mercoledì 11 Dicembre 2024

Palestina Papers

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Il Sionismo

Derivato da Sion, il nome biblico della collina su cui sorgeva il tempio di Gerusalemme, il sionismo è un movimento politico e culturale ebraico nato alla fine del XIX secolo che mirava a creare una nazione ebraica. Interessante notare che non tutti i sionisti pensavano che questa terra sarebbe dovuta essere in Palestina, ma si proposero anche altre zone di mondo, ad esempio negli Stati Uniti, in Argentina e in Amazzonia. La creazione di una nazione ebraica in Palestina venne teorizzata dal pensatore Theodor Herzl e presentata al Congresso sionista mondiale di Basilea nel 1897. Importante annotare che non tutti gli ebrei sono sionisti e alcune correnti ortodosse dell’ebraismo (ad esempio gli askenaziti) si opposero fin dall’inizio all’idea di creare una nazione ebraica in quanto, nella loro visione religiosa, la Terra Promessa sarebbe stata ottenuta dal popolo ebraico solo con il ritorno del messia. Gruppi di ebrei contro il sionismo sono molto attivi ancora oggi, come il Jewis Voice for Peace.

Da chi era abitata storicamente la Palestina

Secondo l’opinione dei sionisti israeliani il territorio della Palestina era pressoché disabitato fino all’inizio dell’immigrazione ebraica di inizio ‘900, per questo affermano spesso che gli ebrei sono “un popolo senza terra che è andato ad abitare una terra senza popolo”, ma un’analisi onesta della storia racconta altro. Secondo i dati dell’Impero Ottomano ad inizio ‘900 la Palestina era abitata da circa 800 mila persone: oltre 700 mila arabi-musulmani, circa 80 mila cristiani e non più di 20 mila ebrei. La popolazione ebraica crebbe nei primi decenni del ‘900 ma ancora nel 1914 non superava le 59 mila unità. Altra affermazione piuttosto in voga e non vera è quella secondo cui i palestinesi non avessero alcuna identità nazionale e fossero “beduini arretrati che vivevano nelle tende ignorando la civiltà”. Eppure già a fine ‘800 la Palestina era una realtà urbanizzata, con una propria economia e alcune proprie istituzioni, come dimostrano ad esempio queste vecchie fotografie.

La nascita dello Stato di Israele

Dopo la fine della Prima guerra mondiale la Società delle Nazioni (il predecessore dell’ONU) affida il territorio palestinese al Governo britannico. Quest’ultimo appoggia l’idea di creare una “patria nazionale per il popolo ebraico” su parte dell’area abitata dagli arabi (dichiarazione di Balfour, 1917), scatenando l’ira delle comunità residenti. Nel frattempo prosegue massiccia l’immigrazione ebraica e gruppi sionisti radicali fondano formazioni terroristiche (come la Banda Stern) per allontanare gli arabi e attaccare le truppe britanniche forzandole ad andarsene dal Paese. La tensione esplode il 29 novembre del 1947, quando le Nazioni Unite votano la spartizione della Palestina in due Stati: uno ebraico (Israele) e uno arabo (che non si crea). Il primo dichiara la propria indipendenza nel 1948, il secondo ancora non l’ha raggiunta.

Perché non esiste uno Stato di Palestina

La risoluzione 181 delle Nazioni Unite, con cui si decide la creazione di due Stati, prevede che a quello ebraico spetti il 56% del territorio a disposizione (anche se all’epoca gli ebrei rappresentavano circa il 33% della popolazione residente) e a quello arabo la restante parte – con la città di Gerusalemme come entità neutrale governata dall’ONU. Nello specifico al primo si sceglie di assegnare le zone economicamente più sviluppate e fertili, nonché i principali accessi al mare; al secondo quelle prettamente desertiche, aride e rocciose. Alla fine solo gli ebrei accettano la suddivisione e il 14 maggio 1948 proclamano la nascita del proprio Stato. Gli arabi invece rifiutano l’accordo e la Palestina non nasce.

