L’Antitrust chiude l’anno con una maxi sanzione complessiva di più di 10 milioni di euro per Mediaworld, Unieuro, Leroy Merlin e Monclick. L’accusa: pratiche di e-commerce scorrette, in particolar modo durante il periodo della pandemia. In particolare, è stata contestata alle aziende la diffusione di informazioni ingannevoli circa la reale disponibilità dei prodotti venduti, i realtivi prezzi ed i tempi di consegna, ritardi nei rimborsi, la sospensione delle attività di customer care, l’ostacolare i diritti di recesso e numerose altre attività di e-commerce scorrette. Ad aggravare tali condotte vi è il fatto che siano state tenute in periodo emergenziale durante il quale la possibilità di spostamento dei clienti era significativamente ridotta.
Variante Omicron: dal Sudafrica arrivano buone notizie, che nessun media riporta
Il Sudafrica, il primo paese in cui come è noto è stata rilevata la variante Omicron, sta pensando di porre fine al tracciamento dei contatti ed alla conseguente quarantena. Negli scorsi giorni infatti il Ministerial Advisory Committee (MAC) – un comitato di esperti che fornisce pareri al governo sul contrasto dell’emergenza pandemica – ha inviato un documento al ministro della Salute Joe Phaahla in cui viene consigliato di interrompere con effetto immediato il tracciamento e la messa in quarantena dei contatti delle persone positive al Covid, a prescindere dal fatto che siano o meno vaccinate. La notizia è stata riportata anche dal principale quotidiano online del Sudafrica News24, il quale ha confermato che il documento è stato recentemente inviato al ministro.
Nello specifico, all’interno dello stesso il Ministerial Advisory Committee afferma che il tracciamento dei contatti non è più necessario e che la quarantena dei contatti non è più praticabile nell’attuale clima sociale ed economico. Gli esperti sottolineano che dal 2020 si sono verificati diversi cambiamenti per ciò che concerne la situazione legata al Covid-19, motivo per cui c’è bisogno di una rivalutazione della gestione della pandemia. In tal senso, ricordano che «la proporzione di persone ad aver sviluppato l’immunità al Covid-19 (da infezione e/o vaccinazione) è aumentata notevolmente, superando il 60-80% in diversi sierosondaggi», ovverosia la misurazione dei livelli di anticorpi contro le malattie infettive.
La rivalutazione delle tecniche atte a contrastare il virus, inoltre, deve essere attuata anche poiché «sembra che esse non abbiano probabilità di successo». «Noi identifichiamo una proporzione molto piccola di contatti, in quanto identifichiamo una proporzione altrettanto piccola di casi Covid» affermano gli esperti, secondo cui i test sono fortemente orientati verso l’individuazione di casi sintomatici, mentre la stragrande maggioranza dei casi è asintomatica e non viene dunque rilevata. A tutto ciò si aggiunga anche che «la sensibilità del test SARS-CoV-2 non è ottimale ed a volte genera falsi negativi». Insomma, siccome la stragrande maggioranza dei casi non viene diagnosticata anche la maggior parte dei contatti non lo è, motivo per cui «la messa in quarantena e il tracciamento dei contatti hanno un beneficio trascurabile per la salute pubblica in Sudafrica». Alla luce di tutto questo, gli esperti chiedono che «nessun test anti Covid venga richiesto a meno che il contatto non diventi sintomatico».
La notizia però non è stata riportata dai media mainstream, che nelle scorse settimane avevano ampiamente parlato del Sudafrica a causa della nuova variante Omicron mentre ora – con gli esperti del governo che suggeriscono di mettere fine alle misure sopracitate e con una situazione epidemiologica in condizioni certamente non disastrose – sono silenti. Basterà ricordare che il Sudafrica se da un lato ha un elevato numero di contagi, con una media settimanale attuale di 18.195 casi al giorno, dall’altro ha una media settimanale di morti pari a 45 decessi al giorno. Nelle scorse ondate, invece, la media dei morti era molto superiore a quella attuale, nonostante un numero di casi simile. Il 9 luglio, ad esempio, si viaggiava ad una media settimanale di 19.694 casi al giorno, ma quella dei morti era di 363 al giorno.
