Google ha comunicato al suo personale statunitense che dovrà tassativamente vaccinarsi contro il Covid-19 entro il 18 gennaio. Per coloro che decideranno di continuare ad opporsi – a meno che non siano in possesso di una esenzione medica o religiosa – sono previsti tre livelli di “pena”: prima 30 giorni di aspettativa dal lavoro retribuita, poi sei mesi di sospensione non retribuita ed infine, se non provvederanno, il licenziamento. A riportare la notizia è stata la CNBC, che ha visionato una serie di documenti interni all’azienda statunitense.
Miniere sottomarine: la nuova frontiera “green” della geopolitica
Nell’era della “transizione green” e, soprattutto, dello scontro geopolitico tra i vari imperi mondiali, su tutti USA e Cina, c’è chi crede che la strada sia l’estrazione mineraria sottomarina. Sul fondo dell’Oceano Pacifico giacciono trilioni di rocce grandi come patate composte da metalli quali il litio, il nichel il cobalto e il manganese, tutti elementi necessari per la costruzione di batterie per veicoli elettrici. Gli squali, quelli umani, si sono già mossi e il Codice minerario che l’Autorità internazionale dei fondali marini (ISA) – organizzazione affiliata alle Nazioni Unite – doveva adottare non vedrà la luce prima di due anni.
Mentre cresce l’opposizione di moltissimi Stati contro l’estrazione mineraria sottomarina ce ne sono altri che non vedono l’ora di consentire l’inizio dello sfruttamento in profondità. La lotta per la redazione del Codice minerario presso l’ISA si prende altri due anni di tempo dopo che è saltato l’ordine del giorno inerente presso la riunione mondiale che in questi giorni riunisce virtualmente i 167 Stati membri. L’opposizione del micro-Stato dell’Oceano Pacifico, Nauru, ha fatto saltare le discussioni per l’adozione del Codice minerario chiedendo una fase interlocutoria ulteriore con la redazione di una tabella di marcia.
Nauru, con soli 21 chilometri quadrati, è il terzo paese più piccolo del mondo dietro Città del Vaticano e Principato di Monaco, e la più piccola Repubblica del pianeta, ma dietro la sua decisione c’è qualcosa di più grande. Nauru ha agito per conto di Nauru Ocean Resources Incorporated (NORI), una consociata interamente controllata da The Metals Company, una società registrata in Canada e precedentemente chiamata DeepGreen. «Il futuro verde è metallico», ha detto Gerard Barron, CEO della compagnia canadese, in riferimento alle “patate” da raccogliere ed estrarre dal fondale marino oceanico. «Questi noduli, come quello che tengo in mano, sono il nuovo petrolio», ha affermato il CEO durante un’intervista con The Detroit News, sostenendo che l’estrazione mineraria sottomarina è molto meno impattante rispetto a quella in terraferma.
Douglas McCauley, professore di biologia marina presso l’Università della California-Santa Barbara, ha affermato: «C’è una base abbastanza chiara della scienza che sappiamo che ci saranno alcune gravi ripercussioni negative per l’estrazione mineraria sulla biodiversità oceanica». Nella lettera che più di 600 scienziati ed esperti di politica hanno firmato, in cui si esortano le Nazioni Unite a mettere un blocco su qualsiasi licenza mineraria, si legge che «la perdita di biodiversità e il funzionamento dell’ecosistema che sarebbe irreversibile su scale temporali multigenerazionale».
La decisione adottata da Nauru, oltre a riflettere la traiettoria industriale e tecnologica impressa al mondo, con la fantomatica “transizione green”, nasconde lotte geopolitiche di enormi proporzioni ove i contendenti principali sono gli Stati Uniti e la Cina.
