lunedì 10 Novembre 2025
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Analfabetismo funzionale, l’Italia è uno dei peggiori paesi in Europa

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In Italia circa il 28% della popolazione tra i 16 e i 65 anni è analfabeta funzionale. Significa che non sa né leggere né scrivere? No. Vuol dire invece che alcune persone non sono in possesso delle abilità necessarie a comprendere a pieno e usare le informazioni quotidiane, che abbiamo costantemente attorno.

Nel dettaglio, secondo i dati dell’indagine Piaac-Ocse del 2019, riportati da Truenumbers, vi è un 5,5% che comprende solo informazioni elementari, contenute all’interno di testi molto brevi, caratterizzati da un vocabolario base. Un altro 22,2%, invece, si limita alla comprensione di testi misti (sia cartacei che digitali) purché siano corti abbastanza.
È uno dei dati peggiori in Europa, che oltre a danneggiare la persona stessa, influisce sul progresso tecnologico.

Un individuo che fa fatica a comprendere un testo cartaceo scritto, ha ancora più problemi se questo è riportato su una pagina web. Un analfabeta funzionale diventa, così, spettatore passivo, che guarda senza recepire e assorbire nessun tipo di informazione utile.
A livello globale i giovani e gli adulti che possono essere definiti tali sono 773 milioni. Un dato che nei prossimi report sarà sicuramente maggiore, visto che, a causa della pandemia, il 62,3% dei giovani non ha potuto frequentare le lezioni in classe.

Per fare qualche esempio, un analfabeta funzionale ha persino difficoltà a reperire un numero telefonico sulla rubrica del proprio smartphone. Non comprende, cioè, che questo possa trovarsi all’interno di un’apposita sezione. Molto probabilmente l’individuo sarà in grado di leggere le cifre in sequenza, ma non di comprenderne il senso.
È chiaro che per i Paesi (come l’Italia) in cui le percentuali di analfabeti funzionali sono molto alte, la possibilità per il sistema di essere innovativo e competitivo con gli altri si abbassa notevolmente. Le persone prese in analisi dall’indagine Ocse rientrano nella fascia d’età in cui si ipotizza che queste abbiano un lavoro o che stiano cominciando ad inserirsi all’interno della società.

Ci sono delle possibili strategie da attuare per limitarne la diffusione? Sì, principalmente investendo in istruzione e formazione. La qualità e le modalità di insegnamento sono alla base. L’E-learning – termine con cui si intende l’uso delle tecnologie multimediali e di Internet per migliorare la qualità dell’apprendimento – permetterebbe ad esempio di muoversi attraverso delle “simulations”, cioè aiutando persone con difficoltà di lettura e scrittura a proiettarsi direttamente nella realtà.

Ma la scuola da sola non può bastare: anche la famiglia ha un ruolo chiave nella formazione dei bambini e potrebbe fare la differenza spronandoli, ad esempio, alla lettura individuale, o ad alta voce, che attiva maggiormente la mente e la stimola al pensiero.

[di Gloria Ferrari]

Siria, attacco aereo di Israele contro Hezbollah

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Nella notte in Siria sono stati portati a termine attacchi aerei contro postazioni militari e depositi di armi di Hezbollah, l’organizzazione paramilitare islamista libanese, nei pressi di Damasco, la capitale del Paese. Lo riporta l’agenzia Ansa, citando la Ong Osservatorio siriano per i diritti umani (Ondus). L’organizzazione riporta che “Alcune posizioni del gruppo libanese Hezbollah nella regione orientale di Qalamoun, a nord-est di Damasco, sono state bersagliate da attacchi aerei israeliani prima dell’alba” ed hanno colpito “postazioni militari e depositi di armi appartenenti a Hezbollah”.

Israele continua a demolire le case palestinesi, il caso alla Corte Internazionale

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Il 19 gennaio la polizia israeliana ha cacciato dalla propria abitazione la famiglia palestinese Salhiye, residente a Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme Est emblematico per le proteste all’origine della violenta escalation di scontri di maggio 2021. La loro casa era diventata il simbolo della resilienza palestinese, contro gli sfratti. Ma è stata demolita senza pietà. Gli agenti si sono presentati davanti all’abitazione Salhiye per eseguire l’ordine di sfratto, ma i familiari sono saliti sul tetto, minacciando di uccidersi con una bombola di gas e della benzina. «Viviamo qui dagli anni ’50 e non abbiamo altro posto dove andare».

