lunedì 12 Maggio 2025
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La battaglia per Assange non è finita: al via la petizione per chiederne la grazia

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Sono passati sei mesi dalla liberazione di Julian Assange. Dopo 14 anni dall’inizio della sua personale Odissea, si può dire che il peggio sia passato, ma la sua battaglia non è certamente finita. Sulla sua persona grava infatti una condanna a cinque anni di carcere, derivata dal patteggiamento con le autorità statunitensi. Il fatto non è da sottovalutare: la condanna non ha solo un valore simbolico, ma comporta pesanti conseguenze per le libertà di stampa e di parola. La sentenza contro Assange crea infatti un pericoloso precedente giuridico, che apre la strada a potenziali applicazioni della legge statunitense sull’intelligence, permettendo agli investigatori di Washington di perseguire – e ai tribunali di condannare – giornalisti ed editori che osano divulgare la verità. A venire colpita è l’intera catena del giornalismo investigativo, perché la decisione dei giudici «criminalizza ogni aspetto del comunicare con una fonte, dal possedere informazioni riservate al pubblicarle». È per questo che la campagna Free Assange ha lanciato una piattaforma e una raccolta firme – attiva anche in Italia – per chiedere a Biden la concessione della grazia al giornalista australiano. Ne abbiamo parlato con Gabriel Shipton, fratello di Assange.

L’idea di chiedere a Biden la concessione della grazia per Julian Assange è sorta in occasione di un viaggio di Gabriel Shipton negli Stati Uniti. «Mi trovavo a Washington», racconta Gabriel a L’Indipendente, «dove ho avuto modo di parlare con molti dei sostenitori di Julian presso il Congresso». La battaglia per la liberazione di Assange ha dato vita a un movimento composito ed estraneo al sistema politico tradizionale: tra le mura delle istituzioni statunitensi, esso ha coinvolto singoli individui di entrambe le sponde politiche, senza mai costituire una coalizione ampia e strutturata. Tra i membri del Congresso c’è chi si è chiesto cosa si potesse fare per evitare che il caso di Assange diventasse la storia di tutti: è così stata messa sul tavolo l’opzione di chiedere la grazia. Tutto è partito quando il democratico James McGovern e il repubblicano Thomas Massie hanno scritto una lettera congiunta al presidente chiedendogli di graziare Assange. Così «abbiamo messo in piedi un sito web dove si può inviare una mail al presidente Biden e alla persona incaricata dei perdoni. Ora ci resta poco meno di un mese prima dell’insediamento di Trump, il 20 gennaio».

La piattaforma ha raccolto più di 30.000 firme ed è attiva su più domini (il dominio di primo livello è la parte finale di un sito internet che indica il tipo o la posizione del sito, come per esempio “.it”, “.com”, “.org”…), tra cui quello australiano; ma perché è così importante che Assange riceva la grazia? «Il fatto è che la sentenza del giudice non riguarda solo Julian», ci risponde Gabriel, interrogato sulla questione. «Sì, lui ha qualche limitazione, ma le cose più preoccupanti sono le limitazioni della libertà di parola e della libertà giornalistica: con il patteggiamento si permette ai procuratori e agli investigatori statunitensi di indagare su qualsiasi giornalista e qualsiasi editore, ovunque nel mondo, che abbia fatto il proprio lavoro, esponendo i segreti del governo». Assange è stato condannato a 62 mesi sulla base dell’Espionage Act, una legge federale che penalizza l’ottenimento e la divulgazione non autorizzata di informazioni relative alla difesa nazionale. Si tratta della prima volta in cui la legge sull’intelligence, originariamente concepita per colpire spie e persone che diffondevano segreti militari durante la Prima Guerra Mondiale, viene applicata contro un individuo attivo nel settore dell’informazione, colpendo l’intera catena del giornalismo investigativo.

