lunedì 5 Maggio 2025
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Anche la Costa d’Avorio ha deciso di cacciare i militari francesi

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Il presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara, ha dichiarato che le truppe francesi dovranno iniziare a ritirarsi dal territorio del Paese a partire da gennaio 2025. Nelle dichiarazioni di rito, il presidente ha assicurato che l’ex padrone coloniale rimarrà un «importante alleato». Un approccio che mira ad essere conciliante nei modi, ma la cui sostanza è netta: le basi militari nazionali, a cominciare da quella di Port Bouet, saranno trasferite sotto il controllo ivoriano mentre i soldati francesi rimasti (che già erano stati ridotti a circa 100 unità dal migliaio di un tempo) dovranno lasciare il territorio. Si tratta di un altro chiodo sul poco che resta di quella che un tempo era la Françafrique, ossia il determinante potere d’influenza di Parigi sulle sue ex colonie africane.

La Costa d’Avorio è l’ultimo Stato dell’Africa occidentale che ha deciso di espellere le forze francesi dal suo territorio dopo Mali, Burkina Faso e Niger, tutte nazioni in cui, tra il 2020 e il 2023, si sono verificati colpi di Stato che hanno portato al governo giunte militari antioccidentali. Ma anche in Ciad e in Senegal i rispettivi governi hanno deciso che le truppe francesi non sono più utili alla sicurezza del territorio invitando i contingenti a lasciare le basi del Paese. Nello specifico, il Mali ha decretato l’espulsione delle truppe francesi nel 2022, seguito dal Burkina Faso e dal Niger nel 2023. Nel dicembre del 2024, invece, ministro degli Esteri del Ciad, Abderaman Koulamallah, aveva annunciato la fine dell’accordo di cooperazione in materia di difesa con la Francia, spiegando che la decisione «fa parte dell’impegno del Capo di Stato davanti al popolo sovrano» ed è un modo per «affermare la nostra sovranità». Anche il presidente senegalese, Bassirou Diomaye Faye, durante il discorso di fine anno, ha ribadito – con un tono ancora più aspro rispetto a quello del presidente avoriano –  «la chiusura di tutte le basi francesi nel paese», dopo la richiesta formale, di fine novembre, da parte di Dakar. Parallelamente alla cacciata dei contingenti francesi in tutta l’area del Sahel, si sta affermando sempre di più la presenza di altre potenze antagoniste dei Paesi occidentali, come Russia e Cina, viste come un’alternativa vantaggiosa all’ingombrante presenza neocoloniale delle nazioni occidentali.

I contingenti francesi erano presenti nella regione del Sahel fin dal 2014 con l’obiettivo di combattere i numerosi gruppi jihadisti attivi da anni nell’area, all’interno della cosiddetta “operazione Barkhane”. Tuttavia, dopo gli iniziali risultati positivi nel combattere il terrorismo, la situazione peggiorò rapidamente, poiché le attività dei jihadisti ripresero slancio con attacchi anche molto violenti, in particolare ai confini tra Mali, Burkina Faso e Niger. Inoltre, le truppe francesi divennero sempre più malviste dalla popolazione locale e l’operazione viene considerata a tutti gli effetti un fallimento da parte dei Paesi africani. L’aumento dell’instabilità nel Sahel a causa del terrorismo era stato uno dei motivi che ha portato al colpo di Stato in Mali nel 2020, in seguito al quale i rapporti con la Francia sono rapidamente peggiorati.

L’insuccesso dell’operazione Barkhane unitamente all’approccio predatorio francese nei confronti delle risorse naturali del Continente nero hanno velocemente aumentato il risentimento delle popolazioni locali nei confronti degli ex colonizzatori. Il risultato è stato un rapido mutamento politico nei Paesi dell’Africa Subsahariana, il cui obiettivo è quello di riacquisire la sovranità sul sistema economico, monetario e sulle risorse naturali. Proprio a tal fine, Niger, Mali e Burkina Faso hanno firmato un trattato con il quale hanno dato vita alla Confederazione degli Stati del Sahel, volta a creare una comunità libera dal controllo di potenze straniere. La recente decisione della Costa d’Avorio di espellere le truppe francesi, dunque, rappresenta solo l’ultimo tassello di un processo più ampio che vede l’Africa occidentale protagonista di un movimento per liberarsi delle potenze occidentali – non solo la Francia, ma anche gli Stati Uniti – e acquisire così la propria sovranità.

