sabato 27 Luglio 2024

Cibo senza codice a barre: i reali vantaggi di una scelta di campo

Il cibo “senza codice a barre” è semplicemente quel cibo che non proviene dai supermercati, ma che deriva da una filiera differente, locale o di prossimità. Si tratta di due cibi alquanto diversi sotto numerosi aspetti, per esempio la distanza in chilometri che percorrono lungo il globo, le informazioni che il consumatore riesce ad ottenere su chi ha prodotto l’alimento o la materia prima, non ultimo il sapore e la freschezza del prodotto.

Da questo punto di vista, il pacco di pasta acquistato al supermercato, che è prodotto con un grano coltivato in Nord America o anche in Australia spesso, trasformato in un pastificio industriale del Nord Italia e poi trasportato fino al supermercato di città più vicino a voi, non è certamente un cibo di prossimità bensì uno che ha percorso migliaia di chilometri su navi cargo, poi ferrovia o autostrada, infine strade provinciali e cittadine fino all’illuminatissimo e coloratissimo supermercato sotto casa nostra, con un consumo di Co2, luce, gas e altre risorse energetiche che è per certo impressionante per l’impatto sull’ambiente e la salute di ogni persona che vive nel mondo. Ma se acquistiamo una pasta prodotta dalla fattoria a pochi chilometri da casa vostra (pasta fresca o secca), frutto del campo di grano della fattoria stessa, poi di un molino e di un panificio/pastificio di zona, allora si tratta di un cibo locale a basso impatto ambientale, di cui potete avere molte più informazioni e che ha un sapore e una ricchezza nutritiva (freschezza) molto migliori di quel pacco di pasta confezionata del supermercato. Un simile cibo a mio avviso è molto interessante per noi consumatori e dovrebbe essere apprezzato e ricercato maggiormente, perché ha molti aspetti positivi di cui non si dovrebbe fare a meno. Vediamo di capire meglio. 

Il marketing relazionale

Di solito, i produttori di cibo locale, non fanno spedizioni (oggi diversi però spediscono), non vendono ai supermercati il loro prodotto, e non si affidano ai grossisti. Il loro prodotto viene consumato entro poche ore o giorni in un raggio di pochi chilometri dalla fattoria. Io li chiamo “piccoli produttori” per via delle quantità e del giro d’affari notevolmente inferiore rispetto ai produttori industriali che avviano coltivazioni enormi per rifornire il circuito della Grande Distribuzione Organizzata (GDO). Una confezione di uova, un pollo o una cassetta di pomodori prodotti da questi piccoli produttori possono arrivare nel piatto di un consumatore attraverso 5 vie diverse:

  • vendita diretta al negozio della fattoria
  • mercatini agricoli di zona 
  • gruppi di acquisto metropolitano, in Italia chiamati GAS (Gruppi di Acquisto Solidale)
  • una manciata di negozietti e botteghe alimentari nel perimetro della fattoria
  • ristoranti della zona

È tutto molto semplice e a mio avviso anche molto “potente”, nel senso che questo cibo arriva nei nostri piatti con una carica e freschezza esplosiva, senza troppi passaggi di trasformazione, raffinazioni, aggiunte di conservanti e additivi, e senza devastare il pianeta. Questo è in effetti un nuovo modello agricolo (che tuttavia proviene dal passato, quando in epoca pre-industriale questo era in effetti l’unico modello agricolo funzionante) che ritengo sia il modello agricolo (e della società) che alimenta in primis in maniera sana l’economia locale dei territori, e che segna poi anche la strada per la riforma radicale del sistema alimentare globale. A me questa filiera ispira benessere e bellezza già solo per questi motivi, ma vedremo che ci sono molti altri lati positivi inerenti al cibo di questi piccoli ma eroici produttori.

Nella mia visione, la rivoluzione inizia quando il consumatore si prende la briga, e si accolla il costo aggiuntivo, di comprare direttamente da un produttore del quale si fida: lo possiamo chiamare “marketing relazionale”. Questo avviene quando venditore e compratore si possono guardare direttamente negli occhi e allora si realizza un’autentica garanzia di qualità di un alimento che passa dall’uno all’altro. Purtroppo questo avviene oggi ancora troppo raramente perché si preferisce andare a comprare cibo nei supermercati, dove appunto prevale il modello “codice a barre” e ben poche informazioni essenziali sono disponibili per il consumatore riguardo l’alimento, aldilà di slogan e tante diciture sulla confezione, il più delle volte anche ingannevoli e fuorvianti.

