Nella ricorrenza dell’8 dicembre migliaia di No Tav sono tornati a manifestare per chiedere la chiusura dei lavori, con una marcia che da Borgone si è diretta verso San Didero. I manifestanti chiedono il blocco dei lavori dell’Alta Velocità e del cantiere di San Didero, che ospiterà una nuova zona di sosta per i tir. Non sono mancati gli scontri con la polizia, che ha attaccato con idranti e lacrimogeni i manifestanti.
Una nuova marcia No Tav si è svolta nella giornata dell’8 dicembre: i manifestanti hanno percorso a piedi la strada che va da Borgone Susa a San Didero, rinnovando la richiesta di chiusura dei cantieri. Secondo gli organizzatori erano almeno in 5000 a partecipare. Alla marcia hanno preso parte anche numerosi sindaci dei comuni della Valle di Susa, che si oppongono alla costruzione di “un’opera considerata con costi elevatissimi e dannosa per l’ambiente, ritenendo che i soldi pubblici possano esser meglio spesi per opere utili al territorio”. Una volta giunti ai margini del cantiere di San Didero alcuni manifestanti hanno iniziato a strappare il filo spinato, mossa alla quale gli agenti hanno risposto con lancio di lacrimogeni e idranti.
San Didero, dove i presidi No Tav sono iniziati già nella sera del 7 dicembre, è la sede della costruzione del nuovo autoporto, punto di sosta di emergenza dei tir in caso di necessità o eventi climatici avversi (come le forti nevicate). Si tratta di un cantiere di 68 mila metri quadrati dal costo di 47 milioni di euro. Un’opera che deturpa ulteriormente una valle già esausta per i lavori dell’Alta Velocità e dalla dubbia utilità, esistendo già due autoporti non sfruttati al 100% nelle zone adiacenti a Torino. Il 7 dicembre nei pressi del cantiere ci sono stati alcuni scontri tra un gruppo di manifestanti No Tav e le Forze dell’Ordine, che hanno risposto al lancio di pietre con idranti e lacrimogeni.
Il cielo sul cantiere di San Didero, carico di neve, ieri notte è stato illuminato dai fuochi d’artificio dei #notav. Lacrimogeni e idrante dalla polizia ma i molti valsusini presenti non si sono fatti distrarre e hanno continuato con la battitura al cancello. Buon #8dicembre! pic.twitter.com/NJgU0Ce08b
L’8 dicembre è una giornata simbolo per il movimento No Tav, che quest’anno celebra 16 anni dalla marcia Susa-Venaus. Al termine della giornata di proteste i manifestanti erano riusciti a invadere i prati di Venaus e a bloccare l’inizio dei lavori dell’originale progetto del 2003 per l’Alta Velocità Torino-Lione. In prima fila allora vi era Nicoletta Dosio, storica militante No Tav al momento in custodia presso il carcere Le Vallette di Torino. Le iniziative degli scorsi giorni hanno anche ricordato l’ingiusta estradizione di Emilio Scalzo in Francia in seguito alle accuse di aggressione a pubblico ufficiale.
L’UE ha inserito il nucleare e il gas nella lista degli investimenti sostenibili, iniziativa controversa fortemente criticata da diversi Stati membri, gruppi finanziari e ambientalisti, esperti e agenzie ONU. La tecnologia nucleare non è ancora infatti sufficientemente sviluppata per costituire un’effettiva innovazione green, tanto più che non si è ancora risolto il problema dello smaltimento delle scorie. L’impatto deleterio del metano, dal canto suo, è ancora fortemente sottostimato. La classificazione europea poteva costituire “uno strumento utile per smascherare le iniziative di greenwashing“, ma si è trasformato “in un boomerang”, scrive Greenpeace.
Il green pass rafforzato è appena entrato in vigore e già all’interno del governo c’è chi annuncia la prossima introduzione di nuovi campi di utilizzo per la certificazione sanitaria: è il caso del ministro dei Trasporti, Enrico Giovannini, che ha annunciato lo studio di un sistema per permettere solo a chi è in possesso della certificazione verde di acquistare biglietti per autobus, treni e metropolitane. «Stiamo dialogando con tutte le aziende di trasporto in questa prospettiva – ha dichiarato a Rai News – stiamo studiando dei meccanismi, credo ci siano le condizioni per farlo e siamo abbastanza ottimisti che nelle prossime settimane possano iniziare le sperimentazioni».