Secondo la ricostruzione del quotidiano israeliano Haaretz, quella terra era stata acquistata dal padre di Mahmoud Salhiye nel 1967, ma in base alla legge israeliana sulla “proprietà degli assenti”, è stata successivamente confiscata perché – secondo le normative di Israele – la famiglia non ha più il diritto di possederla.

Dopo la demolizione, la polizia israeliana ha arrestato 18 uomini, tra cui alcuni membri della famiglia e altri loro sostenitori, con l’accusa di “aver violato un ordine del tribunale, essersi asserragliati in modo violento e disturbo della quiete pubblica”.

Perché tanto accanimento? Secondo le autorità israeliane, quei terreni erano stati in realtà destinati a una scuola per bambini con bisogni speciali di Gerusalemme Est. La costruzione di dimore, per questo, risulta essere abusiva e fuori legge. La polizia ha detto che le famiglie sono state più volte esortate a cedere il terreno in via consensuale. Ma questo non è mai accaduto.

Quindi a chi appartengono per davvero quei terreni? Tra le due fazioni c’è sempre stata una disputa a riguardo. Secondo Israele, quei terreni appartengono alle famiglie ebree che erano residenti a Gerusalemme Est prima del 1948. Per i palestinesi sono degli arabi, ritornati in quei luoghi dopo la cacciata. “Non è un arresto, è una vendetta”, ha detto l’avvocato della famiglia, Walid Abu-Tayeh.

Ma la famiglia Salhiyeh non si è arresa e dopo lo sfratto ha deciso di portare le autorità israeliane davanti alla Corte penale internazionale (CPI). «Non c’è giustizia, non credo più nel mio Paese. Mi hanno distrutto la vita. Non sappiamo quando il caso sarà portato davanti alla CPI, potrebbe volerci molto tempo». Ma nessun membro del nucleo famigliare ha intenzione di perdere la speranza, perché la CPI già nel 2019 aveva aperto un’indagine sui presunti crimini di guerra israeliani nella Palestina occupata. E questo è uno di quei casi.

[di Gloria Ferrari]

Governo, oggi Consiglio dei ministri su nuove misure anti-Covid

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Si terrà oggi alle 15 il nuovo Consiglio dei ministri, nell’ambito del quale dovrebbero essere discusse le misure da adottare nelle prossime settimane riguardo la pandemia, tra le quali un decreto legge che uniformi le normative anti-Covid nelle scuole e determini la proroga o la rimozione dell’obbligo di mascherine all’aperto. Altri temi dovrebbero riguardare il prolungamento della chiusura delle discoteche di un altro mese e il cambiamento del sistema a colori, su richiesta dei presidenti delle Regioni. Dovrebbe essere poi introdotto, secondo quanto riportato da RaiNews, un aggiornamento sull’indicatore per il calcolo dei pazienti Covid, che dovrebbe ora escludere i pazienti asintomatici che occupano un letto in ospedale per altre patologie.

Brasile: una tribù indigena incontattata è a rischio sterminio

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Nel territorio indigeno di “Ituna Itatá”, situato nel nord dell’Amazzonia brasiliana, una tribù incontattata il cui nome è sconosciuto rischia di essere completamente sterminata. A denunciarlo è Survival International, movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, il quale ha fatto sapere che presto potrebbe essere messo in atto il disboscamento del territorio in questione. Ciò potrebbe essere evitato solo in un modo, ovverosia ottenendo il rinnovo di un’ordinanza di protezione territoriale ritenuta «fondamentale per la sopravvivenza della tribù incontattata».

Quest’ultima, come sottolineato tramite un tweet dalla pagina spagnola di Survival International, è scaduta nella giornata di ieri. Proprio per questo, il movimento ha recentemente lanciato un appello tramite il quale invita i cittadini ad inviare una e-mail precompilata alle autorità brasiliane con cui si chiede il rinnovo dell’ordinanza di protezione territoriale, cosa che permetterebbe di evitare la probabile distruzione dell’intero territorio nonché della tribù che lì vive.