La guerra del 1948

Dopo la partenza degli inglesi e la nascita del nuovo Stato, scoppia la prima guerra tra Israele e i Paesi arabi circostanti. I giorni seguenti alla dichiarazione di indipendenza, Egitto, Iraq, Giordania e Siria colpiscono Israele. Quest’ultimo però, resiste – soprattutto grazie al sostegno militare degli Stati Uniti ed anche di alcuni Paesi del blocco sovietico – e anzi sferra a sua volta un attacco, decisivo, con cui occupa parti di territorio assegnati dall’ONU alla Palestina (arrivando nel 1949 a controllare il 78% dell’area totale).

Cos'è la Nakba

Considerato dai palestinesi uno degli eventi più traumatici della propria storia e ricordato il 15 maggio di ogni anno – un giorno dopo la fondazione di Israele -, la ‘catastrofe’ (traduzione dall’arabo) è l’esodo che ha visto 750mila palestinesi (stima ONU) costretti a lasciare le proprie case dopo la sconfitta araba del 1949. In base alla risoluzione n.194 votata dalle Nazioni Unite nel dicembre 1948, tutti i palestinesi sfollati avrebbero dovuto avere il diritto a rientrare presso le loro abitazioni, ma questo diritto non è mai stato applicato da Israele.

La guerra dei sei giorni e i confini del 1967

La sconfitta del 1949 non spegne le tensioni tra Israele e i Paesi arabi: i due schieramenti tornano a fronteggiarsi fra il 5 e il 10 giugno 1967, in quella che viene chiamata la Guerra dei sei giorni. Gli eserciti di Egitto, Siria e Giordania vengono sorpresi da un attacco “preventivo” di Israele, che occupa Gerusalemme Est, Cisgiordania, Gaza, parte del Sinai, e le alture del Golan, delimitando un territorio conosciuto come “i confini del 1967”. Ancora nel 2017 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha ordinato a Israele  di “lasciare il territorio occupato nel 1967”, ribadendo che “gli insediamenti nei territori occupati costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale”: ordine che Israele continua a disattendere. 

Come sono stati occupati i territori palestinesi

Sulle terre palestinesi occupate, Israele comincia a costruire delle colonie, ovvero insediamenti di popolazione ebraica. Nonostante la Quarta Convenzione di Ginevra le consideri una violazione del diritto internazionale e la risoluzione n.446 del Consiglio di sicurezza ONU del 1979 ne abbia riconosciuto l’illegalità, negli anni i governi israeliani che si sono succeduti hanno proceduto in maniera massiva alla loro costruzione. Così le colonie israeliane, vere e proprie città in miniatura costituite da sionisti che godono di diritti che i palestinesi non hanno, sono cresciute a dismisura. Dal 2012 al 2022, nella Cisgiordania occupata la popolazione di coloni è passata da 520.000 a più di 700.000 individui, che vivono in 279 insediamenti illegali.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina

La ‘Guerra dei Sei giorni’ segna una rottura tra Palestina e Stati arabi. Durante il vertice della Lega Araba del 1964, i militanti palestinesi esprimono la volontà di creare un’organizzazione propria, unica, in grado di riunire tutti i movimenti di resistenza senza più dover fare affidamento alla solidarietà zoppicante dei Paesi arabi vicini: nasce l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che si propone la liberazione della Palestina attraverso l’uso della lotta armata. Nell’ottobre 1974 l’ONU riconosce l’OLP – guidato dal carismatico leader Yasser Arafat – come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese, che ottiene così lo status di osservatore in numerosi organi delle Nazioni Unite. Nel 1975 anche il Consiglio di sicurezza riconosce l’OLP.

La prima Intifada

L’occupazione delle terre da parte di Israele, l’illecita costruzione di insediamenti e l’aumento della repressione spingono la popolazione palestinese a insorgere. La prima grande ‘rivolta’ (traduzione dall’arabo) comincia l’8 dicembre del 1987, quando 4 palestinesi del campo profughi di Jabalya muoiono in un incidente stradale con un veicolo israeliano. La protesta esplode in numerose forme coordinate dall’OLP: scioperi generali, azioni di boicottaggio e guerriglia attuata principalmente con il lancio di pietre. L’Intifada è duramente repressa dall’esercito israeliano e termina il 13 settembre del 1993, con l’uccisione di 160 israeliani e più di 2mila palestinesi. Tuttavia ottiene importanti risultati, costringendo il governo israeliano a sedersi al tavolo delle trattative (vedi il capitolo “Gli accordi di Oslo”) e contribuendo a portare la questione palestinese all’attenzione del mondo. 