Il modello preso ad esempio, riporta il ministro, è quello del Dolomiti Supersky, l’abbonamento che permette di accedere agli impianti sciistici delle Dolomiti: l’utente deve caricare sul sito internet del servizio o sulla app il proprio codice greenpasse associarlo all’abbonamento o al biglietto acquistato. In questo modo il sistema lo accredita e solo allora attiva la validità del codice a barre stampato sul titolo di viaggio, rendendo possibile l’apertura del tornello della stazione una volta che viene posto sullo scanner. Nessuna verifica umana e quindi nessun problema con le leggi sulla privacy, almeno secondo quanto dichiarato dai proponenti.
Facile notare un dettaglio, sul quale tuttavia nessun media si è soffermato: teoricamente lo stato di emergenza sarebbe in scadenza il prossimo 31 dicembre: probabilmente sarà rinnovato, ma senza forzare la legge sarà possibile farlo solo per un altro mese. Il decreto di protezione civile del 2008 infatti afferma che “La durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale non può superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi”. Entrò in vigore il 31 gennaio 2020, quindi lo stesso giorno del 2022 dovrebbe decadere. Tuttavia il ministero dei Trasporti sta sperimentando un sistema di utilizzo dello stesso che necessità di diverse settimane solo per iniziare la sperimentazione. Quindi, fino a quando sarà attivo realmente il green pass? Forse non a caso nella norma sulla certificazione verde il governo scelse di non porre nessuna data di scadenza, rifiutando di mettere nero su bianco che la sua validità decadrà automaticamente al termine dell’emergenza sanitaria.
«We are on the front line, walking with the death», è la frase di una celebre canzone del collettivo Savage Family e rappresenta in maniera forte la realtà che le comunità indigene del Nordamerica si trovano a dover affrontare quotidianamente. Dal Canada passando per i due Dakota, al Minnesota fino a Corpus Christi in Texas, le comunità sono in lotta per affermare la loro sovranità, rivendicare la propria identità, cultura e tradizioni, e per difendere i territori sacri e ancestrali dallo scempio del pauperismo colonizzatore che subiscono da secoli.
È questo il caso delle comunità indigene della British Columbia, in Canada, che si oppongono alla devastazione che i progetti di oleodotti e gasdotti portano sulle terre in cui vivono da migliaia di anni. Queste comunità hanno costruito dei campi, degli accampamenti, da cui portano avanti la loro resistenza nei confronti delle compagnie private impegnate nelle opere di costruzione delle infrastrutture energetiche e anche della polizia e del governo da cui essa dipende. Così come la Royal Canadian Mounted Police (RCMP) ha costituito dei veri e propri checkpoint con cui non fa accedere certe persone a certi luoghi, ovvero i discendenti di quelle stesse persone che popolavano quelle terre, Gidimt’en Access Point è il luogo di accesso al Coyote Camp, uno degli accampamenti di resistenza situati nell’Ovest del Canada, così come 44 Camp, spazi di resistenza indigena al progetto denominato Coastal Gaslink, o CGL, considerato un pericolo enorme per tutte le comunità indigene che vivono nei territori interessati dal progetto. Negli ultimi tempi sono andati intensificandosi gli attacchi e gli arresti da parte della polizia a danno delle tribù Wet’suwet’en, in prima linea in questa lotta, come anche il tentativo di creare divisione e conflitto tra le varie tribù.
In merito al gasdotto CGL, i membri del Coyote Camp, dicono: «Se costruito, accelererebbe la costruzione dei successivi gasdotti bituminosi e fratturati e creerebbe un incentivo per le compagnie del gas a sfruttare i depositi di scisto lungo il passaggio del gasdotto. Questo progetto mira a tracciare un percorso, in quello che è stato concepito come un “corridoio energetico” attraverso alcune delle uniche aree incontaminate rimaste in tutta questa regione. Se il CGL dovesse essere costruito e diventare operativo, trasformerebbe irreversibilmente l’ecologia e il carattere dello Yintah e dei territori circostanti».