In realtà, non prendendo provvedimenti in tal senso le autorità darebbero semplicemente il colpo di grazia alla tribù, dato che il territorio in questione è già stato «pesantemente invaso». Basterà a tal proposito ricordare che nel 2019 Ituna Itatá è stato il territorio indigeno con il più alto tasso di deforestazione del Paese, nonostante appunto godesse di alcune tutele grazie all’ordinanza di protezione territoriale. Con il mancato rinnovo della stessa, però, anche la più remota speranza degli indigeni di non essere sterminati sparirebbe, cosa che molti proprietari terrieri e politici stanno cercando di far accadere. Tra questi c’è anche il senatore Zequinha Marinho, che come sottolineato da Survival International è uno «stretto alleato del Presidente Bolsonaro», ha «forti legami con l’industria estrattiva ed i produttori di carne» e «da anni preme per aprire il territorio allo sfruttamento commerciale».

Nel frattempo tuttavia qualcosa si muove in favore della tribù, dato che proprio ieri il Ministero Pubblico Federale ha informato i cittadini di aver presentato un’azione legale con la quale ha chiesto al Tribunale Federale di obbligare la National Indian Foundation (Funai) – ossia l’ente governativo brasiliano che stabilisce ed attua le politiche relative alle popolazioni indigene – a rinnovare urgentemente l’ordinanza che tutela Ituna Itatá per altri tre anni.

Ad ogni modo, però, come ricordato da Survival International Ituna Itatá non è l’unico territorio che rischia di essere distrutto, dato che ad essere a rischio sono anche altre zone in cui vivono tribù incontattate. Nei territori indigeni “Piripkura” e “Pirititi” le ordinanze sono infatti prossime alla scadenza, mentre quella relativa alla protezione del territorio indigeno “Jacareúba/Katawixi” è già scaduta. Per questo, tramite la e-mail precompilata viene chiesto alle autorità di «mantenere in vigore le Ordinanze fino a quando queste terre non saranno state formalmente demarcate», il che è previsto non solo dalla legge internazionale ma anche dalla Costituzione brasiliana. L’articolo 231 della Costituzione, infatti, riconosce in maniera chiara ai popoli indigeni i «diritti originari sulle terre che tradizionalmente occupano» ed impone al governo il dovere di «proteggere e garantire il rispetto di tutti i loro beni».

[di Raffaele De Luca]

Il disastro della sanità raccontato da chi lo vive: intervista a un infermiere

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Nella giornata di venerdì 28 gennaio si è tenuto lo sciopero nazionale degli infermieri, che hanno protestato contro le politiche messe in atto dal Governo Draghi per contrastare la pandemia da Covid-19. L’Indipendente ha intervistato Igor, 40 anni, infermiere presso l’ospedale Maria Vittoria di Torino e delegato sindacale USB, incontrato mentre partecipava a un presidio di protesta per sensibilizzare la popolazione sulle condizioni in cui versa la sanità durante la crisi pandemica e rivendicare migliori condizioni di lavoro.

Venerdì c’è stato lo sciopero nazionale di categoria del personale della sanità. Quali sono le vostre principali rivendicazioni?

Diciamo che sin dall’inizio della pandemia la gestione del personale sanitario è stata quantomeno improvvisata. Inizialmente ci veniva detto di non mettere le mascherine per non spaventare i pazienti e perché ne venivano date in dotazione un numero insufficiente, ragion per cui molti colleghi sono stati contagiati e sono poi morti di Covid. Per un lungo periodo non ci hanno fornito un quantitativo adeguato di DPI (Dispositivi di Protezione Individuale): mancavano le mascherine FPP2, i guanti, mancavano persino i caschi Cpap [i caschi per la ventilazione dei pazienti positivi al Covid ricoverati]. Addirittura l’azienda ci ha costretti a lavarli proprio perché non ne avevamo a sufficienza per tutti i pazienti, ma si tratta di dispositivi monouso che andrebbero utilizzati e poi gettati, costringere noi a lavarli significava esporci a un altissimo rischio di contrarre il virus. E rifiutarci di farlo avrebbe significato lasciar morire i pazienti. Si tratta di discorsi delicati. In due anni abbiamo lavorato con le buste di plastica legate ai piedi, poi con i camici da macellaio senza maniche (abbiamo dovuto provvedere noi ad attaccarle) o indossando i camici da veterinario che si utilizzano per far partorire le mucche… è stata proprio un’improvvisazione totale.