La condanna contro Assange costituisce un «pericoloso precedente» da utilizzare in sede giuridica per avviare indagini nei confronti di individui che intendono scoperchiare scomode verità; essa «apre la strada a una potenziale condanna a cinque anni di prigione per chiunque sia colpito da accuse analoghe a quelle che pendevano su di lui». In questo, «la condanna di Julian limita la libertà dei media e la libertà di pubblicare in giro per il mondo, così come limita il nostro diritto di sapere cosa stanno facendo i nostri governi in nostro nome: essa riguarda tutti noi, non solo i giornalisti, non solo gli editori, ma ogni cittadino impegnato in tutto il mondo». È per questo che la piattaforma lanciata è aperta a tutti, cittadini statunitensi e non, in modo che «l’ufficio del presidente prenda nota del supporto globale che c’è per Julian». Il movimento sta premendo anche sul primo ministro australiano, perché faccia pressione per Assange durante la chiamata di addio a Biden. La stagione dei perdoni è appena entrata nel vivo. Visto il gran numero di clemenze elargite da Biden, la campagna a sostegno di Assange è fiduciosa in una sua buona riuscita: «Prima della sentenza, la retorica dell’amministrazione è sempre stata quella del non volere interferire con il Dipartimento di Giustizia. Ora che il processo è terminato, dipende tutto da Biden: può schierarsi a favore della libertà di stampa o contro di essa».

[di Dario Lucisano]

Corea del Sud, approvato il mandato di arresto per il presidente Yoon

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Dopo la richiesta pervenuta ieri dagli investigatori sudcoreani, un tribunale ha approvato l’emissione di un mandato di arresto nei confronti dell’ex presidente della Corea del Sud Yoon Suk Yeol, in seguito al tentativo di imporre la legge marziale lo scorso 3 dicembre. Il mandato di arresto si basa sulle accuse di insurrezione, tradimento, e abuso di potere, e segue la mancata risposta alle convocazioni per gli interrogatori da parte di Yoon. Nel caso in cui Yoon venisse incriminato, rischierebbe l’ergastolo o la pena di morte. Il mandato di arresto è valido fino al 6 gennaio, ma non è ancora noto come e quando verrà eseguito.

La Cina ha completato i lavori della Grande Muraglia Verde

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muraglia verde cinese

La Cina ha annunciato il completamento, nella regione autonoma uigura dello Xinjiang, di una cintura di alberi e arbusti lunga 3.046 chilometri, progettata per circondare il Taklimakan, il deserto più grande del Paese. Ribattezzato "Grande Muraglia Verde", il progetto ha previsto la piantumazione di alberi come salici rossi e saxaul con l'obiettivo di rallentare la desertificazione, che trasforma terreni fertili in aree aride, mettendo a rischio il sostentamento delle comunità locali e della fauna che vi abita. Gli alberi fungeranno infatti da barriera naturale contro le tempeste di sabbia e i...

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Prove di pace tra Turchia e PKK: dopo 10 anni rotto l’isolamento del leader curdo Ocalan

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Due deputati del partito filocurdo presente nel Parlamento turco, il DEM, hanno potuto visitare il leader del PKK, Abdullah Öcalan, detenuto in isolamento nell’isola-prigione di Imrali da 25 anni. La visita segna la possibile ripresa dei colloqui di pace tra il governo turco e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, protagonista di una lotta armata in Turchia per l’autonomia del Kurdistan e guida delle Forze Democratiche Siriane, che autogovernano le zone curde della Siria. Secondo quanto riportato dai deputati che lo hanno incontrato, Öcalan, apparso in «buona salute e di alto morale», ha dichiarato che il processo di pace tra Turchia e PKK «non può più essere rimandato» e di essere «pronto a compiere i passi positivi necessari». L’incontro segue le recenti aperture del premier turco, Recep Tayyip Erdoğan, che ha parlato di una «finestra storica di opportunità» per porre fine al conflitto. Il PKK è considerato un’organizzazione terroristica dalla Turchia e dagli alleati occidentali. La guerra a bassa intensità tra lo Stato turco e le milizie curde ha provocato circa 40.000 morti dal 1984 a oggi.