Se nel giugno di questo anno per i Lakota si è registrata un importante vittoria dopo anni di dura battaglia contro il Dakota Access Pipe Line (DAPL), che però non deve far cedere a comprensibili entusiasmi, nel Minnesota la lotta prosegue contro la famosa Line 3 che dal Canada trasporta greggio da scisti bituminosi fino al Lago Superiore, attraversando la Chippewa National Forest e la Leech Lake Reservation, ovvero una riserva Ojibwe facente della Minnesota Chippewa Tribe. L’oleodotto è ormai entrato in funzione ma gli attivisti rimango accampati sulla “linea del fronte”, come a Camp Migizi.
Adesso che la Line 3 è pronta, funzionante e inserita nella fitta rete di tubature che si estendono per tutto il Nordamerica, la medesima compagnia canadese che gestisce la “linea Chippewa”, la Enbridge, ha annunciato di voler aumentare la capacità del proprio sistema di oleodotti al fine di collegare un hub di stoccaggio in Oklahoma con il più grande hub di esportazione di petrolio degli Stati Uniti, quello di Corpus Christi, in Texas. Lo scorso ottobre, Enbridge ha acquistato questo strategico nodo dell’esportazione del greggio dalla compagnia Ingleside Energy Center potendo adesso gestire una gran parte del greggio che dal Canada arriva al Golfo del Messico, dopo varie diramazioni, per essere esportato nel mondo.
Dura la reazione da parte della tribù Carrizo Comecrudo, uno dei popoli originari del peyote e non federalmente riconosciuto, e dell Indigenous Environmental Network (IEN) oltre che di altre organizzazioni e gruppi locali. «Abbiamo combattuto Enbridge sin dal pre-NAFTA per proteggere i nostri siti sacri», ha detto Juan Mancias, Presidente tribale di Carrizo Comecrudo. In un comunicato dell’IEN si legge che «I popoli indigeni della Coastal Bend non permetteranno a Enbridge di sentirsi a proprio agio con i loro modi coloniali di distruggere le comunità indigene. Possono aspettarsi la stessa resistenza dalle comunità tribali in Texas come hanno fatto con la Line 3». La rete di attivisti si scaglia contro «l’effetto devastante dell’industria estrattiva a cui è stato permesso il regno libero per troppo tempo».
La società francese Figeac Aéro (FGA.PA) potrà avere una propria fabbrica di produzione di componenti di strutture aeree in Arabia Saudita, grazie a un accordo siglato con la Saudi Arabian Military Industries (SAMI). Oltre alla produzione si mirerà alla formazione di tecnici sauditi, per permettere la localizzazione della produzione in campo aerospaziale e civile e porre fine alla dipendenza militare dell’Arabia Saudita. Si calcola che entro il 2030 la mossa comporterà un guadagno di circa 200 milioni di dollari per le parti. L’Arabia Saudita è considerata uno dei maggiori importatori di armi nel mondo: negli ultimi 5 anni è stata infatti destinataria dell’11% delle importazioni di armi globali.
L’Antitrust italiana ha multato Amazon per 1,3 miliardi di euro per pratiche discriminatorie nei confronti di alcuni venditori indipendenti. Tali rivenditori non si servivano infatti dei servizi di logistica di Amazon per lo stoccaggio e il recapito dei prodotti venduti, motivo per il quale la visibilità della loro merce sulla piattaforma era molto ridotta. A coloro che si servivano della logistica di Amazon veniva invece riservato un trattamento decisamente migliore, oltre alla garanzia di tutela da reclami e recensioni negative. Più della metà dei prodotti presenti su Amazon sono offerti da venditori indipendenti, motivo per il quale, secondo l’Antitrust, questi necessitano di adeguata protezione.