La nascita di Hamas

Durante il primo anno di Intifada fa la sua comparsa Hamas, acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiya (Movimento di resistenza islamica), un movimento militante con una forte impronta religiosa fondato a Gaza dallo sceicco palestinese Ahmed Yassin nel 1987. Con la vittoria alle elezioni legislative palestinesi del 25 gennaio del 2006 – dove ottiene a sorpresa più voti dello storico partito Al Fatah – il gruppo ottiene il diritto a indicare il Primo Ministro palestinese, tuttavia ai risultati elettorali segue uno scontro tra Al Fatah (maggioritario in Cisgiordania) e Hamas (maggioritario nella striscia di Gaza), che si conclude con l’eliminazione, anche fisica, dei rivali politici da parte di entrambe le fazioni in lotta ed un governo palestinese di fatto diviso in due: la Cisgiordania ad Al Fatah e Gaza ad Hamas. Secondo il proprio statuto, l’obiettivo di Hamas è la creazione di uno stato palestinese indipendente, e la distruzione di Israele. Alcuni Paesi (come USA e Unione Europea) la considerano un’organizzazione terroristica.

Gli accordi di Oslo: a un passo dalla pace

La prima Intifada termina con gli accordi di Oslo, siglati a Washington il 13 settembre del 1993 e stipulati segretamente a Oslo, in Norvegia, il 20 agosto, tra il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, a capo dell’OLP – con la mediazione degli Stati Uniti. Per la prima volta Israele e Palestina riconoscono reciprocamente il diritto a esistere e firmano un piano per arrivare alla soluzione dei due Stati, pur lasciando in stallo alcune questioni sostanziali come il controllo di Gerusalemme. Gli accordi sono fortemente boicottati dai gruppi radicali presenti in entrambe le parti, sul fronte palestinese Hamas e altri gruppi come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) li rigettano e continuano a compiere attentati, mentre in Israele l’accordo è fortemente osteggiato dai gruppi sionisti ortodossi, un cui loro membro, Yigal Amir, il 4 novembre 1995, uccide il primo ministro Rabin con un colpo di pistola.

Quando si è riacceso il conflitto

Il fallimento degli accordi di Oslo porta negli anni successivi a nuovi scontri tra Israele e la resistenza palestinese, ormai largamente guidata da Hamas (con una seconda Intifada nel 2000), caratterizzati da azioni di protesta e lanci di missili da parte palestinese e bombardamenti da parte Israeliana (come quelli lanciati su Gaza tra il 2007 e il 2008, nel 2012, nel 2014 e nel 2021). Il 7 ottobre del 2023 Hamas avvia un attacco senza precedenti nel sud di Israele: circa cinquemila razzi lanciati in poche ore all’interno del territorio israeliano e la contemporanea incursione via terra di un numero imprecisato di miliziani armati che hanno sfondato i confini e fatto irruzione negli insediamenti. Per via della sua estensione e violenza, l’assalto è considerato il più grave subito da Israele – che ha avviato a sua volta un’offensiva militare che ha già causato oltre diecimila vittime, compresi 3.500 bambini in sole tre settimane.

La lotta armata palestinese è legale?

Nella risoluzione 37/43 del 1982 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite afferma “la legittimità della lotta dei popoli per la loro indipendenza, integrità territoriale, unità nazionale e liberazione dalla dominazione coloniale, dall’apartheid e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”, sottolineando “il diritto inalienabile del popolo namibiano, del popolo palestinese e di tutti i popoli sotto la dominazione straniera e coloniale all’autodeterminazione, all’unità nazionale e alla sovranità senza interferenze straniere”. Quindi la risposta è sì: secondo le leggi internazionali i movimenti per la liberazione della Palestina hanno il diritto ad utilizzare le armi contro Israele, a patto che “rispettino il diritto internazionale umanitario, che impone l’obbligo di adottare tutte le misure possibili per evitare o ridurre al minimo la perdita accidentale di vite e danni ai beni”.

