domenica 16 Novembre 2025
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L’ente Usa che approva i vaccini è pieno di medici legati a Pfizer

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All’interno del comitato dell’organo statunitense che regola i prodotti farmaceutici (Fda), che ha recentemente autorizzato per l’uso di emergenza il vaccino Pfizer nei bambini fra i 5 e gli 11 anni, vi sono diversi individui che hanno lavorato per l’azienda farmaceutica statunitense o che sono in qualche modo legati ad essa. È quanto emerge dall’elenco dei membri del comitato, che il 26 ottobre scorso ha svolto una riunione in seguito alla quale è appunto arrivato il via libera alla somministrazione del vaccino nei più piccoli.

Il primo nome che si legge all’interno dell’elenco è quello del vicepresidente del comitato della Fda Arnold Monto. Quest’ultimo non solo è un medico ed epidemiologo americano ma, come riportato dall’organizzazione senza scopo di lucro statunitense ProPublica, è anche stato un consulente Pfizer: proprio per tale motivo, infatti, ha ricevuto dall’azienda farmaceutica 3.500 dollari nel 2018.

Inoltre tra i membri del comitato troviamo la dottoressa e preside della Chicago Medical School Archana Chatterjee, la quale tra il 2018 e il 2020 ha lavorato ad uno studio relativo ad un vaccino coniugato pneumococcico multivalente per i neonati che è stato sponsorizzato da Pfizer.

Il medico nonché esperto di sanità pubblica e dirigente farmaceutico Gregg Sylvester, invece, è stato vicepresidente di Pfizer Vaccines dal 2013 al 2016 e si è occupato del «lancio del vaccino coniugato pneumococcico pediatrico e per adulti di Pfizer, nonché del vaccino contro il meningococco B negli USA».

Geeta K. Swamy, altro membro del comitato, non solo è stata ma è tutt’oggi presidente del «Comitato indipendente di monitoraggio dei dati per il programma di vaccini contro lo streptococco di gruppo B della Pfizer».

Anche il dottor Myron Levine è in qualche modo legato all’azienda farmaceutica: ha infatti fatto da mentore ad alcuni borsisti post-dottorato statunitensi tra cui Raphael Simon, il quale risulta essere direttore della ricerca e dello sviluppo dei vaccini Pfizer.

Infine, pure tra i «membri con diritto di voto temporaneo» vi sono individui legati a Pfizer. Basterà ricordare che James Hildreth, immunologo americano ed amministratore delegato del Meharry Medical College, ha reso di pubblico dominio il fatto di avere degli interessi di natura economica legati ai vaccini Pfizer.

Detto ciò, bisogna ricordare che la Fda non è l’unico ente regolatore i cui membri hanno avuto a che fare con le case farmaceutiche. A tal proposito si può citare il curriculum della direttrice esecutiva dell’Ema (Agenzia europea per i medicinali) Emer Cooke, la quale è stata per 8 anni un membro del consiglio di amministrazione della Efpia (Federazione europea delle industrie e delle associazioni farmaceutiche) ed ha fatto pressioni per le più importanti società farmaceutiche europee.

[di Raffaele De Luca]

Cop26: oltre 100 Paesi si impegnano a ridurre emissioni metano

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Sono più di 100 i Paesi che alla Cop26 hanno aderito all’iniziativa promossa dagli Stati Uniti e dall’Unione europea volta a ridurre le emissioni di metano del 30% entro l’anno 2030. Tali Paesi rappresentano il 70% dell’economia globale. A comunicarlo è stata la Commissione europea tramite una nota, nella quale si legge che l’iniziativa «permetterà di mantenere a portata di mano l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi».

Cinema e lotta di classe: Squid Game palesa le criticità del sistema neoliberista

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Squid Game, ve ne sarete accorti, è stato un successo planetario. La serie ha scalato rapidamente le classifiche di Netflix, ma la sua portata si è estesa ben oltre al servizio di streaming, raggiungendo social di ogni tipo e persino la vita quotidiana. Un’accoglienza tanto disarmante è dovuta all’estetica immediatamente riconoscibile del suo mondo e a una campagna marketing spietata, tuttavia anche le tematiche trattate hanno contribuito al suo trionfo, tematiche che ci offrono di sponda uno spaccato di come la società globalizzata vede sé stessa.

