domenica 16 Novembre 2025
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Etiopia, si estende il conflitto: dopo il Tigrè i ribelli puntano la capitale

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Soldiers belonging to the Ethiopian Naitonal Defense Forces put on African Union berets and craverts during a ceremony in Baidoa, Somalia, to welcome them into the African Union peace keeping mission on January 22. AU UN IST PHOTO / Tobin Jones

Continua ad aggravarsi la situazione in Etiopia, dove martedì il governo capeggiato da Abiy Ahmed ha dichiarato lo stato di emergenza nell’intero paese. Il primo ministro ha immediatamente esortato i cittadini ad armarsi e tenersi pronti a difendere la capitale Addis Abeba dall’attacco di due gruppi ribelli: i separatisti del Fronte di liberazione del Tigrè (TPLF) e l’Esercito di liberazione degli Oromo (OLA), alleatisi lo scorso agosto con l’intento di portare la guerra al di fuori della regione del Tigrè. E così è stato. Ai loro colpi hanno già ceduto le città di Dessiè e Combolcià, posizionate lungo l’autostrada che collega la regione del Tigrè, a nord dell’Etiopia, alla capitale. Per questo motivo il governo teme proprio che il prossimo obiettivo possa essere Addis Abeba.

Quella del governo sembra essere stata una mossa necessaria. Attraverso lo stato di emergenza, infatti, Abiy Ahmed nei prossimi sei mesi può decidere di adottare misure che in altre situazioni non potrebbe autorizzare. Si parla di checkpoint e coprifuochi, chiamata alle armi per tutti i cittadini in età per combattere e trasferimento di alcuni poteri nelle mani delle forze di sicurezza. E ancora, possibilità di arrestare senza mandato chiunque sia anche solo sospettato di aiutare o avere legami con i gruppi ribelli.

Non è facile, però, tirare le fila della situazione, in un contesto confuso, caotico e in cui anche la stampa fa fatica a reperire informazioni chiare. Sconcerta soprattutto il fatto che l’Etiopia sia finita nel baratro della guerriglia nel giro di poco più di un anno, dopo essere stata per molto tempo considerata la regione più stabile del Corno D’Africa. Nel 2019 Abiy Ahmed aveva perfino vinto il Nobel per la Pace grazie alla diplomazia adottata negli accordi di pace con l’Eritrea e alle sue riforme democratiche.

Un anno in cui è praticamente cambiato tutto e che ha visto l’esercito federale scontrarsi duramente nella regione settentrionale del Tigrè con i separatisti del Fronte di liberazione del Tigrè (TPLF), a capo dell’area. I ribelli del TPLF non sono nuovi all’Etiopia. Anzi, sono stati per molti anni una fazione dominante all’interno del governo federale, offuscati però poi dall’arrivo al governo di Abiy, nel 2018. Una supremazia che il primo ministro sperava di mantenere anche grazie all’intervento dell’esercito eritreo, sceso al fianco di quello etiope. E invece, dopo una serie di sconfitte, i ribelli erano riusciti a giugno a riconquistare gran parte della regione, dimostrando grande abilità militare, anche grazie all’aiuto degli alleati: l’Esercito di liberazione degli Oromo. Questi ribelli dicono di battersi in difesa degli Oromo, il più grande gruppo etnico dell’Etiopia: molti dei loro leader politici sono stati imprigionati proprio sotto il governo di Abiy.

L’estrema violenza con cui si sono svolti i combattimenti non ha risparmiato i civili: molte organizzazioni per la difesa dei diritti umani continuano a parlare di gravi crimini di guerra e contro l’umanità. Atrocità su cui non si riesce a far luce con chiarezza, dal momento che l’Etiopia ha cercato di limitare un’indagine sui diritti umani condotta dalle Nazioni Unite e il governo nazionale ha vietato ad alcuni organismi come Human Rights Watch e Amnesty International di entrare nella regione assediata. L’unico compromesso accettato è quello di intraprendere un’indagine congiunta fra Nazioni Unite e Commissione etiope per i diritti umani (EHRC), creata dal governo. Al momento potrebbe essere l’unica fonte ufficiale al mondo di informazioni sulle atrocità della guerra. Seppur forse non totalmente “limpida”.

La situazione, comunque, si evolve di giorno in giorno ma è difficile verificare in maniera indipendente la situazione attuale, viste le grosse limitazioni imposte dal governo etiope all’attività dei giornalisti internazionali.

