«Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente Mario Draghi e del Ministro della salute Roberto Speranza, ha approvato un decreto-legge che prevede la proroga dello stato di emergenza nazionale e delle misure per il contenimento dell’epidemia da Covid-19 fino al 31 marzo 2022»: è quanto si legge in un comunicato stampa proprio del Consiglio dei Ministri, riunitosi nella giornata di ieri. Tale estensione permetterà di continuare ad autorizzare tutta una serie di misure eccezionali, come il mantenimento della struttura e dei relativi poteri del Commissario straordinario per l’emergenza Covid nonché gli ampi poteri conferiti al Capo del Dipartimento della Protezione Civile. Quest’ultimi – si legge infatti nella bozza pubblicata dal sito OrizzonteScuola.it – «adottano anche ordinanze finalizzate alla programmazione della prosecuzione in via ordinaria delle attività necessarie al contrasto e al contenimento del fenomeno epidemiologico da Covid-19».
Ad ogni modo, però, non sono di certo solo queste le misure previste dal decreto in questione: a restare in vigore, infatti, sono anche le norme relative all’impiego del Green Pass e del Super Green Pass. Riguardo quest’ultimo, inoltre, il testo prevede l’estensione sino al 31 marzo 2022 della norma secondo cui esso debba essere utilizzato anche in zona bianca per lo svolgimento delle attività che altrimenti sarebbero oggetto di restrizioni in zona gialla. Ciò, in pratica, vuol dire che resteranno precluse ai non vaccinati attività come i ristoranti al chiuso, i cinema, gli stadi e le discoteche. Da segnalare poi anche la creazione di una nuova infrastruttura, per la quale saranno messi a disposizione 6 milioni di euro nel 2022, che servirà allo «stoccaggio ed alla conservazione delle dosi vaccinali per le esigenze nazionali». Il tutto con il fine di assicurare il potenziamento delle infrastrutture strategiche per fronteggiare le esigenze connesse all’emergenza e garantire una capacità adeguata per le «eventuali emergenze sanitarie future». Infine, sono stati prolungati anche i congedi parentali al 50% per i genitori con figli in quarantena causa Covid nonché la possibilità di smart working per i lavoratori fragili.
Detto ciò, bisogna ricordare che il decreto entrerà in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e dovrà essere presentato alle Camere per la conversione in legge. La durata dello stato di emergenza nazionale, come previsto dal Codice della Protezione civile del 2018, non può infatti «superare i 12 mesi, ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi». Proprio per tale motivo il governo per prolungarlo è dovuto intervenire con una norma primaria, ossia appunto un decreto ad hoc da convertire successivamente in legge, non potendo più prorogare lo stato di emergenza originario. Sulle motivazioni di tale scelta, poi, va ricordata l’ipotesi secondo cui con la fine dello stato di emergenza buona parte della normativa prodotta dall’inizio della pandemia potrebbe essere messa in discussione: si tratta di un rischio contenuto ma da tenere in considerazione, dato che molte misure anti Covid stabilite in Italia sono state imposte da decreti legge che citano lo stato di emergenza come loro presupposto.
Oltre a tutto questo, poi, ieri in Italia sono state introdotte anche altre misure relative all’emergenza sanitaria: il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha infatti firmato una nuova ordinanza che prevede l’obbligo – valido dal 16 dicembre al 31 gennaio – di test negativo in partenza per le persone che arrivano in Italia dai Paesi dell’Unione Europea, anche se vaccinate. Per quelle non vaccinate, inoltre, è prevista anche la quarantena di 5 giorni. Si tratta di una decisione che ha però prodotto una dura reazione da parte dell’Ue, con la vicepresidente della Commissione europea Vera Jourova che ha affermato che «quando gli Stati membri introducono misure aggiuntive per rendere le condizioni più stringenti devono giustificarlo sulla base della situazione reale», aggiungendo altresì che «queste decisioni individuali degli Stati membri riducono la fiducia delle persone sulla presenza di condizioni uguali ovunque in Europa».