Una sinossi del programma viene brillantemente sintetizzata da un documento che Foreign Policy attribuisce al Dipartimento di Stato americano: «la cupa storia dello show rappresenta la frustrazione percepita dal coreano medio e, in particolare, dalla gioventù coreana, la quale fatica a trovare lavoro, a maritarsi o a godere della scalata sociale». Nella sua essenza, Squid Game illustra la massacrante guerra tra poveri, la prospettiva disillusa di un miglioramento delle condizioni di vita, il distaccamento dei ceti alti dalla realtà sociale.

Questi fattori trovano risonanza in ulteriori produzioni “estere” di successo che vivono sotto l’ala di Netflix: La casa de papel, El hoyo, Roma, Okja. Il potente distributore sfrutta quindi il suo soft power selezionando titoli non americani che si concentrano sugli attriti di classe, ormai consapevole che la frustrazione dei ceti medio-bassi verso le disuguaglianze economiche sia condivisa tra tutti i popoli globalizzati. È universale, così come a essere universale è anche l’angoscia del vedersi in un modo competitivo in cui bisogna dimostrarsi spietati per mantenere la propria fragile posizione socio-economica.

La democratizzazione del ridimensionamento delle prospettive individualiste sta in un certo senso ricostituendo le solidarietà comunitarie e i media popolari finiscono irrimediabilmente con il rappresentare in chiave rabbiosa quelle critiche alla borghesia che erano già state portate avanti con grazia da capolavori degli anni Settanta quali Le charme discret de la bourgeoisie e La Grande Bouffe.

Serie e film odierni si guardano bene dal suggerire una “chiamata alle armi” – basti vedere i video di TikTok in cui le truculente morti di Squid Game sono riviste a simpatici balletti -, tuttavia riflettono in chiave consumistica un malessere che sta evidentemente maturando, che ci porta a tifare per gli antieroi che vogliono distruggere un sistema neoliberista corrotto, che manifesta un’insoddisfazione pronta a esplodere.

[di Walter Ferri]

 

Italia, i grandi colossi alimentari importano tonnellate di pomodoro dallo Xinjiang

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Tubetti o barattoli di preparato pronti da consumare. Assumono questa forma, alla fine, le decine di migliaia di tonnellate di concentrato di pomodoro che ogni mese approdano in Italia dalla lontana regione cinese dello Xinjiang. Grossi fusti destinati ad alcune delle più importanti aziende conserviere che alimentano, indirettamente, la repressione del governo cinese sulla minoranza etnica degli uiguri. Il consumatore non lo sa, e non può saperlo, dal momento che, una volta terminata la lavorazione in Italia, degli uiguri non rimane più traccia. I dati di cui siamo a conoscenza derivano da inchieste molto lunghe e approfondite, come quella di IrpiMedia che, in collaborazione con CBC Canada, ha ripercorso il viaggio del concentrato di pomodoro cinese: dallo sfruttamento ai colossi dell’industria italiana.

Gli uiguri appartengono ad una minoranza etnica di religione musulmana che abita nella regione dello Xinjiang. Secondo i dati delle Nazioni Unite, circa un milione di loro vivrebbe internato in “campi di rieducazione”, costretto a subire un indottrinamento forzato. Motivo per cui, qualche mese fa, alcune aziende d’abbigliamento, come Oviesse, hanno deciso di non importare più cotone proveniente dalla regione, nonostante ne sia una delle zone maggiormente produttrici al mondo. Lo stesso trattamento, però, non è stato riservato al pomodoro: le aziende italiane continuano a rendersi complici di quello che è stato definito un “Genocidio culturale”. Anzi. Negli anni ’90 fu proprio la spinta di alcuni industriali italiani ad avviare la filiera di produzione di pomodoro nello Xinjiang.

Ora, invece, l’iter è più o meno questo. Il pomodoro viene coltivato per migliaia di ettari. Una volta maturo, finisce nelle mani di una trentina di fabbriche della provincia cinese, che ne terminano la lavorazione. Poi, tutto è pronto per la spedizione. Il prodotto infatti non viene consumato dal mercato interno, ma circola per tutto il pianeta. Una delle sue mete preferite è il porto di Salerno.

