domenica 11 Maggio 2025
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Gaza, centinaia di tende allagate per le forti piogge

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Centinaia di tende nei campi profughi in diverse zone della Striscia di Gaza sono state allagate ieri sera e stamattina a causa delle forti piogge che hanno colpito l’area. Gli sfollati – soprattutto nelle zone di Deir al-Balah e Mawasi Khan Yunis – hanno riferito che le loro tende sono state spazzate via dai forti venti che hanno colpito la Striscia, costringendoli ad affrontare il freddo pungente senza alcuna protezione. Le squadre di soccorso hanno ricevuto centinaia di chiamate di soccorso dagli sfollati, che chiedevano di salvare loro e i loro bambini. Solo nell’ultima settimana, sei neonati sono morti nella Striscia a causa del freddo.

I medici del mondo boicottino Israele: l’appello della Relatrice ONU Francesca Albanese

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Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per la Palestina, ha invitato i professionisti medici di tutto il mondo a interrompere ogni collaborazione con Israele in risposta alla distruzione del sistema sanitario di Gaza. «Esorto i professionisti medici a livello globale a rompere tutti i legami con Israele come gesto concreto per condannare fermamente la distruzione totale del sistema sanitario palestinese a Gaza, una componente chiave del genocidio in corso perpetrato da Israele», ha dichiarato Albanese sulla piattaforma X. L’appello di Albanese arriva in uno dei momenti più bui per il sistema sanitario gazawi, che sta venendo colpito sempre più duramente: soltanto nell’ultima settimana, sei neonati palestinesi sono morti di ipotermia nella Striscia a causa della mancanza di strutture sanitarie.

L’esercito israeliano sta attaccando senza sconti il sistema sanitario della Striscia di Gaza. Il 28 dicembre, dopo giorni di assedio, le IDF hanno arrestato Hossam Abu Safiya, direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahiya, nel nord della Striscia, assieme al resto del personale sanitario della struttura. Fonti riprese da attivisti per i diritti umani riportano dell’uccisione del figlio di 8 anni del primario. In seguito a un appello della famiglia, è sorto un movimento di supporto ad Abu Safiya che richiede la sua liberazione: c’è chi, come la giornalista e attivista per i diritti umani dell’organizzazione Euro-Mediterranean Human Rights Monitor Maha Hussaini, teme che il medico possa incontrare la stessa sorte del dottor Adnan al-Bursh, direttore dell’ospedale Al-Shifa, morto nella prigione israeliana di Ofer, e secondo molti torturato. Sul web sta girando una foto che ritrae Abu Safiya solo, davanti a una schiera di carri armati, qualche minuto prima di venire arrestato «per essersi rifiutato di abbandonare colleghi e pazienti».

Presso l’ospedale di Kamal Adwan, secondo delle testimonianze, l’ossigeno è stato negato ai pazienti, e i presenti sono stati spogliati, trascinati e torturati. L’ospedale di Kamal Adwan era uno dei pochi funzionanti all’interno della Striscia, e, riporta l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’ultima grande struttura attiva nel Governatorato di Nord Gaza. L’ospedale è finito al centro di molteplici assedi, che si sono intensificati sempre di più a partire dal lancio dell’operazione israeliana sull’intero Governatorato. Nelle ultime settimane, Kamal Adwan è stato bersaglio di pesanti attacchi, per poi venire reso oggetto di un ordine di evacuazione; dal 28 dicembre non è più attivo. Kamal Adwan non è l’unico ospedale a essere stato colpito dalle forze israeliane. A Nord Gaza analoghe operazioni si sono susseguite lungo tutto il periodo dell’assedio anche nelle strutture dell’Indonesian Hospital, sempre a Beit Lahiya, e dell’ospedale di Al-Awda, a Jabaliya.

A rendere allarmante la situazione sanitaria – e in generale quella umanitaria – a Nord Gaza, non ci sono solo i continui assalti a strutture civili e cittadini, ma vi si aggiunge anche il problema alimentare: una settimana fa, l’OXFAM ha riportato che negli ultimi due mesi e mezzo Israele ha concesso l’entrata di soli dodici camion di cibo e acqua nel Governatorato. La carenza di ospedali, cibo e acqua, e gli attacchi alle strutture sanitarie proseguono in tutta la Striscia. Ieri, lunedì 30 dicembre, presso l’ospedale dei martiri di Al-Aqsa, nel centro della Striscia, è morto per freddo il sesto neonato nell’arco di una manciata di giorni. Questo inverno si sta rivelando ben più duro del precedente: l’agenzia statale palestinese Wafa riporta che tra ieri e oggi, martedì 31 dicembre, centinaia di tende nei campi profughi in diverse aree della Striscia di Gaza sono state allagate a causa delle forti piogge.