L’andamento attuale tuttavia difficilmente può essere giustificato con la sottoposizione della popolazione sudafricana alla vaccinazione anti Covid, dato che ad essere stato completamente vaccinato è solo il 26,3% della popolazione. Ciò induce a pensare che la variante Omicron, a causa della quale i Paesi europei stanno nuovamente tornando ad imporre le restrizioni, potrebbe non essere così letale. Ipotesi rafforzata da una ricerca appena pubblicata e condotta dall’Istituto Nazionale per le Malattie Trasmissibili di Johannesburg, secondo la quale i sudafricani che contraggono il Covid-19 nell’attuale ondata di infezioni hanno l’80% in meno di probabilità di essere ricoverati in ospedale se contraggono la variante dell’omicron, rispetto ad altri ceppi. Anche i risultati di questa ricerca trovano raro spazio sui media, che preferiscono nella gran parte dei casi riportare la dichiarazione di stampo allarmista rilasciata dal direttore regionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’Europa, Hans Kluge, il quale (senza portare ricerche o dati in merito) ha affermato che la variante Omicron in poche settimane sarà dominante in tutta Europa e spingerà i sistemi sanitari «sull’orlo del baratro». Ancora una volta media e istituzioni delle politiche sanitarie sembrano dunque preferire la comunicazione basata sull’allarmismo, nonostante dal Sudafrica arrivino notizie che lasciano sperare su un quadro in forte miglioramento.
[di Raffaele De Luca]
UE avvia azione legale contro la Polonia
L’Unione Europea ha avviato un’azione legale contro la Polonia a causa delle decisioni prese dalla sua Corte costituzionale che, come spiega il commissario europeo per l’economia Paolo Gentiloni, violano il primato del diritto comunitario. Da Varsavia l’azione dell’UE è definita “un’attacco alla costituzione e alla sovranità polacca”. La Commissione europea ha concesso alla Polonia due mesi di tempo per rispondere con una lettera formale che spieghi le motivazioni dell’infrazione: in caso non pervenga una risposta, la questione potrebbe passare alla Corte di giustizia europea. La Polonia non può essere espulsa dall’UE, ma potrebbe ricevere sanzioni giornaliere per il mancato rispetto delle norme comunitarie.
Libia, ora è ufficiale: le elezioni presidenziali non si faranno
Anche se il sospetto c’era ormai da alcune settimane, ora è ufficiale che il 24 dicembre non ci sarà alcuna elezione presidenziale in Libia. Lo ha confermato il 22 dicembre una Commissione Parlamentare, basandosi su un documento redatto il 20 dicembre. Nel testo si legge che l’Alta commissione elettorale, l’organo incaricato di supervisionare il voto, ha ordinato ai comitati elettorali di tutto il territorio nazionale di sciogliersi.
Le criticità hanno riguardato soprattutto i criteri di selezione dei candidati: nell’ultimo periodo se ne potevano contare quasi 100, tutti con qualche caratteristica non perfettamente in linea con l’ideale di Presidente che un Paese auspicherebbe di avere.
«Non sono un profeta, e non sono uno stregone, non sono in grado di dirvi cosa accadrà», aveva detto il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, quando gli era stato chiesto un commento sulle probabilità di successo delle elezioni promosse dall’Onu. «Faremo di tutto per facilitare il dialogo e risolvere questioni che potrebbero essere viste come elementi di divisione in Libia», aveva concluso, dopo aver elencato una serie di problematiche importanti che in Libia si sarebbero dovute risolvere al più presto.
Cos’è andato storto questa volta?
Probabilmente molte cose. Prima fra tutte la strategia delle Nazioni Unite, che “nel forzare” le elezioni non hanno preso in considerazione alcuni fattori. L’Onu non ha ben tenuto in conto il fatto che l’essenza della Libia non si esaurisce nel Governo della parte Occidentale del Paese. O almeno non solo. La realtà è che la nazione è costituita da una moltitudine di milizie, correnti politiche e ideologie diverse, con notevoli differenze anche all’interno di movimenti islamisti vicini tra loro. In particolare sono proprio le milizie impegnate in Libia che hanno un enorme potere decisionale sul come le cose effettivamente devono andare. E trascurarle o non tenerne conto a dovere significa commettere un errore già in partenza. Come l’episodio di martedì, quando buona parte dei candidati doveva incontrarsi a Bengasi per discutere del processo elettorale, e dall’altra parte diversi gruppi armati rivali hanno bloccato le strade di Tripoli.