Dopo due anni di pandemia si è posto rimedio a queste cose? Ora lavorate in sicurezza?

Sì, ora abbiamo i dispositivi, ma le problematiche sono altre. Intanto sai quanti DPI sono stati sequestrati tra quelli che ci hanno distribuito? È capitato che ci dessero le mascherine FPP2 e poi dopo qualche mese ci venisse detto che in realtà non erano idonee e che dovevano essere ritirate. È difficile capire il discorso della certificazione delle mascherine, perché tutto viene comprato all’estero, per esempio dalla Cina. Per questo durante il primo lockdown mancava quasi tutto. Ora invece ci troviamo nella situazione per la quale se risultiamo a contatto con persone positive non possiamo nemmeno più fare la quarantena, siamo costretti ad andare a lavoro facendo tamponi tutti i giorni per cinque giorni. Ovviamente è un rischio per i pazienti, ma nel momento in cui manca il personale e non ne viene assunto di nuovo questi sono gli escamotage che vengono adottati. Durante le prime ondate, quando il personale risultava positivo e asintomatico o comunque con sintomi lievi, era tenuto ad andare a lavoro con la motivazione che tanto comunque si lavorava già in reparti Covid. È tutto un giro per far lavorare la gente anche da ammalata perché non hai personale, non hai investito e non hai assunto. Tutto questo va a pesare sul personale.

Nelle strutture private ci sono stati gli stessi problemi?

Assolutamente no. Qui a Torino la Protezione civile ha messo in atto una grande campagna mediatica per avere donazioni dai cittadini, finalizzate all’acquisizione dei DPI, ma buona parte di questi è andata poi a finire alle OGR [Officine Grandi Riparazioni, ex complesso industriale di 20 mila mq sito in Torino e riqualificato dalla Fondazione CRT nel 2013, con un investimento di ben 100 milioni di euro; nel 2020 il complesso è stato adibito per poco più di tre mesi ad ospedale Covid]. Lì avevano tutto, potevano cambiare un dispositivo all’ora, mentre gli ospedali venivano abbandonati perché non godevano di altrettanta risonanza mediatica. Si trattava quindi di una struttura privata adibita a ospedale Covid temporaneo dove il personale che vi lavorava veniva da altre zone d’Italia e quindi veniva pagato decisamente di più di un infermiere normale di un ospedale, che si aggira intorno ai 1500 euro. Il loro stipendio è molto più alto e in più veniva dato loro l’alloggio, mentre alla cittadinanza non rimane nulla, né strutture né servizi. Non sono stati ristrutturati i reparti o costruiti nuovi ospedali.

E lo Stato non è intervenuto con nessun tipo di aiuti?

No, assolutamente. Sono state finanziate solamente le strutture private o comunque il settore privato in generale, dall’agenzia interinale per la somministrazione di lavoratori a centri come le OGR e per di più di tutto ciò non rimarrà nulla. A Torino abbiamo strutture come l’ospedale Maria Adelaide, che è inutilizzato da anni e non è stato riattivato per gestire l’emergenza della pandemia. All’ospedale Maria Vittoria, dove lavoro io, avevamo un reparto di ortopedia maschile che è stato dismesso ed è rimasto vuoto da anni, come tanti altri. Bene, dopo lavori durati un tempo lunghissimo e una spesa di un milione di euro, sono riusciti a creare 8 posti di terapia sub-intensiva, che hanno permesso l’abbassarsi in questo modo dell’indice Rt dell’occupazione dei posti letto in rianimazione. È stata trattata come una grande vittoria, quando si tratta evidentemente di una spesa enorme per 8 miseri posti.

È stato assunto del personale dopo l’aumento dei posti letto?

No, è questo l’altro problema, non è stato assunto personale, viene usato quello dei reparti di Medicina e Rianimazione.

Si può quindi dire che il problema dei posti letto negli ospedali non dipenda tanto dal numero delle ospedalizzazioni di per sé ma dal fatto che non esista un’adeguata capacità di accoglienza nelle strutture?

