venerdì 14 Novembre 2025
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Guasto elettrico in Costa Rica: chiuso lo spazio aereo

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La Costa Rica ha sospeso i voli nei suoi aeroporti internazionali e ha temporaneamente chiuso il suo spazio aereo. L’annuncio è stato dato all’agenzia di stampa Reuters dal vicedirettore dell’Aviazione Civile del Paese, Luis Diego Saborio. Secondo una dichiarazione rilasciato dal ministero dei Trasporti, l’intero spazio aereo è interessato dal blocco del traffico. Il motivo dietro tale decisione è stato un guasto elettrico che avrebbe mandato in tilt i sistemi di rilevazione radar del Paese. Ancora ignota l’origine del guasto.

I diritti sociali che abbiamo sono stati ottenuti (anche) grazie allo sciopero

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Mentre 80 piazze in tutta Italia si sono riempite pacificamente a sostegno dello sciopero generale indetto da Usb contro il genocidio in atto a Gaza, il governo ha scelto di concentrare l’attenzione sugli scontri avvenuti alla stazione Centrale di Milano. L’episodio, che ha coinvolto poche centinaia di persone, è diventato il pretesto non solo per ridimensionare il successo della mobilitazione, ma anche per rilanciare una proposta che rischia di colpire al cuore il diritto di sciopero, ipotizzando di chiedere una cauzione a chi organizza cortei e manifestazioni per fare in modo, in caso di danni, che siano loro a pagare. Una criminalizzazione che si nutre anche dell’atteggiamento passivo di non pochi cittadini, che da una parte denunciano il genocidio in corso, ma dall’altro attaccano sui social le manifestazioni che si tramutano in blocchi delle strade, delle ferrovie, della produzione. Come se lo sciopero dovesse essere solo una testimonianza di dissenso che non dà fastidio a nessuno anziché, come è da sempre e per definizione, un’azione collettiva che mira a rendere insostenibile lo status quo per costringere il governo a scendere a patti con le istanze popolari. Eppure, e come vedremo la storia d’Italia lo dimostra, proprio lo sciopero è da sempre il motore di gran parte delle conquiste e dei diritti sociali dei quali ancora possiamo godere.

Cos’è lo sciopero?

Lo sciopero è uno strumento collettivo di lotta e rivendicazione dei lavoratori, che consiste nell’astenersi temporaneamente dal lavoro per esercitare pressione nei confronti del datore di lavoro, del settore produttivo o delle istituzioni. Può assumere diverse forme: dallo sciopero generale, che coinvolge trasversalmente più categorie e settori, allo sciopero di categoria o aziendale, limitato a un comparto specifico; dallo sciopero politico, rivolto a decisioni governative, a quello a singhiozzo, con interruzioni intermittenti della produzione. Esistono poi varianti come lo sciopero bianco, in cui i lavoratori applicano rigidamente i regolamenti rallentando le attività, e lo sciopero a oltranza, che prosegue fino al raggiungimento degli obiettivi prefissati. In tutte le sue forme, rimane uno dei principali strumenti di partecipazione e conflitto sociale riconosciuti nelle democrazie moderne.

La storia del Primo maggio

Il 1° maggio 1886 a Chicago non è un giorno come gli altri. Migliaia di lavoratori, 200mila secondo le cronache dell’epoca, scendono in strada chiedendo una cosa che oggi ci sembra banale: otto ore di lavoro, otto di riposo, otto di tempo libero. La parola d’ordine nasce dal sindacato dei lavoratori edili – stanchi di lavorare dalle 12 alle 14 ore al giorno – e si diffonde come un lampo nelle fabbriche degli Stati Uniti. Il 3 maggio, davanti alla McCormick, una fabbrica produttrice di mietitrebbie, la polizia apre il fuoco sugli operai in sciopero: due morti, decine di feriti. Il giorno dopo, durante un comizio in Haymarket Square, esplode una bomba. La polizia reagisce sparando sulla folla. È il caos. Alla fine rimangono a terra una decina di morti. Quei giorni sanguinosi, passati alla storia come i moti di Haymarket, hanno un effetto imprevisto: trasformano la repressione in simbolo universale. Da allora il 1° maggio diventa la Festa dei Lavoratori per ricordare che ogni diritto nasce da una rottura, da un “no” collettivo. Da uno sciopero.
sciopero storiaPer anni le otto ore rimasero una rivendicazione. Solo con la Prima guerra mondiale e il rischio di rivoluzioni sociali, i governi capirono che bisognava dare una risposta. Nel 1919, con il Trattato di Versailles, fu creata l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Alla sua prima Conferenza, a Washington, i delegati approvarono la Convenzione n. 1, che fissava per la prima volta un limite globale: otto ore al giorno, 48 alla settimana per l’industria. Era un compromesso difficile, ma segnò una svolta: dalle barricate di Chicago si arrivava a una norma internazionale vincolante.

Dalla fabbrica alla Costituzione

In Italia, lo sciopero ha un percorso tortuoso. Il primo sciopero generale del nostro Paese nell’età moderna risale al 1904, quando i sindacalisti e il partito Socialista guidato allora da Filippo Turati il 16 settembre guidarono una mobilitazione generale, nelle città e nelle campagne, portando i braccianti agricoli a smettere di lavorare. Le richieste comprendevano sia il miglioramento delle condizioni lavorative sia la fine degli “eccidi proletari”, riferendosi a diversi casi in cui, in proteste precedenti, le forze dell’ordine avevano sparato e ucciso contadini e minatori.

