Il sequestro delle emozioni è cosa fatta. Aveva ragione Philip K. Dick nel suo profetico romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (1968). Alieni e alienazione vanno di pari passo per rendere inconsapevolmente docili gli umani. Non un occulto potere superiore ma semplicemente una congerie di astuti media servili, di passaparola manipolati, ha cucinato il piatto forte dell’oppressione. Nessun potere centralizzato in effetti reprime alcunché tranne qualche manganellata da ancien régime. Molto meglio della frusta la frustrazione, rendere docili e rassegnati, fare uscire ad esempio di scena chi ha una attività in privato, autonoma, fare cessare sogni, progetti e illusioni che diventano tutti insieme materia del passato.
Costringere, se ancora ce la fai, a cercarti un lavoro lontano chissà dove così da farti rinunciare agli affetti, alla famiglia se ancora esiste.
Benvenuti androidi nel mondo dove tutti saranno liberi di cambiare sesso, di morire quando vogliono, di esercitare il cinismo e l’indifferenza ma che diventano pericolosi, soggetti da conculcare se manifestano, se non sono d’accordo con le verità ufficiali, se non vogliono le morti inutili delle guerre, se hanno orrore delle stragi di innocenti.
Te lo diciamo noi che siamo al governo chi sono gli innocenti, stai bene attento se appoggi quelli sbagliati diventi tu il colpevole e il terrorista. Intanto compra macchine elettriche non pecore elettriche, butta l’incarto nel bidone giusto, disprezza chi non agisce come faresti tu al suo posto, sentiti sempre dalla parte giusta ecc. ecc.
E io? Semplice donna, semplice uomo che vorrei cavalcare il mio orizzonte, rischiare qualcosa, provare a farcela? Non mi avevate insegnato voi, vecchi liberali, la sacralità della libera imprenditoria, il gusto del rischio, le dure promesse di ogni rinuncia?
Ma ora il sistema mi dice che io sbaglio prima ancora che faccia qualsiasi cosa mi possa venire in mente, sbaglio qualsiasi vocazione dovessi sentire. Le cose devono andare diversamente, rimani fottuto, sostenibile ma fottuto.
Affidati allora a una start up, entra nel vortice dei passi obbligati. Hai qualche amico in politica, sei parente di un commercialista senza scrupoli? Fatti guidare.
Ma se sei soltanto un androide solitario non ti rimane che sognare pecore elettriche, smettere di ridere o di piangere, non ti resta che rinunciare, tirare giù la serranda, vivere di quello che ti è rimasto.
Attenzione, però, questo non sia pessimismo ma materia viva di una nuova liberazione. Perché, stammi a sentire, quella del 1945 è stata una Liberazione santa, ma ce ne vorrebbero tante altre ancora. Per farci sentire davvero liberi piuttosto che liberati.
Tra le colline romagnole, nell’entroterra lontano dal mare, nel Comune di Bagno di Romagna (provincia di Forlì-Cesena) c’è una diga. È alta 103 metri e ha una larghezza di 432. La sua costruzione, oltre a garantire l’approvvigionamento idrico di tutto il territorio, ha creato un enorme lago artificiale in un contesto naturalistico affascinante, tra alberi secolari, sentieri e fauna selvatica. È uno dei luoghi preferiti dai romagnoli per un’escursione in collina poco distante da casa. La diga di Ridracoli, così si chiama, è tra le più grandi in Italia e contiene circa 33 milioni di metri cubi d’acqua.
In Emilia-Romagna, tra il 1° e il 17 maggio 2023, sono caduti 4,5 miliardi di metri cubi d’acqua. In pratica, è come se quella stessa diga si fosse rovesciata sul territorio non una ma ben 128 volte in due settimane. 4,5 miliardi di metri cubi d’acqua su una porzione di territorio di 16 mila chilometri quadrati. Il picco massimo si è registrato tra il 16 e il 17 maggio, quando sono esondati quasi contemporaneamente 24 fiumi, in particolare quelli che attraversano i principali centri abitati: il Savio a Cesena, il Montone a Forlì, il Lamone a Faenza e a Ravenna. In poche ore, il livello dell’acqua è salito fino a invadere le città, fuoriuscendo dagli argini, rompendoli, o risalendo dalle fognature, soprattutto dove le abitazioni sono state costruite sotto il livello dei fiumi.
Anche chi si trovava in zone della città risparmiate dall’acqua ricorda perfettamente l’angoscia della notte tra il 16 e il 17 maggio, passata ad ascoltare i messaggi di aiuto di amici e parenti nelle chat di gruppo, bloccati ai piani superiori delle case, con l’acqua che continuava a salire. Il bilancio finale di quei due giorni è stato di 17 morti. I danni stimati superano gli 8,8 miliardi di euro. Numeri impressionanti che tuttavia raccontano solo una parte della storia. Soprattutto perché, in Romagna, nulla è ancora finito. Anzi, i problemi sembrano appena iniziati
Le alluvioni
Il bacino di Ridràcoli a Bagno di Romagna (FC), lago artificiale formato da una delle dighe più alte in Italia
Tutti ricordano i giorni più drammatici, quelli del 16 e 17 maggio, quando anche i media nazionali iniziarono a dare forte risalto alla notizia degli allagamenti in Romagna. In realtà, già a inizio maggio, un’altra alluvione aveva messo Faenza sott’acqua. Poi, nell’autunno del 2024, si sono verificati altri due eventi, a distanza di appena un mese: il 18 e 19 settembre e il 19 e 20 ottobre, quando furono colpiti duramente Bologna e il suo entroterra collinare, assieme – ancora una volta – alla campagna ravennate. È per questo che in Romagna non si parla più di alluvione, ma di alluvioni, al plurale. E lo si fa sempre al presente. Non come un episodio passato, ma come un fenomeno attuale, con cui si continua a fare i conti ogni giorno. La maggior parte degli interventi realizzati finora sembra però essere in grado di rispondere solo alle emergenze immediate. Lo sanno bene, ad esempio, i cittadini di Traversara di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna. Nel 2023, l’argine del fiume Lamone aveva retto alla furia dell’acqua e il paese era stato allagato solo parzialmente. Nell’autunno del 2024, però, le sponde hanno ceduto e il fiume ha invaso le case. Ora l’apprensione è tale che ogni volta che piove per più di un giorno arriva un’ordinanza di evacuazione dal Comune e i cittadini trascorrono la notte da parenti o amici, senza sapere se al mattino troveranno ancora la loro casa. L’ultima volta è successo a marzo, meno di due mesi fa. A Villanova, poco distante, le piogge recenti hanno aperto grosse crepe negli argini e i residenti temono che un nuovo diluvio possa far crollare tutto. Il Comune è intervenuto rattoppando le spaccature ma la paura resta.