Mezzi blindati dotati di cannoni, droni volanti che si lanciano a grande velocità contro i nemici in fuga, battelli senza equipaggio che circondano natanti in movimento: questo è il fosco panorama delle armi autonome odierne, un panorama che è reso ancora più claustrofobico dal fatto che i Governi coinvolti si dimostrano restii a discutere nuovi trattati che vadano a normare l’applicabilità di questi ancora inusuali strumenti bellici.
Nell’oceano di maliziosa ignavia, si erge come un’anomalia la Nuova Zelanda, nazione che ha orgogliosamente dichiarato di voler combattere la diffusione e l’utilizzo dei cosiddetti “killer robot”. Phil Twyford, Ministro del Disarmo e del Controllo delle Armi, ha evidenziato come il delegare la responsabilità degli omicidi a delle macchine sia esplicitamente in opposizione agli «interessi e ai valori» della nazione, tacitamente creando una bilancia etica su cui soppesare le motivazioni dei Paesi maggiormente belligeranti.
Nonostante una fetta significativa del mondo accademico stia infatti chiedendo l’imposizione di limiti alle armi autonome e all’uso militare delle intelligenze artificiali, le Amministrazioni che più si dicono preoccupate dei killer robot – Cina, Russia e Stati Uniti su tutte – sono anche quelle che vi dedicano maggiori risorse, considerandone lo sviluppo un vero e proprio «imperativo morale». In sostanza, le principali avanguardie militari sostengono la necessità di portare avanti la ricerca bellica proprio come forma di difesa dalla tecnologia automatizzata altrui, cosa che crea un circolo vizioso che ha il retrogusto della corsa alle armi.
Inutile dire che la Nuova Zelanda non possiede di per sé l’incisività diplomatica necessaria a piegare le posizioni delle grandi potenze, tuttavia lo scenario che si prospetta è quello di una «coalizione di Stati, di esperti e della società civile» a cui Wellington vorrebbe presiedere. Twyford non è infatti il primo a esprimersi avversamente ai killer robot, tuttavia la sua voce intensifica non poco le potenzialità di un coro che fino a oggi si è dimostrato pressoché inerme, con il risultato che si potrebbero presto aprire diverse strade diplomatiche alternative ai confronti ospitati dalle Convention on Conventional Weapons (CCW).
Già si parla di un possibile trattato che potrebbe o meno cadere in seno alle Nazioni Unite. Una legge internazionale generata da un processo indipendente potrebbe coinvolgere un bacino maggiore di Governi, molti dei quali – non possedendo armi autonome – sarebbero ben felici di appoggiare standard severi sull’applicazione degli strumenti presi in analisi. D’altro canto, una più lenta e complessa contrattazione dell’Assemblea Generale ONU avrebbe la possibilità di garantire delle linee guida maggiormente solide e rilevanti sul piano della politica internazionale. Tra le due opzioni, la prima sembra fornire ai detrattori dei killer robot concrete opportunità di successo, con gli osservatori che teorizzano un accordo che possa somigliare al trattato di Ottawa, trattato che impone un giro di vite alle mine antiuomo, ma che Cina, Russia e Stati Uniti si sono ben visti dal firmare.
La lotta neozelandese contro le armi autonome è appena iniziata, ma la nazione ha una lunga storia di battaglie per la demilitarizzazione ed è ormai abituata a litigare con l’alleato statunitense per questioni di armamenti; la possibilità che la “discesa in campo” di Wellington sia in grado di avviare un percorso di regolamentazione dei killer robot è reale, ora non resta che trovare qualcuno che possa farsi garante diplomatico di una normativa che soffochi le manovre militari spaziali.
