sabato 27 Luglio 2024

Perché quello dell’odio su internet è un falso problema

Quando si parla dell’aggressività che impregna il web, dei cosiddetti “troll” che ammorbano la Rete con provocazioni moleste, spesso si giunge a una conclusione apparentemente ovvia: lo schermo di PC e smartphone funge da filtro che distorce le dinamiche relazionali tra persone. Secondo questa teoria, l’essere umano non si sarebbe ancora abituato a valutare i rapporti digitali al pari delle interazioni faccia-a-faccia, con il risultato che l’anonimato internettiano finirebbe con lo spingere gli utenti a oggettificarsi reciprocamente.

Due ricercatori danesi dell’Università di Aarhus, Alexander Bor e Michael Bang Petersen, hanno però condotto una ricerca i cui risultati conducono a un’ipotesi diversa, ovvero che coloro che si comportano aggressivamente sul web tendono comunque a essere aggressivi anche offline, almeno per quanto concerne le questioni politiche.

Riverbero tra off e on

Il documento appena pubblicato dalla Cambridge University Press (una bozza è consultabile gratuitamente sotto forma di PrePrint) afferma che il problema di fondo sia il fatto che la propensione naturale all’aggressività sia tutt’altro che omogenea, nella società. Proprio questa inconsistenza sarebbe da considerarsi l’origine dell’intensa ostilità della Rete, un’ostilità che viene enfatizzata, non causata, dal non poter godere della comunicazione non verbale e dai fraintendimenti che sono insiti nel dibattito sintetico e rapido qual è la messaggistica istantanea.

Gli accademici hanno intervistato 8.000 persone tra Stati Uniti e Danimarca, scoprendo effettivamente che i soggetti che riversano la tossicità sulla Rete sono proprio coloro che cercano naturalmente il riconoscimento pubblico facendo leva su atteggiamenti dominanti e aggressivi. Quelli che nella vita di ogni giorno alzano la voce pur di non vedersi sopraffare in una discussione, per intendersi.

Nonostante ideologie, opinioni e origine geografica non si siano dimostrate determinanti nel caratterizzare l’impegno online di questi soggetti, in ambo le nazioni si è registrata nondimeno la sensazione che i confronti su internet siano più accesi di quelli che si terrebbero in un qualsiasi spazio fisico.

Tutta una questione di politica

Una realtà che, stando ai ricercatori, sarebbe però più percettiva che effettiva. «La nostra ricerca evidenzia che la ragione per cui molte persone percepiscano le discussioni politiche online come ostili sia più che altro legata alla visibilità del comportamento online», ha dichiarato Band Petersen. «I dibattiti online avvengono in grandi network pubblici e l’atteggiamento del “troll” internettiano è molto più visibile di quello dello stesso soggetto in un contesto esterno al web».

La scelta dei ricercatori di concentrarsi sulle sfumature politiche giunge puntuale ed estremamente attuale, se si considera che i dubbi sul come internet influisca sul discorso pubblico siano sempre più marcati, soprattutto da che gli Stati Uniti si sono visti letteralmente travolgere da quelle alt-right che sembravano confinate a siti quali 4chan o Gab.

Non che gli USA non siano abituati ad avere a che fare con gli estremismi domestici – l’FBI lancia allarmi sin dagli anni Novanta -, tuttavia prima dell’avvento della Rete questo genere di attriti erano esiliati ai margini della società, isolati in un entroterra rurale lontana dagli occhi e dal cuore delle metropoli produttive. La digitalizzazione avrebbe distrutto questo fragile equilibrio omertoso, concedendo alle persone un megafono particolarmente potente con cui propagare le proprie visioni antagoniste.

A questo punto si apre un complesso dilemma etico e civile: da una parte è giusto che le minoranze insoddisfatte abbiano la possibilità di esprimersi, dall’altra è evidente che questa loro necessità sia pilotata opportunisticamente dalle aziende tecnologiche, con il risultato che viene imposta con fare manipolatorio e propagandistico.

Bor e Bang Petersen si sfilano con discrezione dall’affrontare questo delicato tema, tuttavia non mancano di suggerire che l’origine della tossicità internettiana non sia legata tanto all’educazione – una simile ostilità non è figlia dell’ignoranza, ma è una strategia deliberata e consapevole -, quanto alla mancata applicazioni delle regole sociali all’interno dello spazio digitale.

I due accademici denunciano la carenza di moderatori che determino e impongano le norme del dibattito, che attenuino la visibilità di chi promulga odio e che cerchino di coinvolgere coloro che non covano aggressività, individui che sono naturalmente propensi a evitare ogni forma di confronto politico.

Polarizzazione ed economia

Il perché di una simile mancanza è ovvio: la controversia attira l’attenzione e fomenta le interazioni, ovvero le partecipazioni viscerali che si legano profondamente alle finanze dei giganti del digitale, i “gatekeeper” del web. A costo di essere brutali, bisogna a questo punto ricordare esplicitamente che i cosiddetti “spazi pubblici” messi a disposizione di Facebook, Twitter e omologhi non siano pensati per promuovere lo spirito civico o uno svolgimento sano della democrazia, ma per generare profitto.

La cosa risulta particolarmente evidente quando si prende in mano una recente ricerca del professore associato Walter Quattrociocchi del Dipartimento di Informatica dell’università Sapienza di Roma, il quale ha portato avanti una joint venture con la Fondazione ISI-Istituto per l’Interscambio Scientifico e le università di Brescia e Cà Foscari di Venezia per analizzare alcune delle piattaforme social più popolari e controverse.

Ne è venuto fuori che lo spettro delle interazioni internettiane sia consapevolmente manipolato e si polarizzi in camere d’eco ben definite, aree virtuali in cui il dibattito è limitato alla riconferma delle proprie opinioni, politiche o non. Proprio in questi contesti si registrano moti che assumono le dinamiche del branco, che estremizzano visioni già di per sé molto forti e lo fanno adottando una scala che sarebbe impossibile sostenere nel solo universo offline.

Rappresentazione grafica della polarizzazione dei social media analizzati da Quattrociocchi.

Quanto l’intervento delle Big Tech sia rilevante nel fomentare questi atteggiamenti tribali è cosa difficile a dirsi, i social media fanno il possibile per assicurarsi che le università, i centri di ricerca e i governi non possano decifrare quali siano le dinamiche che alimentano gli algoritmi dei portali, quindi non resta che affidarsi a ipotesi e stime.

Risulta dunque necessario che alle grandi aziende internettiane sia imposta quella trasparenza che si rifiutano cocciutamente di garantire autonomamente. Non solo per evitare che l’iperaggressività di pochi possa incidere eccessivamente sulla vita di tutti, ma anche per assicurarsi che non si verifichi la situazione diametralmente opposta, ovvero che alcuni poteri facciano leva su queste alchimie digitali per nascondere contenuti a loro scomodi.

[di Walter Ferri]

 

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1 commento

  1. Il nuovo social sta per arrivare on line e sarà una via di mezzo fra secondlife e clubhouse. Sarà in realtà aumentata e l’avatar avrà la tua immagine. Di fatto ricongiungerà la misura del reale nel virtuale dei rapporti umani .

    Inoltre sarà completamente decentralizzato.

    Questo cambierà completamente la prospettiva.

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