Sono ormai trascorsi dieci giorni da quando le strade di Paiporta e molti altri paesi della Comunità Valenziana si sono trasformate in fiumi di fango in piena. Da quella sera, quando l’acqua del Barranco del Poyo ha iniziato a invadere ogni cosa, frantumando ogni ostacolo sul suo cammino, questi paesi non sono più gli stessi. Ci si chiede quando, e soprattutto se, torneranno ad essere come prima. Raggiungere Paiporta non è semplice. Le uscite dell’autostrada V-30, che divide la città di Valencia dalla sua periferia meridionale, sono presidiate dalle pattuglie della Guardia Civil che centellinano il passaggio di automobili, lasciando la precedenza ai mezzi speciali dei corpi d’emergenza. Inoltre, i ponti che collegano la capitale della comunità valenziana con gli altri paesi colpiti, Benetússer, Alfafar e Sedaví, sono spesso chiusi. Ma per quanto sia tecnicamente complesso raggiungere i paesi maggiormente colpiti dall’alluvione, perdersi è praticamente impossibile: la marcia costante dei volontari indica il percorso.
La maniera più rapida e diretta per arrivare nei paesi di Picanya e Paiporta è percorrere il ponte che dal quartiere valenziano di Jesús porta verso sud, attraversando il maestoso fiume Túria, che attualmente non è altro che un’infinita distesa di fango. Il cammino verso Paiporta sembra essere un viaggio dantesco; metro dopo metro il paesaggio si fa più impervio, dagli orti ricoperti di fango sbucano piccoli arbusti e gli alberi ospitano tra le proprie fronde detriti di ogni tipo, tra questi anche i frutti. È la stagione della raccolta delle arance.
«Stiamo portando delle banane; la frutta si decompone più rapidamente, quindi scarseggia» mi racconta Wainny, una ragazza venezuelana che vive a Valencia, mentre mi accompagna lungo il tragitto. «È il terzo giorno di fila che veniamo a dare una mano. La situazione potrà tornare alla normalità solo se si uniranno altri volontari e se si organizzeranno una volta per tutte le istituzioni pubbliche e private». Lungo il percorso, il panorama sembra anticipare con una paradossale dolcezza ciò che Paiporta ci presenterà, dopo qualche centinaio di metri, con una brutale crudezza. I convogli dei treni accartocciati, i container riversi sui lati e un gruppo di lavoratori delle ferrovie intenti a rimuovere le automobili dai binari rappresentano concretamente l’incomunicabilità infrastrutturale tra questi paesi e la capitale. Un luogo che fino a qualche giorno fa era raggiungibile in pochi minuti di treno adesso sembra essersi congelato in un’altra dimensione.
A pochi metri dall’ingresso l’aria inizia ad essere irrespirabile, lo sfrecciare sulla strada dei mezzi di soccorso crea una nube di terra e polvere, e la mascherina, ricordo di passati momenti d’emergenza, ritorna ad essere necessaria. Le file di volontari si fanno più fitte, mentre ai lati della strada si iniziano ad incontrare i primi resti delle automobili sventrate dalla forza dell’acqua. Rivoli di fango ricoprono le strade e numerosi volontari aspettano in fila gli autobus per muoversi verso gli altri paesi o per tornare a casa. Agli incroci delle strade si possono osservare i primi punti di raccolta, dove vengono consegnati viveri, strumenti da lavoro e prodotti per la pulizia; in un angolo centinaia di stivali da bambino, e in minor quantità da adulto, sono messi a disposizione per chi ne ha bisogno.
«Non addosserò la colpa a nessuno, ma sicuramente ci sono delle responsabilità da assumere. È chiaro che nel futuro, né io, né i volontari, né chi sta vedendo tutto questo attraverso i social network, tornerà ad essere come prima. Questa storia ci sta cambiando» mi confessa Wainny prima di salutarci.