Durante il fascismo lo sciopero viene dichiarato illegale: le Camere del lavoro chiuse, i sindacati soppressi, gli scioperanti perseguiti. Ma già nel marzo 1943 gli operai della Fiat incrociano le braccia contro la fame e la guerra, mettendo in moto un processo che è passato alla storia come il “risveglio operaio”. Tutto ha inizio a Torino, il 5 marzo, con il fermo totale delle macchine alla Fiat Mirafiori, dando inizio a una serie di scioperi antifascisti che coinvolsero 100mila operai in tutto il nord Italia. È il primo grande sciopero di massa in un Paese sotto dittatura dove, alle iniziali richieste economiche si aggiunsero quelle di natura politica, chiedendo la fine della guerra. Dopo la Liberazione, la Costituzione del 1948 sancisce all’articolo 40: «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». È la prima volta che lo Stato italiano riconosce apertamente il conflitto come legittimo. È un passaggio epocale: lo sciopero smette di essere solo un atto di ribellione e diventa un diritto costituzionale.

“L’Autunno caldo” e lo Statuto dei lavoratori

Una delle numerose proteste del cosiddetto ”Autunno Caldo” che coinvolsero tutta l’Italia nel 1969

Negli anni ’60 l’Italia cambia volto: il miracolo economico crea lavoro in fabbriche enormi e catene di montaggio, con masse di operai che migrano dal sud al nord. Ma le condizioni sono dure: turni lunghi, salari bassi, sicurezza scarsa. È in questo clima che esplode “l’Autunno caldo” del 1969: scioperi a catena, milioni di ore di lavoro sospese, piazze piene. A guidare le lotte non sono solo i sindacati confederali, ma anche consigli di fabbrica, delegati di reparto, assemblee spontanee. Lo sciopero diventa pratica quotidiana, strumento di democrazia diretta. I risultati arrivano: aumenti salariali, migliori condizioni contrattuali, ferie e malattia pagate. E soprattutto, nel 1970, lo Statuto dei Lavoratori. La legge n. 300 del 20 maggio 1970 riconosce libertà sindacale, la tutela contro i licenziamenti arbitrari, diritto di assemblea in fabbrica, divieto di controllo a distanza. È una rivoluzione civile. Senza gli scioperi di quegli anni, questa legge non sarebbe mai esistita.

Dagli operai ai rider: lo sciopero che cambia volto

sciopero idranti protesta

Ogni conquista – dalle ferie pagate al salario minimo, dalla sicurezza sul lavoro al congedo di maternità – ha dietro di sé una storia di scioperi. Le otto ore non furono un dono, ma il frutto di sacrifici, carcere, sangue. Oggi, in molti Paesi, il diritto allo sciopero è eroso da leggi restrittive, preavvisi eccessivi, sanzioni. Nei servizi pubblici essenziali viene ridotto a simulacro. Si invoca l’interesse collettivo per negare la voce di chi rivendica soprusi e ingiustizie, dimenticando che senza quella voce non c’è equilibrio sociale, ma solo imposizione. La storia insegna una cosa chiara: i diritti non cadono dall’alto. Sono il frutto di conflitti, di scioperi, di mobilitazioni.

Ogni epoca ha il suo sciopero. Negli anni ’80 e ’90 lo strumento viene usato per difendere il posto di lavoro durante le grandi ristrutturazioni industriali. Ma la lotta subisce un cortocircuito. È il 14 ottobre del 1980 quando a Torino va in scena la Marcia dei Quarantamila, manifestazione organizzata dai dirigenti della Fiat contro i sindacati e i picchetti che da oltre un mese bloccavano le fabbriche, dopo che l’azienda – in crisi – aveva optato per licenziamenti e cassa integrazione per oltre 20mila operai. La Fiat ottiene la riduzione del conflitto, i sindacati escono indeboliti. Lo sciopero sembra perdere forza, ma non scompare.

Per arrivare a un’altra grande mobilitazione bisogna aspettare il 2002, quando milioni di persone scendono in piazza contro la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: è una delle più grandi mobilitazioni del dopoguerra. È il 23 marzo quando la CGIL porta in piazza 3 milioni di persone che invadono pacificamente le strade di Roma per confluire al Circo Massimo, inaugurando una mobilitazione che salverà l’articolo 18. Almeno fino al 2012, quando venne profondamente modificato dalla riforma Fornero e fino all’abrogazione del 2014 con il Jobs Act voluto dal governo Renzi. Negli ultimi anni, la scena cambia ancora: a incrociare le braccia sono i rider delle piattaforme digitali, i lavoratori della logistica, gli addetti ai servizi essenziali. Con scioperi piccoli ma mirati ottengono contratti, riconoscimento di tutele, visibilità sociale che altrimenti non avrebbero.