In Sudafrica l’indignazione pubblica continua a sfociare in numerose proteste e manifestazioni. Migliaia di sudafricani e decine di comunità indigene si stanno mobilitando contro l’ennesimo progetto di estrazione di energia fossile, in questo caso l’indagine sismica pianificata dalla multinazionale britannica Shell. L’obiettivo dell’azienda è cercare al largo della Wild Coast sudafricana, lungo un’area di 6.000 chilometri quadrati, giacimenti di petrolio e gas.
Simulare onde sismiche per cercare giacimenti minerari o gas naturale è un metodo molto più economico e rapido delle trivellazioni. Ma c’è un enorme rovescio della medaglia. Secondo il parere degli scienziati, il rumore emesso dai fucili ad aria compressa ha effetti devastanti sulla vita marina. Nonostante le evidenze scientifiche, e nonostante il ricorso in tribunale, non sarà facile per i manifestanti rivendicare il loro diritto costituzionale a vivere in un ambiente sano e sicuro.
Giovedì, infatti, il Ministro delle risorse minerarie e dell’energia ha apertamente dichiarato, a nome del Governo, di sostenere l’esplorazione petrolifera.
Gli attivisti temono che acconsentire ad una pratica così invasiva non solo accrescerà il deterioramento della vita marina, inquinando gli ecosistemi costieri. Ma avrà delle ripercussioni sulla vita degli indigeni Xhosa e di altre comunità, la cui cultura, tradizione e sostentamento si basa proprio sull’oceano.
Zukulu, membro della comunità di Mpondo, è stato protagonista nei giorni scorsi di una delle due richieste di interdizione presentata contro diversi ministeri sudafricani e contro la multinazionale Shell. E che avrà esito il 17 dicembre. L’accusa principale che gli rivolge è quella di agire in violazione dei diritti delle popolazioni indigene “al consenso libero, preventivo e informato”. I presagi non sono buoni, dal momento che la prima domanda di interdizione, presentata da associazioni locali e organizzazioni per la giustizia ambientale, ha già visto il declino il 3 dicembre.
La posta in gioco però è davvero alta. “La maggior parte degli animali sott’acqua si affida al suono per comunicare, accoppiarsi ed evitare i predatori”, riferisce Lorien Pichegru, direttore ad interim dell’Istituto per la ricerca costiera e marina della Nelson Mandela University di Port Elizabeth durante un’intervista con Mongabay. “Un alto livello di rumore li influenzerà”, così come è già accaduto per un gruppo di pinguini a seguito dei test sismici nel 2013.
Al momento l’indagine è prevista tra dicembre 2021 e primavera 2022 e consisterà, “in onde d’urto simili a esplosioni che verranno inviate attraverso il fondale marino a intervalli di 10 secondi per 24 ore al giorno”. In merito alla pericolosità dell’intervento Shell si è detta sufficientemente esperta ed attenta a ridurre al minimo l’impatto sulla vita marina.
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Nel 2020 in Italia vi sono state 15.000 nuove nascite in meno rispetto al 2019: è quanto si apprende dal bollettino “Natalità e fecondità della popolazione residente” dell’Istat (Istituto nazionale di statistica), in cui si legge anche che nei primi 9 mesi del 2021 vi sono state 12.500 nascite in meno rispetto al medesimo periodo del 2020. A tal proposito, l’Istat precisa che «tale forte diminuzione è da mettere in relazione al dispiegarsi degli effetti negativi innescati dall’epidemia da Covid-19, che nel solo mese di gennaio 2021 ha fatto registrare il maggiore calo di sempre (quasi 5.000 nati in meno, -13,6%)».
