Nonostante i diversi annunci di cessate il fuoco in Siria, il sud del Paese è ancora nel pieno caos. Dallo scoppio delle violenze, secondo alcune ricostruzioni innescate da rapimenti di persone della comunità drusa da parte delle tribù beduine, nel Governatorato di Suwayda, principale sede degli scontri, sono morte oltre 700 persone. Dopo gli attacchi israeliani lanciati per «difendere i fratelli drusi», gli Stati Uniti hanno annunciato il raggiungimento di un accordo di tregua tra Israele e Siria, che permetterebbe al presidente siriano Al Sharaa di dispiegare le proprie forze di sicurezza nell’area colpita dai combattimenti. Parallelamente, Al Sharaa ha annunciato un cessate il fuoco nel Governatorato, il terzo in meno di una settimana, che pare essere stato accettato dalle tribù druse più separatiste. I rappresentanti di Israele e Siria non hanno ancora confermato di avere raggiunto un accordo, ma Damasco ha iniziato a muovere le proprie forze verso Suwayda, e Tel Aviv ha criticato il presidente siriano.
Il cessate il fuoco a Suwayda è stato annunciato la mattina di oggi, sabato 19 luglio, dal presidente Al Sharaa. Qualche ora dopo, i media hanno riportato che il cessate il fuoco sarebbe stato accettato tanto dall’Esercito Tribale Arabo, fazione beduina attiva nel Governatorato di Daraa, quanto dalla comunità drusa che fa capo allo sceicco Hikmat al-Hijri, la guida drusa più critica verso il presidente Al Sharaa sin dalla cacciata di Assad. Poco dopo, l’ambasciatore statunitense in Turchia Tom Barrack ha annunciato il raggiungimento di una intesa tra i vertici di Israele e Siria. Un presunto accordo era già uscito sui media israeliani nella giornata di ieri; da quanto scrive il Times of Israel, Israele avrebbe concesso alla Siria di entrare nel Governatorato di Suwayda e operare per 48 ore. Secondo ulteriori indiscrezioni uscite su media indipendenti, l’accordo prevedrebbe l’istituzione di posti di blocco di sicurezza all’esterno dei confini amministrativi del Governatorato di Suwayda, per controllare gli scontri; l’abbandono in sicurezza dell’area da parte delle tribù beduine; e la creazione di corridoi umanitari. Le forze siriane, intanto, sono entratenelle aree dei combattimenti.
Malgrado gli annunci di intesa, non risulta ancora chiaro quale sia la attuale situazione nella regione colpita dagli scontri. L’accordo tra Israele e Siria non è infatti stato confermato dalle parti, e dopo l’annuncio di cessate il fuoco tra drusi e beduini rilasciato da Al Sharaa, il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Saar, ha criticato aspramente le parole del presidente siriano: «Una giustificazione delle violenze jihadiste», ha detto Saar. Gli scontri dopo tutto sembrano continuare. Secondo fonti locali, nella mattina le tribù beduine avrebbero attaccato le aree occidentali del Governatorato di Suwayda e quelle nordoccidentali della Siria tanto che avrebbero reclamato di avere catturato la località di Al-Khalidiyah, nel Governatorato di Hama. Sempre nella mattina, i drusi avrebbero continuato a prendere prigionieri esponenti delle milizie beduine e reclamato la riconquista di alcune località a Suwayda. A partire dalle 13 di oggi, gli scontri si sarebbero concentrati nella stessa città di Suwayda, mentre la tensione nelle aree attorno al capoluogo, sebbene alta, non sembra stare portando a ulteriori combattimenti.
Gli scontri in Siria sono scoppiati lo scorso venerdì 11 luglio, quando si sono verificati episodi di violenza tra la popolazione drusa e quella beduina. Secondo una delle varie ricostruzioni, i combattimenti sarebbero scoppiati a causa di una ondata di rapimenti, tra cui quello di un noto mercante druso del posto. Gli scontri tra i gruppi armati drusi e quelli beduini sono continuati tutto lo scorso fine settimana, così lunedì il governo centrale ha deciso di inviare l’esercito nella regione. In risposta, tuttavia, Israele ha bombardato aree del sud della Siria, con l’obiettivo dichiarato di impedire all’esercito di Damasco di raggiungere la zona, «per difendere i fratelli drusi». Martedì, il governo siriano ha annunciato un cessate il fuoco, che tuttavia è stato smentito dai leader dei gruppi drusi separatisti. Mercoledì, Israele ha bombardato Damasco, colpendo la sede del ministero della Difesa del Paese, e si è ripetuto lo stesso schema: è stato annunciato un secondo cessate il fuoco, che tuttavia non è stato confermato dalle fonti ufficiali del Paese, e che è stato smentito dal Consiglio Militare di Suwayda, una delle milizie druse del Governatorato. Scontri e reciproci rapimenti sono continuati sia giovedì che venerdì. Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, dall’escalation di settimana scorsa, sarebbero state uccise almeno 715 persone.
Dieci cittadini statunitensi detenuti in Venezuela sono stati ufficialmente rilasciati in cambio di 252 migranti venezuelani espulsi dagli Stati Uniti e trasferiti nei mesi scorsi nel supercarcere Cecot di El Salvador. Lo hanno annunciato alle agenzie internazionali e sui post social le autorità di Washington, Caracas e San Salvador, aggiungendo che la trattativa era iniziata da maggio. Il segretario di Stato Marco Rubio ha dichiarato che i cittadini statunitensi «sono stati arrestati e incarcerati in Venezuela senza un adeguato processo», mentre d’altra parte viene denunciato che l’amministrazione Trump avrebbe accusato i 252 venezuelani di essere pericolosi criminali e membri di una banda senza aver fornito prove solide a riguardo.