Mentre sale a livello globale la richiesta dei metalli utili alla costruzione di batterie per veicoli elettrici, la Cina dispone del 75% di tutta la capacità di produzione di batterie e circa l’80% della capacità di raffinazione globale dei metalli inizialmente citati. «Non possiamo semplicemente ridistribuire la torta lontano dai cinesi e da altri paesi», ha detto Duncan Wood, specialista in politica nordamericana presso il Wilson Center, il quale ha proseguito dicendo: «Semplicemente non c’è abbastanza prodotto in questo momento per soddisfare la domanda». La catena di approvvigionamento globale, con la crisi pandemica, ha palesato le criticità della centralità della Cina nella produzione mondiale e il Wilson Center spiega, nel documento The Mosaic Approach: a Multidimensional Strategy for Strengthening America’s Critical Minerals Supply Chain, quale debba essere la strategia statunitense nel riposizionamento globale delle economie e delle catene di approvvigionamento, compresa quella delle materie prime frutto dell’estrattivismo.
La compagnia guidata da Barron intende soddisfare questa esigenza dettata dalla nuova agenda globale “transizionista” che vede gli interessi imperiali in competizione per la supremazia mondiale; e The Metals Company non è la sola: sulla “torta” si sono gettati la belga GSR e UK Seabed Resources, una sussidiaria dell’appaltatore della difesa statunitense Lockheed Martin.
[di Michele Manfrin]
Germania espelle due diplomatici russi dopo sentenza caso Kavtarashvili
Dopo il verdetto del Tribunale di Berlino che ha stabilito il ruolo della Russia nell’ordinare l’omicidio di un ex soldato ceceno richiedente asilo a Berlino, la Germania ha espulso due diplomatici russi. L’omicidio era avvenuto nel 2019 in pieno giorno nel parco Tiergarten, nel cuore della capitale tedesca. L’uomo, un ex militante ceceno di nome Tornike Kavtarashvili, si trovava in asilo in Germania dal 2016: la Russia ne aveva richiesto l’estradizione, ma Berlino non la concesse. L’ambasciatore russo ha definito quella tedesca una decisione “faziosa e politicamente motivata” e l’accusa di coinvolgimento della Russia nell’omicidio “assurda”, motivo per cui vi seguirà una “risposta adeguata”.
Giornalisti o influencer?
Nell’ultima classifica dei 15 giornalisti italiani più attivi sui social, l’unico che ha davvero a che fare con le notizie e che fa davvero il giornalista è al terzo posto: Gianluca Di Marzio, guru del calcio mercato e cane da tartufo dei segreti del pallone.
Tutti gli altri, dal primo all’ultimo, fanno felicemente e serenamente un altro mestiere. Sono influencer, opinionisti o “opinion makers”, scrittori, cacciatori di fake news, ospiti televisivi, perfino giudici di programmi televisivi. Sono, soprattutto, grandi surfisti dell’onda social, come appunto dimostrano una volta di più queste statistiche pubblicate da Primaonline, la Bibbia dei media italiani.
Dal primo per distacco, Andrea Scanzi, a tutti gli altri, è un fiorire e un florilegio di click – interazioni, per dirla bene – che ruotano attorno alla capacità di bucare il video, o lo schermo dello smartphone e del notebook, con tutto il repertorio di chi del giornalismo prende l’etichetta, per poi mettere tutt’altro nel barattolo.
La classifica delle dieci “Best perfoming”, la Top 10 del mese, è eloquente: riguarda opinioni e interventi sugli interventi più disparati, dal Green Pass ai principali temi di attualità, sui quali i nostri fantastici quindici (anzi, dieci) hanno fornito appunto opinioni, suggestioni e punti di vista.
Questo è il ruolo del giornalista all’alba avanzata del Terzo millennio? E’ questo il Frankestein uscito dal laboratorio della modernità, forgiato a misura dei social e dei like? A quanto pare, sì. A quanto pare la parola “giornalista” è sempre più incollata e sovrapposta a quello che di giornalistico ha ormai poco o nulla. Fanno ondeggiare i contatori dei social, fanno impennare le statistiche delle interazioni e fanno la gioia degli inserzionisti e dei rilevatori, ma stanno al giornalismo come Caino stava al diritto di famiglia.
I social, queste classifiche e queste dinamiche, confermano che Lavoisier ha sempre ragione: nulla si crea e nulla si distrugge, è solo il giornalismo che (forse) si trasforma. Si è trasformato in modo forse irreversibile. Era il cane da guardia della società, il faro della democrazia, così almeno veniva descritto e percepito. Produceva fatti, analizzava la realtà con strumenti oggettivi, fattuali, “facta” e domande sui quali le persone potevano riflettere e crearsi opinioni, consapevolezze, feritoie della coscienza da cui la luce poteva entrare e diffondersi. I primi 15 giornalisti italiani “social” del mese, salvo qualche eccezione di cui sopra, confermano che tutto questo non è più necessario. Non serve più, forse è addirittura obsoleto.