Siamo italiani, amiamo la pasta e si sa. Da sempre medici e nutrizionisti continuano a ripetere che la pasta fa bene e che bisogna mangiarla anche ogni giorno perché ci dà energia e ci fornisce carboidrati a lento assorbimento. Ma è davvero così? Probabilmente no a giudicare da quanto monotona e ripetitiva è diventata la dieta degli italiani spacciata come la “migliore dieta al mondo” e come “dieta Mediterranea” utile per la prevenzione e la longevità. La verità è che le conoscenze in campo nutrizionale e medico si rinnovano di continuo, si scoprono nuovi fattori importanti e si capiscono sempre meglio i meccanismi chimici e biologici che governano il corpo umano. Proprio per questo, oggi sappiamo che è di fondamentale importanza avere varietà di sostanze nella dieta e alternare l’assunzione di cibi farinacei (pane, pasta, pizza, ecc.) con altri tipi di cereali e di carboidrati (riso, patate, mais, segale). Se dare varietà di sostanze è un requisito di base della sana alimentazione, perché gli italiani stentano ad adottare questo principio anche nell’assunzione dei carboidrati? Come mai 8 italiani su 10 consumano tutti i giorni pane e pasta, per non menzionare altri derivati del grano come fette biscottate, biscotti, crackers? I motivi sono tanti, primo fra tutti la pubblicità martellante dell’industria della pasta e delle farine alla quale si aggiunge la comodità di utilizzo e di preparazione.
Ciò nonostante, con un po’ più di impegno e una riflessione più obiettiva, possiamo riuscire a individuare delle alternative altrettanto utili, e persino più salutari, del solito piatto di pasta a pranzo. La pasta e la pizza si possono mangiare tranquillamente, per carità, anche più di una volta a settimana, ma proverò a convincervi del fatto che possiamo fare anche di meglio con la nostra dieta sana, e senza rinunciare al piacere.
Variare fa bene: il problema della furosina
Elenchiamo le seguenti fonti di carboidrati per allargare il discorso sulla varietà alimentare:
pastasciutta (pasta essiccata di semola di grano duro)
pasta fresca di semola di grano duro (non contiene uovo)
pasta fresca all’uovo (è fatta con il grano duro o tenero e l’aggiunta di uovo)
cereali in chicco (orzo, farro, avena, frumento, kamut, riso, mais)
pseudo-cereali in chicco (quinoa, grano saraceno, miglio, amaranto)
patate
gnocchi di patate (farina di frumento, patate)
farina di mais (polenta)
pane
spianate, piadine, pizza
Tra tutte queste fonti alimentari di carboidrati, quelle di gran lunga più utilizzate dalle persone sono 4: pastasciutta, pane (panini), spianate e pizza. Ogni italiano mangia in media 32 Kg di pasta in un anno, circa 80 – 90 grammi ogni giorno, non poco! Notiamo subito che in tutti questi casi si tratta di prodotti cotti in forno (pane, pizza, spianate) oppure trattati ad alta temperatura (l’essiccazione della pasta avviene a temperature oltre i 100°C in molti casi).
Questo aspetto è importante in quanto tutte le restanti fonti alimentari menzionate nell’elenco qui sopra non sono invece pre-trattate con alte temperature. Per esempio, i cereali in chicco come il riso o l’orzo, oppure la pasta fresca, subiscono solo la cottura per breve tempo in acqua a 100 gradi, ma niente più. Al contrario la pastasciutta subisce due “cotture”: dapprima l’essiccazione ad alta o altissima temperatura (85°C-110°C per alcune ore), poi la vera e propria cottura in acqua bollente a 100°C.
La cottura eccessiva del grano e dell’amido comporta la formazione tra le altre cose anche di sostanze tossiche come la furosina e gli AGES (prodotti avanzati della glicazione), un problema alimentare di cui quasi nessuno parla in Italia in relazione all’utilizzo quotidiano di prodotti da forno, ma che è in realtà normato e disciplinato per legge.
Essiccazione della pasta e formazione di furosina
La pastasciutta, al contrario della pasta fresca e del cereale in chicco, deve essere essiccata prima di diventare commestibile. Nel processo industriale dell’essiccazione la pasta perde acqua e si concentra nella sua densità nutrizionale. Il trattamento ad altissime temperature cambia però il valore nutrizionale del frumento. I sistemi di essiccazione si definiscono HTSt (High Temperature-Short time) e VHTs (Very High Temperature-Short time) e permettono di raggiungere temperature molto elevate, riducendo i tempi di lavorazione/essiccazione ed i costi.