«Per mezzo di questa lettera le notifico il rifiuto da parte italiana di tutti gli emendamenti adottati dalla 77° assemblea mondiale della sanità». In una mossa destinata a lasciare il segno nella politica sanitaria internazionale, il ministro alla Salute Orazio Schillaci ha scritto al direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, per ufficializzare che l’Italia rigetta gli emendamenti proposti al Regolamento Sanitario Internazionale (RSI), adottati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Schillaci ha notificato il rifiuto del nostro Paese in una lettera, esercitando il diritto sovrano riconosciuto dall’art. 61 dello stesso regolamento.
La decisione italiana, presa in extremis, sul filo del termine ultimo previsto per l’opting-out – il 19 luglio – rappresenta una chiara presa di distanza da un percorso che, a giudizio del governo Meloni, minaccia la sovranità sanitaria nazionale. Una presa di posizione netta che segna un’ulteriore frattura tra Roma e Ginevra, dopo l’astensione dell’Italia sul controverso Trattato pandemico globale. Al centro del rifiuto vi sono preoccupazioni concrete: gli emendamenti introdurrebbero una definizione più ampia e opaca di «emergenza pandemica», conferendo poteri straordinari al direttore generale dell’OMS, tra cui la possibilità di dichiarare uno stato di emergenza anche in assenza del consenso dello Stato interessato.
Il passo dell’Italia segue quello degli Stati Uniti, dove la nuova amministrazione a guida Trump, con Marco Rubio al Dipartimento di Stato e Robert F. Kennedy alla Sanità, ha rigettato gli emendamenti in nome della «difesa della sovranità nazionale» e contro le «interferenze dei burocrati internazionali nelle politiche interne». Anche Roma – che solo pochi mesi fa, nel Parlamento europeo, sembrava orientata a sostenere le modifiche – cambia rotta, segnando una svolta clamorosa in politica estera sanitaria: nessuna delega a un organismo sovranazionale in grado di intervenire sulle decisioni interne in ambito sanitario.
Il senatore Claudio Borghi, tra i promotori della linea del rigetto, non ha esitato a rivendicare il risultato su X, anticipando la notizia, apparsa questa mattina nelle rassegna stampa. Da parte sua, la Commissione Medico-Scientifica indipendente (CMSi) – che da mesi sollecitava il governo a respingere gli emendamenti – ha salutato la decisione come una risposta coraggiosa e necessaria a fronte di un processo negoziale opaco e di contenuti potenzialmente lesivi delle libertà fondamentali. Proprio la CMSi aveva inviato al governo Meloni una lettera, per invitarlo a rifiutare le modifiche al Regolamento Sanitario Internazionale: «Gli Emendamenti, benché molto mitigati rispetto a versioni precedenti che l’OMS aveva ripetutamente presentato, contengono comunque molte insidie per la sovranità nazionale», si spiegava nella missiva.
Tra le disposizioni più controverse contenute nella risoluzione WHA77.17, figura il rafforzamento del ruolo del Direttore Generale dell’OMS, cui si estendono di fatto poteri straordinari nella gestione delle emergenze sanitarie, senza adeguati contrappesi democratici. A seguire, l’inclusione dei “prodotti genici” tra le contromisure sanitarie, senza però definire criteri chiari di sicurezza, efficacia e consenso informato. Si prevedono, inoltre, forme di obbligo vaccinale legate non solo alla salute pubblica, ma anche a generici «obiettivi sociali ed economici», un’impostazione che solleva interrogativi costituzionali. Ancora più preoccupante, secondo la CMSi, è l’introduzione di clausole che impegnano formalmente gli Stati membri a contrastare la «disinformazione e misinformazione» secondo definizioni potenzialmente arbitrarie, demandando alla stessa OMS – o a soggetti sovranazionali – il potere di stabilire quali contenuti siano accettabili. Una deriva censoria che rischia di sopprimere il dibattito scientifico indipendente e marginalizzare le voci critiche all’interno della comunità medica, già perseguitate tramite la criminalizzazione del dissenso in epoca pandemica.
In parallelo, l’OMS avrebbe potuto stipulare accordi sanitari bilaterali non trasparenti e rafforzare un meccanismo di risposta pandemica globale che sottrae progressivamente margini decisionali ai singoli governi. A ciò si aggiungono dubbi sul reale impatto finanziario delle nuove disposizioni e sulla sostenibilità economica per i Paesi firmatari.
Con il rigetto degli emendamenti, l’Italia resta formalmente all’interno del sistema OMS e continuerà ad applicare il Regolamento Sanitario Internazionale del 2005, ancora pienamente valido. Tuttavia, questa scelta potrebbe comportare problemi di compatibilità, ad esempio nei confronti del nuovo certificato internazionale di vaccinazione, che verrà adottato da altri Stati. Viaggiatori italiani potrebbero incontrare ostacoli nei controlli sanitari internazionali in caso di emergenze future, ma per il governo Meloni i rischi di «abdicazione alla sovranità» sono ben maggiori di quelli operativi.
Dopo quasi due anni di massacri e oltre 50.000 persone uccise, Giorgia Meloni e Antonio Tajani si sono resi conto che Israele – forse – sta esagerando. Ci è voluto un colpo di carro armato su una chiesa cattolica, l’unica della Striscia di Gaza, a scatenare una reazione da parte della «madre cristiana» e del «ministro degli Esteri più sfigato della storia»: condotta «ingiustificabile», ha detto la presidente del Consiglio, attacchi «inammissibili» per Tajani. Parole dure, a cui tuttavia non sono seguite azioni altrettanto concrete per impedire che quello che hanno condannato si verifichi. Eppure, la lista di cose che il governo potrebbe fare per esercitare una reale pressione su Tel Aviv è interminabile: riconoscere lo Stato di Palestina, sospendere i trattati con Israele, sanzionare i ministri israeliani, i coloni, le entità che collaborano con il genocidio. Tutte misure che non solo il governo non ha preso, ma che ha ostacolato in ogni sede.
