: LinkedIn è di proprietà di Microsoft, una delle aziende accusate di fornire supporto tecnologico a fini militari, e nota per reprimere i dipendenti che osano criticare le collaborazioni con l’ICE e il sistema di deportazioni forzate che viene imposto ai migranti. A prescindere che questi siano negli USA legalmente o meno.

Colombia, sospesa l’indagine della Corte Elettorale sul presidente Petro

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La Corte Costituzionale colombiana ha sospeso l’indagine della Corte Elettorale sul Presidente Gustavo Petro. La Corte, nello specifico, ha stabilito che solo la Camera dei Rappresentanti può indagare su Petro. L’indagine della Corte Elettorale era stata richiesta lo scorso ottobre dal Consiglio Elettorale Nazionale, sulla base di presunte irregolarità nei finanziamenti alla campagna elettorale di Petro del 2022, anno in cui è stato eletto presidente.

Libano, jet israeliani sferrano attacchi a Nabatieh

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L’aeronautica militare israeliana ha condotto attacchi aerei di massa su diverse postazioni a Nabatieh, in Libano, vicino a Beirut, secondo la protezione civile locale citata da TASS. Nuvole di fumo denso si sono levate al termine di un raid partito dalle alture di Ali al-Taher e una potente esplosione è stata udita a Qal’at al-Shaqif, dove sorgono le rovine del castello di Beaufort. I missili israeliani hanno colpito presunti nascondigli sotterranei e magazzini di Hezbollah nei sobborghi di Mahmoudiyeh, Kafr Tibnit e nella gola presso il ponte Khardali sul Litani. Non ci sono ancora notizie su eventuali vittime.

L’Indipendente donerà oltre 52 mila euro ai medici di Gaza, grazie a tutti a voi

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Cinquantaduemiladuecentonove euro e sessantadue centesimi: è questa la somma che L’Indipendente si appresta a donare alla Al-Awda Health and Community Association, organizzazione non governativa e senza scopo di lucro di medici palestinesi, che gestisce due degli ultimi ospedali ancora operativi nella Striscia di Gaza. Un risultato straordinario, reso possibile dai nostri lettori che, con un entusiasmo che ha superato ogni aspettativa, hanno risposto all’iniziativa che abbiamo lanciato dal 16 al 22 giugno, periodo in cui il 100% dei proventi dei nuovi abbonamenti alla nostra testata giornalistica era destinato a questa azione di solidarietà e giustizia. Un traguardo che ci rende doppiamente orgogliosi: da un lato, perché dimostra che il giornalismo può avere un impatto concreto, anche contribuendo a salvare vite di donne, bambini e uomini di Gaza; dall’altro, perché conferma quanto sia straordinaria la nostra comunità di lettori, che in questa settimana si è unita in una gara di solidarietà capace di far segnare di gran lunga il nostro record assoluto di abbonamenti.

I due ospedali gestiti da Al-Awda – quello di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza, e l’Al-Awda Field Hospital 1 a Gaza City – sono tra le pochissime strutture ancora operative per la gestione delle emergenze mediche e chirurgiche, in un contesto in cui il 94% degli impianti sanitari è stato distrutto o danneggiato dai bombardamenti israeliani. La loro presenza non è soltanto importante: è vitale. Circa 60 medici e decine di infermieri operano ogni giorno nelle strutture di Al-Awda, offrendo cure a centinaia di pazienti. I fondi raccolti grazie alla comunità dei lettori de L’Indipendente serviranno ad acquistare tutto ciò che è indispensabile per salvare vite: anestetici, dispositivi sanitari di base, bisturi, macchinari. Ma anche per farne nascere di nuove: l’ospedale Al-Awda di Nuseirat è infatti l’unica struttura nel centro della Striscia con reparti di ostetricia e ginecologia ancora attivi, dove ogni giorno si svolgono fino a 50 parti.