Il progressivo incremento della temperatura durante l’essiccazione provoca un danno alle proteine che possono essere distrutte (con formazione dei prodotti della glicazione avanzata – radicali liberi detti AGES) o diventare meno biodisponibili. Il problema riguarda un po’ tutti gli aminoacidi essenziali delle proteine, in particolare la lisina, che non solo è essenziale per la pasta, ma rappresenta un fattore limitante della qualità, riducendo il valore biologico delle proteine nell’alimento (dal momento che ne contiene quantitativi molto bassi). L’importanza degli aminoacidi essenziali (proteine) deriva dal fatto che l’uomo non è in grado di sintetizzarli in quantità sufficiente e quindi devono essere assunti attraverso il cibo. Il processo di essiccazione inoltre, porta anche alla formazione di una sostanza tossica chiamata furosina, cui si accennava pocanzi.
Perché la furosina è un problema
La furosina (ε-furoilmetil-lisina) è una molecola che si forma durante la produzione della pasta. Deriva dall’unione tra una molecola di glucosio e un gruppo amminico delle proteine contenute nelle farine. La furosina si forma nella fase terminale della lavorazione della pasta asciutta, quando la percentuale di acqua scende fino al 12%, da cui il termine “pasta asciutta”. Questa sostanza si forma anche nella produzione dei formaggi come la mozzarella, nella cottura del pane, nella tostatura del caffè (anche quest’ultimo contiene carboidrati) e in altri cibi. Tuttavia costituisce motivo di preoccupazione specialmente per la pasta, poiché gli italiani ne sono forti consumatori su base quotidiana.
In definitiva la furosina può creare problemi e andrebbe almeno limitata, cercando di assumere con più moderazione i cibi che la contengono (la pasta, il pane, la pizza ed il latte UHT sottoposto a trattamenti termici ad alte temperature).
Dalle indagini eseguite a campione su pasta secca di semola di grano duro, prodotta sia da grandi aziende (paste “industriali”) che da piccoli pastifici, l’indice di furosina è risultato superiore a 300 mg per 100 g proteine per quasi tutte le paste industriali, così come, sorprendentemente, in alcune paste artigianali. Dosi che destano preoccupazione agli occhi degli esperti di tecnologia alimentare. Tuttavia in commercio abbiamo dei produttori di pasta che credono nell’essiccazione lenta e a basse temperature.
Cosa fare in concreto?
Occorre far riflettere i consumatori su questi aspetti, perché in questo modo stimoliamo in loro una maggiore consapevolezza sul cibo che mangiano in maniera troppo abitudinaria per comodità e perché la pubblicità martellante fa pensare che la pasta sia l’unico carboidrato a disposizione per gli italiani. Pertanto, prima di tutto andrebbe suggerito di ripiegare più spesso nelle fonti di carboidrati che non vengono cotte o essiccate, come per esempio la pasta fresca, i cereali in chicco, le patate, gli gnocchi di patate oppure la polenta o il mais e lasciare magari pastasciutta e pizza per uno o due giorni la settimana al massimo. Già questo ridurrebbe molto il carico di AGES e furosina che assorbiamo quotidianamente mangiando pane e pasta.
Fra l’altro mangiando ad esempio le patate o gli gnocchi, ma anche il mais lessato, si assumono meno carboidrati rispetto al piatto di pasta e si dà una tregua provvidenziale dal glutine all’intestino. Sappiamo infatti che un carico eccessivo di questa proteina crea difficoltà digestive e stimola il sistema immunitario che si sensibilizza e si predispone ad intolleranze/allergie. Altre ottime alternative, per quanto riguarda il moderare l’assunzione di cereali senza glutine, sono la polenta ed il riso.
La spesa furosina-free garantisce la varietà nella dieta
Variare la spesa accrescerà anche il bagaglio di conoscenze sul cibo, pertanto servirebbe mettere nel carrello anche prodotti che di solito non vengono acquistati, come gnocchi di patate, pasta fresca (all’uovo oppure di sola semola di grano duro), mais lessato, farina di mais (polenta), cereali in chicco (orzo, farro, avena, quinoa, miglio, grano saraceno). Di seguito alcuni prodotti eccellenti, acquistabili in Italia e che non contengono furosina, in quanto privi di essiccazione o cottura in forno.