Gli strumenti che l’Italia avrebbe a disposizione per fare la sua parte per fermare il genocidio in Palestina sono diversi e di diversa natura. Sul versante politico e diplomatico, l’Italia potrebbe in primo luogo riconoscere lo Stato di Palestina, come in Europa hanno già fatto Irlanda, Norvegia, Slovenia e Spagna. Il riconoscimento della Palestina è stato proposto svariate volte dai partiti di opposizione, ma le iniziative politiche più coraggiose sono arrivate da circuiti esterni al Parlamento, come dall’Associazione Schierarsi; malgrado la proposta abbia in più occasioni raggiunto i banchi del parlamento, il governo vi si è opposto ogni volta, l’ultima delle quali a maggio; in generale, l’esecutivo si è limitato ad approvare misure per il riconoscimento nel contesto di «soluzioni negoziate», con Israele a ricoprire una posizione di forza.
L’Italia potrebbe anche sospendere il memorandum d’intesa con Israele in materia di cooperazione militare, come già era stato chiesto da diversi giuristi e associazioni. I promotori della misura hanno ricordato che la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha riconosciuto la plausibilità del genocidio in atto contro il popolo palestinese; in tal senso, la sospensione del memorandum rispetterebbe gli obblighi italiani ai sensi della cosiddetta “Convenzione Genocidio”, che chiede a tutti i firmatari di prevenire che tale crimine venga commesso. Nonostante le richieste, il memorandum è stato rinnovato, e mezz’ora dopo le dichiarazioni di condanna di Meloni e Tajani per il bombardamento della Chiesa della Sacra Famiglia di Gaza, il parlamento ha bloccato una mozione per sospendere l’accordo. Allo stesso modo, l’Italia potrebbe muoversi per chiedere la sospensione dell’Accordo di associazione UE-Israele, come già fatto da Irlanda, Slovenia e Spagna. L’interruzione dei rapporti tra Unione Europea e Stato ebraico sarebbe giustificata dagli stessi contenuti dell’Accordo, che si fonda sul rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, come sancito dalle premesse e dall’articolo 2 del testo. Malgrado ciò, il governo italiano si è sempre opposto a una simile misura, e martedì 15 luglio, l’UE ha deciso di non rivederlo.
Una iniziativa solida e motivata da diversi trattati internazionali è quella di impedire il transito portuale e aeroportuale di armi destinate a Israele. A farlo in Europa sono già state il Belgio e in numerose occasioni la Spagna. Il commercio e il transito di armi verso un Paese accusato di commettere crimini contro l’umanità vanno contro le disposizione della CIG e il Trattato sul commercio di armi (ATT), che prevede l’interruzione del commercio diretto e indiretto di attrezzature e tecnologie militari, comprese parti e componenti, «qualora vi sia il rischio concreto che tali attrezzature e tecnologie possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto umanitario internazionale o del diritto internazionale dei diritti umani». L’Italia tuttavia non ha mai impedito il transito di carichi di armamenti verso Israele, come successo a Venezia e in numerosi altri porti.
Un’altra misura possibile e dai risvolti concreti è quella di interrompere il commercio con le colonie, come richiesto da 9 Paesi europei. Tale misura andrebbe incontro al parere consultivo espresso dalla CIG nel luglio dell’anno scorso, secondo cui gli Stati avrebbero l’obbligo di astenersi da relazioni contrattuali, commerciali, diplomatiche, e politiche con Israele in tutti i casi in cui esso agisca nei territori occupati, o in cui farlo potrebbe consolidare la sua presenza nelle colonie. La presenza coloniale israeliana è stata dichiarata più volte illegale da risoluzioni vincolanti e non: tra le prime, si ricordi la risoluzione 446 del Consiglio di Sicurezza del 1979 che definisce gli insediamenti privi di «validità giuridica», sostiene che la pratica costituisce una «flagrante violazione del diritto internazionale», e chiede a Israele di interromperla. La risoluzione 2334 del 2016, la più recente tra le vincolanti, reitera questi stessi punti.
Ultime, ma non meno importanti, le sanzioni. In Europa, il Regno Unito ha approvato sanzioni contro colonie e coloni israeliani, Irlanda e Spagna hanno annunciato analoghe misure, mentre la Slovenia ha sanzionato e dichiarato personae non gratae i ministri estremisti Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir. Possibile oggetto di sanzioni sono anche Netanyahu e il suo ex ministro Yoav Gallant, verso cui la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati d’arresto internazionali; a invitare gli Stati a prendere in considerazione l’emissione di sanzioni è stata a più riprese anche la Relatrice Speciale per i territori palestinesi occupati, Francesca Albanese. L’Italia, tuttavia, si è sempre pubblicamente opposta a tale misura bloccando mozioni che chiedevano di metterla in atto. È successo lo scorso maggio, mentre a giugno Tajani ha definito l’ipotesi di sanzionare Israele una misura «velleitaria».
Non si arresta la campagna genocidaria di Israele contro la popolazione civile di Gaza. Secondo i primi dati forniti dal ministero della Sanità di Gaza, da giornalisti attivi sul posto e da fonti ospedaliere locali, nella sola giornata di oggi, sabato 13 luglio, l’esercito israeliano avrebbe ucciso almeno 50 persone. Di queste, almeno 32 sarebbero state uccise in un punto di distribuzione di aiuti umanitari a Rafah, in quello che viene descritto come uno dei peggiori massacri dall’apertura dei centri. Intanto, si aggrava anche la situazione umanitaria: le morti dovute alla carestia stanno aumentando vertiginosamente, e gli ospedali riportano di essere sempre più affollati di persone affette da problemi di malnutrizione.