Il senso dello sciopero per Gaza

I fatti del passato dimostrano una cosa chiara: i diritti non cadono dall’alto. Sono il frutto di conflitti, di scioperi, di mobilitazioni. Senza la possibilità di sospendere il lavoro, il singolo è inerme di fronte alle grandi aziende e alle multinazionali, capaci di imporre la propria agenda ai governi nazionali, figurarsi ai propri lavoratori. Quali armi avrebbero i lavoratori di Amazon in Italia se non potessero scioperare? Nessuna, perché lo sciopero è la leva che trasforma la disperazione individuale in forza collettiva. Cerchiamo di ricordarcelo quando, dopo uno sciopero, si punta il dito solo sui disagi vissuti dal resto dei cittadini. O quando siamo noi stessi a lamentarci perché una manifestazione ci fa perdere un treno o ci fa rimanere imbottigliati nel traffico: lo sciopero, per sua natura, nasce proprio per dare fastidio: è un atto di disturbo che interrompe la normalità del lavoro e dei servizi, perché solo così riesce a rendere visibile la forza e le rivendicazioni di chi protesta. È proprio in quel disagio che risiede il senso dello sciopero, nel costringere la società a fermarsi un momento e a riconoscere le condizioni di chi manifesta. Uno sciopero “indolore” sarebbe inoffensivo, e quindi inutile.

E qui arriviamo alla madre delle critiche che in molti hanno fatto sullo sciopero per Gaza, sostenendo che non avrebbe cambiato di un millimetro le politiche di Israele e il genocidio in corso nella Striscia. Questo è un ragionamento che dimentica un punto essenziale: nessuna protesta in Italia può incidere direttamente sulle decisioni di Tel Aviv, ma lo sciopero è uno dei pochi strumenti che i cittadini hanno per forzare i propri governi a prendere posizione, a riconoscere ciò che sta accadendo e ad agire di conseguenza. Non è un caso se, all’indomani delle manifestazioni, Giorgia Meloni abbia improvvisato un’apertura – pur di circostanza – al riconoscimento della Palestina. E non è un caso nemmeno che il ministro della Difesa Crosetto abbia inviato una nave militare per proteggere gli italiani a bordo della Global Sumud Flotilla che sta cercando di raggiungere Gaza: proprio una delle richieste che era al centro dello sciopero. È questo il punto: la pressione dal basso non abbatte i muri da sola, ma costringe chi sta in alto a muoversi, anche di pochi passi. E senza quei pochi passi, la storia insegna, non si arriva mai a un cambiamento vero.

Cortina ’26, ancora guai: spuntano appalti opachi e accuse di impianti insicuri

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Mentre manca sempre meno all’inizio dei Giochi Olimpici invernali del 2026, l’immagine di Milano-Cortina si offusca sotto il peso di due ulteriori vicende opache emerse negli ultimi giorni. Da un lato, gli appalti per le infrastrutture risultano segnati dalla presenza di un’impresa, la Bracchi srl di Valdisotto, esclusa da una gara regionale perché coinvolta in un’inchiesta per corruzione, ma ancora al lavoro come subappaltatrice in due cantieri cruciali di Simico. Dall’altro, i nuovi trampolini della Val di Fiemme, appena testati, sono già al centro di polemiche internazionali dopo tre gravi infortuni in 48 ore occorsi ad atlete di altissimo livello, facendo temere per la sicurezza degli impianti. Un binomio di ambiguità gestionale e potenziali rischi che getta una lunga ombra sulla preparazione dell’evento, già segnato da scandali giudiziari, ritardi operativi e lievitazione dei costi.

Il caso che scuote la governance degli appalti olimpici ha un nome: Bracchi srl. A fine aprile, la società era stata esclusa con determina dal direttore generale di Aria, Lorenzo Gubian, da un appalto da 13 milioni per l’impianto di innevamento di Bormio, dal momento che non aveva comunicato l’inchiesta “Recharge” che a marzo era costata gli arresti domiciliari al titolare, Enrico Davide Bracchi, con accuse di corruzione, peculato e falso. Eppure, come risulta dal portale ufficiale di Simico, responsabile delle opere sportive e stradali contenute nel Piano Olimpico, la stessa Bracchi risulta oggi subappaltatrice per la costruzione del sistema di innevamento della pista Stelvio (appalto da 20 milioni) e per i lavori di riqualificazione delle aree limitrofe (1,2 milioni). Un paradosso denunciato in Parlamento dal deputato Tino Magni (Verdi-Sinistra), che evidenzia come la normativa sui contratti pubblici, sebbene rigorosa per gli appaltatori principali, mostri una pericolosa lacuna nei controlli sui subappaltatori.

Sul fronte sportivo, la “prova generale” in Val di Fiemme si è trasformata in un incubo. Tre atlete di vertice mondiale – l’austriaca Eva Pinkelnig, la canadese Alexandria Loutitt e la giapponese Haruka Kasaihanno riportato gravi infortuni ai legamenti del ginocchio in cadute sui nuovi trampolini. Le dinamiche degli incidenti, sebbene differenti, hanno scatenato le critiche della stampa internazionale e portato al ritiro in blocco delle squadre austriaca e canadese dalle ultime prove. Un gesto assai eloquente, che potrebbe essere seguito a breve dalla squadra della Polonia. Se i tecnici internazionali assolvono i profili costruttivi, standardizzati dalla Federazione, e attribuiscono le cadute a errori umani, il sospetto che i nuovi impianti possano nascondere criticità è ormai un’ipotesi concreta che richiederà accertamenti approfonditi. Quelli del trampolino sono solo gli ultimi problemi registrati dall’organizzazione dell’evento sportivo: l’ultimo aveva riguardato la cabinovia di Cortina, che lo scorso 4 settembre è sprofondata nel terreno aprendo una voragine di 15 metri di lunghezza.