Ma non trovate strano che la gente faccia più attenzione a scegliere un meccanico o un agente immobiliare piuttosto che la persona che produce il suo nutrimento?

Le motivazioni che spingono sempre più persone ad acquistare cibo dai produttori di zona sono le stesse che hanno fatto crescere l’agricoltura biologica negli ultimi vent’anni, con in più il piacere, riferito da molti, di passare un po’ di tempo in campagna nei pressi di una fattoria a contatto con il verde e l’aria pulita: comprare cibo più genuino per la propria famiglia, anche a costo di fare qualche chilometro una volta a settimana, il desiderio che i propri soldi rimangano nel proprio territorio e vadano ad un piccolo agricoltore di zona piuttosto che alla catena di supermercati, il godere di un piacere gustativo reale mentre si mangia un alimento fresco che è uscito dal campo o dalla stalla solo poche ore prima, e via dicendo. Per chi coltiva la terra, la vendita diretta è un modo per tenersi il 90% circa di quello che alla fine il consumatore paga per il cibo, e che oggi normalmente finisce nelle tasche degli addetti alla lavorazione, della distribuzione organizzata, e della vendita al dettaglio.  

L’accusa di elitarismo

Una delle obiezioni che più spesso si sentono riguardo l’acquisto di cibi biologici o comunque di qualità più alta come quelli dei produttori locali, è che i prezzi di acquisto sono più cari e quindi soltanto pochi benestanti possono permettersi di fare una spesa alimentare di questo tipo. A ben guardare però questa accusa di elitarismo è totalmente infondata. Per me è sbagliata la premessa del ragionamento stesso. Per prima cosa se osserviamo le persone che si recano ad acquistare cibo nelle fattorie non sembrano affatto un’élite, ma si tratta di un gruppo assai eterogeneo: insegnanti, pensionati, giovani mamme, meccanici, operai metallurgici, cantanti lirici, qualunque tipo di persona insomma. Queste categorie sono quelle di cui io ho esperienza diretta presso i piccoli produttori dove mi reco regolarmente. In secondo luogo, a chi dice che il prezzo delle uova o del pollo di fattoria è più alto si può far notare che in realtà quel prezzo è paritario a quello delle uova industriali (ma con una qualità nutrizionale decisamente superiore) in quanto tiene già conto di tutti i costi, visibili e invisibili, che il prodotto industriale determina e che il consumatore non riesce a percepire: i costi dell’inquinamento delle falde acquifere, della resistenza agli antibiotici, delle malattie di origine alimentare (tipo le tossinfezioni da Salmonella o Escherichiacoli, di cui giunge notizia nelle cronache ogni anno e che, si badi bene, sono sempre provenienti dagli stabilimenti industriali e non dalle fattorie dei piccoli produttori), dei sussidi statali all’agricoltura (pagati con le tasse dei consumatori), dei prezzi agevolati che le produzioni industriali hanno per acqua e combustibile. Queste sono tutte voci di spesa nascoste, che gravano sull’Ambiente e sul contribuente, e che fanno sembrare il prodotto industriale più economico.

Capiamoci bene quindi: quando al supermercato compriamo una farina o un pacco di pasta a prezzo inferiore rispetto a quello che ci chiede la fattoria biologica dietro casa, è perché i prodotti a basso costo della catena di supermercati sono massicciamente sovvenzionati dallo Stato che copre parte dei costi di produzione. Queste sovvenzioni non esistono per i piccoli produttori privati che sono fuori dal circuito della Grande Distribuzione, e quando eccezionalmente esistono sono molto inferiori. Rimane il fatto però che alcuni alimenti locali, sostenibili e biologici costano di più per il consumatore, all’atto pratico.

Allora occorre fare un’altra riflessione: oggi, una famiglia media in Italia (ovunque nei Paesi occidentali) spende per il cibo solo una piccola parte del suo reddito: circa il 10%, rispetto al 25-30% degli anni Cinquanta. Ma negli ultimi anni molte persone e famiglie hanno trovato il modo di tirar fuori dai 30 ai 60 euro in più al mese (dati ISTAT) per i cellulari di ultima generazione (oggi posseduti da più della metà della popolazione, bambini compresi) o per la TV a pagamento.