Affinché le strategie funzionino è doveroso capire che il panorama libico è molto differenziato. Basta guardare la lista dei candidati. Tra loro c’era Abdul Hamid Dbeibah, primo ministro ad interim che durante la nomina da parte della comunità internazionale aveva promesso di non volersi candidare alla presidenza. E c’era anche un maresciallo, Halifa Haftar, che qualche mese prima aveva guidato le milizie alla conquista di Tripoli per ottenere il controllo su tutto il Paese. E c’era anche Saif Gheddafi, figlio di Muammar Gheddafi: il candidato che era stato condannato a morte nel 2015 per crimini di guerra, salvatosi solo grazie a un’amnistia. La storia degli altri ipotetici futuri presidenti non è meno complessa o contorta. Motivo per cui la Commissione non ha mai definitivamente approvato la lista ufficiale dei nomi.
Sembra, alla fine, che la proposta dell’Onu di procedere con delle elezioni non abbia affatto smorzato le tensioni ma anzi, ne abbia inasprito le divisioni. Se è vero che alle Nazioni Unite va il merito del “cessate il fuoco” dell’ultimi periodo, non si può esultare allo stesso modo per una politica internazionale che sembra non conoscere bene il territorio su cui interviene. Non si sa come andranno le cose e se per una nuova data bisognerà solo aspettare qualche settimana. È certo però che l’ennesima crisi potrebbe scoppiare da un momento all’altro, mettendo contro le milizie nemiche. Proprio come è accaduto dopo le elezioni del 2014, quando le profonde divisioni portarono la Libia ad una guerra civile durata anni.
[di Gloria Ferrari]
Perché le scuse usate per bloccare i brevetti dei vaccini sono immotivate
Uno studio ha individuato una lista di 100 aziende, distribuite tra Africa, Asia e America Latina, con i requisiti per la fabbricazione dei vaccini mRNA contro il covid-19. Si tratta di una possibilità per decentrare e velocizzare la produzione, rendendola più accessibile ai Paesi più svantaggiati e maggiormente colpiti dalla pandemia. Human Rights Watch, insieme ad altre associazioni, ha scritto ai governi statunitense e tedesco affinchè facciano pressione per ottenere la condivisione della proprietà intellettuale da parte delle grandi aziende farmaceutiche, le quali fino ad ora si sono dimostrate restie a condividere le prorprie conoscenze.
Decentrare la produzione di vaccini mRNA contro il covid-19, rendendo il processo di produzione e distribuzione più equo, è possibile. Questo è quanto sostengono Human Rights Watch (HRW) e diverse altre associazioni, che hanno pubblicato lo studio prodotto dal coordinatore del progetto AccessIBSA, il quale si batte per la distribuzione dei vaccini in India, Brasile e Sudafrica, e un esperto dei vaccini della campagna Access di Medici Senza Frontiere. Tale studio sostiene che esistono almeno un centinaio di strutture nelle quali è possibile produrre i vaccini, distribuite tra Africa, America Latina e Asia.
“Se la manifattura dei vaccini potesse essere distribuita tra i Paesi, coprendo tutti i continenti, potrebbe fornire sicurezza, stabilità e indipendenza a enormi parti del mondo” si legge all’interno dello studio. “A causa della natura unica della tecnologia mRNA, e la sua mancanza di componenti biologiche, i vaccini mRNA possono essere prodotti da un enorme numero di produttori farmaceutici esistenti, anche quelli che non abbiano previa esperienza nella produzione di vaccini. Non si tratta di una supposizione teorica; è il modello di lavoro che Moderna e Pfizer-BioNTech hanno usato per collaborare con successo con altri produttori a contratto per aumentare la propria produzione”.