Emanuela Loi ha ventiquattro anni ed è nata a Cagliari. Avrebbe voluto fare l’insegnante, ma nel giugno ’92, poche settimane dopo la strage di Capaci, entra nella scorta di Paolo Borsellino. Sarà la prima donna poliziotto a morire in servizio e l’unica a sorridere nella foto scattata poche ore prima dell’inferno. Alle 16:58 del 19 luglio 1992, Borsellino suona il campanello di casa della madre in via D’Amelio, civico 21. Qualcuno, a distanza, osserva la scena. Con un telecomando, vengono azionati novanta chili di tritolo che dilaniano asfalto e corpi.
Tra la polvere e le fiamme, un oggetto diventa subito la preda di mani frettolose: l’agenda rossa da cui Borsellino non si separa mai. È custodita nella sua inseparabile borsa di cuoio, rimasta sul sedile posteriore dell’auto blindata. Nessuno sa con certezza cosa vi sia annotato, ma tutti sanno cosa rappresenta: la verità che non deve venire a galla, i dialoghi più intimi con Giovanni Falcone, le piste e i nomi che avrebbero ricondotto tanto a uomini di mafia quanto a colletti bianchi dello Stato. Almeno due testimoni vedono un uomo in abiti civili chinarsi e raccogliere una borsa in pelle marrone: è quella del magistrato. Quella borsa ricomparirà sulla scrivania di Arnaldo La Barbera, ufficiale di Polizia e, senza che la magistratura lo sapesse, informatore dei servizi segreti.
Domenica, 19 luglio 1992
L’Italia del 1992 è quella di Tangentopoli, di Roberto Baggio e Totò Schillaci, ma anche quella delle stragi, dei misteri, delle convergenze oscure. Cosa Nostra si sente tradita: lo Stato ha stretto il cappio, e Falcone ne è l’esempio. Il 23 maggio, un’esplosione squarcia l’autostrada a Capaci. Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta muoiono sotto 500 chili di tritolo. Quando l’autostrada deflagra, Paolo Borsellino è nella bottega di Paolo Biondo, suo barbiere di fiducia. Poco dopo le 18, una telefonata di un collega lo avverte dell’attentato. I loro omicidi avverranno a 57 giorni di distanza. Durante questo lasso di tempo, Borsellino lavora senza sosta. Incontra pentiti, chiede documenti, collega piste. Le sue verità finiscono scritte in un’agenda rossa che porta sempre con sè.
Domenica, 19 luglio 1992. Nel pomeriggio, come ogni domenica in cui è a Palermo, Borsellino ha in programma una visita alla madre, che abita in Via Mariano D’Amelio, nel quartiere Fiera. Attorno alle 16:30, il convoglio che lo accompagna si mette in movimento: davanti la “staffetta” guidata dall’agente Vullo con Li Muli e Traina, al centro la Croma di Borsellino, dietro seguono gli agenti Catalano, Loi e Cosina. Via D’Amelio è una strada breve e chiusa, incassata tra palazzi alti e troppo vicini. Molte sono le auto parcheggiate a spina di pesce.
Alle 16:52 la Croma si ferma a pochi metri dal civico 21. Borsellino fa pochi passi verso il palazzo. A pochi metri di distanza, è parcheggiata un’utilitaria color rosso amaranto. Nessuno sa che in quel cofano ci sono novanta chili di Semtex-H, un esplosivo militare al plastico. Borsellino ci passa accanto per raggiungere il citofono. Lo suona e oltrepassa il cancelletto d’ingresso. Il codice per sbloccare la sicura della bomba viene inserito dal telecomando radio a lungo raggio. Alle 16:58, Giuseppe Graviano — boss di Brancaccio —, nascosto dietro un muretto in fondo alla stessa via, aziona il detonatore.
L’onda d’urto devasta la strada, disintegra le auto, fa scoppiare le finestre fino a centinaia di metri di distanza. Il cratere è di almeno 2,10 metri di diametro per 33 centimetri di profondità. Il fumo delle fiamme, nero e denso, è visibile da quasi ogni angolo di Palermo. Borsellino muore all’istante. Insieme a lui perdono la vita Agostino Catalano, vice sovrintendente, e gli agenti Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi e Vincenzo Li Muli. Solo l’agente Antonio Vullo, che non abbandona i mezzi ed impegnato nelle manovre di parcheggio, sopravvive. Resti umani vengono rinvenuti al primo e al secondo piano dei palazzi circostanti.
Nelle prime perizie sulla scena, tra una Giulietta e una Fiat Uno, la polizia scientifica trova un motore bicilindrico. È l’unico a non avere accanto la carcassa dell’auto da cui proviene. Tutti gli altri rottami parlano chiaro: motori e lamiere combaciano. Questo no. Dal codice di matricola si risale a quello del telaio: ZFA126A008781619. Negli archivi corrisponde a una Fiat 126, modello col bagagliaio nella parte davanti. È la chiave per ricostruire l’attentato. L’esplosivo fu nascosto nel vano anteriore della vettura che la deflagrazione ha polverizzato. Del posteriore, invece, resta qualche frammento color amaranto. Blocco motore e ruota di scorta erano stati rimossi per far spazio al tritolo. In quei minuti convulsi, la borsa di cuoio viene prelevata, passa dalle mani di Rosario Farinella, carabiniere e membro della scorta dell’allora deputato (e precedentemente PM al Maxiprocesso) Giuseppe Ayala, e consegnata a una persona non meglio identificata. Poi, tra le 17.20 e le 17.30, è nella disponibilità di un capitano dei Carabinieri, Giovanni Arcangioli, che venne ripreso mentre la portava all’uscita di via D’Amelio. La borsa ritorna poi inspiegabilmente nell’auto da cui era stata tolta, per poi essere prelevata dall’agente Francesco Paolo Maggi, che la porta in Questura, nella stanza del capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera. Sarà lui, alto funzionario della Polizia, il regista del più grande depistaggio nelle vicende di mafia in Italia.