Assolutamente sì. L’emergenza ha un criterio legato alla durata, dopo due anni non la si può più chiamare emergenza, questa è cronicità. Uno stato di emergenza ha un inizio e una fine, ma non può durare due anni. Vi è una situazione di cronica mancanza dei posti letto e di personale, che è stata semplicemente tamponata assumendo dei privati. E un Governo del genere è lo stesso che ci ha imposto il vaccino obbligatorio come unica misura risolutiva, nonostante i contagi stiano dilagando anche tra chi ha ricevuto la terza dose, ed è lo stesso che si nasconde dietro un Green Pass per non assumersi la responsabilità di un obbligo vaccinale. Draghi è un banchiere e quello rimane, nonostante ora ricopra un altro incarico. Sta facendo l’interesse dei privati. A furia di tagliare in questo modo le persone per avere delle visite specialistiche non possono far altro che rivolgersi ai privati, perché nel pubblico non vi sono più le risorse. Se non altro del Governo Conte si può dire che si è trovato in una situazione emergenziale da un momento all’altro e ha fatto quello che ha potuto per gestire una situazione sconosciuta. Dopo due anni di pandemia Draghi non può più usare questa scusa per giustificare la mancanza di interventi strutturali e l’abbandono del settore pubblico.

Cosa ne pensa della retorica degli infermieri come eroi?

Che è tutta una lavata di faccia, una presa in giro. Ci dicono che siamo degli eroi e poi ci trattano come pezze da piedi. Siamo professionisti, quello che vogliamo è esercitare la nostra professione in sicurezza.

[di Valeria Casolaro]

 

Portogallo, premier socialista Costa ottiene maggioranza assoluta

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Il Primo ministro socialista Antonio Costa è uscito vincente dalle elezioni anticipate tenutesi domenica 30 gennaio, ottenendo la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento (117 su 230). Il partito socialista conquista così la sua seconda maggioranza assoluta nella storia, contro quanto previsto da tutti i sondaggi. Il governo Costa era caduto lo scorso novembre dopo che il Parlamento aveva bocciato la Legge di bilancio 2022: dopo l’esito di queste elezioni Costa potrà formare il nuovo governo e far approvare il bilancio statale senza dover negoziare con gli altri partiti. “Maggioranza assoluta non significa potere assoluto” ha tuttavia affermato Costa, promettendo di promuovere il dialogo con le altre forze politiche e il Parlamento.

Segretario NATO: “non invieremo truppe da combattimento in Ucraina”

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Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, ha dichiarato in un’intervista all’emittente BBC: “Non abbiamo piani di inviare truppe da combattimento NATO in Ucraina”. Stoltenberg ha sottolineato che l’Alleanza Atlantica si stia fortemente impegnando “per aiutare l’Ucraina a fortificare le sue capacità di autodifesa”, con supporto nella formazione militare e nella modernizzazione tecnica. Tuttavia l’Ucraina “non è un alleato della NATO: c’è una sicurezza al 100% che un attacco a un alleato inneschi la risposta dall’intera Alleanza, tuttavia questo si applica agli alleati NATO, non a un partner stretto e di valore”.

Talebani ospitano reporter neozelandese respinta in patria per norme anticovid

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Charlotte Bellis, giornalista neozelandese incinta, è stata accolta dai talebani nella città di Kabul dopo che il suo Paese non ha autorizzato il suo rientro in patria per via delle norme anti-Covid. Al quotidiano New Zealand Herald Bellis ha raccontato di aver lasciato il suo lavoro per al-Jazeera dopo essersi accorta di attendere un figlio ed aver deciso di rientrare in patria dal Qatar, Paese dove si trovava e nel quale è illegale rimanere incinte senza essere sposate. Tuttavia, a causa delle norme per il contenimento della pandemia, la Nuova Zelanda le ha impedito di fare ritorno. L’unica soluzione è stata trasferirsi in Afghanistan, Paese per il quale Bellis e il compagno avevano il visto. A seguito della risonanza mediatica del caso, il ministro neozelandese Hipkins sta eseguendo verifiche sul suo caso.