Nel gennaio del 2018 Matteo Renzi, mostrando il proprio conto corrente in tv, pronunciò queste parole: «se volete fare i soldi, non fate politica. Fai politica perché hai un interesse, un ideale, hai passione». E ancora: «se vuoi fare i soldi vai nelle banche d’affari, prendi i contratti milionari che ti offrono». Il Senatore Renzi, al contrario di quel che disse, di soldi ne ha fatti molti. Si è fatto persino pagare da un regime che manda ad uccidere e squartare giornalisti scomodi. Ma il punto non è questo. Per una volta non si tratta delle sue balle ma di una sua verità. «Se vuoi fare i soldi vai nelle banche d’affari». Parole chiare, dette dall’allora Segretario del PD nonché ex-Presidente del Consiglio dei ministri. Per quale motivo le banche d’affari hanno tale passione per politici o altissimi funzionari di Stato? Sarà per i loro curricula? Per la notorietà? O per premiarli per il lavoro svolto all’interno delle Istituzioni? La commistione tra politica e finanza, ancor di più in un mondo sempre più dominato dai fondi finanziari e dalle banche d’affari, rappresenta il maggior pericolo per la democrazia stessa, ovvero per il sistema che, teoricamente, dovrebbe affidare al dèmos, il popolo, il potere decisionale.
Il Glass-Steagall Act
Nel 1933 venne approvata dal Congresso USA il Glass-Steagall Act, un provvedimento che mirava ad arginare la speculazione finanziaria scoppiata a seguito del crollo della Borsa di New York del ’29. Con questa legge venne sancita la separazione tra le banche d’affari e le banche commerciali. Il messaggio era chiaro: lo Stato non avrebbe più salvato le banche d’investimento in crisi per via di speculazioni andate male. Il Glass-Steagall Act restò in vigore fino al 1999 quando la separazione tra le banche d’affari e quelle commerciali venne cancellata su pressione del sistema finanziario americano. Alla Casa Bianca c’era Bill Clinton, il quale, alcuni mesi prima, aveva affidato il Dipartimento del Tesoro a Robert Rubin, quel Robert Rubin che era stato co-presidente di Goldman Sachs, una delle banche d’affari più grandi al mondo.
In Italia avvenne, più o meno, lo stesso. Nel 1936, anche prendendo spunto dal Glass-Steagall Act, venne approvata la legge di riforma bancaria. Banca d’Italia divenne un istituto pubblico a tutti gli effetti, le banche dedite alla gestione del risparmio vennero separate da quelle più propense alle attività speculative e, inoltre, venne proibito agli istituti finanziari di “possedere” parte delle imprese alle quali concedevano un prestito. Veniva, di fatto, affermata la funzione di interesse pubblico dell’attività bancaria.
La contro-riforma del ’93 firmata da Ciampi e Draghi
La legge di riforma bancaria venne smantellata nel 1993, Ciampi era il presidente del Consiglio e Mario Draghi direttore generale del Tesoro. Da allora la finanza è sempre più potente. Al contrario della politica che non ha fatto nulla per contrastare tale dominio, anzi, l’ha sostanzialmente favorito evitando accuratamente di creare una super-procura per i reati finanziari, di punire, almeno politicamente, i responsabili dei crac, di intervenire per tempo sulle crisi finanziarie degli istituti di credito ai quali, tuttavia, non ha mai fatto mancare miliardi di denaro pubblico al grido “le banche non possono fallire”. Le ragioni per le quali le banche, soprattutto oggi, non possono più fallire le spiegò Joseph Stiglitz, Nobel per l’economia: «L’abrogazione, nel 1999, del Glass-Steagall Act, che aveva separato gli istituti di credito ordinario dalle banche d’affari, ha creato concentrazioni sempre più grandi, troppo grandi perché si potesse permettere di lasciarle fallire. Sapendo di essere troppo grandi per fallire, si sono assunte rischi eccessivi». Esattamente quel che è avvenuto in MPS. Decisioni folli (vedi l’acquisto di Antonveneta al triplo del suo valore) prese con il beneplacito di una politica generosa e “interessata”.
D’altro canto il sistema finanziario non ha mai fatto mancare il proprio sostegno alla classe politica la quale, a sua volta, aveva avallato concentrazioni, fusioni, acquisizioni di ogni genere intervenendo (come spiega Stiglitz) con valanghe di denaro pubblico quando le banche andavano in rosso.
MPS (e non solo) ha foraggiato per anni la politica finanziando eventi, manifestazioni, concedendo prestiti agli amici degli amici molti dei quali si sarebbero trasformati in crediti deteriorati, il principale fardello della banca.