L’incontro tra i deputati di DEM e il leader del PKK si è tenuto sabato 28 dicembre, presso il carcere dell’isola di Imrali, a sud di Istanbul, dove Öcalan sta scontando l’ergastolo dal 1999. Durante l’incontro, il fondatore del PKK ha rilanciato la questione curda e i canali di dialogo con la Turchia: «Rafforzare ancora una volta la fratellanza turco-curda non è solo una responsabilità storica, ma anche una questione di grande urgenza e importanza cruciale per tutti i popoli», si legge in un comunicato rilasciato da DEM che riporta le parole di Öcalan. Il fondatore del PKK ha così lanciato un appello a «tutti i gruppi politici in Turchia» affinché «prendano l’iniziativa senza far prevalere i propri interessi ristretti e a breve termine, agiscano in modo costruttivo e contribuiscano positivamente», specialmente entro le mura della Grande Assemblea Nazionale Turca, l’organo parlamentare unicamerale del Paese, che detiene il potere legislativo. Nel comunicato, Öcalan parla anche dell’attuale situazione nella regione, e in particolare in Siria e Palestina, che dimostrerebbe «che la soluzione di questi problemi, che gli interventi esterni cercano di trasformare in un problema cronico, non può più essere rimandata». Il leader del PKK apre «alla nuova prospettiva sostenuta da Bahçeli ed Erdoğan», e chiude le proprie considerazioni lanciando un appello: «È tempo di pace, democrazia e fratellanza per la Turchia e la regione».

Quella di sabato è la prima visita a Öcalan degli ultimi nove anni e mezzo: l’ultima risale all’aprile del 2015, quando il leader di HDP (Partito Democratico dei Popoli) e altri membri di spicco del partito, che oggi è di fatto stato soppiantato in assemblea da DEM, terza forza per numero di parlamentari, si recarono a incontrarlo. L’incontro si colloca sulla scia di un’apertura al dialogo da parte di alcuni alleati di Erdoğan, primo fra tutti Devlet Bahçeli, leader del Partito del Movimento Nazionalista, il più grande alleato esterno del presidente turco. A proporre l’incontro, lo scorso 26 novembre, è stato proprio Bahçeli: egli ha consigliato a Erdoğan di aprire un colloquio con Öcalan per porre fine al conflitto che dura da oltre trent’anni, suggerendo la possibilità di liberare il fondatore del PKK in cambio di un suo eventuale ordine di deporre le armi. Erdoğan ha reagito positivamente agli spunti dell’alleato, definendo i suoi suggerimenti una «finestra storica di opportunità», affermando poi di condividere la posizione di Bahçeli. A questa apparente apertura sono seguite la decisione turca di avviare un piano di sviluppo regionale da 14 miliardi di dollari per ridurre il divario economico tra la regione a maggioranza curda e il resto del Paese, e parole di fratellanza da parte di funzionari come Mehmet Uçum: «I curdi sono una parte inseparabile della Turchia e sono i fondatori del popolo turco. Questo secolo è il secolo dei turchi e dei curdi».

In molti ritengono che il tentativo di pacificazione turco sia dovuto all’attuale situazione mediorientale. La proposta di Bahçeli è arrivata il giorno prima dell’inizio delle incursioni di HTS in Siria e in parallelo all’entrata in vigore del cessate il fuoco in Libano, mentre a Gaza continuava a consumarsi il genocidio del popolo palestinese. A tal proposito c’è chi ritiene, come l’accademico Yektan Turkyilmaz, che Erdoğan voglia da una parte cogliere l’opportunità per allentare la pressione lungo il confine siriano e dall’altra impedire ai curdi di intessere nuove alleanze regionali. C’è chi, invece, riporta il canale mediatico curdo Kurdistan News 24, ritiene che Erdoğan si sia reso conto di non poter conquistare il Rojava, e abbia così deciso di concedere a DEM di vedere Öcalan come «parte di una nuova tattica per ingannare nuovamente i curdi». In ogni caso, non sembra che da questi primi abbozzati tentativi di colloquio, la Turchia stia prendendo in considerazione l’opzione di darla vinta ai separatisti; lo stesso Uçum ha infatti dichiarato: «La tesi delle due nazioni è funzionale alla strategia degli imperialisti ed è un tentativo di spartizione della Turchia».