[di Gloria Ferrari]

Le prove scientifiche sull’origine antropica dei cambiamenti climatici

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Praticamente la totalità degli studi è d’accordo: le attività antropiche sono responsabili dei cambiamenti climatici globali. Oltre il 99,9% degli articoli scientifici sottoposti a revisione paritaria concorda infatti che la crisi climatica in atto sia stata causata principalmente dalle attività antropiche. Per giungere a queste conclusioni, una recente review della letteratura scientifica disponibile ha analizzato 88.125 studi sul clima. La ricerca ha aggiornato un precedente studio del 2013 dal quale era già emerso che il 97% degli studi pubblicati tra il 1991 e il 2012 supportava l’origine antropogenica del riscaldamento globale [1]. Eppure, gli scetticismi a riguardo sono ancora duri a morire. Cercando così di rispondere con dovizia di fonti alle principali perplessità, abbiamo interrogato il Dott. Antonello Pasini, scienziato del cambiamento climatico tra i massimi esperti internazionali sul tema.

Dott. Pasini, il clima è sempre cambiato, che senso ha parlare di cambiamenti climatici?

Questo argomento è stato il primo cavallo di battaglia dei “deniers”, cioè di coloro che negano le evidenze scientifiche rispetto al cambiamento climatico recente. Quando i dati hanno cominciato a mostrare un aumento veramente deciso della temperatura media globale, almeno dagli anni ’60 del secolo scorso, e non si poteva più negare che ciò stesse avvenendo, questi signori hanno cominciato a dire che il clima è sempre cambiato, sia nelle ere geologiche che negli ultimi secoli: chi non si ricorda che a scuola ci insegnavano che Annibale aveva attraversato le Alpi con gli elefanti o che la Groenlandia si chiama così (green land = terra verde) perché ai tempi della sua colonizzazione da parte di Erik il Rosso doveva essere priva di ghiacci? Ebbene, i riscaldamenti passati erano molto diversi da quello cui assistiamo oggi. Innanzi tutto, è vero che le nostre “carote” di ghiaccio estratte da Antartide e Groenlandia mostrano come negli ultimi ottocentomila anni il clima della Terra sia passato più volte da ere glaciali a periodi caldi interglaciali, ma allora si riscontrava un aumento di circa 1ºC ogni mille anni, mentre adesso l’aumento è stato di 1ºC in soli 100 anni, dunque il riscaldamento è molto più rapido. Inoltre, uno studio recente di Neukom e colleghi [2], facendo uso di dati di carote di ghiaccio, pollini, anelli degli alberi, sedimenti lacustri e marini, stalattiti e stalagmiti, ha stimato su tutto il globo la temperatura degli ultimi duemila anni. I risultati hanno mostrato chiaramente che il riscaldamento recente interessa il 98% della superficie terrestre ed è avvenuto tutto negli ultimi decenni, dunque è ubiquitario e sincrono. In passato si vedono certamente riscaldamenti locali (in Europa ai tempi di Annibale, in Groenlandia ai tempi di Erik il Rosso), ma negli stessi periodi altrove questo non si verificava. Questi ricercatori mostrano in particolare come questi riscaldamenti locali (che non sono né ubiquitari né sincroni) possano essere spiegati da una variabilità naturale del clima, mentre quello globale degli ultimi decenni debba avere una causa esterna che “forza” tutto il mondo a cambiare la sua temperatura.

L’effetto serra è un fenomeno naturale, quindi, perché allarmarsi?

Sappiamo bene che la presenza di gas ad effetto serra in atmosfera (anidride carbonica, metano, vapore acqueo e altri) ha consentito la vita sul pianeta e la sua diffusione così come la conosciamo: senza questi gas la temperatura media alla superficie sarebbe di 33ºC inferiore all’attuale. Il problema è che noi ora, con le nostre emissioni di questi gas, stiamo aumentando l’effetto serra naturale e stiamo riscaldando mari e aria. Non c’è un problema di tossicità dell’anidride carbonica a queste concentrazioni, ma sono gli effetti sulla temperatura [3]che ci rendono preoccupati.

Se è in corso un riscaldamento globale, perché si hanno frequenti picchi di freddo estremo? 

In questa affermazione ci sono due aspetti di fraintendimento. Da un lato, si confonde tra tempo meteorologico e clima. Il clima è un concetto statistico e rappresenta il tempo meteorologico medio che fa su una certa zona per un certo numero di anni (solitamente almeno 30 anni), insieme ad un valutazione della sua variabilità. Il tempo è quello che capita in una certa giornata o addirittura ad una determinata ora. È chiaro che il clima possiede una sua variabilità naturale per cui, anche se mediamente siamo in periodo di riscaldamento climatico globale, ci possono essere brevi periodi di freddo. Dall’altro lato, studi recenti [4] mostrano come alle nostre latitudini il riscaldamento globale possa favorire localmente certi inverni freddi. Si è visto infatti che la fusione dei ghiacci al Polo Nord (dove abbiamo perso più di 3 milioni di chilometri quadrati di superficie ghiacciata negli ultimi 40 anni) spesso non permette più il confinamento di aria fredda al Polo, ma in inverno la fa scendere alle medie latitudini in America, Europa e Asia. La temperatura media globale aumenta, ma aumenta anche la sua variabilità. In tal modo, sicuramente aumentano e diventano più probabili i casi di caldo estremo, mentre i casi di freddo diventano un po’ meno probabili ma non scompaiono.