Alcune aziende campane acquistano triplo concentrato proveniente dallo Xinjiang per aggiungerci acqua e sale e trasformarlo in doppio concentrato, prodotto in Italia. Al momento della riesportazione questo “nuovo” prodotto sarà etichettato come completamente made in Italy. In questo deteniamo un primato, aggiudicandoci la medaglia come primo mercato al mondo di destinazione del concentrato cinese: più di 97 mila tonnellate nel 2020, cioè circa l’11% delle esportazioni totali che partono dalla Cina. I numeri sono aumentati nel 2021, superando il raddoppio: ci sono navi che approdano nei porti di Salerno e Napoli praticamente ogni giorno.

In questo senso, è il gruppo Petti, impresa rinomata fra quelle delle conserve, a detenere il primato. Nei primi sei mesi del 2021 ha importato circa il 57% di tutto il concentrato di pomodoro cinese sbarcato in Italia. I dirigenti hanno confermato a IrpiMedia di importare concentrato di pomodoro dallo Xinjiang, ma “la società Petti è dotata di un codice etico ai principi del quale si sforza costantemente di adeguare i rapporti commerciali con i partner esteri per il rispetto dei diritti umani”. A loro dire, il concentrato di pomodoro dello Xinjiang sarebbe impiegato solo in prodotti destinati ai mercati africani. Per quelli italiani, invece, Petti userebbe pomodoro 100% toscano.

Così come Petti, tutti gli operatori del settore sostengono che il concentrato proveniente dalla Cina non viene utilizzato per il mercato italiano: è riservato a prodotti poi venduti all’estero. Su questo, però, nessuno può fornire prove certe.

Il processo di trasformazione, in sé, non è illegale. Ma se il concentrato cinese venisse veramente utilizzato in prodotti venduti in Italia, dovrebbe essere segnalato in modo chiaro ed evidente. Tuttavia risulta molto difficile sapere con certezza dove finisce, a meno che non siano le industrie stesse a dichiararlo. E questo non accade praticamente mai. L’Anicav (Associazione Nazionale Industriali Conserve Alimentari Vegetali) ribadisce che i prodotti contenenti pomodoro cinese finiscono principalmente in paesi extra Ue come Africa e Medio Oriente. Molta merce, infatti, entra in Italia con una dicitura di “temporanea importazione”. Pronta, cioè, a ripartire una volta terminata la lavorazione. Rimane però il fatto che i Paesi che ricevono più prodotti aventi a che fare con pomodoro lavorato in Italia sono Germania, Francia e Regno Unito e i loro grandi supermercati.

Una domanda sorge spontanea: perché compriamo dalla Cina pur essendo noi i primi produttori europei di pomodoro? La stessa spontaneità con cui recepiamo la risposta: il pomodoro concentrato cinese ha un prezzo molto più basso del nostro. Così come i costi di produzione, più che dimezzati “grazie” alla misera paga che spetta ai braccianti, spesso minori. Spesso uiguri.

[di Gloria Ferrari]

Nigeria: crolla grattacielo a Lagos, 7 morti

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Sono almeno sette le persone che hanno perso la vita in seguito al crollo di un grattacielo di 21 piani in costruzione a Lagos, in Nigeria, verificatosi nella giornata di ieri. Lo riporta l’agenzia di stampa Ansa che cita un funzionario della Protezione civile nigeriana, Ibrahim Farinloye, il quale ha inoltre fatto sapere che altre sette persone sono state salvate.

Test di verginità e imenoplastica: pratiche barbare che ancora esistono anche in Italia

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Durante il Medioevo una donna in procinto di sposarsi veniva sottoposta, prima della sua prima notte di nozze, ad una pratica volta a verificarne la verginità. Se l’imene risultava intatto, la donna in questione poteva dirsi pura e rispettabile. In realtà, il progresso ha fatto molti passi in avanti in questo senso, dimostrando che alcune ragazze nascono senza imene e altre lacerano la membrana ancora prima di diventare sessualmente attive. Con esercizio fisico o tamponi, ad esempio. Eppure la richiesta di test di verginità, pratica durante la quale un medico cerca la presenza di un imene, si ...

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Kabul, esplosioni vicino ospedale militare: almeno 9 feriti

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Due forti esplosioni e il rumore di colpi di arma da fuoco sono stati registrati vicino all’ospedale militare Sardar Mohammad Daud Khan di Kabul, il più grande in Afghanistan. Alcuni testimoni riferiscono si trattasse di veicoli-bomba, esplosi a distanza di pochi minuti l’uno dall’altro. L’agenzia di stampa ufficiale Bakhtar riporta che alcuni combattenti dell’ISIS sono entrati nell’ospedale scontrandosi con le forze di sicurezza. Con un tweet Emergency comunica che al momento sono 9 i feriti all’interno dell’ospedale, ma la situazione è ancora in svolgimento. Il ministro dell’Interno ha fatto sapere che forze speciali talebane sono state inviate sulla scena.