[di Dario Lucisano]

Trinidad e Tobago dichiara lo stato di emergenza

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Il Paese caraibico di Trinidad e Tobago ha dichiarato lo stato di emergenza, in risposta a una rapida escalation di violenza tra gang rivali. La nazione caraibica intende sfruttare lo stato di emergenza per lanciare un’operazione per reprimere le bande locali, rafforzando i poteri delle forze dell’ordine del Paese. La decisione arriva dopo che un gruppo di uomini armati ha sparato al leader di una banda che stava lasciando la stazione di polizia, uccidendo una persona che lo accompagnava. Domenica sera, cinque uomini sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco in quello che si ritiene essere un atto di ritorsione.

Come la spiritualità orientale è diventata un prodotto commerciale

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Arredamento in stile zen, dieta zen, moda zen, mindfulness per lo shopping, mindfulness nel trading, ricette yoga: queste sono solo alcune delle innumerevoli voci che si trovano sui motori di ricerca, dove la spiritualità viene sempre trasformata in uno strumento di marketing. Negli ultimi anni, i prodotti legati alle pratiche di benessere hanno conosciuto un boom senza precedenti. Da libri, corsi e masterclass, a oggettistica di ogni tipo, capi di abbigliamento, pezzi d’arredamento e persino pacchetti vacanze, tutti contraddistinti da termini pseudoreligiosi ispirati da un qualche credo mille...

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Hacker colpiscono InfoCert, azienda specializzata in SPID e identità digitali

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InfoCert, una delle principali fornitrici europee di identità digitali, è caduta vittima di un attacco hacker, con i dati sottratti che sono ormai in vendita sul web. L’incidente rappresenta una potenziale violazione della sicurezza informatica e della privacy ed è stato individuato il 27 dicembre. Tuttavia, non risulta che la società abbia ancora notificato formalmente l’accaduto al Garante della Privacy, il quale sarà chiamato a esaminare la vicenda per individuare eventuali criticità, negligenze e responsabilità.

La notizia dell’attacco è emersa inizialmente da un comunicato distribuito direttamente sul portale di InfoCert. La decisione di rendere pubblica l’informazione sembra essere stata dettata dalla necessità di rispondere alla circolazione delle notizie emerse sui siti di pirateria informatica, dove i dati rubati erano già stati resi disponibili. Nel comunicato, InfoCert ha confermato “la pubblicazione non autorizzata di dati personali relativi a clienti censiti”. L’azienda ha dunque tenuto a precisare più volte che la violazione non è stata causata da falle interne, ma da una vulnerabilità legata a un fornitore terzo. In particolare, InfoCert ha sottolineato che l’attacco “non ha però compromesso l’integrità dei sistemi di InfoCert” e che “nessuna credenziale di accesso ai servizi InfoCert e/o password di accesso agli stessi è stata compromessa in tale attacco”.

Questa precisazione potrebbe rappresentare un tentativo di rassicurare clienti e partner sul fatto che i servizi principali dell’azienda restano sicuri, tuttavia la compromissione di dati personali, anche se indiretta, costituirebbe comunque una violazione grave. Ancor più se si considera che la dichiarazione non trova pieno riscontro nelle comunicazioni espresse dagli hacker. Secondo un annuncio emerso su di un forum specializzato in fughe di dati, l’azienda subappaltante si sarebbe vista sottrarre 5,5 milioni di record. Tra questi, 1,1 milioni di numeri telefonici e 2,5 milioni di email, elementi che possono fare concretamente parte delle credenziali di accesso a SPID, PEC e la firma digitale, ovvero i servizi offerti da InfoCert. Complessivamente, si teorizza che il pacchetto dati contenga anche nomi, cognomi, codici fiscali, tutti trafugati da un archivio associabile al Ticketing System, una soluzione che viene tipicamente adoperata nel campo dell’assistenza ai clienti. Il tutto viene offerto sul banco in un singolo blocco, alla cifra di 1.500 dollari.

In passato, InfoCert era già stata ritenuta carente nel campo della sicurezza. Il 9 maggio 2024, il Garante della Privacy aveva infatti emesso un provvedimento – in attesa del giudizio di opposizione – relativo a criticità riscontrate nel 2019 nella gestione delle caselle di posta elettronica certificata dell’Ordine degli Avvocati di Roma. Secondo quanto riportato dall’autorità, InfoCert non avrebbe adottato all’epoca le misure adeguate per garantire un trattamento dei dati conforme ai regolamenti europei. 