Rutilius, l’uomo dei due mondi
Nei giorni successivi alla strage di via D’Amelio, Palermo vive un clima di terrore e di sfiducia: magistrati e poliziotti in rivolta, la famiglia Borsellino che rifiuta i funerali di Stato, l’esercito pronto a intervenire. Nel contesto di quell’emergenza, serve trovare al più presto un colpevole dell’eccidio. Il prefetto Luigi De Sena (nonchè capo del SISDE – il Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, l’allora servizio segreto civile italiano) assegna le indagini di polizia sulla strage al “gruppo Falcone-Borsellino”, guidato dal questore Arnaldo La Barbera. Nel giro di un mese, il responsabile della strage viene indicato in Vincenzo Scarantino, un 27enne analfabeta e piccolo spacciatore del quartiere popolare della Guadagna. Il racconto ufficiale lo dipinge come un professionista di Cosa Nostra: astuto organizzatore del furto dell’utilitaria usata per l’attentato, reclutatore di una piccola armata di criminali, partecipante di rilievo alle riunioni della Cupola.
L’ex questore Arnaldo La Barbera
Eppure, già la prima conferenza stampa del procuratore Giovanni Tinebra, capo della Procura di Caltanissetta incaricata a indagare sulla strage, lascia intendere quanto sia artefatta quella figura: «Scarantino non è uomo di manovalanza». Nessuno lo sa, ma a imbeccarlo, anche attraverso violenze fisiche, sono proprio i poliziotti di La Barbera. Quest’ultimo, come si appurerà, solo qualche anno prima dirigeva il Gruppo Investigativo Speciale (GIS) per le stragi e prestato servizio al SISDE con il nome in codice di Rutilius. Un conflitto d’interessi non da poco, considerando che in Italia, quando si seguono indagini per la Magistratura (organo indipendente, dotato di poteri propri), il Corpo di Polizia Giudiziaria non risponde più al Ministero dell’Interno ma alla Procura di competenza. Ogni attività (intercettazioni, perquisizioni, sequestri, interrogatori) deve essere convalidata dal pubblico ministero e le forze dell’ordine inquirenti non possono ricevere ordini dai vertici politici. In sintesi La Barbera, che doveva indagare su presunte falle nei servizi di sicurezza, è lui stesso parte di quel sistema. Le indagini, quindi, procedono a colpi di omissioni.
Scarantino, terrorizzato, confessa, ritratta, denunciapressioni subite dalla sua famiglia. Nei processi Borsellino 1, 2 e Ter, l’attendibilità di Scarantino viene tuttavia certificata da ottanta giudici fino alla Cassazione. In tre gradi di giudizio, le sue parole divengono prove definitive, sulla cui base molte persone vengono condannate all’ergastolo. Solo nel 2008 emerge la verità: Gaspare Spatuzza, killer di don Puglisi, si fa avanti come pentito e confessa di essere lui l’autore materiale della strage. Le sue dichiarazioni, supportate da riscontri puntuali, riscrivono la storia giudiziaria.
Dopo il processo di revisione e circa 18 anni di galera, gli uomini ingiustamente incarcerati sulla base delle parole di Scarantino vengono liberati. Le sentenze, prima tra tutte la “Borsellino Quater” del 2017, ci raccontano che il motore del depistaggio è stato proprio Arnaldo La Barbera, che da quel momento sale vertiginosamente i ranghi della Polizia: prima capo della squadra mobile di Palermo a questore di Napoli, poi prefetto e infine numero uno dell’UCIGOS, l’ufficio antiterrorismo della Polizia di Stato. Nelle motivazioni della sentenza è scritto nero su bianco che «Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Depistaggio frutto di «un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri».
Subito dopo la strage di via D’Amelio, viene convertito in legge il decreto 306 che introduce il regime sul “carcere duro” (articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario), fortemente promosso da Giovanni Falcone. È l’alba di un regime carcerario concepito per isolare il vertice mafioso, togliendo ogni possibilità di inviare ordini dal penitenziario. Allo stesso tempo, il Ministero dell’Interno lancia l’Operazione Vespri siciliani. Il 25 luglio 1992, centomila soldati dell’Esercito iniziano a installarsi nelle piazze, ai caselli autostradali e davanti alle prefetture dell’Isola. L’immagine è forte: plotoni di fanteria fiancheggiano le strade, i blindati vegliano sui centri urbani e i prefetti ricevono poteri straordinari per coordinare le forze di polizia. Uno scenario che si protrarrà fino al 1998.
Lo Stato infedele
Palermo, aprile 2015. Nell’aula del processo sono imputati gli ufficiali del ROS Mario Mori e Mario Obinu per la mancata cattura del super boss Bernardo Provenzano dell’ottobre 1995. A deporre è il colonnello Michele Riccio. Il suo racconto riporta indietro le lancette del tempo fino all’estate del 1993, quando la Direzione Investigativa Antimafia, guidata da De Gennaro, affida a Riccio la gestione di Luigi Ilardo. Si tratta di un mafioso che, avendo deciso di abbandonare la vita criminale, accetta di mettersi nelle mani dello Stato e infiltrarsi nelle pieghe di Cosa Nostra per svelarne i segreti. Ilardo, spiega Riccio, non si limita a disegnare la geografia interna dei boss: indica legami antichi e rievoca gli attentati attribuiti ai “settori deviati dello Stato” ben prima della stagione stragista mafiosa.