Su che base i modelli che valutano le variazioni di temperatura sono affidabili?

I modelli climatici standard si basano sulla nostra conoscenza teorica del funzionamento dei singoli sottosistemi (i “pezzi”) del sistema clima. Questa conoscenza è ben posta perché acquisita in laboratorio. Ma quando vogliamo studiare l’intero sistema, cioè tutti i pezzi in interazione tra loro, non riusciamo a farlo in laboratorio, anche per problemi di scala: ci vorrebbe una Terra gemella su cui fare esperimenti, ma non ce la possiamo permettere… Inoltre, non abbiamo il controllo di tutti gli elementi. Allora, da qualche decennio si simula il funzionamento del sistema clima in un laboratorio virtuale, il computer. Qui abbiamo sviluppato modelli al calcolatore che sono in grado di ricostruire il clima passato e, facendo esperimenti in questo laboratorio virtuale, capiamo anche che la responsabilità del riscaldamento globale recente è delle nostre azioni in termini di combustioni fossili, deforestazione e cattivo uso del suolo. Ovviamente tali modelli climatici standard sono validati sul passato e ci permettono di ottenere dati previsti di temperatura e altre variabili anche per il futuro sotto la spinta di diversi scenari di emissione di gas serra. Ma alcuni deniers sostengono che la nostra conoscenza, inserita in questi modelli, è ancora incerta e potrebbe portare a risultati sbagliati. Allora, con alcuni colleghi abbiamo applicato altri modelli [5] Ccome sistemi di intelligenza artificiale) che sono in grado di imparare le “leggi” di funzionamento del sistema clima solo analizzando i dati, senza nessun apporto di conoscenza da parte nostra. Ebbene, anche tutti questi modelli mostrano chiaramente come il riscaldamento globale recente sia stato creato soprattutto dalle nostre azioni antropiche. La nostra conoscenza scientifica risulta dunque molto robusta e affidabile.

Perché mai 2-3°C in più dovrebbero fare la differenza?

Il vero problema non è certo il fatto di sudare un po’ di più, ma sono le conseguenze di questo aumento di temperatura sul cambiamento del clima e gli impatti sui territori, gli ecosistemi e l’uomo che vanno attentamente considerati, ad esempio le variazioni indotte sulla violenza degli eventi di precipitazione che stiamo tristemente vedendo in Italia in questo autunno caratterizzato da un Mar Mediterraneo molto caldo. Ciò fornisce un surplus di energia ai sistemi atmosferici, i quali non possono far altro che scaricarlo sui territori, con piogge estremamente intense e venti forti. In altre zone del mondo, ad esempio nei paesi della fascia del Sahel, che non hanno responsabilità nell’aumento di temperatura in quanto emettono pochissimi gas serra, gli impatti sono ancora più gravi, con perdite di raccolti, lotte per le risorse, innesco di conflitti ed infine migrazioni. Questi fenomeni si vedono già oggi ma in futuro, se non riusciremo a ridurre le nostre emissioni, la deforestazione e un’agricoltura non sostenibile, tali impatti sono destinati ad aggravarsi.

In quest’ultimo caso mi permetto di segnalare i miei due ultimi libri: “Effetto serra, effetto guerra” [6] e “L’equazione dei disastri” [7]. In entrambi c’è una buona quantità di riferimenti ad articoli pubblicati su riviste internazionali.

[di Simone Valeri]

Riferimenti

1: Lynas et al. (2021). Greater than 99% consensus on human caused climate change in the peer-reviewed scientific literature. Environmental Research Letters, volume 16, numero 11.

2: Neukom et al. (2019). No evidence for globally coherent warm and cold periods over the preindustrial Common Era. Nature, volume 571, pagine 550–554.

3: Arrhenius (1896). On the Influence of Carbonic Acid in the Air upon the Temperature of the Ground. Philosophical Magazine and Journal of Science Series 5, Volume 41, pagine 237-276.

4: Mori et al. (2019). A reconciled estimate of the influence of Arctic sea-ice loss on recent Eurasian cooling. Nature Climate Change volume 9, pagine 123–129.

5: Mazzocchi e Pasini (2017). Climate model pluralism beyond dynamical ensembles. WIREs Climate Change, Volume 8, Issue 6 e477.

6: Mastrojeni e Pasini (2020). Effetto serra, effetto guerra. Casa Editrice: Chiarelettere, pagine: 176, ISBN: 8832963000.

7: Pasini (2020). L’equazione dei disastri. Casa Editrice: Codice, Pagine: 184, ISBN: 9788875788650.