InfoCert è classificata come Qualified Trust Service Provider (QTSP), ovvero una fornitrice di servizi fiduciari qualificati, ed è anche un Identity Provider di rilevanza internazionale. Che una realtà tanto accreditata sia stata coinvolta in una fuga di dati di tale portata solleva inevitabilmente riflessioni importanti sulla gestione dei dati sensibili da parte delle aziende. Tra gli aspetti da approfondire emergono la tendenza a subappaltare archivi delicati, la necessità di maggiore trasparenza nelle notifiche di incidenti e, soprattutto, la “responsabilizzazione” dei gestori nel caso di problemi, ancor più se si considera che simili problematiche non possono che ledere la fiducia del pubblico e danneggiare coloro che già si affidano a simili strumenti.

[di Walter Ferri]

 

Ucraina, dagli USA altri 2,5 miliardi di aiuti

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Gli Stati Uniti hanno annunciato un nuovo pacchetto di aiuti militari all’Ucraina, per un valore di 2,5 miliardi di dollari. «Oggi sono orgoglioso di annunciare quasi 2 miliardi e mezzo di dollari in assistenza alla sicurezza per l’Ucraina, mentre il popolo ucraino continua a difendere la propria indipendenza e libertà dall’aggressione russa», ha dichiarato il presidente Joe Biden, la cui amministrazione si affretta ad aumentare il sostegno al governo ucraino prima che il presidente eletto Donald Trump entri in carica. Biden ha affermato che il dipartimento della Difesa consegnerà a Kiev «centinaia di migliaia di proiettili di artiglieria, migliaia di razzi e centinaia di veicoli blindati».

Guerra del gas: dal primo gennaio l’Europa rischia di rimanere senza gas russo

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Dopo quasi tre anni dall’inizio del conflitto in Ucraina, prosegue la guerra del gas che vede contrapposte Russia e Europa: quest’ultima, a partire dal prossimo primo gennaio, potrebbe restare quasi completamente a corto di gas russo, in quanto scade a fine anno l’accordo quinquennale per il trasporto in Europa del gas proveniente dal gigante eurasiatico attraverso il gasdotto russo-ucraino. Kiev ha rifiutato di estendere l’accordo, poiché ha dichiarato di non volere sostenere finanziariamente la macchina bellica di Mosca. Tuttavia, l’interruzione delle importazioni di gas russo tramite l’Ucraina rischia di mettere in difficoltà diversi Paesi europei, tra cui i più colpiti saranno Slovacchia, Italia, Austria e Repubblica Ceca. Al contrario di quello che si potrebbe pensare, infatti, diversi Paesi europei ricevono ancora un quantitativo importante, sebbene ridotto rispetto al periodo precedente lo scoppio del conflitto, di gas russo e, in particolare, il flusso che arriva dal gasdotto ucraino rappresenta circa la metà delle esportazioni totali di metano dalla Russia verso l’Europa. La scadenza del contratto non ha provocato solo tensioni diplomatiche tra il primo ministro Slovacco Robert Fico – che vorrebbe che l’Ucraina prorogasse il contratto – e il presidente di Kiev, Volodymyr Zelensky, ma ha anche avuto effetti sul prezzo dei future sul gas, che è tornato, con un balzo del 3,6%, sopra quota 45 euro, proprio a causa della scadenza imminente dell’accordo – stipulato prima del 2022 – tra i due Paesi in guerra. Il contesto mette in evidenza come diverse nazioni europee non abbiano ancora raggiunto l’indipendenza energetica, rimanendo dipendenti in questo senso non solo da Mosca, ma anche da altri Paesi come Stati Uniti, Norvegia e Qatar.