L’intreccio tra opacità negli appalti, ritardi infrastrutturali e dubbi sulla sicurezza degli impianti sportivi dipinge un quadro allarmante per Milano-Cortina 2026, al centro di aspre polemiche sul tema degli sprechi e della mala gestione. Ad agosto, la Camera dei Deputati aveva dato il via libera definitivo al Decreto Sport, che ha incluso anche le norme volte a coprire i buchi di bilancio della Fondazione Milano-Cortina per le Olimpiadi invernali 2026. Il decreto ha stanziato infatti 328 milioni di euro alla istituzione di un nuovo Commissario per le Paralimpiadi, che avrebbe il compito di «subentrare nei rapporti giuridici della Fondazione». Una formulazione che appare come una scusa per scorporare parte dei costi, dal momento che le Paralimpiadi erano già presenti nel Comitato. Inoltre, l’esecutivo ha deciso di destinare al finanziamento dei Giochi ben 43 milioni di euro provenienti dal Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime di mafia, usura e agli orfani di femminicidio.

Lo scorso aprile la Procura di Milano ha chiesto di archiviare l’inchiesta sulla Fondazione organizzatrice, in cui si contestavano reati di corruzione e turbativa d’asta, ma ha sollevato la questione di costituzionalità sul decreto del governo che, trasformandola in ente privato, avrebbe ostacolato intercettazioni e sequestri preventivi di un presunto profitto di reato di circa 4 milioni. Il tutto non considerando un buco milionario generato dalla Fondazione: in un contesto già segnato da deficit patrimoniali accumulati dalla Fondazione – oltre 107 milioni – la stima dei costi è infatti lievitata di ulteriori 180-270 milioni.

Curare con gli psichedelici: al via in italia il primo corso per medici e terapeuti

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Un corso formativo sugli psichedelici, per dare anche a medici, psichiatri e psicoterapeuti italiani gli strumenti necessari per conoscere queste sostanze e, quando sarà permesso, utilizzarle con i pazienti. È la nuova iniziativa di Illuminismo Psichedelico, podcast condotto dallo scrittore Federico Di Vita e co-prodotto dall’Associazione Luca Coscioni che da anni, insieme a molte altre, porta avanti anche questa battaglia di civiltà.
L‘Academy di Illuminismo Psichedelico, che come podcast è nato 5 anni fa e nel frattempo si è trasformato in un’associazione, ha creato per la prima volta in Italia un corso di questo tipo, con un totale di 300 ore suddivise in 18 mesi di lezioni, mettendo a disposizione 50 crediti formativi per i professionisti della salute che decideranno di partecipare. Tra i docenti ci sono personalità note a livello internazionale, come l’etnobotanico Giorgio Samorini o il ricercatore Tommaso Barba – neuroscienziato dell’Imperial College di Londra che è una vera e propria istituzione in materia – medici e psichiatri come Piero Cipriano e Fabio Villa, e professori come Nicola De Pisapia e Bruno Neri.

Il momento non è casuale perché in tutto il mondo stiamo assistendo alla riscoperta di queste sostanze, a lungo studiate nel ‘900 fino alla loro proibizione, che promettono di cambiare la psicoterapia per come noi occidentali l’avevamo conosciuta fino ad oggi. Parliamo di molecole diverse tra loro, come LSD, psilocibina, MDMA e ketamina, che, secondo un’enorme mole di studi scientifici in continuo aumento, sarebbero efficaci nel trattare patologie che vanno dalla depressione resistente ai farmaci tradizionali, passando per il disturbo da stress post traumatico o il disturbo ossessivo-compulsivo, fino ad arrivare alle dipendenze da sostanze, alcol compreso. È dai primi anni duemila che queste sostanze sono tornate prepotentemente alla ribalta della ricerca scientifica, portando alla definizione di “Rinascimento psichedelico”. Un cambio di paradigma che, di recente, sta incidendo anche sulle politiche sanitarie di diversi Paesi.

La Nuova Zelanda è l’ultimo Paese ad aver autorizzato l’uso terapeutico degli psichedelici in medicina: il professor Cameron Lacey potrà trattare con psilocibina i pazienti affetti da depressione resistente, mentre gli altri medici dovranno richiedere l’approvazione a Medsafe, l’ente regolatorio nazionale. A fare da apripista era stata l’Australia, che dal 1° luglio 2023 consente agli psichiatri di prescrivere MDMA e psilocibina come farmaci a tutti gli effetti, prima al mondo a introdurre una simile regolamentazione. In Europa, la Repubblica Ceca sarà la prima a muoversi in questa direzione: dal 2026 la psilocibina potrà essere impiegata contro depressione, PTSD e dipendenze. Nel frattempo la Germania è diventato il primo Paese europeo a permettere, a certe condizioni, di curare i pazienti con la psilocibina, il principio attivo dei funghi magici; l’autorità regolatoria per i farmaci in Germania (BfArM), ha autorizzato due strutture, l’Istituto Centrale di Salute Mentale e la Clinica OVID di Berlino, a un programma di uso compassionevole, coma già accade negli Stati Uniti, in Canada, in Svizzera e Israele.

Ed è una possibilità che, secondo l’Associazione Luca Coscioni, dovrebbe essere disponibile anche in Italia, perché, anche in assenza di una legge esplicita, l’uso compassionevole di farmaci sperimentali – comprese le sostanze psichedeliche – è già previsto dalla normativa vigente (Regolamento UE 726/2004, DM 2017). Sul tema l’associazione ha di recente pubblicato un documento dell’avvocata e attivista civile Claudia Moretti, in cui viene spiegato che secondo le norme che regolano le cure palliative e l’uso del farmaco sperimentale è possibile già oggi utilizzare composti che si sono dimostrati efficaci in letteratura, in assenza di un’alternativa a livello terapeutico.