 

In Italia gli stipendi crollano a una velocità sconosciuta nel resto di Europa

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Italia fanalino di coda nell’Unione Europea. Come già due anni prima, ancora peggio adesso dopo la pandemia. La Fondazione Di Vittorio della Cgil, ha presentato ieri un report in cui si analizza la situazione dei salari italiani in relazione agli ammortizzatori sociali e agli effetti del Covid, confrontando i dati con quelli dei principali paesi europei. Ciò che emerge è assai preoccupante. La massa salariale, cioè la quantità di denaro complessivo che in Italia viene impiegata nei salari, nel 2020 è calata. E questo ce lo attendevamo. Ma mentre nell’eurozona la flessione generale è del 2,4%, in Italia si conta un -7,2%. Non è andata meglio sull’occupazione. Con un -1,3% in Europa e un -1,7% nel nostro paese.

Il massiccio utilizzo della Cassa Integrazione e di misure di sostegno ha attutito abbastanza la caduta dei salari (portando la loro massa a un effettivo 3,9%), tuttavia la sostanza non cambia. Se consideriamo che anche gli altri paesi hanno adottato interventi di tutela e che nazioni come la Germania hanno avuto peggioramenti molto più lievi del livello dei salari (-0,7%). Tutto ciò è particolarmente negativo a maggior ragione che l’Italia era l’unica nazione tra le maggiori sei dell’eurozona a non aver ancora recuperato i livelli salariali pre-crisi del 2008. La Fondazione non ha ancora i dati completi del 2021, anno in cui si prevede un rialzo del Pil del 6% e un riequilibrio (se ne parla in quest’articolo de L’Indipendente). Posto che la stima sarà azzeccata, e sulle stime non bisogna mai essere troppo fiduciosi, va appunto tenuto a mente che l’Italia parte comunque da molto più in basso.

Il 2019 pure non fa sorridere. Allora il salario medio italiano era inferiore di circa 9.000 euro rispetto a quello francese e di oltre 12.000 euro su quello tedesco. Inoltre, è nocivo che su salari mediamente più bassi come quelli italiani, la pressione fiscale sia maggiore. Questo erode ancora di più la capacità di spesa e di investimento. Quest’anno sul fronte dell’occupazione le cose vanno meglio seppur altalenanti, nel recupero delle posizioni lavorative dipendenti tra agosto 2020 e agosto 2021 l’80% è a termine. L’occupazione è 9 punti inferiore rispetto alla media dell’eurozona. Ma se il tasso di occupazione italiano è cosi più basso della media europea, a pesare anche l’enorme numero di inattivi (in merito segnaliamo la categoria dei cosiddetti Neet) su cui siamo al primo posto in Europa. Tutto ciò fa pensare che il tasso di disoccupazione sia in realtà maggiore del 9,2% ufficiale, attestandosi su un 14,5%. Secondo la Cgil un problema sta anche nell’eccessiva concentrazione di lavori a bassa qualifica, così come il minor numero di laureati. Fattori che possono incidere sul salario.

Il precariato ormai strutturale, i troppi tempi vuoti lavorativamente, dunque scarsa continuità contributiva, costituiscono la tempesta perfetta. La Fondazione Di Vittorio quest’anno ha analizzato che, in un ampio campione di persone entrate al lavoro dal 1996 e osservate fino al 2016 con meno di 40 anni di età, dopo 20 anni solo il 45% di loro ha più di 16 anni di contributi versati. Sia nella crisi del 2008 sia in quella pandemica la scelta è stata quella di non rinnovare i contratti o di tendere a rapporti a termine. Ma i circa 3 milioni di lavoratori con contratti a tempo determinato rappresentano davvero un numero eccessivo e una zavorra per la crescita economica, al netto di quanto ne pensino i tanti economisti conservatori che ad ogni periodo di difficoltà consigliano di flessibilizzare il mercato del lavoro per favorire le imprese. Le medesime imprese che, poi, per alleggerirsi spingono a part-time involontari (il 66,2% contro il 24,7% in eurozona) livellando ancora di più la massa salariale. Secondo Cgil un recupero dei livelli salariali in futuro si potrà avere solo se, nelle prime otto fasce delle diverse posizioni contrattuali, ogni dipendente guadagnerà più di 10.000 euro annui. Una prospettiva difficile, ancorché si parla sempre di lavoro subordinato e non si conta la vasta platea di autonomi (anch’essi magari involontari o anomali).

Le associazioni imprenditoriali, infatti, fanno sempre finta di non vedere che la produttività italiana è al lumicino se la valutiamo dal 1995 al 2019. Con uno 0,3% rispetto al 1,6% dell’UE. Sarà forse tutta colpa dei lavoratori? O un lavoratore precario sarà sempre meno formato e meno propenso ad affinarsi per il bene dell’azienda in cui sa che rimarrà? Insomma un quadro impietoso. Che è destinato a restare irrisolto se non si comprende che un’economia in salute si raggiunge anche attraverso standard alti di condizioni lavorative, senza continuare a puntare solo sul contenimento dei costi, anziché sulla qualità del prodotto, la formazione, l’innovazione tecnologica.