Chi riconosce lo Stato di Palestina

Se da una parte quello di Israele è considerato uno Stato a tutti gli effetti, seppur ancora non riconosciuto da molti Stati arabi, per la Palestina il giudizio è meno unanime. A reputarla uno Stato indipendente – e non un insieme di due territori separati sotto autorità altrui – sono ad ogni modo ben 139 Stati (dati aprile 2022). tra questi vi sono anche alcuni stati europei (come Svezia, Ungheria e Polonia) ma non c’è l’Italia. Tuttavia la Palestina è stata comunque riconosciuta essere uno Stato ai fini dell’esercizio della giurisdizione della Corte penale internazionale in merito ai presunti crimini di guerra e contro l’umanità commessi sul suo territorio.

Perché Gaza è una ‘prigione a cielo aperto’

Human Rights Watch ha definito Gaza – un territorio abitato da 2,2 milioni di palestinesi, distribuiti su un territorio lungo 41 chilometri e largo tra i 6 e i 12 – “una prigione a cielo aperto”, stretta in un blocco militare totale da parte di Israele dall’ormai lontano 2007. Il blocco applicato da Israele su Gaza è ermetico, per via terrestre, marittima e aerea. L’aeroporto è chiuso, l’accesso al mare è negato anche per scopi di pesca, due dei tre valichi di frontiera sono controllati dall’esercito di Tel Aviv (l’altro dall’Egitto). Da Gaza i palestinesi non possono uscire, né commerciare. Un racconto su cosa significhi vivere a Gaza (questo è scritto da una sua abitante palestinese) rende l’idea meglio di ogni dato. 

Parlare di “apartheid” sui palestinesi è corretto

Nel 1973 l’ONU adotta un trattato specifico che definisce l’apartheid come “crimine contro l’umanità, consistente in atti disumani volti allo scopo di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale di persone su qualsiasi altro gruppo razziale di persone e di opprimerlo sistematicamente”. Quello che Human Rights Watch sostiene stia facendo Israele, che nella maggior parte degli aspetti della vita “privilegia i propri cittadini e discrimina i palestinesi espropriandoli, confinandoli, separandoli con la forza e sottomettendoli in virtù della loro identità”, con l’obiettivo (dichiarato) di mantenere il totale controllo. «L’occupazione si è trasformata in apartheid», ha confermato Francesca Albanese, Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi.

Chi critica le politiche israeliane è antisemita?

L’antisemitismo è il “pregiudizio, la paura o l’odio verso i giudei, cioè gli ebrei”, si tratta quindi di un sentimento razzista. L’antisionismo è invece l’opinione di chi rifiuta il sionismo, ovvero l’idea che debba esistere uno stato ebraico. Si tratta di differenze sostanziali e il fatto che si tratti di ragioni molto diverse è testimoniato dal fatto che – come abbiamo visto nel capitolo “Il Sionismo” – esistano numerosi pensatori ebraici che sono antisionisti. Inoltre, la gran parte delle persone che criticano le azioni del governo israeliano e l’occupazione della Palestina non sono neppure antisioniste, nel senso che non contestano il diritto ad esistere dello stato di Israele, ma chiedono semplicemente che questo non si estenda oltre i confini ratificati dall’ONU e consenta allo stato di Palestina di nascere. Quindi l’equiparazione, sostenuta dal governo israeliano, tra chi critica le azioni del governo israeliano e l’antisemitismo è puramente retorico-propagandistica e non basata sui fatti.

Le responsabilità dell’Occidente

La prima e più evidente è quella di aver deciso a tavolino le sorti di due popoli. Emanata nel 1917, la Dichiarazione Balfour provoca infatti un significativo sconvolgimento nella vita dei palestinesi: il Governo britannico dà il suo benestare alla creazione di una ‘patria ebraica’, senza tenere conto dei sogni, delle esigenze e della vita di chi quella ‘patria’ la abitava già (per la quasi totalità). Quello di Balfour è infatti uno dei documenti più messi in discussione della storia moderna, soprattutto perché scritto dall’Occidente per un territorio non occidentale. La seconda, non per importanza, è il piano di spartizione ideato dall’ONU, che ha concretamente favorito il progetto sionista.