Non appena si entra nel paese, ci si rende rapidamente conto di quanto la situazione sia disperata. Nonostante siano già intervenuti i soccorsi dei corpi speciali, dopo giorni di lavoro incessante dei volontari, in alcuni punti delle strade principali i piedi spariscono completamente sotto il fango, rendendo complicato ogni movimento. La viabilità peggiora quanto più ci si addentra tra le vie del paese, e ogni angolo, incrocio o piazza appare spaventosamente uguale a se stesso. Stessi detriti, stesso fango, stesso panorama.
«Paiporta è decisamente il punto messo peggio. In altre zone qualche locale quantomeno è riuscito a riaprire, qui le condizioni sono ancora gravissime» mi racconta un gruppo di ragazzi tra i 17 e i 19 anni arrivati in mattinata da Castellón. «Onestamente non ci aspettavamo che la situazione fosse così grave» lamenta uno di loro. Poco distante, un’altra volontaria li invita a mangiare, offrendo loro una porzione di spaghetti e del pane. Fumata un’ultima sigaretta, riprendono in mano le pale e si allontanano verso altri punti.
Il sole illumina la superficie ocra del fango che con il tempo inizia a seccare, dando quasi la percezione di formare un cammino perfettamente liscio; in questi punti, si rischia di sprofondare anche di un metro, in quanto la melma sottostante resta umida, lasciando proliferare ulteriormente batteri e infezioni. In tutto il paese aleggia un fetore di fango e melma, che impregna i vestiti e persiste a lungo nelle narici di chi rimane a Paiporta.
In altri punti si possono osservare squadre di volontari che, simultaneamente, attraversano perpendicolarmente le strade con degli spazzoloni, spingendo per vari metri il fango verso i tombini aperti. Non appena raggiungono il tombino, ritornano compatti al principio della via, ripetendo più volte l’operazione, sotto gli occhi dei residenti appoggiati sui davanzali dei balconi. In quegli occhi lo sguardo è tanto orgoglioso, quanto spesso assente. In alcuni crocevia tra i detriti accumulati dinanzi alle case e il fango, i residenti non hanno ancora la possibilità di scendere dai piani alti dei palazzi, ancora una volta, l’intervento dei volontari, che portano cibo e beni di prima necessità, diventa imprescindibile.
Una delle principali piazze del paese, ristrutturata durante l’anno e inaugurata solo cinque mesi fa, si è trasformata in un punto di accumulo, dove alte pile di detriti si stagliano dinanzi alla chiesa di Sant Jordi. Qui un bambino attende in piedi mentre sgranocchia delle caramelle gommose. «Io abito poco più avanti, qui c’è il mio negozio» mi racconta Juan davanti alla serranda semiabbassata di un negozio di casalinghi. «Adesso nella mia scuola solo il patio principale è libero, ma lì stanno regalando cose per le persone». I bambini dei vari centri abitati colpiti dall’alluvione da dieci giorni non hanno la possibilità di andare a scuola, ed è chiaro che loro sono tra i più colpiti da questa tragedia. Ancora in stato di shock, i più piccoli aspettano sugli usci, intrattenendosi con i giochi portati dai volontari, mentre i genitori sono intenti a pulire e rimettere in ordine quel poco ancora utilizzabile. In attesa che gli venga restituito il diritto alla propria infanzia, questi bambini sono chiaramente lontani da una comprensione razionale della situazione: assorbono il dolore delle persone che li circondano, magari consci di aver perso qualcuno che non rivedranno alla riapertura delle scuole. «Certo che mi piacerebbe tornare a scuola, ma adesso bisogna aiutare» chiosa Juan, tenendo tra le mani le sue caramelle di gomma.
Davanti alla stazione della metropolitana che collega Paiporta a Valencia, il paesaggio lasciato dall’incursione della DANA è desolante. L’ingresso della stazione è ricoperto da rami, fango e residui di ogni tipo, i tornelli cosparsi di vetri frantumati e fuori, tra le banchine, i binari della metropolitana sono divelti e a piegati su se stessi. Sul marciapiede adiacente un volontario si accende una sigaretta, adagia la pala al suo fianco e riposa le gambe dopo il pomeriggio di lavoro.