Domenica 22 dicembre, il primo ministro slovacco si era recato in visita a Mosca per discutere con il presidente russo Vladimir Putin sul futuro delle forniture del gas russo alla Slovacchia e alle nazioni europee, criticando la scelta del presidente ucraino di non prorogare il contratto: «Il presidente russo V. Putin ha confermato la disponibilità della (Federazione Russa) a continuare a fornire gas all’Occidente e alla Slovacchia, cosa che è praticamente impossibile dopo il 1° gennaio 2025, vista la posizione del presidente ucraino», ha affermato Fico. La Slovacchia ha un contratto a lungo termine con la società energetica russa Gazprom e ha affermato che acquistare gas altrove gli costerebbe 220 milioni di euro in più in spese di trasporto. Zelensky ha a sua volta duramente criticato Fico per la sua riluttanza a porre fine alle importazioni di gas russo, affermando che il primo ministro slovacco avrebbe rifiutato un risarcimento di 500 milioni di euro. Fico ha confermato l’offerta di risarcimento, spiegando però, che questa sarebbe stata vincolata all’adesione alla NATO e proverrebbe da asset russi che, secondo il capo slovacco, l’Ucraina non possiede, motivo per cui ha rifiutato la proposta. Dopo i colloqui tra Putin e Fico, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha dichiarato che la situazione con i paesi europei che acquistano il suo gas attraverso un accordo di transito attraverso l’Ucraina «è molto complicata» e necessita di maggiore attenzione.

Allo stesso tempo, le tensioni per il gas proveniente da Mosca hanno coinvolto anche la Moldavia e, in particolare, la regione separatista “filorussa” della Transnistria, che domenica ha interrotto le forniture di gas a diverse istituzioni statali a causa della scadenza del contratto tra Russie e Ucraina, ma anche perché Gazprom ha accusato la Moldavia di avere un debito arretrato nelle forniture. Accusa negata da Chișinău. La Russia fornisce alla Moldavia circa due miliardi di metri cubi di gas all’anno attraverso il gasdotto ucraino che arriva fino alla Transnistria. Sia la Moldavia che la Transnistria hanno imposto lo stato di emergenza prevedendo misure per ridurre il consumo di energia nelle ore di punta. L’ex ministro dell’Energia moldavo, Victor Parlicov, ha dichiarato a Radio Moldavia che «Il vero obiettivo del Cremlino qui è destabilizzare la Moldavia e gettarla nel caos», accusa seccamente respinta da Mosca.

Come avviene da tre anni a questa parte, a uscire vincente dalle diatribe sul gas tra Europa e Russia sono gli Stati Uniti: non pare un caso, infatti, che proprio mentre Kiev ha deciso di interrompere le forniture attraverso il gasdotto russo-ucraino, gli Usa abbiano inviato per la prima volta un carico di GNL (gas naturale liquefatto) all’Ucraina: il capo di gabinetto del Presidente ucraino, Andriy Yermak, ha definito la consegna un «passo strategico». Nonostante il gas russo rappresenti ancora percentuali significative nel mix energetico europeo, gli USA sono diventati il primo fornitore di GNL delle nazioni europee, che non hanno esitato a sostituire il gas di Mosca con il GNL di Washington nonostante quest’ultimo sia nettamente più caro. Le conseguenze economiche di questa scelta sono ben visibili nella crisi delle principali economie europee, tra cui quella tedesca e francese. Secondo i dati Eurostat, nel secondo trimestre del 2024, gli Stati Uniti hanno fornito quasi la metà del gas naturale liquefatto importato (46,0%), ma la Russia restava ancora il secondo fornitore con il 16,8% seguita dal Qatar (11,9%). La definitiva interruzione dei flussi di gas russo, dunque, potrebbe mettere in difficoltà quei Paesi che ancora si riforniscono da Mosca, avvantaggiando ulteriormente gli Stati Uniti.

[di Giorgia Audiello]

Genocidio senza fine, ora i neonati a Gaza muoiono di freddo: sono 6 in una settimana

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La crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, aggravata dal freddo invernale che si abbatte su una popolazione già decimata dalla guerra, continua a mietere vittime innocenti. Dopo gli oltre 15mila bambini uccisi dai raid dell’esercito israeliano, infatti, nel giro di una sola settimana sei neonati palestinesi sono morti per ipotermia. L’ultimo tragico caso riguarda Jumaa Al-Batran, di appena un mese, morto ieri mattina, e suo fratello gemello Ali, deceduto stamane dopo aver lottato per sopravvivere in terapia intensiva. I due bimbi vivevano a Deir al-Balah, nella parte centrale di Gaza. Vicende che testimoniano l’emergenza devastante – imposta dal governo israeliano con attacchi mirati su abitazioni e ospedali di tutta la Striscia – che devono affrontare centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi, ammassati in tende di fortuna mentre le temperature continuano ad abbassarsi.