Canada, la capitale invasa dalla protesta No Pass: Trudeau costretto alla fuga

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Migliaia di manifestanti sono scesi in piazza per le strade di Ottawa, in Canada, per chiedere la fine delle restrizioni imposte dal governo per contrastare la pandemia da Covid-19. La protesta segue la decisione di un gruppo di camionisti di mettersi in marcia il 23 gennaio dalla Columbia Britannica e da altre zone del Canada, dirigendosi verso Ottawa, in quello che è stato chiamato il Freedom ConvoyLa rivendicazione principale dei camionisti è l’abolizione dell’obbligo vaccinale per i lavoratori transfrontalieri voluto dal Governo.

Migliaia di manifestanti si sono riversati nelle strade di Ottawa nella giornata di sabato 29 gennaio, dopo che il Freedom Convoy è giunto in città. I mezzi, ai quali si sono uniti decine di veicoli privati dei cittadini, hanno intasato il traffico bloccando le arterie principali di ingresso e uscita della città. Il convoglio era formato da centinaia di camionisti provenienti da tutto lo Stato, i quali hanno viaggiato per giorni per ritrovarsi a Ottawa, di fronte alla sede del Parlamento Canadese, e chiedere la disapplicazione della misura che prevede l’obbligo vaccinale per i lavoratori che debbano attraversare la frontiera.

La Polizia ha comunicato che erano attese fino a 10 mila persone, ma non sono giunte ulteriori stime sul numero effettivo dei partecipanti nella serata di sabato. Nonostante l’elevato livello di allerta per le possibili tensioni, gli organizzatori hanno esortato i manifestanti a mantenere un clima pacifico e al termine della prima giornata di proteste le Forze dell’Ordine hanno fatto sapere che non vi è stato “nessun incidente violento né feriti”. I manifestanti starebbero pianificando di rimanere in città per più giorni e non avrebbero ancora comunicato una data di fine dimostrazioni. Nella notte di sabato molti si sono fermati a dormire nei loro mezzi, sfidando l’allarme di Environment Canada che aveva previsto le temperature minime per la notte tra -26 e -34 gradi.

Secondo quanto riportato dall’Ottawa Citizen gli organizzatori della protesta (tra i quali il maggior promotore sarebbe il gruppo Canada Unity) non si definiscono no vax, ma si oppongono all’obbligo di vaccinazione per poter lavorare. Alla manifestazione si sono uniti diversi gruppi afferenti a varie realtà di contestazione e con rivendicazioni di tipo differente, ampliando le proteste a tutte le misure adottate dal governo contro la pandemia. Anche il figlio dell’ex presidente americano, Donald Trump Jr., si è complimentato con i camionisti definendoli dei patrioti.

Alcuni tra i manifestanti sarebbero arrivati a chiedere la rimozione del governo Trudeau, giudicato incapace di gestire la situazione pandemica. Gli organizzatori sarebbero già riusciti a raccogliere, tramite la piattaforma web GoFundMe, all’incirca 8,3 milioni di dollari, al momento congelati in attesa di capire come verranno utilizzati.

La Canadian Trucking Alliance ha preso le distanze dalla protesta e chiesto a coloro che fanno parte dell’industria degli autotrasporti che hanno deciso di parteciparvi di “impegnarsi in una dimostrazione pacifica e poi lasciare la città di Ottawa per evitare qualsiasi problema al benessere e alla sicurezza dei cittadini”.

In un’intervista rilasciata venerdì 28 gennaio a The Canadian Press il primo ministro Trudeau si era detto preoccupato dalla possibilità di una deriva violenta della manifestazione, per via della presenza di “un piccolo gruppo di persone che rappresentano una minaccia per sé stessi e per gli altri” e che “non rappresenta i canadesi”, eventualità al momento non verificatasi. Nonostante ciò, Trudeau sarebbe stato spostato insieme alla sua famiglia dalla sua residenza nel quartiere di New Edinburgh, a 4 km dall’epicentro della protesta, e trasferito in un luogo segreto che si troverebbe “nella regione della capitale nazionale”, secondo quanto riferito alla testata canadese CBC dall’Ufficio del Primo ministro.

Al momento non è possibile determinare quanti giorni durerà la mobilitazione e quale sarà la risposta del governatore Trudeau: bisognerà attendere i prossimi giorni per conoscere quale sarà l’esito del confronto tra le due parti.

[di Valeria Casolaro]