L’ex ufficiale dei ROS Mario Mori
Tra questi, anche il fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura, rispetto a cui lo stesso giudice parla di «menti raffinatissime», facendo il nome del numero 2 del SISDE, Bruno Contrada, ai suoi più stretti collaboratori. Lo stesso Contrada che la Procura di Palermo processa per concorso esterno, ottenendo, per i suoi accertati legami con gli uomini di Cosa Nostra, una condanna a 10 anni (giudicata nel 2017 ineseguibile e improduttiva di effetti penali dalla CEDU perché, a detta dei giudici, ai tempi il reato di concorso esterno non sarebbe stato adeguatamente “codificato” nell’ordinamento).
Ilardo racconta di aver fatto parte di quel contesto criminale vicino all’eversione di destra, intrecciato con apparati deviati. Il racconto viene però interrotto: il 10 maggio 1996, a Catania, Ilardo viene crivellato di colpi sotto casa. La Corte d’Assise stabilisce che l’omicidio è organizzato e portato a termine da Cosa Nostra catanese, suggerendo una fuga di notizie da ambienti istituzionali. L’omicidio avviene quando Ilardo era ormai pronto a entrare nel programma di protezione per i pentiti e a mettere ufficialmente a verbale le sue rivelazioni. Nel novembre 2015, al processo sulla Trattativa Stato Mafia, Riccio ribadisce che Ilardo ha visto nelle stragi del ’92-’93 l’eredità della stessa “strategia della tensione” degli anni di piombo, quando gruppi neofascisti e apparati deviati dello Stato seminavano il terrore per scardinare l’equilibrio politico del Paese.
Proprio mentre la legislazione antimafia si irrigidisce, subito dopo la strage di Capaci iniziava quella “improvvida” (ovvero sconsiderata) trattativa tra Stato e mafia portata avanti dai vertici del ROS dei carabinieri. Vi sono coinvolti Antonio Subranni (che poi si accerterà essere il responsabile del depistaggio sull’omicidio di Peppino Impastato, e che Borsellino seppe – ma non ve ne è ovviamente prova – essere “punciuto” da una fonte terza rimasta ignota prima di morire), Mario Mori (andato a processo per la disattivazione della sorveglianza del covo di Riina nelle ore successive al suo arresto e per la mancata cattura di Provenzano, quando lo stesso Ilardo glielo aveva consegnato su un piatto d’argento, uscendone assolto “perché il fatto non costituisce reato”) e il suo fidato braccio destro, Giuseppe De Donno. Questi scelsero di aprire un canale diretto di dialogo con Cosa Nostra tramite l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, in una prospettiva di do ut des — io do affinché tu dia. Mandati a processo per minaccia a corpo politico dello Stato, verranno condannati in primo grado a pene ingenti e poi assolti nei gradi successivi.
La mafia scopre Berlusconi
Nel 1992, scoppia Mani Pulite, inchiesta che scoperchia un enorme sistema di finanziamenti illeciti e travolge i principali partiti dell’arco costituzionale. La DC e il Partito Socialista collassano sotto il peso dei loro stessi scandali, mentre le piazze si riempiono di rabbia e speranza. È questo il momento di vuoto politico e di incertezza che, insieme alle stragi di mafia, segna il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica e agevola Cosa Nostra – pur colpita al fianco dal Maxiprocesso – a concettualizzare un contrattacco politico di vasta portata.
Dopo la caduta dei tradizionali referenti, occorre condizionare la transizione politica e negoziare nuovi assetti di potere. Nasce così la “Seconda Stagione” di guerra ibrida, tra i cui cervelli figurano Matteo Messina Denaro e i fratelli Graviano, architetti delle stragi del 1993 a Roma, Milano e Firenze. Dieci morti e centinaia di feriti sono le vittime del “Grande Ricatto” ordito dai boss. Come per dire: «Voi cambiate pelle, noi restiamo ossa. Sediamoci, o sarà di nuovo sangue». Da qui, il papello di Totò Riina — un manuale di istruzioni dirette allo Stato per fermare le stragi: abolizione del 41-bis, benefici penitenziari e riforme che depotenzino il ruolo dei pentiti. Parallelamente alle bombe, cresce l’ambizione di intrecciare rapporti diretti con la politica. Messina Denaro e Leoluca Bagarella ideano così Sicilia Libera, un partito mafioso da costruire aggregando movimenti autonomisti meridionali con l’appoggio operativo di personaggi dell’eversione nera e della massoneria deviata.
Il progetto naufraga quando emerge la notizia della discesa in campo di Silvio Berlusconi alle elezioni del 1994. Il Cavaliere non è uno sconosciuto a Cosa Nostra, anzi: è la perfetta via d’uscita per i boss in cerca di un interlocutore più forte e strutturato. Già nel 1974, difatti, come sancito da sentenze definitive, Berlusconi aveva stretto un patto con il boss Stefano Bontate, mediato dal suo braccio destro Marcello Dell’Utri. Per quasi vent’anni, l’imprenditore milanese versò, attraverso Dell’Utri, finanziamenti milionari a Cosa Nostra, in cambio di protezione personale ed economica.
Silvio Berlusconi con Marcello Dell’Utri
«Abbiamo l’Italia nelle mani, quello di Canale 5 scende in politica», confidava Giuseppe Graviano a Gaspare Spatuzza poco prima del fallito attentato allo Stadio Olimpico del gennaio 1994, che poi non venne replicato. È esattamente in quel periodo che nasce Forza Italia, un partito più capillare del sogno mafioso e, soprattutto, di respiro nazionale. Un partito che pone la fine al secondo capitolo delle bombe mafiose ma apre un’epoca nuova, fatta di silenzi, patti non scritti e nuove alleanze tra poteri occulti e istituzioni. Non c’è più bisogno di tritolo per negoziare: le stragi del ‘92-‘93, che avevano sconvolto l’Italia e spinto l’opinione pubblica a invocare giustizia, si chiudono con un’illusione di normalità.