Mentre a livello europeo è attiva una ICE (Iniziativa dei Cittadini Europei) che mira a promuovere l’accesso equo, sicuro e legale alle terapie assistite da psichedelici per migliorare la salute mentale nell’Unione Europea, anche in Italia qualcosa sta cambiando. È stato infatti dato il via libera al primo studio clinico italiano per analizzare gli effetti della psilocibina nel trattamento della depressione resistente ai farmaci tradizionali e sarà coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità. Lo studio, che durerà 2 anni e prevede la partecipazione di 68 pazienti con depressione resistente, valuterà gli effetti della psilocibina sui pazienti tramite l’utilizzo di tecniche innovative di neuroimaging e neurofisiologia, che permettono di ottenere immagini dettagliate del cervello, con l’obiettivo di identificare biomarcatori cerebrali e definire nuove strategie di psichiatria di precisione.

Attacco alla Flotilla: Crosetto invia una nave militare in soccorso degli italiani a bordo

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Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha autorizzato l’invio di una nave militare per «garantire assistenza ai cittadini italiani» a bordo della Global Sumud Flotilla, la missione umanitaria marittima che intende rompere l’assedio israeliano su Gaza. L’invio della nave militare, la fregata multiruolo Fasan della Marina Militare, arriva in risposta all’attacco con droni scagliato contro diverse imbarcazioni della Flotilla nella notte tra ieri e oggi, 24 settembre. Crosetto ha condannato l’attacco, e ha spiegato che la nave si trovava già in navigazione a nord dell’isola di Creta e che ora sta viaggiando verso l’area «per eventuali attività di soccorso». La decisione è stata presa in coordinazione con la premier Meloni e il Capo di Stato Maggiore della Difesa. Crosetto ha inoltre informato  l’addetto militare israeliano in Italia, l’ambasciatore e l’addetto militare italiani in Israele, e l’unità di crisi della Farnesina. Nel frattempo, Tajani ha chiesto a Israele di garantire la sicurezza dei civili a bordo del convoglio, ammettendo implicitamente la presunta responsabilità di Tel Aviv negli attacchi

«In merito all’attacco subito nelle scorse ore dalle imbarcazioni della Sumud Flotilla, a bordo delle quali si trovano anche cittadini italiani, condotto mediante l’impiego di droni da parte di autori al momento non identificati, non si può che esprimere la più dura condanna». Inizia così il comunicato del ministero della Difesa, che rimarca come, «in democrazia anche le manifestazioni e le forme di protesta devono essere tutelate quando si svolgono nel rispetto delle norme del diritto internazionale e senza ricorso alla violenza». Crosetto ha dunque annunciato di avere inviato la fregata Fasan verso l’area, «per eventuale attività di soccorso». Il ministro non ha specificato in cosa consistano esattamente queste attività, né che ruolo avrebbe l’imbarcazione nel caso in cui dovesse verificarsi un ulteriore attacco. La nave, dispiegata nell’ambito dell’operazione Mare Sicuro al largo delle coste libiche, è già in navigazione verso il convoglio ed è partita questa notte alle 3:50.

La scelta di inviare la fregata Fasan «in soccorso» agli italiani della Global Sumud Flotilla da parte di Crosetto arriva in seguito all’attacco avvenuto nella notte tra ieri e oggi a diverse navi della missione umanitaria: secondo i resoconti degli attivisti, diverse navi sono state attaccate da una serie di droni che avrebbero sganciato bombe assordanti, oggetti non identificati e spray urticanti nelle acque internazionali a sud dell’isola di Creta. In seguito all’attacco, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha contattato le autorità israeliane, «affinché qualsiasi operazione che possa essere affidata alle forze amate di Gerusalemme sia condotta rispettando il diritto internazionale e un principio di assoluta cautela»; le parole di Tajani sembrano ammettere implicitamente che l’attacco, che non è stato reclamato da nessuno, sia effettivamente stato condotto da Israele, e che il governo italiano ne sia pienamente conscio. Nonostante ciò, il ministro non ha rilasciato alcuna condanna contro lo Stato ebraico, suggerendo, anzi, che non criticherebbe eventuali «operazioni affidate alle forze armate di Gerusalemme», sempre se condotte con «cautela».

ENI contro Greenpeace e ReCommon, al via il processo per diffamazione

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Ieri, martedì 23 settembre, a Roma, è iniziato il processo per diffamazione intentato da ENI contro Greenpeace Italia, Greenpeace Paesi Bassi e ReCommon. La multinazionale accusa le organizzazioni di aver promosso una «campagna d’odio», ma queste denunciano l’azione come una causa temeraria volta a intimidire chi critica l’azienda e il suo ruolo nella crisi climatica. La coalizione europea CASE ha già certificato il procedimento come tale. ENI è accusata di distogliere l’attenzione dalla “Giusta Causa” avviata nel 2023 per denunciare le responsabilità del Cane a Sei Zampe nell’attuale crisi climatica. Greenpeace e ReCommon promettono di continuare la denuncia pubblica.