La crisi umanitaria, comunque, non si limita agli ospedali, esattamente come gli attacchi. Oggi le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi in un attacco alla città assediata di Jabaliya, dopo una giornata di bombardamenti che ha ucciso almeno 27 persone in tutta la Striscia. Dall’escalation del 7 ottobre, l’esercito israeliano ha ucciso direttamente almeno 45.541 persone, anche se il numero di morti totale potrebbe superare le centinaia di migliaia di persone, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet, e da una recente lettera di medici volontari nella Striscia.

[di Dario Lucisano]

USA: sanzioni a entità russe e iraniane per “interferenza elettorale”

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Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a entità in Iran e Russia, accusandole di aver tentato di interferire nelle elezioni statunitensi del 2024. A venire colpite, di preciso, sono state una filiale del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane e un’organizzazione affiliata all’agenzia di intelligence militare russa. Ad annunciare le misure è stato il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, accusando i due gruppi di aver condotto campagne di diffusione di fake news e di orientamento dell’opinione pubblica statunitense. Le sanzioni prevedono il congelamento dei beni posseduti negli USA e l’imposizione di un blocco negli scambi commerciali con i cittadini e le realtà statunitensi.

Due petroliere hanno perso almeno 3.700 tonnellate di combustibile nel mar Nero

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Il naufragio delle due petroliere nello Stretto di Kerch, nel Mar Nero, avvenuto lo scorso 15 dicembre, si è da subito configurato come un “disastro ambientale”. Le due navi trasportavano complessivamente 9.200 tonnellate di mazut, un olio combustibile pesante e altamente inquinante, di cui almeno 3.700 tonnellate, secondo l’organizzazione Greenpeace, sono state sversate in mare, contaminando le coste e colpendo gravemente l’ecosistema locale. Questo prodotto presenta caratteristiche di alta densità e viscosità e, a differenza degli idrocarburi più leggeri, è difficile da recuperare e può persistere nell’ambiente per diversi anni. Numerosi volontari ed esperti stanno lavorando duramente da giorni per limitare i danni. Tuttavia, gli effetti sugli ecosistemi marini, sulla pesca e sugli habitat costieri saranno comunque gravi e a lungo termine.

Nello specifico, gli incidenti in questione hanno coinvolto due petroliere vecchie di oltre 50 anni: la Volgoneft-212, che si è spezzata in due, e la Volgoneft-239, che si è invece arenata a 80 metri dalla riva vicino al porto di Taman. Un membro dell’equipaggio della prima nave è rimasto ucciso, mentre le altre persone che si trovavano a bordo delle petroliere sono state tratte in salvo. L’area in cui si è verificato il disastro è ora teatro di un’emergenza ecologica, dichiarata dal leader della Crimea, Sergei Aksionov, su impulso del Cremlino. I video diffusi sui social mostrano uccelli marini intrappolati nel petrolio e spiagge ricoperte da una densa macchia nera. Secondo il Center for Research on Energy and Clean Air (CREA) di Londra, l’impatto ambientale potrebbe essere «astronomico», con un costo di bonifica stimato tra i 64 e i 112 milioni di dollari. La tempesta che ha provocato l’incidente è stata accompagnata da onde alte fino a 3,5 metri, ben oltre i limiti di sicurezza per le petroliere, che secondo esperti avrebbero dovuto navigare solo in condizioni più tranquille. Peraltro, entrambe le navi erano prive di un sistema AIS (Automatic Identification System) attivo, aumentando le difficoltà di monitoraggio e intervento. Il ministro russo delle Situazioni di Emergenza, Alexander Kurenkov, ha avvertito che la minaccia di ulteriori perdite di combustibile persiste, nonostante le autorità dichiarino di aver bonificato le aree più colpite. Nel frattempo, il presidente Vladimir Putin ha definito l’incidente un «disastro ecologico», e il primo ministro Mikhail Mishustin ha istituito un gruppo di lavoro per coordinare le operazioni di bonifica.