«Io sono qui da lunedì. Dopo aver trovato un posto dover stare ed essermi organizzato con il materiale necessario, ho preso un bus notturno e sono arrivato. Siamo stati ad Aldaia, abbiamo portato alimenti a Benimaclet e adesso sono tre giorni che stiamo aiutando qui a Paiporta» mi racconta Aitor, un ragazzo di Alicante. «È vero che tra qualche giorno limiteranno gli accessi ai volontari, ma fino a quando non arriva quel giorno, per favore, continuate a venire». Mentre Aitor accennava alle limitazioni, un mezzo dell’esercito si muoveva con un megafono, diffondendo le comunicazioni del comune di Paiporta, che annunciava l’arrivo dei mezzi pesanti per il sabato seguente (9 novembre) e invitava i volontari ad evitare di raggiungere il paese. «Domani alle 18.30 ci sarà la manifestazione e bisogna partecipare, continuare con la lotta e soprattutto non possiamo lasciare che questo passi come se nulla fosse, dobbiamo far sì che cambi questo governo. Perché continuano a nascondere la realtà e a dire che sono stati loro ad essere intervenuti, ma non è vero. Stanno iniziando ad arrivare i militari solo adesso, che va benissimo, ma che non mentano, perché non sono loro ad aver pulito, ma i volontari».
Ciò che si osserva con maggiore evidenza è la frustrazione della popolazione, tanto dei residenti, quanto dei volontari. Difatti, ciò che tutte le persone affermano con rabbia è il grave ritardo dei soccorsi e l’inoperosità del governo valenziano e del governo spagnolo. Per quanto attualmente per le strade si possano osservare numerosi mezzi militari, non solo valenziani, ma di molte altre comunità autonome, in molti hanno specificato che queste squadre di soccorso sono arrivate solo tre giorni fa, a più di una settimana dal disastro. Lamentano, inoltre, il racconto mediatico che si fa della questione, smentendo la narrazione di alcune reti televisive che, elogiando il presunto pronto intervento delle forze dell’ordine, mostrano il lavoro in realtà compiuto dai residenti e dai volontari. Mai come adesso, l’interesse della sfera politica appare lontano anni luce dai bisogni concreti della popolazione.
I primi locali affacciati sulle strade ad essere stati puliti si sono trasformati rapidamente in punti di raccolta di viveri, presidiati costantemente da persone pronte a rispondere con urgenza alle necessità di residenti e volontari. Sulla strada principale, che conduce da Paiporta alle campagne che circondano Valencia, due giovani paiportini di rispettivamente 19 e 20 anni, offrono vettovaglie per chi le necessita.
«Io ero in macchina, stavo andando a prendere mio fratello e all’improvviso ho iniziato a sentire suonare le sirene e non avevo idea di cosa stesse succedendo. Stavamo provando a tornare a casa, ma non potendo raggiungere l’altro lato del barranco dove viviamo, ho riportato mio fratello da mia nonna e sono andato a parcheggiare l’automobile il più lontano possibile. Almeno l’auto si è salvata» mi racconta Zaca, che la sera del 30 ottobre si trovava per le strade di Paiporta. «Ho passato la notte sull’uscio, cercando di aiutare le persone che stavano in giro, perché l’acqua spazzava le macchine con una forza brutale».
Mentre Zaca racconta la sua storia, arriva un capannello di giovanissimi volontari, tutti diciassettenni, a chiedere acqua e un po’ di cibo. Tutti provenienti da Valencia, già da alcuni giorni fanno avanti e indietro, saltando la scuola, per dare una mano. La presenza di persone giovanissime sembra essere il filo rosso di queste tragedie, in Toscana, in Emilia-Romagna e anche qui, la popolazione residente è profondamente grata verso una generazione spesso bistrattata, ma che nel momento del bisogno non ha atteso un momento per accorrere in soccorso. La loro presenza è fondamentale, perché solo l’atteggiamento di questi gruppi di giovanissimi può alleggerire una situazione estremamente compromessa.