Mario Draghi, già vicepresidente e managing director di Goldman Sachs
Tre presidenti del Consiglio in Goldman Sachs
Nell’aprile del 2010 Giuliano Amato, attuale vicepresidente della Corte costituzionale, telefonò a Mussari, all’epoca Presidente di MPS, lamentandosi perché la banca aveva ridotto di 25.000 euro il contributo annuale al torneo di tennis di Orbetello. Questo, seppur piccolo, è un esempio del sistema MPS e della commistione tra politica e banche. Commistione ancor più evidente se si pensa agli innumerevoli passaggi di politici dalle istituzioni alle banche d’affari o viceversa. Amato, uno dei papabili per il Quirinale, nel 2010 venne nominato senior advisor per l’Italia da Deutsche Bank, il principale gruppo bancario tedesco. Amato guidò inoltre l’International Advisory Board di Unicredit fino a quando, nel 2014, Romano Prodi prese il suo posto. Prodi, già Presidente del Consiglio nonché Presidente della Commissione europea, fu consulente in Goldman Sachs dal 1990 al 1993, immediatamente dopo aver lasciato la guida dell’Iri e, dunque, dopo aver avviato la stagione delle privatizzazioni molte delle quali realizzate con il supporto di grandi banche d’affari. Anche Prodi è uno dei candidati alla Presidenza della Repubblica. Così come Mario Draghi, anch’egli assunto in Goldman Sachs dopo aver occupato, per dieci anni, il ruolo di Direttore generale del Tesoro. Draghi divenne vicepresidente e managing director di Goldman Sachs nel 2002. L’anno dopo Goldman Sachs sostenne la scalata dei Benetton alle autostrade italiane mettendo sul piatto 3 miliardi di euro. A fronte dell’investimento accettò persino un pacchetto di azioni di Sintonia, la sub-holding della famiglia veneta che a sua volta controllava Atlantia, dunque, Autostrade per l’Italia. Draghi, alcuni anni prima, fu uno dei protagonisti, lo ricordo, proprio della privatizzazione del servizio autostradale italiano. Dato che nel 2003 Draghi era un top-manager di Goldman Sachs sarebbe interessante sapere da lui se si occupò o meno, per conto della banca, del finanziamento ai Benetton e se sì quanto denaro ricevette per aver conquistato un cliente così importante. Ma non è tutto. Anche Gianni Letta, un altro politico in lizza per il Colle, nel 2007, venne arruolato sempre da Goldman Sachs. Nello specifico venne nominato nell’advisory board della banca d’affari. Anche Mario Monti fu consulente in Goldman Sachs. Dal 2005 al 2011, anno in cui venne scelto da Napolitano per formare il nuovo governo. Tre degli ultimi otto Presidenti del Consiglio, dunque, hanno lavorato in Goldman Sachs prima di guidare il governo della Repubblica italiana. A loro va aggiunto Gianni Letta, mai premier ma braccio destro del Presidente Berlusconi. Tra l’altro anche Giampaolo Letta, AD di Medusa e, soprattutto, figlio di Gianni, ha, in un certo senso, a che fare con il mondo finanziario. tutt’ora uno dei membri dell’advisory board Italy di Unicredit, la banca il cui Presidente è Pier Carlo Padoan, quel Padoan Ministro dell’economia e delle finanze che salvò, con denaro pubblico, MPS, la banca portata al fallimento anche in virtù delle scelte prese dal suo partito: il PD.
Giuliano Amato e Romano Prodi, alla carriera politica hanno affiancato incarichi rispettivamente in Deutsche Bank e Goldman Sachs
I ministri dell’economia Padoan, Grilli e Saccomanni
Padoan non è certo l’unico Ministro dell’economia finito ad occupare ruoli apicali in una grande istituto finanziario. Prima di lui avevano intrapreso lo stesso percorso Domenico Siniscalco (Direttore generale del Tesoro dopo Draghi, poi Ministro dell’economia sotto Berlusconi e infine managing director e vicepresidente di Morgan Stanley), Vittorio Grilli (Direttore generale del Tesoro dopo Siniscalco, poi Ministro dell’economia sotto Monti e infine presidente del Corporate & Investment Bank di JP Morgan) e Fabrizio Saccomanni (prima Direttore della Banca d’Italia, poi Ministro dell’economia sotto Letta “nipote” e infine Presidente del CDA di Unicredit, lo stesso ruolo che occupa oggi proprio Padoan). Tra l’altro Saccomanni, recentemente scomparso, fu uno dei protagonisti dello scellerato acquisto di Antonveneta da parte di MPS, acquisto autorizzato da Bankitalia quando governatore era Draghi, Direttore, come detto, Saccomanni e capo dell’Ufficio vigilanza Anna Maria Tarantola.
