martedì 15 Ottobre 2024

Israele punta a reintrodurre la pena di morte, ma solo per i palestinesi

“Chi causa la morte di un cittadino israeliano spinto da motivi razzisti o di odio, e con lo scopo di danneggiare lo Stato di Israele e la rinascita del popolo ebraico nella sua patria, rischia una condanna a morte”. Recita così il disegno di legge proposto da Otzma Yehudit – partito politico ultranazionalista ebraico che tra i suoi punti programmatici prevede l’annessione a Israele dell’intera Cisgiordania –  discusso il 26 febbraio e approvato dal Comitato Ministeriale per la Legislazione israeliana. La strada verso l’approvazione definitiva è ancora lunga, dovrà essere sottoposta all’analisi del consiglio di sicurezza e del Parlamento, ma dopo il primo parere positivo pare possibile. Se approvata la legge andrebbe a sancire una volta di più l’esistenza in Israele di un sistema di segregazione razziale (come già denunciato da Amnesty International e da inviati dell’ONU) dove la pena di morte sarà introdotta, di fatto, solo per i cittadini palestinesi.

L’annuncio è arrivato subito dopo la notizia delle due persone israeliane uccise in un attentato palestinese nei pressi di Nablus, in Cisgiordania. «Agiremo per scoraggiare i terroristi e mantenere la sicurezza. Colpiremo il terrorismo con forza», ha commentato il Primo Ministro Benjamin Netanyahu. «In questo giorno difficile in cui 2 cittadini sono stati uccisi non c’è nulla di più simbolico che approvare questa legge, giusta e morale» ha ribadito Ben Gvir, suo Ministro per la sicurezza nazionale che sul tema ha basato tutta la sua campagna elettorale. Il senso della legge, spiegato dai due rappresentanti, non è quello di punire gli atti terroristici con il carcere («Non vogliamo che tornino in circolazione dopo aver scontato la pena»), ma di eliminarli alla radice, uccidendo cioè chi li avrebbe commessi. Funzionando, a loro parere, da deterrente. «Sono rimasto sbalordito nel vedere l’opposizione al disegno di legge, che intende porre fine all’assurda realtà in cui terroristi assassini con le mani sporche di sangue vengono liberati dopo alcuni anni dal carcere e continuare a vivere comodamente la propria vita», sostiene Son Har-Melech, Membro della Knesset israeliana.

Al momento il testo non chiarisce quale metodo verrebbe utilizzato per eseguire la pena di morte, ma una cosa, invece, è piuttosto chiara, seppur non specificata: dal momento che Israele etichetta come ‘terrorista’ chi danneggia il suo Stato e impedisce al suo popolo di rinascere, è molto probabile che, dovesse essere approvata, tale legge non si applicherebbe mai ai ‘terroristi’ ebrei che uccidono i cittadini palestinesi.

Secondo Baharav-Miara, procuratrice generale di Israele – il cui parere solitamente è vincolante – il disegno di legge non soddisfa i requisiti costituzionali. In Cisgiordania infatti non vige la legge israeliana e le regole non sono emanate dalla Knesset. Il territorio è invece occupato illegalmente dalle IDF, Forze di difesa israeliane. L’introduzione della nuova legge potrebbe essere visto dalla comunità internazionale come un tentativo ufficiale di imporre il proprio ordinamento e cambiare lo status dell’area, in maniera illegittima.

«Crudele, disumano e umiliante», si legge nel commento di Amnesty International Israel, «una legge di apartheid, un crimine contro l’umanità nato dall’idea contorta della supremazia ebraica e ha lo scopo di legittimarla». Tentativi che in realtà Israele porta avanti da anni imponendo la propria presenza fisica in territori che non gli appartengono. Le stime dicono che in Cisgiordania vivano almeno 400mila israeliani, insediatosi negli anni cacciando i palestinesi. Le colonie israeliane non sono dei piccoli accampamenti, sono al contrario vere e proprie città in miniatura ultra-militirazzite, abitate da migliaia di persone e dotate di strade, scuole e qualche industria. La loro esistenza è da sempre la scintilla che tiene accesa la fiamma del conflitto tra israeliani e palestinesi, un fuoco che arde costantemente e che spesso esplode in violenta repressione. E che di fatto, ha impedito, almeno fino ad oggi, il raggiungimento di una pace duratura.

La nascita delle colonie israeliane risale al 1967, dopo la fine della Guerra dei sei giorni, al termine della quale lo Stato di Israele conquista tutta la Cisgiordania e l’intera città di Gerusalemme (compresa la parte Est, abitata principalmente da palestinesi). Una vittoria, quella di Israele, mai riconosciuta però dalla gran parte della comunità internazionale, che già dalla Seconda guerra mondiale incoraggia la nascita di uno stato palestinese indipendente. Un supporto però che non si è mai tradotto in azioni concrete. Motivo per cui, Israele, nonostante la convenzione di Ginevra (la quarta) nel 1949 abbia stabilito che “la potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua propria popolazione civile nel territorio da essa occupato”, ha proceduto in maniera piuttosto disinvolta nella costruzione di insediamenti illegali in casa palestinese, “per motivi di sicurezza e di controllo del territorio”.

E di smantellamento, ormai, non se ne discute neppure più, per almeno due motivi: per via della grandezza che tali colonie hanno raggiunto e perché tutti i Governi che si sono succeduti in Israele non hanno mostrato alcuna intenzione di eliminarle – Netanyahu ha addirittura inserito l’ampliamento degli insediamenti nel suo programma elettorale ufficiale. C’entra anche la comunità internazionale. Israele alla fine dei conti ha sempre potuto fare un po’ come gli pare. Sopraffare con la costruzione di edifici, violare ripetutamente i diritti dei palestinesi a proprio piacimento, reprimere il dissenso con l’accusa di terrorismo e tentare di cancellare la storia araba, senza timore di ritorsioni significative da parte di nessuno, neppure dell’Occidente.

[di Gloria Ferrari]

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