Riconoscere la Palestina senza riconoscerla: Meloni annuncia la mozione farsa

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Dopo che undici Paesi hanno annunciato il loro riconoscimento formale allo Stato di Palestina, la premier italiana Giorgia Meloni ha presentato le proprie «condizioni» perché l’Italia faccia lo stesso: «Il rilascio degli ostaggi e l’esclusione di Hamas da qualsiasi dinamica di governo all’interno della Palestina». La dichiarazione è stata rilasciata durante un punto stampa davanti alla sede delle Nazioni Unite, a New York, in cui Meloni ha annunciato che la maggioranza presenterà una mozione alla Camera per riconoscere la Palestina sotto tali condizioni. «Dobbiamo capire quali sono le priorità», ha detto Meloni: «È Hamas che ha iniziato questa guerra ed è Hamas che impedisce che questa guerra finisca», ha continuato, spostando le responsabilità del genocidio sull’organizzazione palestinese. Una posizione per riconoscere la Palestina senza farlo davvero, che, di fatto, comporta il mantenimento della situazione così come è, e permette a Israele di continuare indisturbata a massacrare i civili palestinesi senza che l’Italia alzi un dito per fermarla.

L’annuncio di Meloni è stato rilasciato ieri ai giornalisti presenti davanti al palazzo di vetro. Rispondendo a una domanda sul riconoscimento della Palestina annunciato tra gli altri da Canada, Francia e Regno Unito – tre Paesi del G7 – Meloni ha ribadito le proprie posizioni secondo cui «il riconoscimento della Palestina in assenza di uno Stato che abbia i requisiti della sovranità non risolve il problema e non produce risultati tangibili e concreti per i palestinesi», senza menzionare il fatto che se la Palestina non possiede «i requisiti della sovranità» è perché Israele glielo impedisce da decenni. Secondo il diritto internazionale, infatti, i requisiti fondamentali perché uno Stato possa dirsi sovrano sono tre: una popolazione permanente, un territorio definito e un governo che abbia potere su quel territorio in maniera indipendente; sin dalla sua fondazione, Israele caccia la popolazione dalle proprie case, occupa il territorio palestinese e impedisce all’amministrazione di esercitare i propri poteri.

Meloni ha poi discusso degli annunci di riconoscimento della Palestina come «strumento di pressione politica», affermando che, quando si tratta di pressione, «dobbiamo anche capire su chi» essa vada esercitata: «Io penso che la principale pressione politica vada fatta nei confronti di Hamas», ha detto, «perché è Hamas che ha iniziato questa guerra ed è Hamas che impedisce che questa guerra finisca rifiutandosi di consegnare gli ostaggi». Ancora una volta, la premier ha ignorato non solo tutto quello che ha preceduto il 7 ottobre, ma anche il fatto che Hamas ha più volte proposto di riconsegnare gli ostaggi in cambio della fine della guerra, e che Israele si è sempre rifiutata di accettare le condizioni del gruppo palestinese. L’ultima volta è stata appena due mesi fa. Il riconoscimento della Palestina, ha continuato la premier, deve avvenire secondo le giuste priorità; e la priorità, a quanto pare, non è impedire allo Stato di Israele di uccidere i civili palestinesi, ma smantellare Hamas. Alle dichiarazioni di Meloni hanno fatto eco quelle del ministro degli Esteri Tajani, che ha affermato che la maggioranza presenterà la propria mozione alla Camera il prossimo giovedì.

La posizione del governo, insomma, è quella di non fare niente. Esercitare pressione su Hamas invece che sullo Stato ebraico permette di fatto a Israele di continuare a bombardare i civili palestinesi senza temere ripercussioni. Inoltre, se anche Hamas rilasciasse gli ostaggi e se ne andasse dalla Striscia la situazione non cambierebbe, visto che ha accettato di farlo più di una volta. Da mesi, infatti, le autorità israeliane sono piuttosto chiare nel manifestare le proprie intenzioni: «L’intera Gaza sarà ebraica. Il governo sta spingendo affinché Gaza venga cancellata. Grazie a Dio, stiamo estirpando questo male» ha dichiarato il ministro israeliano ultranazionalista Amihai Ben-Eliyahu. L’ultimo piano militare approvato dal gabinetto di sicurezza israeliano, prevede l’occupazione totale di Gaza City, lo sfollamento della popolazione in aree sempre più prossime al confine meridionale, e l’implementazione graduale del piano di Trump per Gaza, di cui è recentemente trapelata una bozza.

ONU, BRICS, antifascisti e paracetamolo: Trump delinea i suoi prossimi obiettivi

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All’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Donald Trump ha tracciato la rotta del suo secondo mandato con un intervento che ha trasformato il consesso internazionale in un palcoscenico per delineare i suoi prossimi obiettivi, attaccare gli avversari politici e demolire la logica stessa della cooperazione multilaterale. A New York ha invocato la sovranità nazionale e bollato il globalismo che «ha alimentato conflitti e caos senza fine in tutto il mondo», come una cospirazione che strangola le stesse nazioni industrializzate che lo hanno teorizzato. In un discorso di quasi un’ora, contro i 15 concessi a ogni capo di Stato, il tycoon ha accusato l’ONU di essere complice di una burocrazia che tradisce i popoli e ha suggerito ai leader mondiali di usare la sua ricetta MAGA per «rendere i loro Paesi di nuovo grandi». Il globalismo, secondo Trump, smantella la sovranità degli Stati, sostituendo il governo del popolo con regole sovranazionali che opprimono le nazioni industrializzate. Il presidente americano ha respinto le pressioni sul “cambiamento climatico” definito «la più grande truffa mai perpetrata» e definendo “ipocrita” l’Europa per le sue politiche ambientali. Ha poi rilanciato la linea inflessibile sull’Iran, a cui non deve essere permesso di possedere armi nucleari, e sull’Ucraina, imponendo che Kiev riconquisti i territori occupati e attribuendo la colpa esclusiva a Mosca: un modo per “lavarsi le mani” della guerra e scaricare la responsabilità del destino di Kiev agli alleati europei, limitandosi a invitare i Paesi NATO ad «abbattere i jet russi sui loro cieli». Anche sul conflitto a Gaza il presidente ha preferito la logica dello scontro, difendendo l’unilateralismo statunitense e rifiutando compromessi multilaterali.