I governi statunitense e tedesco hanno entrambe fornito importanti finanziamenti a Pfizer-BioNTech, Moderna e J&J per la ricerca e lo sviluppo sui vaccini, motivo per il quale, secondo HRW, “hanno la responsabilità di spingere queste aziende a condividere più ampiamente la conoscenza e la tecnologia”.
“Tutto ciò di cui [le 100 aziende] hanno bisogno è che i governi degli Stati Uniti e della Germania mettano fine ai monopoli e condividano la loro preziosa tecnologia che hanno finanziato ed essenzialmente creato” sostiene Achal Prabhala, coordinatore di AccessIBSA. Con una condivisione della proprietà intellettuale, della tecnologia e dei materiali per produrre i vaccini si potrebbe subito iniziare la produzione, ma fino ad ora nessuna delle Big Pharma ha aderito alle iniziative proposte dall’OMS per la condivisione della proprietà intellettuale.
Tra la primavera e l’estate di quest’anno HRW ha scritto alcune lettere a Pfizer, Moderna e J&J per avere informazioni dettagliate riguardo alle politiche circa la disponibilità dei vaccini. Pfizer ha risposto comunicando che “solo poche strutture al mondo sono in grado di eseguire i passaggi critici necessari per produrre vaccini mRNA e gli input per produrre quei vaccini su larga scala”, mentre Moderna ha dichiarato di essere impegnata a “perseguire partnership in tutto il mondo per accelerare la produzione e la consegna del suo vaccino”. J&J, che ha esportato in Europa milioni di dosi prodotte in Sudafrica, si è rifiutata di rispondere.
Che intorno ai vaccini e ai contratti stipulati con i governi occidentali per la produzione e la diffusione aleggi poca chiarezza non è una novità. Il caso in questione dimostra ulteriormente come la sanità, anche in pandemia, sia un business i cui interessi finanziari soverchiano quelli di cura.
[di Valeria Casolaro]
Crimini ambientali, dall’Europa un passo nella giusta direzione
Un traguardo significativo nella lotta ai crimini ambientali in ambito europeo è arrivato con la proposta, adottata dalla Commissione europea il 15 dicembre scorso, per la revisione della direttiva Ue sulla repressione dei crimini ambientali. Soddisfatto il Wwf, soprattutto per il rafforzamento delle sanzioni, con la reclusione di almeno 10 anni per i delitti ambientali più gravi. La nota associazione ambientalista, non a caso, attraverso il progetto SWiPE, ha anche partecipato al processo di consultazione pubblica per la necessaria revisione. Nel 2020, infatti – come hanno spiegato – la valutazione sulla Direttiva rilevava come non fossero stati raggiunti gli obiettivi e come ci fossero ampi margini di miglioramento.
Tra i punti in esame figurano “l’ampliamento dell’ambito di applicazione della Direttiva, disposizioni specifiche per tipologie e livelli di sanzioni penali e un elenco armonizzato di strumenti investigativi transfrontalieri disponibili per gli Stati membri dell’Ue nel contrasto alla criminalità ambientale”. La proposta punta inoltre a stabilire nuovi reati ambientali in tutta l’Unione, come il commercio illegale di legname, il riciclaggio illegale di navi o l’estrazione illegale di acqua. Chiarisce poi le definizioni esistenti, determinando una maggiore certezza del diritto. Infatti, i reati contro l’ambiente, nonostante ancora oggi rappresentino il quarto tipo di attività illecita più diffuso al mondo, è più raro che vengano perseguiti e, se ciò avviene, chi li commette viene punito in modo decisamente più leggero rispetto a chi si macchia di altri crimini. Alla luce poi di un tasso di crescita annuale che per gli ecoreati oscilla tra il 5 e il 7 per cento, è quindi un bene che l’Europa stia valutando seriamente un cambio di rotta.