Potrei fare ancora molti e molti esempi di politici finiti magicamente nelle banche d’affari, mi limito soltanto a ricordare che Josè Barroso, già Presidente del Portogallo nonché Presidente della Commissione europea dopo Prodi, due anni dopo aver lasciato Bruxelles, trovò lavoro come presidente non esecutivo e advisor di Goldman Sachs.
José Barroso, passato dalla presidenza della Commissione Europea a Goldman Sachs
Questa non è democrazia
«Se vuoi fare i soldi vai nelle banche d’affari» diceva Renzi. Temo sia vero. Come temo che tali colossi finanziari abbiano deciso di “investire” su determinati uomini politici più per quel che hanno fatto (o non fatto) in passato che per quello che potrebbero fare in futuro. D’altronde l’assenza di una seria legge sui conflitti di interessi permette assunzioni di politici, consulenze milionarie, immorali porte girevoli e, spesso, sperpero di denaro pubblico.
Nel 1994 il Tesoro firmò con Morgan Stanley un accordo che conteneva una clausola capestro che permetteva alla banca d’affari di chiudere unilateralmente i contratti sui derivati sottoscritti con il governo italiano. La banca esercitò tale diritto nel 2011, in un momento drammatico per il Paese. Risultato? Il governo Monti, mentre approva la legge Fornero, pagò a Morgan Stanley 3 miliardi di euro di interessi sui derivati. Questo perché, ancor di più negli ultimi anni, l’oro vale più del sangue degli esseri umani, la finanza più della politica e i Cda delle banche d’affari o dei fondi di investimento più dei Consigli dei ministri e dei Parlamenti degli Stati nazionali.
C’è a chi piace questo sistema. A me dà il voltastomaco. Ad ogni modo non la chiamate più democrazia.
«Quando gli Stati membri introducono misure aggiuntive per rendere le condizioni più stringenti», devono «giustificarlo sulla base della situazione reale»: è quanto affermato ieri al termine del Consiglio Affari generali a Bruxelles dalla vicepresidente della Commissione europea Vera Jourova, che ha risposto così ad una domanda sulla decisione del nostro Paese di imporre l’obbligo di tampone a chi arriva in Italia da altri Paesi Ue, anche se vaccinato. Per i non vaccinati, inoltre, oltre al test negativo è prevista la quarantena di 5 giorni. «Immagino verrà discussa al Consiglio europeo perché queste decisioni individuali degli Stati membri riducono la fiducia delle persone sulla presenza di condizioni uguali ovunque in Europa», ha aggiunto.
Earth’s Black Box è una scatola nera appositamente creata per raccogliere tutti i dati possibili di questo momento storico, in cui la Terra rischia di andare verso la distruzione. La “scatola nera della Terra” sorgerà entro l’inizio del 2022 in Tasmania e sarà realizzata in acciaio spesso 7,5 centimetri, a sbalzo in granito. Un monolite di 10 metri progettato per “sopravvivere” anche quando – e se – tutto il resto dovesse scomparire: nel momento in cui il catastrofico cambiamento climatico dovesse causare l’estinzione dell’umanità, rimarrà la gigantesca installazione in acciaio come testimonianzaper le generazioni future. Ecco perché la scelta di un territorio ad alta stabilità geopolitica e geologica come la costa occidentale della Tasmania, dove la scatola nera sarà posizionata e riempita con dischi rigidi alimentati da pannelli solari (collocati in cima alla costruzione). Ogni disco rigido è progettato per documentare e preservare un flusso di aggiornamenti scientifici e analisi in tempo reale sui principali problemi del mondo, scaricati direttamente da Internet grazie a una continua connessione resa possibile dall’energia generata dai pannelli solari.