La fuoriuscita di petrolio ha già causato gravi danni alla fauna marina: pesci, crostacei e uccelli sono stati trovati morti lungo le coste del Mar Nero. Il disastro ha mobilitato migliaia di volontari per la pulizia delle spiagge, ma gli sforzi finora sono stati ritenuti insufficienti. Ad oggi, come riferito all’agenzia Tass dal governo russo, i soccorritori del Ministero delle Emergenze e i volontari hanno raccolto sulla costa del Mar Nero, in un’area lunga complessivamente 63 chilometri, circa 70.000 tonnellate di terreno contaminato da prodotti petroliferi. La gestione dell’emergenza è ora sotto i riflettori internazionali, con gli esperti che avvertono del rischio di perdite a lungo termine di prodotti petrolchimici dalle navi coinvolte nell’incidente. Le operazioni di bonifica si prospettano complesse e di lunga durata.

[di Stefano Baudino]

Francia: attaccate postazioni dell’ISIS in Siria

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Il ministro della Difesa francese, Sébastien Lecornu, ha annunciato che il Paese ha effettuato una serie di attacchi missilistici in Siria, prendendo di mira i siti del gruppo dello Stato Islamico (ISIS). Gli attacchi sono stati portati avanti la scorsa domenica e seguono un’analoga offensiva militare condotta dagli Stati Uniti in Siria, che, riporta la stessa Washington, avrebbe ucciso due agenti di Daesh. Lecornu ha comunicato all’agenzia di stampa AFP che per l’operazione sono stati usati i caccia Rafale francesi e i droni Reaper di fabbricazione USA. A venire colpiti, due obiettivi militari nella Siria centrale.

Tunisia, naufraga barcone: morti 2 migranti, tra cui un bimbo

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Le autorità tunisine hanno annunciato di aver soccorso e tratto in salvo 17 migranti e recuperato i corpi senza vita di altre due persone, tra cui un bambino di 5 anni, che viaggiavano a bordo di un’imbarcazione naufragata al largo delle coste del Paese. In una nota della Direzione generale della Guardia nazionale si legge che unità marittime operanti nella regione settentrionale e la Marina tunisina hanno risposto a una richiesta di soccorso da parte di un’imbarcazione che trasportava 19 persone, tutte tunisine. Quattro soggetti sospettati di essere coinvolti nell’organizzazione del viaggio sono stati tratti in arresto.

Cuba, il Davide che resiste a Golia da oltre 60 anni continua a ispirare l’America Latina

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Chi conosce il continente latinoamericano sa bene che la sua storia è fatta di eccessi e di grandi passioni. La più grande di queste è certamente Cuba, ancora oggi un faro per i governi progressisti della regione che cercano una via nazionale di sviluppo alternativo e socialista, primo esempio in tal senso e ancora solido nel suo ruolo di guida. Nel contesto americano, e soprattutto latinoamericano, Cuba occupa una posizione unica. Tolto il Messico e le Bahamas, è geograficamente il Paese più vicino agli Stati Uniti, mentre a livello ideologico e politico è difficile trovarne uno più distante....

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La nuova mossa securitaria del Viminale: zone vietate a chi ha precedenti penali nelle città

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Dopo la notizia dell’introduzione di una serie di “zone rosse” a Milano da parte della prefettura, il Viminale ha chiesto alle amministrazioni locali di tutta Italia di varare un’analoga misura per Capodanno. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha infatti inviato una direttiva ai prefetti per spingerli ad adottare apposite ordinanze che individuino le aree urbane dove vietare la presenza di «soggetti pericolosi» o con precedenti penali, disponendone l’allontanamento. Il ricorso alle “zone rosse” viene giustificato dal Viminale come una misura volta a garantire la tutela della sicurezza urbana e degli spazi pubblici cittadini. Eppure, alla lettura dell’ordinanza e del comunicato che l’ha annunciata, emergono la vaghezza dei criteri tratteggiati dal dicastero per l’individuazione delle persone “pericolose” e l’ampia discrezionalità garantita a tal fine alle forze dell’ordine.