I fatti, le domande, l’osservazione della realtà, i ferri del mestiere che servivano prima ad un giornalista, sono stati sostituiti brutalmente da altri strumenti. Per essere “social”, bisogna essere al centro di qualcosa. Bisogna catalizzare l’attenzione, diventare centrale di interesse, produrre da sé le notizie, non limitarsi a cercarle o scavarle. Bisogna essere se stessi notizia, in buona sostanza. Se il numero di click che ci riportano queste statistiche sono attendibili, molto meno che reali, significa che apparire su un un canale della rete può produrre molto più interesse di qualsiasi, sudato e sudatissimo articolo scritto nero su bianco. Milioni di interazioni e un numero enorme di follower testimoniano che l’etichetta di “giornalisti” è perfino riduttiva. Forse è un’epoca che semplicemente cercava voci che si stagliassero sul nulla dei suoi orizzonti, e le ha trovate in chi ha saputo meglio e più velocemente degli altri diventare un guru di qualcosa, sia esso un punto di vista, una crociata ideologica, un sostegno a qualche causa friendly o semplicemente il mettere il timbro su tutto quello che passa e che succede.
Questa Top 15, questa e altre classifiche dei tempi nostri, sono la prova che il giornalista che forniva spunti, suggeriva chiavi di lettura e tirava fuori pezzi di verità in qualche complicato puzzle ha lasciato il campo – con qualche strenua e febbricitante resistenza, in direzione ostinata e contraria – al “giornalista” che in realtà ha risposte, non domande. Che non si interroga, ma risponde. Che produce notizie, non le cerca e tantomeno le approfondisce. Che ha più verità che dubbi, e che ha una parola per tutto, ha da dire su tutto e sempre, non conosce zone d’ombra, pause o (in altri tempi) dignitosi silenzi. Non ci sono più cani da guardia della democrazia e dei governati, ci sono al massimo animali da tastiera. E conta solo quello che il giornalista-personaggio scrive o dice, o meglio quello che “posta” o “twitta”, conta che ci sia e batta un colpo. Sempre e comunque, sette giorni su sette, festivi compresi. Conta che muova la classifica dei click, li titilli e li provochi incessantemente. Conta il fatturato, bellezza.
[di Salvatore Maria Righi]
Sciopero di otto ore, oggi Cgil e Uil in piazza
Sono previste cinque manifestazioni per la giornata di oggi, a Roma, Milano, Bari, Cagliari e Palermo, insieme a uno sciopero lavorativo di 8 ore, il tutto promosso da Cgil e Uil. Esonerato il settore della sanità, in ragione dell’emergenza sanitaria. I sindacati criticano la legge di Bilancio, in particolare per quanto riguarda fisco, pensioni, politiche industriali, precarietà e delocalizzazioni. Si dissociano Cisl, che scenderà in piazza sabato 18, e Confindustria. Da parte del Governo “c’è volontà di colloquio, confronto e ascolto” assicura Draghi, che ha convocato una tavola rotonda con i sindacati lunedì 20 per discutere delle pensioni e avviare la riforma della legge Fornero.
Cattura del carbonio, cinquanta scienziati si appellano a Draghi
Cinquanta scienziati e accademici italiani hanno scritto una lettera, al presidente della Repubblica e al premier Mario Draghi, per contestare l’ipotesi di destinare 150 milioni della legge di Bilancio 2022 agli impianti di Cattura e Stoccaggio del carbonio (Ccs), situati a Ravenna, di proprietà Eni. Una tecnologia immatura, criticata su più fronti e delle cui conseguenze a lungo termine si sa poco o nulla. Varrebbe la pena correre il rischio se solo si avesse la certezza che possa essere realmente risolutiva. Ma così non è. Anzi, “rappresenta – come ribadiscono i firmatari della lettera – un alibi straordinario per continuare a produrre anidride carbonica contribuendo all’attuale trend di crescita esponenziale del disastro ambientale”. Impianti costosi destinati quindi esclusivamente a prolungare la vita del comparto fossile. Non a caso, tutte le grandi compagnie petrolifere premono affinché il Ccs venga adottato su larga scala.