Nel 2023 Silvio Berlusconi muore da indagato per le stragi del 1993. Nello stesso fascicolo c’è ancora il nome di Marcello Dell’Utri, il quale, secondo i magistrati, durante e dopo la sua detenzione per concorso esterno in associazione mafiosa, avrebbe mantenuto il silenzio sulle verità degli attentati. Il tutto dietro a lauti compensi – si parla di decine e decine di milioni di euro – elargiti alla sua famiglia da Silvio Berlusconi. Via D’Amelio resta così un simbolo, non solo del sacrificio di Paolo Borsellino e della sua scorta, ma anche di un segreto che continua a pulsare sotto l’asfalto, tra le crepe dei palazzi, nelle pagine mai ritrovate dell’agenda rossa. Un segreto che, forse, racconta come l’Italia abbia cambiato pelle senza cambiare ossa.
La Cassazione argentina ha annullato l’ordine di carcerazione per il 73enne Leonardo Bertulazzi, ex membro delle Brigate Rosse, disposta da un giudice a causa del rischio di fuga. Le ragioni sono l’età avanzata e il suo status di rifugiato, elementi dei quali si dovrà tenere conto nel nuovo pronunciamento. L’Italia ne aveva chiesto l’estradizione, autorizzata dalla Corte Suprema argentina lo scorso 1° luglio, ma si dovrà attendere ora il pronunciamento del tribunale amministrativo. L’uomo è stato condannato in contumacia a 27 anni per il sequestro di Pietro Costa, nel 1977, e per banda armata. Dal 2002 si trova in Argentina come rifugiato politico.
Nella giornata di ieri, 17 luglio, la Francia ha ufficialmente ceduto al Senegal le ultime due basi militari ancora in suo possesso nel paese. La cerimonia, che ha avuto luogo nella capitale Dakar, segna un momento storico: la Francia mette fine alla propria presenza militare permanente in Africa occidentale.
Durante una celebrazione che ha contato sulla partecipazione delle forze armate senegalesi e degli ufficiali francesi, il generale a comando dell’armata francese per l’Africa Pascal Ianni ha consegnato simbolicamente al generale Mbaye Cissé le chiavi del Camp Geille, la più grande installazione militare francese in Senegal.
Il ritiro era stato annunciato dal presidente senegalese Bassirou Diomaye Faye nel novembre del 2024, che in un’occasione aveva denunciato l’incompatibilità della presenza militare stabile di una potenza ex-coloniale straniera in un paese indipendente e sovrano. Differentemente da altri contesti geografici, questo cambiamento storico si è prodotto in maniera pacifica, e segna, come affermato dal presidente, l’inizio di un «nuovo partenariato» tra i due paesi.
Secondo quanto dichiarato dall’ufficiale Ianni durante la cerimonia, questo momento sottolinea la necessità di tessere nuove relazioni tra la Francia e lo stato subsahariano. Nonostante il Senegal avesse ottenuto l’indipendenza dalla morsa coloniale nel 1960, le forze francesi hanno mantenuto la propria presenza militare stabile sull’area. La giornata di ieri ha segnato un cambio epocale nell’equilibrio militare del territorio, che de facto è stato presidiato ufficialmente dai corpi militari francesi per oltre tre secoli.
Dal 2014 fino a questo momento, la missione principale dei 350 militari (di cui 260 permanenti) appartenenti agli Elementi Francesi in Senegal (EFS) prevedeva la conduzione di operazioni in cooperazione con le forze armate senegalesi. Alcune delle missioni principali nelle quali sono state impiegate le EFS dallo stato francese sono state l’Opération Serval, missione di sostegno all’esercito del Mali contro l’offensiva dei gruppi islamisti in Azawad, e l’Opération Barkhane, estesa su tutto il Sahel e finalizzata al contrasto dei gruppi jihadisti di Al-Qaida e ISIS. Dal 2022 la Francia ha gradualmente messo fine alla sua permanenza in Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad, mentre in Gabon ha trasformato il suo impegno militare in una gestione condivisa dell’ex-base di Libreville con le forze armate gabonesi, per scopi di addestramento.
A differenza degli altri paesi del Sahel, dove la Francia si è vista costretta ad abbandonare le basi a causa dell’espulsione imposta dalle giunte militari, il Senegal ha messo in atto un processo di affermazione concreta della propria sovranità nazionale, attraverso il quale si impegna a stringere relazioni con l’ex potenza coloniale riscrivendo le caratteristiche dell’antica gerarchia. Difatti il ritiro non prevede l’interruzione definitiva della collaborazione tra corpi armati.
Quest’avvenimento sottolinea ancora una volta il momento di grave crisi che la Francia vive in Africa. Difatti, la stessa Opération Barkhane, terminata nel 2022, fu definita da vari analisti come un fallimento, che con estrema probabilità potrebbe aver dato il via ad un processo di profonda sfiducia da parte delle popolazioni locali.
Sui social network hanno circolato per anni voci di attacchi militari francesi a danno degli alleati militari nell’area. Seppur smentiti dalla Francia, questi avvenimenti hanno in ogni caso alimentato tensioni e fatto crescere un sentimento antifrancese in tutta l’area. A questo si aggiungono le proficue collaborazioni tra giunte militari del Sahel e gli altri due elefanti nella stanza: la Russia e la Cina. L’appoggio alle operazioni militari portate avanti dal gruppo Wagner (assunte adesso dai corpi paramilitari russi Africa Corps) in chiave antioccidentale e i macroinvestimenti economici cinesi in ambito edilizio, minerario, industriale e d’esportazione, stanno sostituendo con una certa rapidità l’influenza che per secoli ha battuto bandiera francese.