Il progetto SWiPE del Wwf ha inoltre sottolineato “l’importanza che gli Stati membri considerino i crimini contro la fauna selvatica e le foreste come reati gravi, il che consentirebbe di mobilitare le risorse umane e finanziarie necessarie, nonché darebbe all’Ue una maggiore influenza nel chiedere ai paesi partner di dare priorità al problema”. La nuova proposta, nel complesso, affronta così le principali carenze che finora non hanno permesso una piena eradicazione dei crimini contro l’ambiente. Nei prossimi mesi, comunque – fanno sapere dall’associazione – verranno ulteriormente analizzate le soluzioni proposte e verranno seguite le discussioni al Parlamento europeo e al Consiglio al fine di garantire che siano soddisfatte le premesse per affrontare efficacemente detti illeciti nell’Ue.
[di Simone Valeri]
Petrolio e socialismo: le colpe per cui il Venezuela è (di nuovo) nel mirino
Martedì 20 dicembre, la corte suprema del Regno Unito ha stabilito che la Gran Bretagna riconosce Juan Guaidó inequivocabilmente come legittimo capo di stato. Questa decisione avviene a seguito della battaglia legale in corso, tra il “presidente autoproclamato” gradito all’Occidente, Guaidó, e il presidente realmente in carica, Nicolàs Maduro, per il controllo su 1,6 miliardi di euro di riserve auree detenute (e al momento bloccate) dalla Banca d’Inghilterra. Fondi, che stando ad un libro (Room Where It Happened) pubblicato dall’ex consigliere per la sicurezza di Trump, John Bolton, vennero congelati, su espressa richiesta di Washington, al solo scopo di applicare pressioni economiche al governo di Maduro.
Per comprendere meglio questa vicenda bisogna tornare al 2018, anno in cui venne rieletto Maduro durante le elezioni presidenziali tenutesi in Venezuela. Carica ottenuta con il 67% dei voti (con un’affluenza del 46%). Le elezioni del 2018, che vennero boicottate e fortemente contestate dalle opposizioni diedero il via ad una crisi politica, che raggiunse l’apice nel gennaio 2019, quando l’Assemblea nazionale, il parlamento controllato dall’opposizione ma di fatto esautorato, dichiarò invalide le elezioni e nominò Juan Guaidó presidente ad interim del Venezuela.
Maduro ha sempre sostenuto che dietro la crisi politica del 2019 ci fosse un tentativo di colpo di Stato da parte degli Stati Uniti per rovesciarlo. E in effetti il governo di Maduro non ha tutti i torti nel sostenere tali accuse, dato che negli anni della presidenza Trump le ingerenze da parte di Washington in Venezuela sono state numerose. Basti pensare che il riconoscimento di Guaidó come legittimo presidente da parte degli Stati Uniti avvenne in tempi rapidissimi. Che una scelta di tale rilievo avvenga in un così breve lasso di tempo appare quantomeno strano, considerando che Guaidó, sebbene fosse presidente dell’Assemblea Nazionale, (il Parlamento venezuelano) non era ancora una figura di spicco tra l’opposizione venezuelana e non godesse di alcun potere reale all’interno del paese.
Il disconoscimento di Maduro come legittimo presidente a favore di Guaidó venne poi confermato anche dagli alleati di Washington, inclusa l’Unione Europea. Ad oggi, pochi paesi tra cui Egitto, Turchia, Cina, Russia e Iran continuano a riconoscere Maduro come legittimo presidente.
Tra il 2019 e il 2020, diversi furono i tentativi da parte della presidenza Trump di ostacolare e far cadere il governo di Maduro. Numerose furono le dichiarazioni da parte di Washington in cui non si escludeva l’ipotesi di un intervento armato in Venezuela. Nell’agosto 2019, Trump decise inoltre di imporre ulteriori sanzioni economiche al Venezuela, ordinando il congelamento di tutti i beni del governo venezuelano negli Stati Uniti e bloccando le transazioni con cittadini e società statunitensi. Sanzioni economiche vennero applicate anche da parte dell’Unione Europea, rinnovate poi dal Consiglio Europeo per altri 12 mesi il 26 novembre 2021.