I gemelli morti a poche ore di distanza erano nati prematuri di un mese e avevano trascorso rispettivamente solo uno e due giorni nell’incubatrice dell’ospedale, che, come molte altre strutture sanitarie di Gaza, opera a capacità ridotta e sotto costante pressione a causa dei continui bombardamenti da parte dell’esercito israeliano. La famiglia vive in una tenda esposta al freddo, con temperature che di notte scendono sotto i 10 gradi Celsius. «Siamo in otto e abbiamo solo quattro coperte», aveva dichiarato ieri il padre Yehia, raccontando come il piccolo Jumaa sia stato trovato con la testa «fredda come il ghiaccio». «Non c’è elettricità. L’acqua è fredda, e non c’è gas, riscaldamento o cibo. I miei figli stanno morendo davanti ai miei occhi, e a nessuno importa. Jumaa è morto, e temo che suo fratello Ali possa seguirlo», ha aggiunto l’uomo. Oggi è arrivata la conferma che anche il secondo neonato non ce l’ha fatta. Nel frattempo, le autorità sanitarie locali hanno confermato che almeno altri quattro neonati, di età compresa tra 4 e 21 giorni, sono morti negli ultimi giorni a causa del freddo intenso. Le forze israeliane hanno sfollato quasi tutti i 2,3 milioni di residenti di Gaza, costringendo decine di migliaia di loro ad ammassarsi in logore tendopoli lungo la costa meridionale di Gaza, dove le condizioni meteorologiche sono fortemente sfavorevoli. «Le tende non proteggono né dalla pioggia né dal vento» ha spiegato Marwan al-Hamas, capo degli ospedali da campo di Gaza. Le strutture sanitarie e le organizzazioni umanitarie faticano a rispondere all’emergenza, ostacolate dai bombardamenti israeliani, dalla distruzione delle infrastrutture e dalle restrizioni all’arrivo degli aiuti.

Il conflitto ha causato oltre 45mila morti tra i palestinesi. Interi quartieri sono stati rasi al suolo, lasciando milioni di persone prive di rifugi sicuri. Le persone non muoiono però solo a causa delle bombe: mentre il freddo aumenta i rischi di malattie e decessi, infatti, la fame e la mancanza di cure aggravano ulteriormente la tragedia. Negli ultimi giorni, L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) ha condannato «l’escalation» israeliana a Gaza, sottolineando che gli attacchi mirati verso scuole e ospedali siano diventati «comuni». Al contempo, il gruppo umanitario Oxfam ha denunciato che solo 12 camion hanno distribuito cibo e acqua nel nord della Striscia di Gaza negli ultimi due mesi e mezzo. Lo scorso 23 dicembre, Famine Early Warning System Network, organizzazione istituita nel 1985 dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), ha pubblicato un rapporto sulla situazione di «emergenza carestia» nel Nord di Gaza dove ha affermato che «sulla base del collasso del sistema alimentare e del peggioramento dell’accesso all’acqua, ai servizi igienico-sanitari e ai servizi sanitari», nel prossimo gennaio nell’area moriranno di fame e disturbi correlati tra le 2 e le 15 persone ogni giorno. L’ambasciatore USA in Israele, Jack Lew, è però intervenuto prendendo le difese dello Stato Ebraico, affermando che il report si baserebbe su «dati obsoleti e imprecisi», poiché la popolazione civile presente nel Nord di Gaza sarebbe oggi «compresa tra 7.000 e 15.000 persone, non tra 65.000 e 75.000 che è la base di questo rapporto». Ammettendo, implicitamente, che la parte settentrionale di Gaza è sottoposta a pulizia etnica: all’inizio dell’assedio israeliano su Gaza, infatti, il Nord della Striscia vedeva una popolazione di circa 400.000 persone. Dopo la pubblicazione, il rapporto è stato ritirato.

[di Stefano Baudino]