[di Giampiero Cinelli]

Dopo Trieste, anche Udine e Treviso vietano i cortei democratici con il pretesto dei contagi

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Dopo che a Trieste sono state vietate le manifestazioni in Piazza Unità d’Italia fino al 31 dicembre, adesso anche in altre città italiane i sindaci hanno annunciato provvedimenti simili. Mario Conte, il sindaco di Treviso, secondo quanto riportato da alcuni quotidiani locali ha infatti recentemente comunicato che Piazza dei Signori «non sarà più a disposizione per questo tipo di manifestazioni», alludendo in tal modo alle proteste contro il Green Pass. Inoltre, anche ad Udine il sindaco Pietro Fontanini ritiene necessario porre un freno alle manifestazioni ed in maniera particolare si dichiara a favore dell’interdizione di piazza Libertà.

Nello specifico, a Trieste il divieto di manifestare al momento consisterà semplicemente nel dire “no” ad eventuali richieste di autorizzazione delle proteste. Esso tuttavia potrebbe divenire più drastico nel periodo natalizio: «Speriamo di non dover arrivare al punto di fare un’ordinanza», ha affermato il sindaco Conte. La repressione infatti viene giustificata con l’esigenza non solo di preservare l’ordine pubblico ma soprattutto di garantire ai commercianti di poter lavorare tranquillamente in un periodo fondamentale in ottica affari. «Sacrosanto è il diritto di protestare, come sacrosanto è il diritto per tutti gli altri cittadini di vivere la città, di poter lavorare e fare shopping in serenità», ha aggiunto.

Per quanto riguarda Udine invece, il sindaco come detto vuole soprattutto interdire piazza Libertà. In tal senso, come riportano i giornali locali, il suo intento è quello di far arrivare le manifestazioni solo fino a piazza Primo Maggio o in alternativa organizzare cortei nella zona dello stadio: piazza Libertà secondo Fontanini è «troppo piccola per contenere la massa di persone che abbiamo visto nelle varie manifestazioni che si sono susseguite nelle ultime settimane». Fontanini nella giornata di ieri si è anche incontrato con il presidente della Regione Massimiliano Fedriga e il prefetto Massimo Marchiesello ed ha anticipato tali richieste, che sono giustificate dalla necessità di tutelare «la sicurezza e la salute». È per tale motivo infatti che il sindaco non vuole solo limitarsi ad impedire le manifestazioni in piazza Libertà, ma vuole anche inasprire i controlli sul distanziamento e l’uso delle mascherine durante i cortei.

Detto ciò, Fontanini non è comunque l’unico sindaco ad aver discusso con Fedriga del divieto delle manifestazioni: secondo quanto riportato da Tgr Friuli Venezia Giulia, il presidente della Regione ed il commissario di Governo Valenti si sono confrontati con il sindaco di Udine e con quello di Trieste nonché con quelli di Pordenone e Gorizia. L’intento, a quanto pare, è quello di adottare una linea di azione comune, seppur calibrata in base alle esigenze di ciascun territorio.

[di Raffaele De Luca]

Vaccini Covid, sottosegretario Costa: “Pronti a considerare obbligo per alcune categorie”

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«L’obbligo vaccinale per alcune categorie non è assolutamente un tabù e siamo pronti a prenderlo in considerazione». Sono queste le parole pronunciate dal sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, ai microfoni della trasmissione Restart 264 su Cusano Italia TV. «Adesso affrontiamo queste settimane, vediamo quali saranno i dati delle vaccinazioni, dopodiché ci auguriamo che vi sia un senso di responsabilità che prevalga», ha aggiunto Costa a tal proposito.

COP26: I leader mondiali usano 400 jet privati per trovarsi a parlare di crisi climatica

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Un ingorgo nei cieli di Glasgow è stato provocato dai circa 400 jet privati ​​che hanno trasportato nella città scozzese capi di stato, miliardari, imprenditori e celebrità: il tutto per prendere parte alla COP26, ossia la conferenza sul clima delle Nazioni Unite. Un atteggiamento ambivalente dunque quello dei partecipanti al summit, che se da un lato si riuniscono con il fine di intraprendere azioni decisive per l’ambiente, dall’altro contribuiscono in maniera importante alla crisi climatica. Basterà ricordare che secondo alcune previsioni – tra l’altro prudenti poiché basate sull’inquinamento prodotto solo dai jet ​​più piccoli – il totale degli aerei privati produrrà 13.000 tonnellate di emissioni di CO2, l’equivalente della quantità prodotta da più di 1.600 inglesi nell’arco di un anno.