[di Giorgia Audiello]

Montenegro: un uomo ha ucciso dodici persone dopo una rissa

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In Montenegro, un uomo ha ucciso 12 persone aprendo il fuoco con una pistola in seguito a una rissa. L’aggressione è avvenuta ieri pomeriggio a Cetinje, nel sud-ovest del Paese, a circa 30 chilometri dalla capitale Podgorica. L’uomo, identificato dalla polizia come Aleksandar Aco Martinovic, di 45 anni, è fuggito e ha aperto il fuoco in altri tre luoghi, uccidendo altre otto persone, di cui due bambini. Martinovic sarebbe in seguito morto per ferite autoinflitte. Secondo gli ultimi aggiornamenti della polizia, le vittime avevano tutte stretti legami con l’individuo. Restano ignoti sia il movente degli omicidi sia la causa della rissa.

Una sentenza mette a rischio il diritto al riutilizzo creativo nella moda

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Una causa lanciata, e vinta, dal colosso delle borse Louis Vuitton contro uno stilista coreano di nome Lee Kyung-han potrebbe segnare uno spartiacque nel mondo della moda indipendente, che si muove attraverso i concetti del riutilizzo creativo. L’Alta Corte per la proprietà intellettuale di Seul ha infatti condannato Lee a pagare 15 milioni di won (l’equivalente di circa diecimila euro) al marchio francese per aver riutilizzato parti di borse griffate per creare nuove produzioni. Una sentenza che condanna quello che, nel mondo della moda, si chiama “upcycling”, ossia il processo creativo che mira a ridare vita a tessuti di scarto trasformandoli in nuovi prodotti di qualità uguale o superiore all’originale. Un processo che si basa spesso sull’utilizzo di resti o parti di prodotti dei marchi dell’alta moda.

Il caso Lee e la pratica dell’upcycling

Dal 2017 al 2021 il designer Lee Kyung-han si è dedicato alla creazione di borse e accessori partendo da materiali Louis Vuitton usati e forniti dai clienti stessi. Per chi si occupa di customizzazioni e trasformazione di prodotti già esistenti, partire da materie prime usate, scartate o semplicemente non più in linea con le esigenze dei clienti (magari per taglia o gusti personali), è una pratica comune. Tra gli oggetti e gli abiti a disposizione, spesso capitano anche quelli di grandi marchi della moda e del lusso. In questo caso, però, il colosso francese non ha apprezzato le rielaborazioni di Lee, accusandolo di aver creato prodotti che potevano essere confusi come originali dai consumatori, poiché presentavano il logo del marchio. Gli avvocati di Lee hanno sostenuto che si trattasse di una causa infondata, in quanto gli accessori in questione erano stati interamente riprogettati, cambiando spesso funzione e forma. Una tesi difensiva che è stata tuttavia rigettata dalla corte, con una doppia aggravante: quella del prezzo, secondo cui i prodotti «vengono venduti a prezzi elevati nel mercato dell’usato e hanno valore come oggetti indipendenti», e quella secondo cui, essendo realizzati così bene da sembrare nuovi, potevano trarre in inganno i consumatori, che «possono confondere i prodotti con quelli realizzati da Louis Vuitton». È scattata quindi la richiesta di risarcimento danni, oltre a un provvedimento che impedisce a Lee di utilizzare nuovamente materiali del marchio francese per le sue creazioni.