In questi giorni siamo in attesa che la Fondazione Al-Awda ci fornisca un preventivo dettagliato delle spese a cui saranno destinati i fondi raccolti. Ci vorrà ancora qualche giorno: come potete immaginare, le comunicazioni tra l’Italia e la Palestina occupata non sono semplici. Una volta superati questi ostacoli, procederemo con la donazione. Non appena riceveremo la documentazione, pubblicheremo sui nostri canali sia la conferma dell’avvenuta ricezione dei fondi da parte di Al-Awda, sia la lettera di ringraziamento che ci giungerà da Gaza. Ogni passaggio di questa operazione sarà contrassegnato dalla massima trasparenza.

Come avevamo promesso, doneremo tutti i proventi incassati dai nuovi abbonamenti attivati dal 16 al 22 giugno, senza trattenere nemmeno un euro per le spese di gestione di questa operazione né per i costi di spedizione che sosterremo per consegnare il nostro mensile a chi ha sottoscritto l’abbonamento premium.

Come abbiamo sempre affermato, per noi fare giornalismo significa anche provare a incidere sulla realtà, contribuendo a migliorarla. Rinunciare a una settimana di entrate rappresenta uno sforzo significativo per un giornale come il nostro, che si regge esclusivamente sugli abbonamenti e rifiuta ogni forma di pubblicità e sponsorizzazione. Per questo vi chiediamo di continuare, ciascuno secondo le proprie possibilità, ad abbonarvi o a regalare abbonamenti a L’Indipendente, permettendoci così di continuare nel nostro lavoro e di poter mettere in campo, in futuro, altre iniziative come questa.

Grazie a tutti!

Giappone, eseguita prima condanna a morte dal 2022

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In Giappone è stata eseguita oggi la condanna a morte di Takahiro Shiraishi, noto come il “killer di Twitter”, per l’omicidio di nove persone tra agosto e ottobre 2017. È la prima dal 2022 nel Paese. Shiraishi adescava vittime con pensieri suicidi tramite social, promettendo di aiutarle a morire, per poi drogarle, violentarle, strangolarle e smembrarle. Arrestato nel 2017, è stato condannato alla pena capitale nel 2020. Il caso suscitò grande attenzione mediatica, spingendo Twitter (oggi X) a vietare contenuti che promuovano il suicidio. Ha anche riacceso il dibattito sulla salute mentale in Giappone, Paese dove il suicidio è un grave problema sociale.

PFAS in Veneto, sentenza storica: condanne fino a 17 anni di carcere ai dirigenti Miteni

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Una sentenza storica ha chiuso in primo grado uno dei più gravi casi di inquinamento ambientale mai registrati in Italia. La Corte d’Assise di Vicenza ha infatti condannato undici ex dirigenti della Miteni di Trissino (Vicenza) per il disastro provocato dai PFAS – composti perfluoroalchilici altamente inquinanti – che hanno contaminato per decenni le acque e i territori delle province di Vicenza, Verona e Padova, mettendo a rischio la salute di oltre 350mila persone. Le pene inflitte superano di vent’anni le richieste dell’accusa, arrivando complessivamente a 141 anni di carcere contro i 121 chiesti dalla Procura.