Così l’Assemblea si è trasformata in un ring: ogni dichiarazione è servita a erigere muri ideologici e a rafforzare l’immagine di un’America isolata, ma “pura” nella difesa della propria sovranità. L’obiettivo strategico è impedire ogni sfida all’egemonia americana, non solo a parole ma anche a colpi di dazi e minacce di sanzioni: i BRICS – Russia, Cina, India e Brasile – vengono indicati da mesi come il fulcro di un progetto per ribaltare l’ordine mondiale, un “nuovo sistema” capace di minare la stabilità internazionale. Proprio Cina e India sono stata bollate nel consesso all’ONU come “finanziatrici” di Mosca, implicando una responsabilità strategica nel conflitto russo-ucraino. Durante il suo discorso, Trump ha anche associato il globalismo a fenomeni che considera nocivi: flussi migratori non regolamentati, ingerenze in politiche nazionali tramite organismi internazionali e una serie di vincoli ambientali e regolatori imposti da agenzie multilaterali che, a suo dire, limitano la crescita e l’autonomia dei Paesi. Descrivendo la crisi dell’“immigrazione incontrollata”, definita come «la principale questione politica dei nostri tempi», come il risultato del «fallito esperimento dei confini aperti» al quale bisogna «mettere fine ora», il presidente ha puntato il dito contro l’ONU, responsabile a suo avviso di favorire politiche migratorie che mettono in pericolo i Paesi occidentali.

La strategia trumpiana non si limita al fronte estero e nemmeno ai punti delineati a New York. Alla vigilia del discorso all’ONU, la Casa Bianca ha diffuso un ordine esecutivo che designa “Antifa” come organizzazione terroristica interna. Il provvedimento, nato sull’onda emotiva dell’omicidio Kirk, è di fatto un tentativo di instaurare una nuova stagione di maccartismo: “Antifa” non è un’entità strutturata, ma un’etichetta generica utile a colpire oppositori, movimenti sociali e contestazione politica. Parallelamente, proprio in questi giorni, la Casa Bianca ha rafforzato la pressione sulla stampa – con divieti e restrizioni già imposti a Pentagono e istituzioni federali – e ha intensificato l’offensiva contro la libertà accademica, usando come pretesto il contrasto all’antisemitismo nei campus. In questo quadro, il presidente costruisce un nemico interno da affiancare, a seconda delle occasioni, a quello esterno, così da presentarsi come il difensore della nazione sotto assedio e giustificare la censura preventiva della stampa e il silenziamento dei “nemici”. L’obiettivo politico è duplice: mobilitare la base conservatrice alimentando paure e divisioni, screditare e imbavagliare ogni forma di dissenso, ricodificandolo come un pericolo per la “sicurezza nazionale”. In questo modo, l’agenda securitaria diventa una clava da brandire tanto contro i BRICS quanto contro studenti, docenti, giornalisti o migranti. Dietro tutto questo non c’è solo la risposta all’omicidio di Charlie Kirk: c’è una strategia politica coerente con il programma MAGA e con il “Project 2025”, che molti commentatori individuano come il programma ideologico di governo reazionario della Heritage Foundation e degli ambienti conservatori attorno a Trump.

Ancora alla vigilia dell’Assemblea ONU, la Casa Bianca ha organizzato una conferenza stampa in cui il presidente americano ha annunciato che la Food and Drug Administration (FDA) avvierà una revisione sull’uso del paracetamolo in gravidanza e comunicherà ai medici americani che il Tylenol – un farmaco americano a base di paracetamolo (o acetaminofene), come la Tachipirina – può causare l’autismo nei bambini se assunto dalle donne incinte. Una notizia che era stata anticipata nei giorni scorsi dal Washington Post. Mentre sul piano internazionale Trump accusa l’ONU di complottare contro gli Stati sovrani, sul piano interno si appropria di teorie alternative in campo scientifico per mostrarsi “anti-sistema”, affiancando Robert Kennedy jr. nella sua crociata contro Big Pharma. Così, mentre annuncia che l’Ucraina deve riconquistare i territori e insiste con le sue invettive contro il globalismo, il tycoon trova anche il modo di strizzare l’occhio alla base MAGA, sul piede di guerra negli ultimi mesi per l’insabbiamento del caso Epstein. La miscela di geopolitica aggressiva e populismo sanitario rivela la coerenza di un disegno che si fonda sempre sulla costruzione di un nemico e di una minaccia: che si tratti dei BRICS, dei migranti, degli antifascisti, dell’Iran, della stampa o di un farmaco da banco, l’importante è alimentare la “percezione” di un’America sotto assedio, che grazie al suo presidente in pochi mesi sta vivendo una «età dell’oro», a cui si contrappone un’Europa invece «in grossi guai» con l’invasione dei migranti che «arrivano a frotte».