Nonostante la costruzione debba ancora essere finalizzata, i dischi rigidi hanno iniziato il loro lavoro, registrando dati a partire da novembre 2021 (mese della conferenza sul clima a Glasgow, COP26). Secondo le previsioni degli sviluppatori, la capacità di archiviazione è per ora sufficiente per i prossimi 50 anni e l’obiettivo a breve termine è ampliarla ulteriormente. Anche se il progetto deve ancora passare l’approvazione ufficiale della pianificazione e la consultazione della comunità, in più sembrano appoggiare l’idea. Se alcuni credono che una tale raccolta dati pre apocalittica possa diffondere un inutile panico generalizzato, il fatto che ci sia una registrazione completa delle azioni dei leader politici e aziendali sul cambiamento climatico, potrebbe davvero avere un impatto significativo.
Tra l’altro, quando la scatola nera sarà funzionante, la banca dati – costantemente in crescita – sarà accessibile tramite una piattaforma digitale. Un’ulteriore maniera per informare i più su una catastrofe già iniziata da anni e, magari, svegliare alcune coscienze. “Come finisce la storia dipende solo da noi. Solo una cosa è certa: le tue azioni, inazioni e interazioni vengono ora registrate“, viene specificato sul sito ufficiale del progetto non commerciale Earth’s Black Box, gestito dall’agenzia di marketing Clemenger BBDO e dall’agenzia creativa Glue Society. Ma quali dati verranno raccolti? Tutto quel che riguarda le misurazioni della temperatura della terra e del mare, fino all’acidificazione degli oceani, la quantità di CO2 nell’atmosfera. Dati sull’estinzione delle diverse specie, sull’uso del suolo, ma anche movimenti specifici della popolazione umana, dalle spese militari al consumo di energia. Contestualmente, la scatola nera si occuperà di raccogliere scambi e movimenti relativi al mondo della comunicazione, dai giornali ai post sui social media, riunioni sui cambiamenti climatici (come le diverse COP). Il progetto vuole essere un modo per creare un oggetto indistruttibile, in grado di portare il sapere e la storia a chi sopravviverà o a qualunque altra forma di vita che voglia evitare gli errori dell’attuale specie umana.
È arrivato – secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Ansa – l’ok da parte del Consiglio dei ministri al decreto avente ad oggetto la proroga dello stato di emergenza al 31 marzo 2022. Il decreto legge, formato da 11 articoli, proroga tutte le misure legate all’emergenza.
In Yemen l’Onu non avrà più il suo programma volto a testimoniare le violazioni dei diritti umani commesse da tutte le parti coinvolte nel conflitto. Lo ha deciso un voto del 7 ottobre che, secondo molte fonti (tra cui numerose associazioni), sarebbe stato pilotato dall’Arabia Saudita. La votazione, infatti, avvenuta durante il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (HRC) con lo scopo di prolungare l’indagine indipendente sui crimini di guerra per ulteriori due anni, ha avuto esito fallimentare, con 21 no contro 18 sì e l’astensione di sette Paesi. Nel 2020 i no erano stati solo 12. Un grosso balzo, che sembra molto poco casuale.
È la prima sconfitta di una risoluzione dell’Onu, nei 15 anni di storia, sopraggiunta nonostante l’Arabia Saudita non faccia parte dell’HRC. Il paese sarebbe riuscito nel suo intento grazie all’uso di incentivi economici, minacce e pressioni su alcuni Stati. John Fisher, portavoce dell’Ong Human Rights Watch, ha detto che la bocciatura ottenuta è “una macchia sul Consiglio per i diritti umani. Votando contro questo mandato estremamente necessario, molti Stati hanno voltato le spalle alle vittime, si sono piegati alle pressioni della coalizione guidata dai sauditi e hanno messo la politica al di sopra dei principi”.