Da citare poi non solo il fatto che la giornata di domenica sia stata particolarmente “prolifica” in tal senso, dato che esclusivamente in quel giorno sono atterrati oltre 50 jet, ma anche il modo in cui il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ampiamente contribuito alle emissioni di CO2. La partecipazione di quest’ultimo alla COP26 rappresenta infatti la causa dell’emissione di diverse tonnellate di carbonio: il tutto grazie ad una flotta di quattro aerei, dell’elicottero Marine One e di una moltitudine di auto.

Insomma come dichiarato dal dottor Matt Finch, membro della Ong Transport and Environment, «è difficile non parlare di ipocrisia nel momento in cui i jet privati vengono utilizzati mentre si afferma di combattere il cambiamento climatico». Tali velivoli sono infatti estremamente dannosi per l’ambiente e rappresentano il «modo peggiore di viaggiare per miglia». Il jet privato medio, conclude Finch, «emette due tonnellate di CO2 per ogni ora di volo».

[di Raffaele De Luca]

Usa: via libero definitivo a vaccino Pfizer per fascia d’età 5-11 anni

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Negli Stati Uniti è arrivato l’ok definitivo delle autorità sanitarie all’uso del vaccino anti-Covid della Pfizer nei confronti dei bambini dai 5 agli 11 anni. Pochi giorni dopo essere stato autorizzato dalla Food and Drug Administration (FDA), il vaccino per tale fascia d’età ha infatti ricevuto il semaforo verde anche dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Il via libera è stato accolto con entusiasmo dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il quale ha dichiarato: «Abbiamo raggiunto un punto di svolta nella nostra battaglia contro il Covid-19».

Come e perché le multinazionali stanno scommettendo sulla cannabis legale

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Mentre alcune celebrità degli USA si scoprono con il pollice verde, buttandosi nel settore in espansione della cannabis – con marchi e aziende che operano nel nuovo mercato – altri personaggi famosi statunitensi hanno chiesto al Presidente Joe Biden una sorta di amnistia per tutti i detenuti che si trovano nelle carceri per reati legati all’utilizzo e alla coltivazione di marijuana e che non si siano resi violenti. Il Presidente USA, come la sua vice Kamala Harris, si sono detti favorevoli alla depenalizzazione della marijuana. Già due anni fa, 296 membri del Congresso (68%) rappresentano i 33 stati che hanno almeno legalizzato la marijuana medica. Adesso che i democratici hanno il controllo sia della Camera che del Senato e della presidenza, i sostenitori della riforma della politica sulla marijuana sperano che presto possa verificarsi un cambiamento legislativo a livello federale.

New Frontier Data ha stimato, per il 2019, in 340.000 i posti di lavoro sul mercato legale, con un trend di crescita che porterà a 743.000 posti di lavoro entro il 2025. Per il 2019, i salari totali associati al mercato legale della marijuana sono ammontati a 12,4 miliardi di dollari. Supponendo la piena legalizzazione a livello federale, si calcola che il numero dei lavoratori nel settore ammonterebbe a 1,63 milioni, generando 59,5 miliardi di dollari di salari.

La corsa all’oro verde

Il New York Times, nel maggio scorso, dava conto di come nella “Grande Mela” fosse fibrillata la corsa al mercato della cannabis a sole cinque settimane dalla legge che autorizzava l’utilizzo a scopo ricreativo della marijuana. Gli Immobili – dove nasceranno serre, locali di lavorazione e distribuzione oppure club e locali dedicati – e i terreni – per le coltivazioni – vengono presi d’assalto mentre azioni e quotazioni fanno parte del gioco finanziario speculativo che si accompagna alla creazione del nuovo mercato. «È un accaparramento di terra», ha detto Gregory Tannor, broker di New York della Lee & Associates NYC. Nell’aprile scorso, l’amministratore delegato di Uber, Dara Khosrowshahi, ha riferito alla CNBC, che nel caso in cui il governo federale autorizzi la vendita di marijuana in tutti gli Stati Uniti, la sua azienda sarebbe pronta ad attivare un servizio specifico di consegna della merce in questione.

Marijuana, finanza e multinazionali

AdvisorShares lo scorso settembre ha lanciato, sul mercato NYSE Arca, il primo ETF a gestione attiva del paese che copre il settore delle sostanze psichedeliche e che fornirà esposizione finanziaria a società biotecnologiche e farmaceutiche. Finora, questo è il terzo ETF – il primo a gestione attiva – che copre il settore delle sostanze psichedeliche in Nord America. L’indice azionario psichedelico Horizons ETF è stato il primo a essere lanciato nel gennaio di quest’anno – ma di tipo passivo, seguito da Defiance’s Next Gen Altered Experience ETF.