Dei droni hanno attaccato la Global Sumud Flotilla lanciando bombe assordanti

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Nella notte tra il 23 e il 24 settembre la Global Sumud Flotilla, la spedizione internazionale composta da oltre cinquanta imbarcazioni partite da diversi porti del Mediterraneo che trasporta attivisti e aiuti umanitari diretti a Gaza, è stata attaccata da una serie di droni che avrebbero sganciato bombe assordanti, oggetti non identificati e spray urticanti nelle acque internazionali a sud dell’isola di Creta. Secondo i resoconti diffusi dagli organizzatori, almeno tredici episodi esplosivi si sarebbero verificati nell’arco della notte, con momenti di particolare intensità dopo l’una e quarantacinque. Le esplosioni hanno generato lampi e boati che hanno seminato il panico tra i passeggeri e provocato danni a più imbarcazioni: la Zefiro ha subito la distruzione dello strallo di prua, mentre la Morgana ha riportato gravi problemi alla vela principale. Non ci sono stati feriti, ma le comunicazioni radio sono state interrotte e i sistemi di bordo danneggiati, rendendo più difficile mantenere la rotta verso la Striscia. Gli organizzatori avvertono che la situazione rappresenta il culmine di una campagna di intimidazioni già registrata lungo la traversata del Mediterraneo da parte di Israele, accusato di screditare e mettere in pericolo i più di 500 civili disarmati impegnati nella missione umanitaria.

Maria Elena Delia, portavoce italiana della missione che viaggiava sulla Morgana, ha parlato di “violazione gravissima” e denunciato che “le comunicazioni sono state bloccate”, avvertendo che la vita dei partecipanti è stata messa a rischio. Il messaggio della portavoce è stato condiviso da diverse ONG e attivisti coinvolti nella spedizione, che sottolineano come le azioni subite violino “ogni principio del diritto marittimo internazionale”. Nei video diffusi si vedono lampi e si odono esplosioni isolate al largo, mentre le navi cercano di mantenere la rotta verso Gaza. Tra le imbarcazioni colpite figura anche la cosiddetta Family Boat, una delle principali della Flotilla, che trasportava membri del Comitato direttivo della missione e batteva bandiera portoghese. Le accuse si sono concentrate sull’ipotesi di un coinvolgimento israeliano, anche se nessuna autorità ha finora rivendicato l’operazione e non ci sono conferme indipendenti sull’origine dei droni. Dal governo italiano è arrivata una prima reazione attraverso il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha chiesto chiarimenti e garanzie per la sicurezza dei cittadini italiani a bordo. La Farnesina segue l’evolversi della situazione e ha attivato i canali diplomatici. Da parte degli organizzatori l’attacco è stato definito un atto di guerra contro civili disarmati, un crimine da sottoporre alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale. La GSF chiede agli Stati membri dell’ONU di garantire protezione immediata alle imbarcazioni, con scorte marittime, osservatori diplomatici e misure di sicurezza, e invita l’Assemblea Generale ad affrontare il tema con una risoluzione urgente.

La Global Sumud Flotilla è partita a fine agosto da diversi porti mediterranei, tra cui Barcellona, Genova, Tunisi e Catania. Riunisce decine di imbarcazioni e centinaia di volontari provenienti da oltre quaranta Paesi con l’obiettivo dichiarato di rompere l’assedio imposto a Gaza e portare sostegno materiale e politico alla popolazione palestinese. Già lungo la rotta le navi avevano denunciato episodi di sorveglianza da parte di droni, manovre di disturbo e tentativi di sabotaggio. L’attacco della scorsa notte rappresenta un salto di qualità, trasformando un’iniziativa umanitaria in un bersaglio militare di fatto. Il ricorso a bombe sonore e all’impiego sistematico di droni ha un valore intimidatorio evidente, ma non meno rilevante è il profilo politico: la missione intende portare la questione di Gaza al centro del dibattito internazionale e l’aggressione potrebbe avere l’effetto opposto a quello sperato da chi l’ha ordinata, accendendo i riflettori sulla determinazione dei volontari. Gli attivisti, infatti, ribadiscono la loro intenzione di non arretrare: «Gli atti di aggressione volti a intimidire e ostacolare la nostra missione non ci scoraggeranno. La nostra missione pacifica per rompere l’assedio su Gaza e stare in solidarietà con la sua popolazione continua con determinazione e risolutezza». All’alba, nonostante i danni e lo shock, la Flotilla ha annunciato di proseguire la rotta. La traversata verso la Striscia si conferma così non solo un atto di solidarietà, ma una sfida aperta alle logiche dell’assedio e della guerra.

Tifone Ragasa devasta Taiwan: almeno 14 morti e 124 dispersi

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Il super tifone Ragasa ha flagellato l’isola di Taiwan con piogge torrenziali e venti devastanti, provocando finora 14 vittime, 18 feriti e 124 dispersi, secondo le autorità locali. Nella contea orientale di Hualien, la rottura di una vecchia barriera lacustre ha scatenato inondazioni che hanno travolto infrastrutture, distruggendo un ponte e sommergendo interi quartieri della cittadina di Guangfu. Circa 100 persone risultano intrappolate e le squadre di soccorso sono al lavoro per accedere alle zone isolate. Le operazioni sono rese difficili da strade logisticamente compromesse e dal perdurare delle precipitazioni. Il tifone ha colpito lunedì con piogge torrenziali le Filippine settentrionali e Taiwan, costringendo migliaia di persone a evacuare.