Per oltre 15 anni il Venezuela ha subito sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti, inizialmente giustificate dalla mancata collaborazione sul contrasto al traffico di droga e alla lotta al terrorismo. In seguito, durante la presidenza Obama, vennero applicate nuove sanzioni per il mancato rispetto dei diritti umani, la corruzione e le presunte azioni antidemocratiche commesse dal governo di Maduro. Mentre l’ultimo round di sanzioni venne appunto giustificato dalla mancanza di trasparenza durante le elezioni presidenziali del 2018.
Per dovere di cronaca va ricordato che dal 2013 (anno in cui Maduro vinse le prime elezioni a seguito della morte del presidente storico Hugo Chavez) ad oggi, si sono tenute nel paese 3 elezioni presidenziali e altrettante elezioni parlamentari e locali. Inoltre, un rapporto preliminare della Missione di osservazione elettorale dell’Unione europea (EOM-UE), incaricata di monitorare le elezioni locali tenutesi nel novembre 2021 in Venezuela, di nuovo vinte largamente dall’alleanza socialista, ha confermato che: “il voto si è svolto in un contesto migliore rispetto al passato”. Elezioni, che vedevano il ritorno delle opposizioni dopo 4 anni, e che sono state nettamente vinte dal partito di governo che si è imposto in 20 su 23 stati. Gli osservatori europei, nonostante abbiano rilevato delle irregolarità hanno comunque confermato che: “il quadro elettorale venezuelano sia conforme alla maggior parte degli standard internazionali fondamentali”.

Le sanzioni economiche, il malgoverno e la corruzione, hanno trascinato negli anni il Venezuela in una profonda crisi economica. Gli alti livelli di disoccupazione, le difficoltà di accesso al cibo e ad altri beni di prima necessità, comprese le medicine, hanno spinto circa sei milioni di venezuelani a fuggire dal Paese in cerca di una vita migliore. Questa crisi umanitaria e stata indubbiamente aggravata anche dalle tensioni politiche interne, come il tentativo di colpo di stato da parte di Guaidó e di alcuni vertici dell’esercito nell’Aprile 2019, o l’incursione per rapire/uccidere Maduro da parte di un gruppo di mercenari della compagnia di contractors americana SilverCorp USA nel maggio 2020.
Nonostante il tentativo di colpo di stato (miseramente fallito) messo in atto da Guaidó, che avrebbe potuto gettare il paese in una sanguinosa guerra civile, viene da chiedersi come mai parte della comunità internazionale continui ancora a riconoscerlo come presidente legittimo. Le elezioni dello scorso novembre che hanno visto la vittoria netta da parte del partito di Maduro, hanno confermato ancora una volta come il supporto della popolazione venezuelana verso Guaidó sia limitato. Lui stesso, commentando il risultato delle elezioni, ha dichiarato che “bisogna ricostruire e che serve unità di intenti tra i vari leader delle opposizioni”, facendo sottintendere di non avere nemmeno il controllo su tutte le varie forze di opposizione all’interno del paese. I critici del Venezuela, capeggiati da Washington, non esitano a condannare l’operato del governo Maduro usando come pretesto le elezioni non libere, e facendo leva sui diritti umani e la mancanza di libertà civili a cui il popolo venezuelano sarebbe soggetto. Eppure, sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea tra i propri alleati vantano paesi in cui le elezioni non si tengono proprio come l’Arabia Saudita, oppure altri paesi che di certo non vantano la tutela dei diritti umani tra le loro qualità principali, come Turchia ed Egitto. Nonostante le numerose denunce da parte di ONG e attivisti, in merito ad arresti indiscriminati, torture e assassini compiuti dalle forze dell’ordine Egiziane, il governo di Abdel Fattah el-Sisi è riuscito ad ottenere, lo scorso marzo, la cancellazione delle sanzioni da parte dell’Unione Europea.
Alla luce di questi esempi, viene quindi da chiedersi da dove arrivi tutto questo accanimento da parte dell’Occidente verso il Venezuela? Come spesso accade va annotata una “coincidenza”: le attenzioni e le ire di Washington verso il mancato rispetto dei diritti umani si concentrano ancora una volta sui Paesi che detengono grosse risorse naturali (come Siria e Iran) o che perseguono un sistema economico socialista, inviso ai governi statunitensi e ai loro interessi economici (come Cuba). Il Venezuela deve scontare entrambe le “colpe”: detiene le più grandi riserve al mondo di petrolio (stimate in 300 miliardi di barili) e la loro gestione venne nazionalizzata a partire dalla fine degli anni ’90, dal presidente socialista Hugo Chavez, tagliando fuori dalla gestione le multinazionali occidentali.