In un comunicato, il Ministero dell’Interno ha reso noto che, lo scorso 17 dicembre, il ministro Piantedosi ha inviato una direttiva ai prefetti «per sottolineare l’importanza di individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti pericolosi o con precedenti penali e poterne quindi disporre l’allontanamento». Di fatto, la direttiva invita dunque i prefetti a sfruttare tutte le possibilità del cosiddetto “daspo urbano”, misura inserita nel decreto legge n. 14 del 2017 che prevede un ordine di allontanamento per le persone che «impediscono l’accessibilità e la fruizione» di luoghi pubblici come stazioni ferroviarie o fermate di mezzi pubblici, estendendo il suo ambito di applicazione per la determinazione delle “zone rosse”. Questo strumento è in vigore a Milano per Capodanno e fino al 31 marzo, avendo già visto una sua prima applicazione a Firenze e Bologna, dove in 3 mesi sono stati 105 i soggetti destinatari di provvedimenti di allontanamento su 14mila persone controllate. Il Ministero delinea le finalità del ricorso alle “zone rosse” anche in altre città, che potranno essere estese a «zone della movida, caratterizzate da un’elevata concentrazione di persone e attività commerciali e dove si registrano spesso episodi di microcriminalità (furti, rapine), violenza (risse, aggressioni), vandalismo, abuso di alcol e degrado», spiegando che esso rientra «nella più ampia strategia volta a garantire la tutela della sicurezza urbana e la piena fruibilità degli spazi pubblici da parte dei cittadini».

Eppure, è evidente la discrezionalità delle misure adottate, data l’ampiezza dello spettro degli individui ritenuti passibili di allontanamento dalle “zone rosse”. Nella nota si comunica infatti che si tratterà di «soggetti pericolosi o con precedenti penali»: la possibilità di allontanare individui con precedenti figura però all’interno del DDL Sicurezza – provvedimento che non ha ancora ottenuto il definitivo via libera dal Parlamento – che, come la stessa direttiva di Piantedosi evidenzia, «reca un’ulteriore estensione del divieto di accesso a coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per delitti contro la persona o contro il patrimonio commessi nelle aree interne e nelle pertinenze di infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano». La fumosità della direttiva si coglie ancora meglio nel passaggio successivo, ove si legge che «la misura del divieto di accesso dovrà essere disposta ogni qual volta il comportamento del soggetto risulti concretamente indicativo del pericolo che la sua presenza può ingenerare per i fruitori della struttura».

A scagliarsi contro l’ordinanza della prefettura di Milano entrata in vigore ieri – quando ancora non si conoscevano i contenuti della direttiva di Piantedosi – sono stati gli avvocati della camera penale del capoluogo lombardo. Questi ultimi hanno criticato il provvedimento si dicano allarmati dal fatto che «diritti tutelati a livello costituzionale e convenzionale» siano «compressi con provvedimenti dai contenuti tutt’altro che tipici che rimandano a categorie impalpabili (atteggiamenti aggressivi? Concreto pericolo per la sicurezza pubblica?), e di durata non corrispondente alle presunte ragioni di urgenza legittimanti il provvedimento di natura eccezionale», intervenendo «su libertà fondamentali del cittadino». Secondo gli avvocati, il fatto che tali provvedimenti «si rivolgano contro persone destinatarie di mera segnalazione all’autorità giudiziaria» sia un dato «altrettanto preoccupante, contrario al principio della presunzione di non colpevolezza e peraltro anche al buon senso, trattandosi in diversi casi di tipologie di reato perseguibili a querela suscettibile di remissione». In ultimo, i firmatari della nota manifestano sorpresa per l’adozione del provvedimento da parte della Prefettura nonostante analoghe ordinanze «siano state annullate dai giudici amministrativi».

[di Stefano Baudino]

La battaglia per Assange non è finita: al via la petizione per chiederne la grazia

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Sono passati sei mesi dalla liberazione di Julian Assange. Dopo 14 anni dall’inizio della sua personale Odissea, si può dire che il peggio sia passato, ma la sua battaglia non è certamente finita. Sulla sua persona grava infatti una condanna a cinque anni di carcere, derivata dal patteggiamento con le autorità statunitensi. Il fatto non è da sottovalutare: la condanna non ha solo un valore simbolico, ma comporta pesanti conseguenze per le libertà di stampa e di parola. La sentenza contro Assange crea infatti un pericoloso precedente giuridico, che apre la strada a potenziali applicazioni della legge statunitense sull’intelligence, permettendo agli investigatori di Washington di perseguire – e ai tribunali di condannare – giornalisti ed editori che osano divulgare la verità. A venire colpita è l’intera catena del giornalismo investigativo, perché la decisione dei giudici «criminalizza ogni aspetto del comunicare con una fonte, dal possedere informazioni riservate al pubblicarle». È per questo che la campagna Free Assange ha lanciato una piattaforma e una raccolta firme – attiva anche in Italia – per chiedere a Biden la concessione della grazia al giornalista australiano. Ne abbiamo parlato con Gabriel Shipton, fratello di Assange.