La dottrina della prima vendita

Gli avvocati dello stilista hanno già annunciato ricorso, dichiarando: «Questa è una sentenza irragionevole che ignora i diritti dei consumatori e criminalizza di fatto tutte le forme di riutilizzo dei prodotti, dalle modifiche di vestiti e borse alla personalizzazione delle auto». La risposta dei legali di Lee chiama in causa una norma internazionalmente riconosciuta: la dottrina della prima vendita. Si tratta di un concetto giuridico che affonda le sue radici agli inizi del ‘900 (1908, Stati Uniti, caso Bobbs-Merrill Co. contro Strauss) e che svolge un ruolo fondamentale nel mondo della proprietà intellettuale e del commercio. La norma tutela il diritto delle persone a disporre dei beni acquistati legalmente senza violare i diritti del proprietario del marchio o del copyright, rivendendoli, prestandoli o modificandoli.

In pratica, una volta che il titolare del copyright vende una copia del proprio prodotto o opera, perde il controllo sulle vendite successive: una volta tratto il profitto iniziale, il marchio non può continuare a “spremere lo stesso limone” all’infinito. In questo modo si tutelano sia i diritti dei consumatori, che possono disporre dei prodotti per cui hanno pagato come meglio credono, sia il libero commercio nei mercati secondari (come i negozi dell’usato), bilanciando gli interessi tra i diritti di chi crea il prodotto e quelli di chi lo acquista.

Come per ogni norma, esistono sfumature e casi specifici, soprattutto quando si entra nel campo dei prodotti digitali. Tuttavia, per la merce con marchio registrato, i proprietari possono controllare «la qualità e la reputazione associata al marchio», intervenendo sulla rivendita di prodotti contraffatti o scadenti. La domanda sorge dunque spontanea: il processo creativo di rielaborazione di un prodotto da parte di un designer può essere davvero equiparato a una banale contraffazione?

A giudicare dalla sentenza, sembrerebbe proprio di sì. Questo allarma tutto il settore che si occupa di trovare soluzioni creative per una moda circolare, considerando i danni dovuti alla sovrapproduzione causata dai marchi in questione. Il caso di Lee non è isolato, e le battaglie legali dei grandi marchi contro i designer impegnati nell’upcycling stanno spuntando come funghi. Le grandi aziende del lusso e dell’abbigliamento sportivo stanno cercando di reprimere i tentativi «da parte di terzi di allinearsi impropriamente con – e trarre profitto da – l’attrattiva di questi marchi noti facendo un uso non autorizzato dei loro marchi di fama mondiale».

Oltre a Louis Vuitton, anche Chanel, Nike, MSCHF e Rolex hanno avviato cause simili. Questa scelta di battagliare contro singoli progettisti e piccoli marchi indipendenti solleva sospetti: più che proteggere il proprio marchio, sembrerebbe dettata dalla paura che le persone possano preferire affidarsi a un designer emergente per modifiche o restauri di oggetti esistenti, invece di spendere cifre astronomiche (e spesso immotivate) per prodotti dal vago sentore di lusso.

Se tutti i brand dovessero iniziare a intentare cause contro gli upcycler, si rischierebbe di mettere in pericolo un’arte che rappresenta anche una delle soluzioni più auspicabili per una moda circolare a basso impatto, in cui l’esistente non viene buttato ma diventa una risorsa e una materia prima.

[Marina Savarese]

Tunisia, naufragano due imbarcazioni: 27 migranti morti

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Al largo della Tunisia, dopo un naufragio di due imbarcazioni davanti alle coste di Kerkennah, sono stati recuperati i corpi senza vita di 27 migranti di diverse nazionalità che cercavano di raggiungere le coste italiane. 83 le persone tratte in salvo dalle autorità tunisine. Il direttore della Protezione civile di Sfax ha dichiarato che il numero totale dei migranti a bordo delle due imbarcazioni – una delle quali si è capovolta, mentre l’altra è colata a picco – era di 110, aggiungendo che 5 delle persone soccorse sono state portate all’ospedale regionale Slim Hadri.