Ai principali imputati sono state inflitte condanne pesanti: 17 anni per Patrick Fritz Hendrik Schnitzer, Achim Georg Hannes Riemann (entrambi Icig), Brian Anthony McGlynn e Luigi Guarracino (Miteni). A 16 anni sono stati condannati anche Naoyuki Kimura e Yuji Suetsune (Mitsubishi Corporation) e Alexander Nicolaas Smit (Miteni). Seguono Maki Hosoda (11 anni), Antonio Alfiero Nardone (6 anni e 4 mesi), Martin Leitgeb (4 anni e 6 mesi) e Davide Drusian (2 anni e 8 mesi). Sono invece stati assolti quattro imputati: Kanji Ito, Mario Fabris, Mauro Cognolato e Mario Mistrorigo, per i quali è stato riconosciuto che, pur a conoscenza dell’inquinamento, non avevano potere per impedirlo. Le condanne arrivano al termine di un processo durato cinque anni, con 134 udienze e centinaia di parti civili coinvolte. La Corte ha riconosciuto risarcimenti milionari: 58 milioni di euro al Ministero dell’Ambiente, 6,5 milioni alla Regione Veneto, 800mila euro ad Arpav, e tra i 15 e i 20mila euro a singoli cittadini e associazioni, comprese le «Mamme No Pfas», in prima fila nella battaglia per la verità. Tuttavia, sono rimasti esclusi dai risarcimenti i lavoratori dell’ex Miteni, nonostante le denunce sindacali sulle possibili correlazioni tra esposizione ai PFAS e malattie, tema su cui sono in corso altri procedimenti.

Secondo la sentenza, le aziende che si sono avvicendate nella gestione dello stabilimento Miteni hanno contaminato in modo doloso con sostanze chimiche, anche cancerogene, l’acqua della seconda falda acquifera d’Europa, mettendo a rischio centinaia di migliaia di persone, compromettendo anche la catena alimentare e rendendo inutilizzabili le acque per uso potabile e irriguo in un’area estesa oltre 180 chilometri quadrati. Il sito produttivo ha scaricato per decenni sostanze tossiche come C604 e GenX nelle acque superficiali e sotterranee, inquinando fiumi come il Fratta Gorzone, il Bacchiglione, il Retrone e l’Adige. Legambiente, costituitasi parte civile, ha accolto con entusiasmo la sentenza. «La conferma da parte della Corte dell’ipotesi accusatoria della Procura per tutti gli imputati e, soprattutto, la conferma della natura dolosa dei reati contestati rende finalmente giustizia alle parti civili ed a centinaia di migliaia di persone, contaminate a loro insaputa per decenni», ha dichiarato il presidente nazionale Stefano Ciafani. Ora si guarda alla bonifica: il Comune di Trissino ha appena approvato il documento di analisi del rischio, passo preliminare al piano di risanamento del sito industriale, che dovrà essere presentato entro sei mesi. Resta invece in sospeso la questione della falda contaminata, per cui non esiste ancora un piano concreto.

La vicenda giudiziaria legata all’inquinamento da PFAS in Veneto è iniziata nel 2013 con la scoperta della contaminazione di una vasta falda acquifera che ha coinvolto circa 350mila cittadini nelle province di Vicenza, Verona e Padova. Tra il 2015 e il 2016, rilevazioni a campione spinte da associazioni ambientaliste hanno evidenziato livelli elevati di PFAS nel sangue dei residenti, portando nel 2018 alla dichiarazione dello stato di emergenza e all’istituzione di una zona rossa in 30 comuni, con divieto di utilizzo dell’acqua potabile. Uno studio dell’Università di Padova, pubblicato su Environmental Health, ha rilevato in quest’area un aumento di mortalità per malattie cardiovascolari e neoplastiche tra il 1985 e il 2018. A maggio 2024, il TAR del Veneto ha stabilito che anche Mitsubishi Corporation debba sostenere i costi della bonifica, ritenendo tutte le società che hanno controllato l’ex stabilimento Miteni corresponsabili dell’inquinamento.

I Pfas sono un gruppo che raccoglie oltre 10mila molecole sintetiche non presenti in natura, utilizzate in vari processi industriali per la fabbricazione di prodotti come le padelle antiaderenti o qualche imballaggio alimentare. Essendo molecole fortemente stabili, esse non vengono degradate brevemente nell’ambiente e sono state definite “inquinanti eterni”. L’esposizione ai Pfas è stata associata a problemi alla tiroide, diabete, danni al fegato e al sistema immunitario, cancro al rene e ai testicoli e ad impatti negativi sulla fertilità. Da novembre 2023, le sostanze sono state riconosciute anche come cancerogene.