«Quella stessa notte, verso le 3, sono uscito, con l’acqua che mi arrivava al petto, perché ero preoccupato: sia mio padre, che mio nonno erano fuori di casa mentre l’acqua stava inondando il paese. Loro si sono riparati in un ingresso e per fortuna erano in casa insieme a mia madre. Al risveglio sembrava di stare in un film» conclude Zaca, sotto lo sguardo concorde di Aimar, in piedi al suo fianco.
Storie di questo tipo, in molti casi, purtroppo, con finali tragici, rimbalzano tra i volontari, che si sfogano tra loro, scaricando la tensione accumulata, dopo aver lavorato in contesti drammatici. Si scambiano informazioni sulle condizioni delle varie zone del paese: in alcuni punti, specialmente vicino al ponte crollato che sovrastava il barranco, l’acqua arriva ancora fino alle cosce. Il racconto dei sopravvissuti mette in allerta su un’altra problematica: per quanto la situazione sia gravissima, la popolazione non può che rimboccarsi le maniche, ma è solo quando sarà finito tutto che ci si renderà davvero conto dell’entità del danno. «Bisogna stare attenti ai suicidi», mi raccontano«perché ci sono persone che hanno perso davvero tutto e difficilmente si trova un senso davanti a tutto questo».
Adiacente all’uscita del paese, un parcheggio accoglie le carcasse impilate di centinaia di automobili, finalmente rimosse dalle strade del paese. Il processo è ancora lungo, vicino al marciapiede un addetto alla sicurezza si accinge con una gru a depositare un’automobile distrutta e a pochi metri di distanza, con l’ausilio di fuoristrada e di alcune cinghie le forze dell’ordine e i volontari recuperano un altro veicolo da un parcheggio sotterraneo.
Nelle vicinanze, anche il centro culturale Falla Jaume I, attivo nell’organizzazione del famoso carnevale della zona, si è adoperato immediatamente. «Ci siamo organizzati spontaneamente. Abbiamo pulito i locali e ci abbiamo messo gli alimenti, per dare almeno quel poco che ci restava alle persone» mi racconta il presidente, mentre osserva il viavai della gente. «Io non penso che dopo l’arrivo del re sia cambiato granché, soltanto da oggi si può vedere davvero qualcosa. Ma non si vede neanche la metà di quello che si dovrebbe vedere. Qui abbiamo bisogno di molto di più». Ancora una volta, viene denunciata con molta franchezza l’inadempienza delle istituzioni e la sensazione di abbandono che vive la popolazione.
«Ci sentiamo molto soli, ci arrangiamo per tutto. È incredibile, se vai nel centro sembra peggio del primo giorno, perché si è raccolto tutto lì in mezzo e può passare a malapena una persona. Si perde la nozione del tempo, ma che siano passati dieci giorni e stiamo ancora così…» senza terminare la frase si trasmette alla perfezione il senso di sconforto percepito da chi ancora aspetta un intervento più capillare da parte dei governi.
Al calar del sole, i volontari, venuti da ogni parte della penisola e alcuni da altre parti d’Europa, si incamminano verso Valencia. Il silenzio viene interrotto solo dai passi fragorosi di chi è intento a scrollare il fango secco dagli stivali, mentre osserva la desolazione delle campagne e dei detriti accatastati ai lati delle strade. Lungo il tragitto, sui vetri sporchi di polvere delle automobili, qualcuno lascia una firma e qualche messaggio. Sono tante le bandiere spagnole che sventolano sui balconi, un laconico «grazie» recitano alcune.
Di ritorno, sul ponte che collega la vita che scorre tranquilla e la distruzione, si scorgono i cartelli che annunciano la manifestazione contro il presidente Carlos Mazón, circondati da alcune bandiere valenziane. Un cartello recita in valenziano: «Solo il popolo salva il popolo».
[di Armando Negro]