Pasta fresca di semola di grano duro (biologica e integrale):
Carboidrati: 44,8g anzichè i 75g della pastasciutta
Mais lessato biologico e italiano:
Contiene solo 17,4g di carboidrati su 100g di prodotto. Un quarto dei carboidrati di un piatto di pasta.
Gnocchi di patate integrali:
25,2g di carboidrati anziché 75g della pastasciutta
Paccheri Bio a lenta essiccazione di 36 ore sotto i 60°C di temperatura:
pasta furosina-free
Riso integrale, ottima alternativa alla pasta:
furosina-free e gluten-free
Orzo perlato in chicchi:
alternativa alla pasta, furosina-free (ha glutine)
In Cile, il Parlamento ha approvato il “matrimonio egualitario” – ovvero tra persone dello stesso sesso – che contempla anche il diritto di avere figli. La normativa aveva infatti in precedenza ricevuto il via libera da parte del Senato ed ora è stata approvata anche dalla Camera dei deputati. La legge, che adesso dovrà essere promulgata dalla presidenza della repubblica così da definire le procedure amministrative che introdurranno la novità, è stata accolta con grande favore dalla comunità Lgbt, con centinaia di persone che hanno sfilato per le strade di Santiago del Cile.
I prodotti provenienti dagli allevamenti intensivi di suini, dove viene praticato il taglio sistematico della coda agli animali e dove le scrofe vivono in gabbia, potrebbero essere etichettati in Italia come “benessere animale”: è quanto si apprende da Essere Animali, che insieme ad oltre 10 associazioni animaliste, ambientaliste e dei consumatori ha lanciato una campagna contro le «bugie in etichetta» con cui chiede di «rivedere lo schema di decreto e gli standard per la certificazione di benessere animale dei prodotti suinicoli italiani». Il metodo di certificazione in questione sta infatti per essere votato in Conferenza Stato-Regioni, il che darà attuazione al Sistema di qualità nazionale per il benessere animale istituito tramite l’articolo 224 bis del cosiddetto Decreto Rilancio.
Tale sistema è stato portato avanti dai Ministeri delle Politiche Agricole e della Salute, motivo per cui le associazioni si rivolgono al ministro della Salute Roberto Speranza (responsabile per il benessere animale) ed a quello delle Politiche Agricole Stefano Patuanelli (responsabile della qualità del Made in Italy) chiedendo di modificare l’attuale schema di decreto e di non far approdare al voto in Conferenza Stato-Regioni gli standard per la certificazione suinicola. Si tratta di un sistema che prevede la certificazione e l’etichettatura volontaria di prodotti di origine animale che rispettino standard superiori ai requisiti di legge ma che – sostengono le associazioni – «non comunica in modo trasparente e accessibile quali siano gli standard di maggior tutela in termini di benessere animale» e che dunque «si riduce a uno strumento di disinformazione».
La certificazione da votare, inoltre, non solo sarebbe in contrasto con la direttiva europea sulla protezione dei suini, ma garantirebbe anche priorità di accesso ai fondi PAC (Politica Agricola Comune) e PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) che però non sarebbero utilizzati per stimolare un’agricoltura e un sistema alimentare più sostenibile, così come richiesto dall’Unione europea, in quanto verrebbero favoriti gli allevamenti intensivi.
Secondo le associazioni tutto ciò costituirebbe quindi un «vero e proprio raggiro nei confronti dei consumatori e un grave danno nei confronti degli animali», ed è proprio per questo che esse invitano anche i cittadini ad esprimere il loro dissenso chiedendo al ministro della Salute ed al ministro delle Politiche Agricole «una legge e degli standard più giusti e trasparenti». Per farlo, è stato organizzato un “Tweetstorm”: sono in pratica state create 10 frasi critiche a riguardo che ognuno potrà copiare e pubblicare sul proprio profilo Twitter così da dimostrare che sono tanti i cittadini italiani contrari a questo sistema di etichettatura.
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