“Era nella black list israeliana”: la polizia italiana lo ammanetta e lo picchia

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Trascinato giù dall’aereo e picchiato dalla polizia italiana il giorno di Natale: è quanto ha denunciato Stephane Omeonga, calciatore belga militante in una squadra della serie B israeliana con un passato in formazioni italiane come Avellino, Genoa e Pescara. L’incidente si è verificato su un volo Bruxelles-Tel Aviv della compagnia Blue Bird Airways, in transito a Fiumicino. Secondo le autorità, Omeonga era stato inserito nella “black list” di Israele e per questo motivo avrebbe dovuto lasciare il velivolo. Tuttavia, il calciatore ha accusato la polizia di aver usato violenza nei suoi confronti in un post pubblicato sui social, corredato da un video girato da un passeggero in cui si vedono uomini in divisa costringerlo ad alzarsi prendendolo per il collo e portarlo fuori a forza dall’aereo.

«Il 25 dicembre sono stato vittima della brutalità della polizia. Durante un volo tra Roma e Tel Aviv, dopo essere salito a bordo e aver preso posto, uno steward mi ha avvicinato per un presunto problema con i miei documenti e mi ha chiesto di lasciare l’aereo – ha ricostruito il calciatore del Bnei Sakhnin, club noto per avere nelle sue file sia calciatori ebrei sia arabo-israeliani, in un post diramato su Instagram –. Confidando nella validità dei miei documenti, gli ho chiesto con calma che tipo di problema fosse. È stata chiamata la polizia e io sono stato ammanettato e portato via con la forza dall’aereo. Una volta fuori dall’aereo, lontano dalla vista dei testimoni, la polizia mi ha violentemente gettato a terra, mi ha picchiato e uno di loro ha premuto il ginocchio contro la mia testa». Lo scritto è accompagnato da un filmato in cui si vede la polizia salire a bordo del velivolo e trascinarlo fuori. Racconta ancora il giocatore: «Sono stato poi portato in un veicolo della polizia, ammanettato come un criminale, fino all’aeroporto. È arrivata un’ambulanza, ma in stato di shock non ero in grado di rispondere alle domande dei paramedici. Poco dopo, dalla radio dell’auto della polizia ho sentito dire: “Ha rifiutato le cure mediche, va tutto bene”. Questo era completamente falso, ho chiesto di portarmi in ambulanza con loro spaventata da ciò che la polizia avrebbe potuto farmi». La vicenda, per come raccontata da Omeonga, avrebbe visto dei risvolti ancora più inquietanti. Il giocatore ha infatti riferito di essere stato portato in una stanza, senza cibo né acqua, e «lasciato in uno stato di totale umiliazione per diverse ore». Dopo il rilascio, scrive ancora il calciatore, «ho saputo che un agente di polizia aveva sporto denuncia contro di me per le ferite presumibilmente causate durante l’arresto, nonostante fossi ammanettato. Inoltre, a tutt’oggi, non ho ricevuto alcuna giustificazione per il mio arresto».

Nella parte finale del suo lungo post, il giocatore critica la presunta matrice discriminatoria dell’intervento delle forze dell’ordine: «Come essere umano e padre, non posso tollerare alcuna forma di razzismo. Questo episodio è solo la punta dell’iceberg: molti come me subiscono discriminazioni quotidiane», ha concluso Omeonga, per poi invitare alla riflessione su temi di giustizia e uguaglianza. Fonti della Polizia sostengono invece che l’intervento sia avvenuto nel rispetto delle procedure, precisando che la Polaria – polizia di frontiera aerea – sarebbe intervenuta su richiesta del capo scalo e del comandante della compagnia aerea, in quanto il nome di Omeonga figurerebbe sulla “black list” di Israele e, dunque, l’uomo non sarebbe gradito in quel Paese. Le medesime fonti hanno riferito che, prima dell’intervento sul velivolo, sarebbe andata in scena una mediazione durata circa 40 minuti, e che subito dopo Omeonga sarebbe stato portato negli uffici della polaria di Fiumicino e denunciato per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. In seguito alla pubblicazione del post, il giocatore rischia anche una denuncia per diffamazione. Al contempo, l’uso della forza da parte della polizia, se confermato dalle immagini e dalle testimonianze, potrebbe risultare sproporzionato, così come la presunta decisione di non fornire acqua o cibo a Omeonga durante la detenzione temporanea potrebbe costituire una violazione dei suoi diritti. Dato lo spaccato della controversa vicenda, non è dunque escluso che la magistratura possa aprire un fascicolo.