[di Enrico Phelipon]
Yemen: Programma Alimentare Mondiale taglierà aiuti per mancanza fondi
Il Programma alimentare mondiale (Wfp), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare, ha fatto sapere di dover inevitabilmente tagliare gli aiuti riservati allo Yemen a causa della mancanza di fondi. «A partire dal mese di gennaio otto milioni di persone riceveranno una razione alimentare ridotta, mentre altri cinque milioni a rischio immediato di cadere in condizioni di carestia rimarranno a razione piena», ha infatti comunicato l’agenzia tramite una nota.
Ingannare il riconoscimento facciale: la nuova battaglia dell’arte attivista
Tra le sfide epocali che l’umanità sta già vivendo non troviamo le innovazioni digitali bensì la loro regolamentazione.
La sfida è già cominciata e riguarda anche l’Italia: basta rifarsi all’inchiesta Angius-Coluccini (del 2019) su Sari, il Sistema Automatico di Riconoscimento delle Immagini in dotazione alla Polizia di Stato; oltre 16 milioni di record (registrazioni) e 10 milioni di foto per più di 9 milioni di profili schedati, soprattutto stranieri. Non è ancora chiaro né cosa contengano questi “record” né come siano strutturati o aggiornati e questa del riconoscimento facciale è solo una piccolissima parte delle possibilità di controllo sociale a disposizione di enti pubblici, governi e aziende private. La Commissione Europea, proprio quest’anno, si è impegnata con la bozza di regolamento sull’Intelligenza Artificiale per delimitarne il campo d’azione, proponendo di mettere al centro dell’attenzione la tutela dei diritti fondamentali. Tuttavia, in Italia, il dibattito pubblico su questi temi è praticamente a zero; la sorveglianza di massa, pubblica o privata, non è ancora generalmente percepita come un possibile danno all’individuo.
Lo scorso settembre, in seguito alle tante manifestazioni anti greenpass, il Garante della Privacy è dovuto intervenire per cercare di regolamentare l’uso delle body-cam da parte di Polizia e Carabinieri, che le possono utilizzare soltanto per “documentare situazioni critiche d’ordine pubblico in occasione di eventi o manifestazioni”. L’autorità ha chiesto che il sistema utilizzato non consenta l’identificazione “univoca” o il “riconoscimento facciale” della persona e che, a differenza di quanto sostenuto dal Ministero dell’Interno e dall’Arma, è obbligatoria la “consultazione preventiva” del Garante. In ballo c’è il rischio di discriminazione, di sostituzione dell’identità e di privazione di diritti e libertà. Nonostante la definizione poco delineata delle situazioni d’utilizzo, le videocamere indossabili dei reparti mobili incaricati, ad esempio, potranno essere attivate solo in presenza di “concrete e reali situazioni di pericolo, di turbamento dell’ordine pubblico o di fatti di reato”. La “registrazione continua” delle immagini non è ammessa e tantomeno quella di “episodi non critici”. I dati raccolti riguardano audio, video, foto, data, ora della registrazione e coordinate Gps; che una volta scaricati dalle videocamere devono essere disponibili, con diversi livelli di accessibilità e sicurezza, per le successive attività di accertamento. “L’utilizzo di body-cam da parte delle forze dell’ordine – scrive il Garante della Privacy – rende estremamente probabile il trattamento di dati che rivelino le opinioni politiche, sindacali, religiose o l’orientamento sessuale dei partecipanti.” Si rischia, insomma, di ledere continuamente principi costituzionali.