L’India schiera le armi americane al confine con la Cina

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L’India ha ampliato il proprio arsenale con armi di produzione americana recentemente acquisite che ha disposto lungo il proprio confine con la Cina, detto anche LAC (Linea di controllo effettivo). Si tratta di un rafforzamento della linea offensiva che segna il proseguimento della tensione tra i due Paesi e il fallimento dei tentativi diplomatici.

L’arsenale comprende elicotteri Chinook, obici trainati ultraleggeri, fucili, missili da crociera supersonici (di produzione indiana) e un moderno sistema di sorveglianza che sia di supporto alle truppe indiane al confine con il Tibet orientale. L’intento è di creare un esercito agile di cui disporre rapidamente in caso di necessità. Lungo la LAC sono stati dispiegati, solamente nell’ultimo anno, 30mila soldati e una brigata di aviazione. La preoccupazione crescente nei confronti della Cina ha spinto l’India, così come diversi altri Paesi della zona indo-pacifica, a intensificare i propri rapporti con gli USA.

La zona in cui si trova il dispiegamento ha il nome di Arunachal Pradesh ed è sita nell’altipiano di Tawang, nel nord-est dell’India, vicino a Buthan e Tibet. Si tratta di un territorio rivendicato dalla Cina ma controllato dall’India, per la quale costituisce un vero e proprio Stato dal 1986. La contesa ha inizio nel 1914, quando fu tracciata la linea di confine tra India e Cina dall’amministrazione britannica dell’India e dal Tibet. Pechino non riconobbe mai la validità di tale divisione, nemmeno in seguito all’annessione del Tibet nel 1951. Dopo una breve guerra nel 1962 le relazioni diplomatiche tra i due Paesi sono rimaste in stallo sino al 1976. Gli scontri tra le due parti sono proseguiti anche in seguito alla ripresa dei dialoghi, culminando il 15 giugno 2020 in un conflitto che aveva portato alla morte di 20 soldati indiani e 4 cinesi. Si è trattato del primo scontro mortale in almeno 45 anni. In seguito a tale evento, entrambe le parti hanno rafforzato i propri eserciti lungo la linea.

Al momento le parti si sono impegnate in trattative per il disimpegno militare, ma non sono ancora giunte a un accordo sul ritiro dalle zone vicino al Kashmir. Secondo Rajeswari Pillai Rajagopalan, direttore del Center for Security, Strategy and Technology presso la Observer Research Foundation di Nuova Delhi, l’India deve migliorare le capacità e infrastrutture al confine, motivo per cui ha bisogno delle attrezzature di partner come gli USA.

[di Valeria Casolaro]

Cina, aumento produzione carbone di 1,1 mln di tonnellate

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La Cina ha annunciato di aumentare la produzione di carbone di più di un milione di tonnellate, per far fronte alla propria carenza di energia. Negli ultimi mesi il Paese ha dovuto affrontare diverse interruzioni di corrente, che hanno recato non pochi disagi alla popolazione e alla filiera produttiva. Per tale motivo la produzione di carbone è salita, a ottobre, a 11,5 milioni di tonnellate. L’annuncio avviene proprio nei giorni in cui a Glasgow prende il via la Cop26, durante la quale i leader mondiali dovranno trovare soluzioni a problematiche come la deforestazione e il surriscaldamento globale.

Palermo, maxioperazione antidroga: 58 misure cautelari

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I Carabinieri di Palermo, coordinati dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca, hanno portato a termine una maxi operazione antidroga nel quartiere Sperone, periferia orientale della città, eseguendo 58 misure cautelari (37 persone in carcere, 20 ai domiciliari e un obbligo di presentazione alla pg). Si tratta delle reti di spaccio più estese del Sud Italia, che vedeva interi nuclei familiari coinvolti, minori inclusi. Le donne svolgevano ruoli cruciali di coordinamento delle attività e contabilità, e sarebbero dovute subentrare al potere in caso di arresto di uno dei capi. La droga veniva nascosta all’interno degli appartamenti e dei condomini: il profitto stimato è di circa un milione e mezzo di euro all’anno.