[di Stefano Baudino]

I BRICS si allargano: altri nove stati entrano nell’alleanza che sfida l’egemonia USA

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Bielorussia, Bolivia, Cuba, Indonesia, Kazakistan, Malesia, Thailandia, Uganda e Uzbekistan. Sono questi i nove Paesi che, a partire da ieri, 1° gennaio 2025, sono diventati partner del blocco BRICS, il raggruppamento di quelle che una volta venivano definite economie emergenti, che sfida l’egemonia statunitense. A questi, comunicava l’annuncio della presidenza russa sul loro aggiornamento di status, potrebbero aggiungersene altri quattro, a cui il gruppo ha mandato un invito di partenariato. Con l’inclusione dei nuovi membri con l’inedita posizione di partner, sostiene una nota diffusa dal ministero dello Sviluppo Economico russo, i BRICS rappresenteranno il 36% del PIL mondiale, il 37% del commercio globale e il 40% della produzione petrolifera globale. Il gruppo rappresenta il 47% della popolazione mondiale e i Paesi che vi fanno parte coprono una superficie complessiva di circa 40 milioni di chilometri quadrati.

L’annuncio che Bielorussia, Bolivia, Cuba, Indonesia, Kazakistan, Malesia, Thailandia, Uganda e Uzbekistan sarebbero entrati a far parte dei partner del blocco BRICS è arrivato venerdì 27 dicembre, ma era stato preannunciato qualche giorno prima dalla presidenza di turno russa. Il Cremlino, inoltre, ha comunicato che altri quattro Paesi hanno ricevuto l’invito formale a diventare partner della coalizione, senza tuttavia specificare quali siano. Con l’avvio del nuovo anno, dunque, i BRICS si arricchiscono di nove nuovi alleati, che vanno ad aggiungersi agli altrettanti già presenti. Lo statuto di partner è stato introdotto nell’ultimo vertice del gruppo, tenutosi a Kazan, in Russia, e prevede la collaborazione su progetti specifici, accordi economici o cooperazione su temi di interesse comune, e la possibilità di essere invitati ai summit, senza tuttavia potere decisionale e di voto.

A partire da ieri, inoltre, la presidenza di turno è passata nelle mani del Brasile, che ha celebrato gli sforzi russi nell’ampliamento del gruppo. «La sfida principale della presidenza brasiliana», scrive una nota del Paese condivisa anche dall’agenzia di stampa governativa russa TASS, «sarà quella di iniziare a lavorare sulla nuova piattaforma e invitare i Paesi interessati agli eventi BRICS». «Pertanto, il lavoro sulla creazione di sistemi di pagamento alternativi e di sistemi di regolamento alternativi continuerà durante tutta la presidenza brasiliana. La presidenza brasiliana spingerà inoltre per un ruolo maggiore del Sud del mondo nella governance globale». Questi due punti sembrerebbero richiamare proprio il vertice di Kazan, in cui i Paesi membri hanno rilasciato una dichiarazione in cui annunciano la loro intenzione di avviare una «infrastruttura finanziaria alternativa» e di voler riformare il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nell’ottica di una maggiore rappresentatività.