Il “Rapporto di analisi delle dimensioni, delle quote e delle tendenze del mercato della marijuana legale per tipo di marijuana (medica, uso adulto), per tipo di prodotto (fiore, olio), per applicazione medica (dolore cronico, disturbi mentali) e previsioni di segmento 2021 – 2028″pubblicato da Market Analysis Report, stima la dimensione del mercato globale della marijuana legale in circa 9,1 miliardi di dollari nel 2020, prevedendo il raggiungimento dei 13,5 miliardi di dollari nel 2021. Nel documento si prevede che, nel periodo 2021-2028, il mercato globale della marijuana legale crescerà a un tasso di crescita annuo composto del 26,7%, così da raggiungere un giro di affari di circa 70,6 miliardi di dollari entro il 2028.

Il Nord America domina questo mercato piazzando, nel 2020, il 79,6% delle quote globali. Le maggiori aziende del settore sono: Canopy Growth Corporation; Aphria Inc.; Aurora Cannabis; Maricann Group Inc.; Tilray; Cronos Group; Organigram Holding Inc.; ABcann Medicinals Inc.; GW Pharmaceuticals e Lexaria Corp. Gli Stati Uniti e il Canada stanno tirando l’espansione del mercato grazie alle scelte nelle politiche pubbliche di legalizzazione della marijuana medica e/o ricreativa ma altri mercati, come indicato dal rapporto, risultano essere promettenti per gli anni a venire. Australia, Regno Unito, Messico, Germania, Colombia e Israele hanno iniziato la produzione locale e si apprestano a diventare «mercati secondari che dovrebbero diventare vitali nei prossimi anni». I titoli azionari delle aziende sopracitate vedono una crescente corsa al rialzo e in alcuni casi segnano cifre da record.

“Qualcuno assomiglierà a Monsanto”

Miguel Martin, amministratore delegato di Aurora Cannabis, in un’intervista rilasciata a BNN Bloomberg ad inizio anno, ha dichiarato che la sua azienda ha particolare interesse, oltre che nella coltivazione, nella genetica delle piante di marijuana. In altre parole, Aurora Cannabis è interessata alla proprietà intellettuale e alla brevettazione delle genetiche. «Aziende come Aurora, o Canopy, hanno alcune delle biblioteche genetiche più profonde del mondo», ha affermato Martin. Il CEO di Aurora Cannabis è stato poi più esplicito dicendo: «Qualcuno assomiglierà a Monsanto. Non sto dicendo che siamo noi, ma qualcuno assomiglierà alla Monsanto».

A proposito di Monsanto, già Dolcevita spiegava molto bene come tale azienda – acquisita dalla farmaceutica Bayer – avesse da tempo iniziato ad operare nel settore della cannabis, tramite investimenti diretti, collaborazioni con aziende del settore (come le già citate) o per tramite di aziende controllate. Il rischio è che il mercato della cannabis, dai semi, alla produzione fino alla vendita, diventi analogo a quello del cibo, come spiegato nel Monthly Report dello scorso mese, dal titolo I padroni del cibo: chi controlla il nostro carrello. Il pericolo è che il settore della marijuana venga sussunto nelle mani di un manipolo di multinazionali che costringono i produttori ad utilizzare i propri semi, a discapito della qualità e della libertà d’impresa, e il cui prodotto avrà il prezzo che le stesse industrie della trasformazione e della produzione decideranno in base al loro potere ricattatorio nei confronti di contadini e agricoltori.

Colossi del settore alimentare come Coca-Cola e Nestlé non si fanno certamente scappare una potenziale e promettente fonte di profitto partecipando alla corsa dell’espansione e dell’accaparramento del settore cannabis. La prima, grazie alla collaborazione con Aurora Cannabis, ha dato vita ad un soft drink, una bevanda analcolica, a base di cannabis. La seconda invece ha iniziato ad investire nel mercato della cannabis a partire dal 2017, quando acquisì l’azienda Atrium – proprietaria di marchi come Garden of Life, produttore di CBD – per la cifra di 2,3 miliardi di dollari.

Le mosse dell’industria del tabacco

Uno studio del 2014, pubblicato su The Milbank Quarterly, dal titolo Waiting for the Opportune Moment: The Tobacco Industry and Marijuana Legalization, spiegava che le potenti industrie del tabacco stavano aspettando il momento opportuno per gettarsi sul mercato della cannabis, dopo decenni passati ad ostracizzare la marijuana per paura di perdere profitti. Infatti i ricercatori, utilizzando la tecnica di ricerca a valanga standard, hanno cercato nella Legacy Tobacco Documents Library i documenti che precedentemente erano stati tenuti segreti dell’industria del tabacco, scoprendo che, almeno dagli anni ’70, le compagnie del tabacco si sono interessate alla marijuana e alla sua legalizzazione come prodotto potenzialmente rivale ai propri interessi. Con il progressivo mutamento dell’opinione pubblica, «i governi hanno iniziato ad allentare le leggi relative alla criminalizzazione della marijuana, le compagnie del tabacco hanno modificato le loro strategie di pianificazione aziendale per prepararsi alla futura domanda dei consumatori». Lo studio conclude mettendo in guardia le istituzioni pubbliche dalla volontà delle multinazionali, del tabacco e non solo, di accaparrarsi la totalità della torta del mercato della marijuana. Kingsley Wheaton, dirigente della British American Tobacco, ha dichiarato che la cannabis e i suoi derivati avranno una parte importante del futuro dell’azienda.