L’idea di chiedere a Biden la concessione della grazia per Julian Assange è sorta in occasione di un viaggio di Gabriel Shipton negli Stati Uniti. «Mi trovavo a Washington», racconta Gabriel a L’Indipendente, «dove ho avuto modo di parlare con molti dei sostenitori di Julian presso il Congresso». La battaglia per la liberazione di Assange ha dato vita a un movimento composito ed estraneo al sistema politico tradizionale: tra le mura delle istituzioni statunitensi, esso ha coinvolto singoli individui di entrambe le sponde politiche, senza mai costituire una coalizione ampia e strutturata. Tra i membri del Congresso c’è chi si è chiesto cosa si potesse fare per evitare che il caso di Assange diventasse la storia di tutti: è così stata messa sul tavolo l’opzione di chiedere la grazia. Tutto è partito quando il democratico James McGovern e il repubblicano Thomas Massie hanno scritto una lettera congiunta al presidente chiedendogli di graziare Assange. Così «abbiamo messo in piedi un sito web dove si può inviare una mail al presidente Biden e alla persona incaricata dei perdoni. Ora ci resta poco meno di un mese prima dell’insediamento di Trump, il 20 gennaio».

La piattaforma ha raccolto più di 30.000 firme ed è attiva su più domini (il dominio di primo livello è la parte finale di un sito internet che indica il tipo o la posizione del sito, come per esempio “.it”, “.com”, “.org”…), tra cui quello australiano; ma perché è così importante che Assange riceva la grazia? «Il fatto è che la sentenza del giudice non riguarda solo Julian», ci risponde Gabriel, interrogato sulla questione. «Sì, lui ha qualche limitazione, ma le cose più preoccupanti sono le limitazioni della libertà di parola e della libertà giornalistica: con il patteggiamento si permette ai procuratori e agli investigatori statunitensi di indagare su qualsiasi giornalista e qualsiasi editore, ovunque nel mondo, che abbia fatto il proprio lavoro, esponendo i segreti del governo». Assange è stato condannato a 62 mesi sulla base dell’Espionage Act, una legge federale che penalizza l’ottenimento e la divulgazione non autorizzata di informazioni relative alla difesa nazionale. Si tratta della prima volta in cui la legge sull’intelligence, originariamente concepita per colpire spie e persone che diffondevano segreti militari durante la Prima Guerra Mondiale, viene applicata contro un individuo attivo nel settore dell’informazione, colpendo l’intera catena del giornalismo investigativo.

La condanna contro Assange costituisce un «pericoloso precedente» da utilizzare in sede giuridica per avviare indagini nei confronti di individui che intendono scoperchiare scomode verità; essa «apre la strada a una potenziale condanna a cinque anni di prigione per chiunque sia colpito da accuse analoghe a quelle che pendevano su di lui». In questo, «la condanna di Julian limita la libertà dei media e la libertà di pubblicare in giro per il mondo, così come limita il nostro diritto di sapere cosa stanno facendo i nostri governi in nostro nome: essa riguarda tutti noi, non solo i giornalisti, non solo gli editori, ma ogni cittadino impegnato in tutto il mondo». È per questo che la piattaforma lanciata è aperta a tutti, cittadini statunitensi e non, in modo che «l’ufficio del presidente prenda nota del supporto globale che c’è per Julian». Il movimento sta premendo anche sul primo ministro australiano, perché faccia pressione per Assange durante la chiamata di addio a Biden. La stagione dei perdoni è appena entrata nel vivo. Visto il gran numero di clemenze elargite da Biden, la campagna a sostegno di Assange è fiduciosa in una sua buona riuscita: «Prima della sentenza, la retorica dell’amministrazione è sempre stata quella del non volere interferire con il Dipartimento di Giustizia. Ora che il processo è terminato, dipende tutto da Biden: può schierarsi a favore della libertà di stampa o contro di essa».

[di Dario Lucisano]

Corea del Sud, approvato il mandato di arresto per il presidente Yoon

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Dopo la richiesta pervenuta ieri dagli investigatori sudcoreani, un tribunale ha approvato l’emissione di un mandato di arresto nei confronti dell’ex presidente della Corea del Sud Yoon Suk Yeol, in seguito al tentativo di imporre la legge marziale lo scorso 3 dicembre. Il mandato di arresto si basa sulle accuse di insurrezione, tradimento, e abuso di potere, e segue la mancata risposta alle convocazioni per gli interrogatori da parte di Yoon. Nel caso in cui Yoon venisse incriminato, rischierebbe l’ergastolo o la pena di morte. Il mandato di arresto è valido fino al 6 gennaio, ma non è ancora noto come e quando verrà eseguito.