Negli Stati Uniti, dove i sistemi di sorveglianza sono più pressanti che in Italia, si stanno moltiplicando gruppi di attivisti, programmatori, docenti e artisti che escogitano modi per evitare l’incasellamento di massa. Mentre in Europa, “invenzioni” come quella della “maschera a lenti sfaccettate” del belga Jip van Leeuwenstein, rendono impossibile il rilevamento biometrico con algoritmi facciali. Da qualche anno sono disponibili, in vista di cortei e manifestazioni, custodie schermate per cellulari, protesi con false impronte digitali, cappotti imbottiti per bloccare le onde radio e visiere a led. Droni e anti-droni.
L’artista-attivista di Chicago, Leo Selvaggio, vende maschere in resina che confondono i dispositivi di riconoscimento facciale. Studenti dell’Università di Washington hanno messo a punto un prototipo per la “trasmissione sul corpo”. Si tratta di dispositivi indossabili che funzionano in wireless, ma solo se a contatto con il corpo. Si sta sperimentando anche la bandana smart che è interconnessa e registra eventuali abusi delle forze dell’ordine. Purtroppo tutti questi oggetti hanno dei costi di produzione che, in parte, ne rendono ancora elitaria e limitata la distribuzione.

Non è accettabile doversi “acconciare” per un corteo o una manifestazione che, in una democrazia, dovrebbero essere la sostanza del confronto e dell’espressione libera. Per resistere alle eventuali intrusioni nella propria privacy e/o cittadinanza, come scrive, ad esempio, Leo Selvaggio, sulle pagine “WWWW”-Who Will Watch the Watchers, si stanno raccogliendo “tecnologie speculative, pragmatiche e riproducibili destinate a sfruttare strumenti e processi democratici basati sull’immagine per difendere, potenziare e mobilitare l’azione civica nello spazio pubblico. Uno dei nostri maggiori svantaggi come cittadini nei confronti delle strutture di potere governative – spiega Selvaggio – è l’uso estremamente sbilanciato delle pratiche di raccolta delle immagini da utilizzare come prove: sorveglianza, telecamere del traffico, riconoscimento facciale, eccetera.” I progetti come “WWWW” tentano di spostare questa scala a favore della gente e spesso sono realizzati attraverso crowdfunding e finanziamenti collettivi molto partecipati. Tra questi “URME Surveillance” autodefinito “intervento sovversivo” per proteggere il pubblico dai sistemi di sorveglianza. Finora la faccia di resina, ad esempio, ha mandato nel pallone il riconoscimento facciale di Facebook. La contro-sorveglianza URME è attualmente composta da tre dispositivi. Il primo è l’URME Surveillance Identity Prosthetic, che è una maschera fotorealistica stampata in 3D del viso dell’artista con gli occhi di chi la indossa che tendono a non allinearsi con i fori. Il secondo è l’URME Paper Mask, un’alternativa economica, in carta, che si presta per grandi gruppi, e infine l’URME Facial Video Encryptor, un software personalizzato che crittografa i file sostituendo digitalmente tra loro fino a cinque volti contemporaneamente.
La sfida alla sorveglianza non regolata o indiscriminata va avanti da qualche anno. Negli Stati Uniti, in Europa, in Italia e altrove nel mondo, si evidenziano sempre più lesioni dei diritti e delle libertà fondamentali degli individui, come ha documentato Shoshana Zuboff nel libro “il capitalismo della sorveglianza”; attraverso il controllo dello smartphone, dei pc, di Google e dei social fino alle identificazioni in pubblico.
[di Antonio Gesualdi]
Israele: Bennett annuncia quarta dose vaccino per over 60, sanitari e immunodepressi
Il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, ha annunciato che le persone di età superiore ai 60 anni, i sanitari e gli immunodepressi potranno sottoporsi ad una quarta dose del vaccino anti Covid per proteggersi dalla variante Omicron. Secondo quanto riportato dal quotidiano The Guardian, infatti, Bennett nella giornata di ieri ha affermato: «I cittadini israeliani sono stati i primi al mondo a ricevere la terza dose e saremo i pionieri anche della quarta dose». Tali parole sono state pronunciate dal premier dopo una riunione del gabinetto per la gestione dell’emergenza sanitaria, in seguito alla quale è arrivato il via libera degli esperti alla quarta dose.