Alcuni funzionari, politici, attivisti e fonti diplomatiche, venuti in contatto in qualche modo con le trattative segrete attuate dall’Arabia Saudita hanno confermato, come riporta il Guardian, le pressioni fatte per ottenere la bocciatura definitiva della risoluzione. In particolare il Paese del Golfo avrebbe minacciato l’Indonesia, uno dei paesi musulmani più popolosi al mondo, di non permettere ai fedeli di recarsi alla Mecca se la sua votazione fosse stata a favore del rinnovo. Se l’Indonesia non avesse ceduto al ricatto, probabilmente milioni di musulmani si sarebbero riversati in protesta nelle piazze, generando un grosso caos: quello a La Mecca è considerato il pellegrinaggio più importante della religione islamica.
Per questo 64 organizzazioni (numero destinato a crescere nei prossimi giorni) tra cui figura anche Amnesty International, chiedono all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di agire in fretta per creare un nuovo meccanismo, un organismo indipendente e imparziale che “indaghi e riferisca pubblicamente sulle più gravi violazioni e abusi del diritto internazionale commessi nello Yemen, raccogliendo e preservando le prove e preparando i file per eventuali futuri procedimenti penali”.
Il conflitto in Yemen è cominciato con la primavera araba del 2011, quando Ali Abdullah Saleh, lo storico presidente, ha dovuto cedere il potere al suo vice, Abdrabbuh Mansour Hadi, in seguito a delle forti pressioni. In molti pensavano che il passaggio di testimone avrebbe dovuto portare stabilità nel paese, ma così non è stato. Da allora lo Yemen è diventato sempre più povero e il presidente Hadi ha dovuto affrontare vari attacchi da parte delle forze militari fedeli a Saleh con l’exploit del 2014. In quell’anno il movimento ribelle musulmano sciita Houthi ha occupato la provincia settentrionale di Saada e le aree limitrofe. La loro avanzata è stata così rapida da costringere Hadi all’esilio all’estero, dopo aver occupato la capitale del paese. Con l’arrivo nel 2015 dell’Arabia Saudita e di altri otto stati sostenuti dalla comunità internazionale, scesi in campo contro gli Houthi, il conflitto ha assunto una portata molto più grande e disastrosa.
In questi giorni tutti i media mainstream hanno pubblicato la medesima notizia: quella secondo cui i cosiddetti “no vax” avrebbero rivelato, tramite il servizio di messaggistica Telegram, l’indirizzo di casa del premier Mario Draghi. Il Corriere della Sera, la Repubblica e Fanpage sono sono alcuni dei giornali che hanno condannato tale diffusione, parlando di un Mario Draghi «finito nel mirino dei no vax» e riportando anche la volontà di questi ultimi di recarsi «ogni sera alle 21 sotto il suo appartamento». Tuttavia, il modo in cui i giornali hanno dato la notizia – sottintendendo che l’indirizzo del premier fosse stato pubblicato per la prima volta – fa sì che essa sia una vera e propria fake news. Ciò in quanto l’indirizzo di casa di Draghi era già in precedenza facilmente reperibile: facendo una rapida ricerca su Google chiunque avrebbe potuto venirne a conoscenza.
Nel periodo in cui Draghi divenne Presidente del Consiglio, infatti, su internet circolarono diversi articoli riguardanti la sua casa. Il 3 febbraio 2021, ad esempio, il quotidiano RomaTodayrese noto che Draghi viveva a Roma, pubblicando altresì l’indirizzo di casa nonché specificando le caratteristiche dell’appartamento. Ma non si tratta di certo dell’unico testo del genere: anche Casa Magazine scrisse un articolo intitolato «La casa di Mario Draghi a Roma, quartiere Parioli», in cui non solo venne diffuso l’indirizzo di casa del premier, ma anche allegata una foto della stessa. Infine, il 25 febbraio 2021, proprio il Corriere della Seracondivise un video dell’Agenzia Vista avente ad oggetto un’intervista ai «commercianti dei Parioli dove abita Draghi a Roma» ed in cui, tra l’altro, venne ripresa la casa del Presidente del Consiglio. Alla luce di tutto ciò gli articoli pubblicati in questi giorni dai noti giornali, in cui tale diffusione viene indicata come opera dei “no vax”, sono totalmente inesatti.
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