“L’uso e lo stoccaggio della CO2 è realmente una tecnologia socialmente accettabile?”, così gli scienziati hanno aperto la missiva indirizzata ai vertici della Repubblica. La risposta è no. E le ragioni le hanno spiegate in cinque punti. In primo luogo – secondo gli accademici – è inaccettabile che le compagnie petrolifere, tra le principali responsabili delle emissioni di gas climalteranti, pretendano che i loro progetti Ccs siano pagati dallo Stato, quindi dalle collettività. Collettività che già paga, in termini di decessi, spesa sanitaria, perdite di raccolti e di giornate di lavoro, le conseguenze della crisi climatica, la cui genesi è ampiamente attribuibile all’industria fossile. Nel secondo punto spiegano, invece, che “l’iniezione e lo stoccaggio della CO2 nei pozzi in via di esaurimento o già esauriti daranno nuova linfa alle attività estrattive di gas e petrolio”. Inoltre – aggiungono nel terzo – “finanziare il Ccs di Ravenna vorrebbe dire dare la stura alla produzione di idrogeno blu e, di conseguenza, all’estrazione ed al consumo di gas in un orizzonte temporale che si spinge fino al 2050, ben oltre, quindi, il punto di non ritorno”. Infine – sottolineano negli ultimi punti – l’avvio del progetto significherebbe riconvertire le 138 piattaforme che Eni possiede a largo della costa romagnola, evitando così alla multinazionale i costi che dovrebbe affrontare per il ripristino ambientale una volta esauriti i pozzi. E che, in ultimo, tali impianti rischiano di sostituire il mercato dei crediti di carbonio, recentemente migliorato dalla Cop26. Nessuna azienda, infatti, acquisterebbe quote di anidride carbonica alla luce della possibilità di seppellire quest’ultima nel sottosuolo.
Non dovrebbe sorprendere quindi che il Cane a sei zampe le tenti tutte pur di veder finanziato l’impianto. Ci ha provato con il Recovery Plan e poi, di nuovo senza successo, con il Fondo Europeo per l’Innovazione. A detta degli scienziati ricorsi all’appello, le motivazioni per bloccare progetti simili ci sono eccome. Non si tratta, infatti, solo di una tecnologia potenzialmente inutile ma, addirittura, irrimediabilmente dannosa. Certo è che si tratta di una ghiotta occasione per sviluppare un nuovo mercato, dalle potenzialità e profittabilità come pochi altri. Nulla di più. D’altronde, in questo senso, già l’oggetto della lettera è abbastanza esplicito: “l’inganno della decarbonizzazione basata sulla cattura, stoccaggio e uso della CO2”. Tuttavia, nonostante tra i più autorevoli firmatari spicchino chimici ed esperti del settore energetico, nessuno è pronto a scommettere che il presidente del Consiglio vi dia ascolto.
[di Simone Valeri]
Mali, Francia ritira truppe da Timbuktu dopo 8 anni
Dopo più di otto anni le forze militari francesi hanno lasciato la città di Timbuktu, in Mali, dopo che nel 2013 l’ex presidente Hollande aveva iniziato nello Stato l’offensiva militare. Il generale du Peyroux ha dichiarato che lo scopo era aiutare il Mali a raggiungere un certo livello di autonomia, “sempre in un clima di collaborazione”. L’intento della Francia è infatti rafforzare gli eserciti locali per poter ritirare buona parte del proprio contingente militare. La presenza francese rimane nella zona di Gao, ancora molto instabile. Nel frattempo, la comunità internazionale sta esercitando pressioni affinchà il Mali porti a termine nuove elezioni democratiche entro febbraio 2022.