Ma allora, non voler sborsare qualche euro in più per alimentarsi bene e comprare cibi più sani dal produttore locale, è una questione di disponibilità economica o si tratta di una scelta di vita?

Pensandoci bene, è singolare che la vendita di un prodotto così importante per la nostra salute e per il benessere generale del pianeta sia determinata il più delle volte solo dal prezzo. Il cosiddetto marketing relazionale ha di buono che oltre al prezzo vengono scambiate molte più informazioni, oltre a fornire un cibo di superiore qualità. Ma in genere, acquistando dalle catene dei supermercati, invece di un testo che ci racconti come è stato prodotto il nostro cibo, troviamo solo il codice a barre, indecifrabile quanto la catena industriale di provenienza.

Esperimento in Danimarca

Alcuni supermercati danesi, nell’ambito di una sperimentazione, hanno aggiunto ad ogni pacchetto di carne un secondo codice a barre che, passato sotto un apposito scanner, fornisce un’immagine della fattoria dove l’animale è stato allevato, oltre a una serie di informazioni dettagliate su razza, alimentazione, medicinali somministrati, data di macellazione ecc. Pensate a come ne uscirebbero agli occhi dei consumatori italiani le carni da supermercato se un codice a barre mostrasse le immagini di maiali, bovini e polli allevati negli stabilimenti intensivi della pianura padana o del centro Italia, nonché i dati su ciò che ha mangiato, i medicinali che gli sono stati somministrati e così via. Probabilmente solo un 10% dei consumatori continuerebbe ad acquistare quel tipo di carni. Il nostro sistema alimentare si basa sull’ignoranza del consumatore, al quale non viene detto nulla, o quasi, oltre al prezzo che compare sul cartellino dello scaffale. Il prezzo basso e la non conoscenza si rinforzano a vicenda. E tra l’ignoranza e l’incuranza il passo è breve: non sapendo chi sta dall’altro capo della catena alimentare, si alimenta il disinteresse sia del consumatore che del produttore. Ovviamente, l’economia globalizzata non funzionerebbe molto bene senza questo muro di ignoranza e indifferenza. Questo spiega perché ai piccoli produttori non sia consentito dalla legge apporre claim nutrizionali, salutistici e ambientali sulle confezioni dei loro prodotti, del tipo “pesca sostenibile” o “allevato senza antibiotici”, ma tale prerogativa sia concessa solo ai produttori del circuito della Grande Distribuzione nei supermercati.

Si badi bene che in ogni caso, i proclami sulla sostenibilità che troviamo in vari prodotti delle multinazionali non sono affatto veritieri ma un vero e proprio inganno, come nel caso del pesce che riporta il marchio MSC (Marine Stewardship Council), il marchio di certificazione della pesca sostenibile probabilmente più utilizzato al mondo. Si veda infatti l’accusa di Bloom, Ong francese che ha pubblicato l’inganno dell’etichetta MSC una lunga ricerca condotta con la New York University (Stati Uniti) e Dalhousie (Canada) e pubblicata sul giornale scientifico Plos One, che dimostrerebbe che la pesca certificata MSC è principalmente distruttiva e industriale, a differenza della comunicazione schierata dalla MSC. Altro che pesca a basso impatto ambientale dunque…

I nuovi circuiti per l’acquisto del cibo locale

Infine vorrei menzionare alcuni circuiti virtuosi che oggi abbiamo a disposizione anche in Italia per l’acquisto di cibi più freschi e genuini, nonché più sostenibili proprio per il fatto di mettere in moto una filiera decisamente più corta e meno industriale di quella dei prodotti delle catene di supermercati. I consumatori che hanno già maturato una coscienza etica riguardo al cibo, si rivolgono a questi circuiti e ne traggono immensi benefici. Tralasciando di parlare dei mercati contadini, che non sono circuiti nuovi ma tradizionali da tanti anni, citiamo in primis i G.A.S. (Gruppi di Acquisto Solidale). In Italia ne esistono più di 800. Un G.A.S. nasce mettendo in contatto numerose famiglie e alcuni produttori. Inoltre, opera senza scopo di lucro, con consapevolezza della dimensione politica del consumo: le persone o le famiglie intendono esercitare una forma di consumo critico, basato sulla conoscenza e la qualità del prodotto e del tipo di produzione, sulla giusta retribuzione del produttore. Il termine “solidale” assume più significati:

  • solidarietà nei confronti del produttore (“ti conosco, capisco il valore di quello che fai, partecipo con te nella filiera”), valorizzando il piccolo rispetto al grande (piccolo contadino contro grande distribuzione organizzata); i prodotti locali (e quindi stagionali) contro l’importazione da Paesi lontani; la riscoperta e la tutela di prodotti e sapori del territorio dove abitiamo.
  • solidarietà nei confronti degli altri aderenti al GAS: far parte di un Gruppo d’Acquisto significa, in primo luogo, fare del volontariato. Il GAS non è un negozio, ma un gruppo di persone e consumatori che comprano beni di consumo, condividendo i principi in base ai quali si scelgono i produttori. Ciascuno apporta nel GAS il proprio personale contributo.

Sono acquistabili tramite la rete di approvvigionamento dei GAS vari prodotti alimentari, ma anche di consumo quotidiano (detergenti, detersivi, ecc.), scelti seguendo i principi generali che sono alla base dello Statuto dell’Associazione. Tutti i prodotti acquistati nei GAS hanno normalmente prezzi inferiori a quelli dei supermercati, con una qualità superiore. 

Un secondo circuito è dato dagli Empori di Comunità, spesso denominati col termine inglese Food Coop, che richiama la formula dei supermercati autogestiti nati negli USA durante gli anni 70. In Italia ne sono nati diversi negli ultimi anni, il primo e più famoso ad oggi è quello di Bologna, denominato Camilla. I soci della cooperativa Camilla sono al tempo stesso proprietari, gestori e clienti. L’emporio vende solo prodotti sostenibili, in gran parte locali ma anche non locali (es. caffè, tè, cioccolato, avocado, zenzero di coltivazioni equosolidali). Anche per quanto riguarda gli Empori di Comunità, i prezzi dei cibi sono inferiori di norma a quelli dei supermercati, perché le spese di gestione (o meglio autogestione) e il coinvolgimento diretto dei produttori stessi, consentono di abbassare il prezzo finale alla cassa. Altri empori molto ben avviati e gestiti sono presenti a Firenze (Genuino Clandestino, che prevede anche un servizio di consegna direttamente a casa), a Cagliari (Mesa Noa Food Coop), quelli della Toscana, del Trentino e in varie altre zone d’Italia.

Infine, è da non trascurare l’enorme rete di piccoli produttori italiani non aderenti alla rete di produttori della Grande Distribuzione Organizzata, che oltre a produrre cibo più sano di quello industriale, prevedono la vendita diretta al consumatore presso il loro spaccio aziendale o attraverso i mercatini di zona già citati. Quest’ultimo canale è quello che consente di andare direttamente alla fonte della catena alimentare e si spera possa diventare il fattore più importante per la salvaguardia dell’economia locale del settore agricolo. Uno dei portali italiani che riesce a mettere in rete produttori e consumatori è ciboserio, attraverso il servizio Food Shop Assistant.

[di Gianpaolo Usai]

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4 Commenti

  1. Direi che c’e’ nell’articolo un po’ di confusione tra “biologico” e “di prossimita’”: nulla vieta infatti che anche il contadino sotto casa possa utilizzare pesticidi, ma siccome lo conosci e ti sorride e l’insalata la vedi nella terra invece che sullo scaffale ti innamori di una leggenda che non e’ detto che sia tale. La grande distribuzione garantisce talvolta controlli piu’ seri e standardizzati. Diverso invece per il biologico che deve sottostare comunque a regole molto stringenti. E’ invece vero che filiera piu’ corta e quindi di prossimita’ significa cibo piu’ ricco, cioe’ non deteriorato nelle sue qualita’ nutrizionali da lunghe conservazioni, e’ inoltre spesso raccolto piu’ maturo in quanto destinato ad essere venduto in tempi rapidi risultando quindi piu’ ricco di “fitoterapici” e polifenoli, e’ di stagione e quindi migliore, proviene da un paese europeo evoluto ove e’ piu’ stringente la normativa e il controllo fitosanitario rispetto a produzioni che provengono da chi sa’ dove. L’adesione ad un GAS consente inoltre di calmierare i prezzi evitando che l’astuto contadino spunti da un cittadino ingenuo innamorato dell’ambiente agreste tipo “mulino bianco” prezzi decisamente esosi: filiera piu’ corta deve anche tradursi in un risparmio per il consumatore.

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