Il gruppo BRICS è stato fondato nel 2006 da Brasile, Russia, India e Cina, a cui si è unito il Sudafrica nel 2011 (da cui l’acronimo “BRICS”). Il 1º gennaio 2024, Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti sono diventati membri a pieno titolo dell’associazione. Con l’estensione del titolo di partner agli ultimi nove Paesi, l’alleanza si estende a ex territori di pertinenza sovietica, si allarga in Africa e Sudamerica e coinvolge i suoi primi territori del Sud-Est asiatico e dell’America Centrale. Cuba aveva chiesto di entrare a far parte dei BRICS lo scorso ottobre, poco prima del vertice di Kazan. Per l’isola caraibica questa è un’opportunità per uscire dalla crisi economica dovuta, tra le altre cose, alle dure sanzioni statunitensi che cingono il Paese da anni. Tra diffusi blackout, crisi energetica e monetaria, il 2024 è stato un anno difficile per Cuba. In questo quadro, l’assunzione dello stato di partner dei BRICS rileva il tentativo di svincolarsi dai mercati a cambio fisso col dollaro, avvicinandosi piuttosto a Paesi lontani dagli USA e ad alleanze commerciali che adottano sistemi di scambio diversi, nonché quello di aprire a nuovi investimenti russi e cinesi (che hanno avuto un peso rilevante nello sforzo di gestire la crisi energetica dell’anno appena chiuso), e di accedere a un vasto mercato dell’energia.

[di Dario Lucisano]

L’Autorità Nazionale Palestinese chiude i canali di Al Jazeera

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L’Autorità Nazionale Palestinese, l’organismo politico palestinese che governa la Cisgiordania, ha ordinato la sospensione delle trasmissioni dell’emittente qatariota Al Jazeera in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, accusandola di realizzare e diffondere «reportage caratterizzati da disinformazione e incitamento alla sedizione». La decisione dell’esecutivo della Cisgiordania segue un’ampia campagna portata avanti da funzionari dell’ANP e gruppi affiliati, che prendeva di mira la copertura mediatica di Al Jazeera relativa ai recenti scontri tra le forze di sicurezza palestinesi e i gruppi di resistenza del campo profughi di Jenin. Il 5 dicembre l’ANP ha infatti dato avvio a un’operazione per attaccare e disarmare le brigate di Jenin, tra le più importanti della resistenza palestinese.

UE, la presidenza del Consiglio passa alla Polonia

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Dopo il semestre ungherese, la Polonia di Donald Tusk assumerà la guida della presidenza del Consiglio dell’Unione Europea, sotto lo slogan «Sicurezza, Europa!». Tusk prevede di organizzare oltre 300 riunioni ufficiali, 22 consigli informali dei ministri comunitari, e circa 200 eventi. Secondo il programma della presidenza polacca, Varsavia «sosterrà le attività di rafforzamento della sicurezza europea in tutte le sue dimensioni: esterna, interna, informativa, economica, energetica, alimentare e sanitaria». Il Paese alla presidenza del Consiglio dell’UE varia ogni sei mesi (dal 1° gennaio al 30 giugno e dal 1° luglio al 31 dicembre), e ha il compito di guidare il lavoro dell’organo e di rappresentare gli Stati membri davanti alle altre istituzioni dell’UE.

New Orleans, auto piomba sulla folla: almeno 10 morti

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Almeno dieci persone sono morte e altre 30 sono rimaste ferite dopo che un automobile, nelle prime ore del mattino, ha investito la folla in Bourbon Street, nel quartiere francese di New Orleans. Lo ha reso noto la polizia all’emittente Abc News, parlando di atto intenzionale. Secondo le prime ricostruzioni, l’uomo alla guida del veicolo, dopo essersi lanciato ad alta velocità contro le persone che affollavano la zona turistica della città, tra Canal e Bourbon Street, è sceso dal mezzo e ha iniziato a sparare.

 

Kiev conferma lo stop del gas russo in Ucraina

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A partire da oggi, mercoledì 1 gennaio, le forniture di gas russo all’Europa attraverso l’Ucraina sono definitivamente cessate, a seguito della scadenza del contratto quinquennale firmato tra le due parti nel 2019. Lo conferma il Gestore del Sistema di Trasporto del Gas dell’Ucraina (OGSTU) e la società russa Gazprom, che ha dichiarato: «Dato che l’Ucraina ha ripetutamente e chiaramente rifiutato di estendere questi accordi, Gazprom è stata privata della capacità tecnica e legale di fornire gas per il transito attraverso l’Ucraina dal 1° gennaio 2025». Le forniture si sono interrotte alle ore 8:00 di Mosca, ovvero le 6:00 italiane.