Quali sono le tutele legali per ospedali e personale medico?

L’articolo 18 della Prima Convenzione di Ginevra, ratificata dagli Stati membri delle Nazioni Unite dopo la Seconda Guerra Mondiale, afferma che personale sanitario e ospedali “non possono in nessun caso essere oggetto di attacco o interferenze (come la privazione di elettricità)” ma devono essere in ogni momento rispettati e protetti dalle parti in conflitto. Tuttavia negli ultimi anni le violenze rivolte a strutture mediche sono sempre più frequenti – è successo anche in Sudan e in Ucraina di recente – con conseguenze dirette e indirette sulla popolazione civile.

I crimini possono essere perseguiti dalla Corte penale internazionale?

Potrebbero, indipendentemente dalla nazionalità dei presunti autori. Nel 2021 la Corte penale internazionale – che ha giurisdizione sui crimini di guerra, crimini contro l’umanità, e genocidio commessi nei suoi 123 stati membri o commessi dai suoi cittadini – ha già aperto un’indagine su presunti crimini gravi commessi in Palestina dal giugno 2014.

È vero che Israele è “l’unica democrazia del Medioriente”?

A livello formale Israele è una democrazia compiuta, dove si svolgono elezioni ed esiste uno stato di diritto e una separazione dei poteri. Tuttavia passando alle questioni sostanziali, per essere definito ‘democratico’, uno Stato non necessita solo di un Parlamento e di libere elezioni. In Israele, infatti, i cittadini palestinesi non godono dei medesimi diritti e che detiene nelle sue carceri centinaia di detenuti politici palestinesi in regime di “detenzione amministrativa”, ovvero senza che siano formalizzate accuse né senza che sia riconosciuto il diritto alla difesa. Al primo settembre 2023 erano 1264 i palestinesi detenuti da Israele senza processo o accuse, e in generale dal 1967 ad oggi almeno un milione di palestinesi sono passati dalle galere israeliane. Negli ultimi anni gli atteggiamenti anti-democratici del governo israeliano si sono moltiplicati, ad esempio con la nascita della “Guardia nazionale per Israele”, un organo di polizia addestrato per soffocare oppositori e dissenso, e con la riforma della Giustizia in discussione (e già in parte approvata), che ha come obiettivo quello accentrare tutti i poteri in mano all’esecutivo.

Qual è la posizione dell’Italia e degli Stati internazionali nel conflitto

L’UE è divisa (così come il resto del mondo, condizionato dagli interessi economici), ma oggi la tendenza generale è quella di condannare in maniera decisa l’attacco di Hamas e in maniera più indulgente quello di Israele su Gaza. La posizione dell’Italia è cambiata nel tempo: se ad oggi il Governo sostiene il diritto di difesa di Israele, negli anni ‘70 il Primo Ministro Aldo Moro promuove varie iniziative a favore della causa palestinese e lo stesso fa nel 1985 il Presidente del Consiglio Bettino Craxi, che in un discorso alla Camera definisce “legittima” la lotta armata palestinese. La posizione italiana è considerevolmente cambiata a partire dagli anni 2000, spostandosi in una sempre più stretta adesione alle ragioni israeliane.

Come potrebbe finire il conflitto

Vi sono tre opzioni. La prima – quella difesa dal diritto internazionale, dalle risoluzioni ONU ed anche (almeno a parole) dai Paesi Occidentali – è quella definita “Due popoli, due Stati”, ovvero la nascita di uno Stato palestinese al fianco di quello israeliano all’interno di confini stabiliti da accordi di pace. La seconda – seppur fortemente minoritaria – teorizzata da pensatori di entrambe le parti, prevede la nascita di un unico stato multinazionale e laico con pari diritti per tutti i suoi abitanti, arabi ed ebrei. La terza è quella della distruzione di uno dei due contendenti. Una soluzione di guerra teorizzata da Hamas (che nel proprio Statuto propugna la distruzione di Israele) e messa concretamente in pratica da Israele, che da ormai 75 anni continua a conquistare parti di territorio palestinese e cerca di espellere i suoi abitanti.

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