Nonostante questo strappo si sia consumato in maniera pacifica, la Francia perde un altro bastione all’interno del suo panorama ex-coloniale. Questo momento rientra in una riscrittura totale degli equilibri ex-coloniali, tra i quali spicca la concessione alla Nuova Caledonia dello status di “stato” all’interno della repubblica francese. Dopo secoli di controllo ed eredità coloniale la Francia perde un altro tassello in Africa; oltre al campo base condiviso in Gabon, resta solo una base militare in Gibuti.
La Corte Suprema brasiliana ha emesso mandati di perquisizione e ordinanze restrittive contro l’ex presidente Jair Bolsonaro, accusandolo di avere favorito interferenze straniere da parte di Trump. La polizia federale ha fatto irruzione nell’abitazione dell’ex presidente e gli ha imposto di indossare una cavigliera elettronica. La Corte ha vietato a Bolsonaro di contattare funzionari stranieri, di usare social media, di avvicinarsi alle ambasciate e di abbandonare il Paese. Bolsonaro è sotto processo con l’accusa di aver pianificato un golpe per impedire all’attuale presidente Lula di insediarsi nel gennaio 2023. Trump ha chiesto al Brasile di fermare la «caccia alle streghe» contro Bolsonaro e ha minacciato dazi del 50% su tutti i prodotti.
Nel nord del Québec, sulla costa orientale della baia di Hudson, un remoto affioramento roccioso potrebbe custodire i frammenti più antichi mai identificati della crosta terrestre: è quanto emerge da uno studio condotto da un team internazionale guidato dal geologo canadese Jonathan O’Neil dell’Università di Ottawa, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Science. Utilizzando tecniche radiometriche alternative e di retrodatazione, gli scienziati hanno scoperto che alcune intrusioni – dette “metagabbriche” – nella cintura di rocce verdi di Nuvvuagittuq risalirebbero a 4,16 miliardi di anni fa. «Le rocce sono libri per geologi, e al momento ci manca il libro sull’Adeano», ossia l’unità geocronologica che rappresenta la prima suddivisione del tempo geologico nella storia del nostro pianeta. Ha commentato O’Neil, aggiungendo che la scoperta è avvenuta in un sito da tempo oggetto di controversie e che, se confermata, aprirebbe una finestra unica sull’inizio della storia geologica del nostro pianeta.
Il tentativo di ricostruire la storia geologica della Terra nei suoi primi istanti, spiegano gli esperti, è da sempre limitato dall’estrema rarità di rocce superstiti risalenti all’Adeano. Le uniche formazioni finora riconosciute come testimoni di quell’epoca, infatti, si fermavano ai 4,03 miliardi di anni del Complesso di Gneiss di Acasta. Nel sito di Nuvvuagittuq, emerso scientificamente solo nei primi anni 2000 ma mappato già negli anni ’60, le datazioni precedenti avevano prodotto risultati discordanti, in quanto alcuni geologi parlavano di 3,75 miliardi di anni, mentre altri spingevano fino a 4,3. Tuttavia, i metodi tradizionali basati sui cristalli di zircone – minerale usato comunemente per datare rocce antiche grazie al decadimento radioattivo dell’uranio – non sono applicabili a queste formazioni, povere di silicio e quindi prive di zirconi utili. Per superare questo limite, quindi, O’Neil e colleghi hanno adottato una tecnica alternativa, basata sul decadimento di isotopi del samario in neodimio, metodo già collaudato per la datazione dei meteoriti.
In particolare, gli autori hanno spiegato alle agenzie di stampa che la novità dello studio non sta solo nell’approccio metodologico, ma nella coerenza dei dati ottenuti: due isotopi diversi del samario forniscono due “orologi” distinti che convergono sulla stessa età, 4,16 miliardi di anni. Il dato, aggiungono, è stato ottenuto su intrusioni metagabbriche – un tipo di roccia metamorfica campionata nella cintura – le quali secondo gli autori rappresentano un residuo primitivo della crosta terrestre adeana. «È un dibattito su cosa stiamo misurando esattamente nel tempo, perché non possiamo usare lo zircone», spiega O’Neil, aggiungendo che, tuttavia, il loro lavoro ha convinto anche alcuni dei critici storici: Bernard Bourdon del Centre National de la Recherche Scientifique francese, infatti, ha definito lo studio come «notevolmente migliorato» rispetto al controverso lavoro del 2008. Altri, però, mantengono una certa cautela. Hugo Olierook della Curtin University ha sottolineato che l’uso di rocce intere, invece di minerali singoli, rende l’età più vulnerabile a eventuali alterazioni, mentre Jesse Reimink della Penn State University ha aggiunto che, con rocce così antiche, nulla può dirsi definitivo, anche se la scoperta è certamente degna di nota: «I tempi sono così lunghi e la storia di queste rocce e minerali è così travagliata che ricavare da essi anche solo informazioni primarie è davvero sorprendente». E sebbene le rocce datate non sembrino aver ospitato vita, concludono i coautori, formazioni sedimentarie adiacenti potrebbero conservare microfossili e strutture batteriche, alimentando l’ipotesi che la vita sia comparsa molto prima del previsto: «Le prove di una vita primitiva in queste rocce sedimentarie indicano che l’origine della vita può avvenire molto rapidamente», osserva Dominic Papineau dell’Accademia Cinese delle Scienze. La scoperta, insomma, non chiude il dibattito, ma apre nuovi potenziali scenari sul passato remoto della Terra e forse, chissà, anche sulla vita nell’universo che conosciamo.
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