Gli USA non giudicheranno i soldati autori della strage di civili a Kabul
Il New York Times ha riportato lunedì scorso, che il segretario del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, avrebbe deciso di non intraprendere nessuna azione disciplinare nei confronti dei due soldati americani responsabili per l’attacco con un drone all’aeroporto di Kabul lo scorso 29 agosto. Attacco che portò alla morte di 10 civili afgani, di cui 7 bambini. Secondo un’indagine interna del Pentagono, l’attacco con il drone non avrebbe violato alcuna legge di guerra internazionale e non sarebbe il risultato di negligenza o di cattiva condotta.
Austin si sarebbe infatti raccomandato per garantire che i due militari americani, responsabili dell’attacco, non fossero soggetti ad alcuna azione disciplinare. Nonostante il fatto che poche settimane dopo l‘accaduto, l’amministrazione Biden avesse riconosciuto il proprio errore. Il Generale Frank McKenzie, a capo del Commando Centrale dell’esercito statunitense, aveva dichiarato che “era improbabile” che le persone uccise fossero associate allo Stato Islamico nella provincia di Khorasan, (ISKP). In contrasto con quanto invece venne originariamente affermato dall’esercito americano subito dopo l’attacco. Il generale McKenzie aveva inoltre offerto condoglianze ai famigliari delle vittime, dicendo che l’attacco con il drone era stato effettuato a seguito della “quasi certezza” che avrebbe impedito un imminente attacco all’aeroporto dove le forze americane stavano evacuando i civili. A seguito di indagini interne, lo scorso 3 novembre, Sami Said, alto ufficiale dell’aviazione militare americana, aveva affermato che l’attacco con il drone sarebbe stato un “honest mistake” (errore in buona fede) causato da una serie di errori di esecuzione, a seguito dell’interruzione delle comunicazioni tra le truppe. Secondo una stima effettuata dalla ONG britannica AirWays, che analizza gli attacchi aerei dichiarati dagli Stati Uniti dal 2001 ad oggi (circa 91.000 in 7 maggiori aree di conflitto, Siria, Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Pakistan e Somalia), questi “errori in buona fede” avrebbero portato alla morte di almeno 22.679 civili, ma che potenzialmente la cifra potrebbe essere molto più altra arrivando fino a 48.308.
Ancora una volta il pentagono, nonostante abbia ammesso le proprie responsabilità per l’attacco, si è trincerato utilizzando il “segreto militare” e la “sicurezza nazionale” come scusa per non rendere pubbliche le indagini. Gli USA negli anni hanno aumentato significativamente l’utilizzo di droni per operazioni militari e antiterroristiche. Durante la presidenza di Barack Obama, a seguito delle richieste di maggior trasparenza da parte dell’opinione pubblica, era stata introdotta una legge che obbligava gli ufficiali dell’intelligence a pubblicare una lista dei civili uccisi negli attacchi con i droni al di fuori delle zone di conflitto. L’obbligo di pubblicare una lista dei civili uccisi, considerato come “superfluo e inutile” venne tolto nel 2019 durante la presidenza di Donald Trump. In quegli anni, venne inoltre modificata la legge che regolamentava gli attacchi con i droni, ampliandone significativamente la possibilità di utilizzo. In breve, le nuove regole di Trump garantivano agli Stati Uniti la possibilità di uccidere praticamente chiunque venisse considerato come una “minaccia terrorista”, in qualsiasi parte del mondo, senza dover far riferimento alle norme che vietano l’uccisione extragiudiziale ai sensi delle leggi sui diritti umani.
Le modifiche apportate da Trump, di fatto hanno semplificato il programma di uccisioni extragiudiziali degli Stati Uniti, che dal 2001 in avanti, era stato utilizzato in maniera più o meno intensiva da tutti i presidenti in carica come mezzo principale della “guerra al terrorismo”. Nel primo giorno del suo mandato, il 20 gennaio 2021, il neoeletto Presidente Biden aveva sospeso la legge di Trump promettendo di modificarla in modo restrittivo. Dopo quasi un anno, appare evidente come l’utilizzo di questi droni da parte degli stati uniti non sia in alcun modo diminuito. Allo stesso modo, risulta chiaro che anche l’assunzione di responsabilità (liability) in caso di errori continui ad essere tranquillamente evasa.
[di Enrico Phelipon]