Anche le monete virtuali godono dell’espansione del mercato della marijuana legale. Già dal 2014, con la legalizzazione medica della marijuana nello Stato del Colorado, vennero sviluppate diverse monete digitali che avevano il compito di facilitare le transazioni aventi oggetto la marijuana. Adesso, dopo un periodo di alti e bassi e di lunghi sonni, stanno tornando in auge e a guadagnare terreno.

Sembra quindi evidente che se qualcosa non dovesse essere fatto a livello istituzionale, ovvero dal pubblico potere, occorre che si organizzino movimenti dal basso che riuniscano piccoli produttori e consumatori al fine di non far assumere nelle mani delle mega multinazionali l’intero mercato della cannabis, con tutti i rischi connessi alla qualità del prodotto nonché della sua brevettazione e dello sfruttamento del lavoro.

[di Michele Manfrin]

 

Nel Sahara è nata un’enorme area ambientale protetta che tocca 11 Paesi

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Nasce un’area protetta di 2000 chilometri quadrati in Mauritania per proteggere la biodiversità dell’Occhio del Sahara. L’avanzare della desertificazione, infatti, ha messo a rischio gli ecosistemi e ha portato all’estinzione numerose specie animali. Per rimediare a tutto ciò, verrà costituita la Grande Muraglia Verde, un corridoio naturale che si estenderà per 8mila chilometri, toccherà 11 paesi – compresa la Mauritania – e vedrà la piantumazione di nuovi alberi. Un progetto per combattere la siccità con il ripristino dei terreni degradati: verranno salvati oltre 100milioni di ettari di terreno i quali – si stima – saranno in grado di assorbire 250 milioni di tonnellate di carbonio.

Il progetto della Grande Muraglia Verde, chiamato Integrated Management of Protected Areas in the Arid Regions of Mauritania (IMPADRA), verrà attuato dall’United Nations Environment Programme (Unep) e sostenuto dal Global Environment Facility (GEF), e creerà una nuova area protetta nel distretto di Adrar, un ex crocevia medievale per il commercio di sale e datteri, caratterizzato da suggestivi paesaggi desertici e storiche città fortificate, dichiarate Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, quali Chinguetti e Ouadane. La gigantesca zona preservata comprenderà anche “l’Occhio del Sahara” (il Guelb er Richat), una massa terrestre caratterizzata da cerchi concentrici blu e oro. Un tempo si pensava fosse un cratere formatosi a causa dell’impatto di un meteorite, ma oggi viene considerato ciò che resta di una cupola magmatica erosa. L’Occhio del Sahara è un sito di enorme importanza culturale, geologica e ambientale – anche a livello globale -, rifugio di tanti animali, tra cui il muflone del deserto e altre rare specie comprese nella Lista Rossa IUCN – il più completo inventario delle specie a rischio estinzione a livello globale – come l’Addax (o antilope dalle corna a vite) e la gazzella dama. All’altra estremità della nuova area protetta ci sarà El Ghallâouîya , fonte di acqua permanente, indispensabile per i pastori nomadi e numerosi uccelli e animali, alcuni appartenenti a specie vulnerabili.

Le aspettative per il progetto sono altissime soprattutto perché, grazie a questo, avverrà il ripristino di un’area afflitta dal cambiamento climatico che, una volta rimessa in sesto, diverrà fonte vitale per numerose comunità nomadi indigene le quali, da anni, combattono incessanti crisi alimentari e nutrizionali.

 

[di Eugenia Greco]

Roma: divieto di soggiorno per un anno a Stefano Puzzer

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La Questura di Roma ha emesso un foglio di via obbligatorio con divieto di soggiorno per un anno a Roma nei confronti di Stefano Puzzer, l’ex leader dei portuali di Trieste. Quest’ultimo nella giornata di ieri si è infatti recato a Roma, precisamente in piazza del Popolo, dove ha posizionato un banchetto per protestare contro il Green Pass. Per questo, la Questura ha ordinato a Puzzer di tornare a Trieste entro le ore 21:00 della giornata di oggi: se ciò non sarà fatto, l’ex leader dei portuali si macchierà di un nuovo reato. Secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa Ansa, egli verrà denunciato alla Procura per manifestazione non preavvisata.