Anche nelle zone collinari la situazione è ancora critica. Molte strade, distrutte o bloccate dalle frane del maggio 2023, non sono mai state completamente ripristinate. Il Comune di Modigliana, in provincia di Forlì-Cesena, è stato colpito da quasi 7000 frane. Gli interventi d’emergenza hanno permesso di riaprire almeno in parte la viabilità, ma ogni volta che piove il terreno continua a muoversi. Parliamo di zone dove la chiusura di una strada può isolare decine di case o allungare di un’ora il tragitto verso la scuola o il lavoro. Situazioni d’emergenza che, da due anni, sono diventate normalità.
Il cambio di passo
Da una parte i lavori urgenti per rafforzare gli argini e fermare le frane, dall’altra i piani a lungo termine per mettere in sicurezza il territorio da nuove piogge. In mezzo, i cittadini che hanno perso tutto e aspettano ancora i rimborsi. Sono questi i tre fronti su cui si muovono da due anni Comuni, Governo e Regioni. Con grandi difficoltà. Da qualche mese sono cambiate le due figure fondamentali alla guida della macchina organizzativa: il presidente della Regione, Michele de Pascale, ha sostituito Stefano Bonaccini, mentre Fabrizio Curcio è diventato commissario straordinario all’alluvione al posto del generale Figliuolo, criticato per la scarsa presenza sul territorio. Il cambio al vertice è stata l’occasione per annunciare un “cambio di passo”: niente più commissari in smart working e fondi erogati col contagocce, ma più presenza sui luoghi dell’emergenza e interventi rapidi.
Il presidente della Regione Emilia-Romagna, Michele De Pascale
«Un piccolo miglioramento c’è stato – spiega Alessandra Bucchi del Comitato Vittime del Fango di Forlì – soprattutto per quanto riguarda il dialogo con le istituzioni. Ma resta il fatto che, dopo due anni, stiamo ancora aspettando i rimborsi e i piani speciali per la messa in sicurezza del nostro quartiere». L’attesa dei piani speciali in Romagna viene ormai raccontata come una barzelletta. Parliamo di interventi strutturali, da 4,5 miliardi di euro, per migliorare il deflusso dei corsi d’acqua, creare casse di laminazione e gestire le piene. Insomma, tutto ciò che serve per evitare che una nuova alluvione faccia esondare i fiumi dentro alle case per la quinta volta. Ma il piano non è ancora stato approvato dalla struttura commissariale. Senza quello, si può solo rattoppare.
«Sono due anni che ne sentiamo parlare – continua Bucchi – doveva uscire a luglio dell’anno scorso, poi più nulla. Ci hanno detto che dovrebbe essere pubblicato a breve, ma nel frattempo è passato un altro mese e mezzo». L’impazienza è tale che alcuni comitati hanno iniziato a presentare progetti autonomi. Nel quartiere Borgo di Faenza, la zona più colpita dalle inondazioni, i cittadini hanno scoperto che la Regione aveva commissionato già nel 2010 uno studio per creare un’area di laminazione del fiume Lamone. «Sono 15 anni che quel progetto giace nei cassetti – spiega Wilmer Della Vecchia, membro del comitato Borgo Alluvionato – se fosse stato attuato, non ci saremmo allagati due volte, a maggio 2023 e poi a settembre 2024». Il comitato ha lanciato una raccolta firme per sollecitare la Regione a riprendere il progetto, ma la risposta è sempre la stessa: prima servono i piani speciali.
A Borgo, chi abita al piano terra è ancora fuori casa, dopo l’ennesimo allagamento di settembre. Solo nel maggio 2023, in tutta l’Emilia-Romagna, si contano oltre 70.000 abitazioni danneggiate. Eppure i fondi del Governo sono stati erogati col contagocce, anche a causa della lentezza delle pratiche. «Qui chi ha ricevuto di più ha avuto 5000 euro come contributo di immediato sostegno – continua Della Vecchia – per ottenerne altri 5000 deve aspettare che si asciughino i muri e rendicontare tutte le spese». Diecimila euro su spese che spesso arrivano anche a 100.000. «Presentare domanda è complicatissimo – conferma Alessandra Bucchi da Forlì – servono tantissime perizie, i tecnici sono pochi e chi ha subìto danni per 100.000 euro deve anticiparne almeno la metà di tasca propria prima di chiedere il rimborso. Non tutti possono permetterselo. Abbiamo chiesto alla struttura commissariale di poter effettuare i pagamenti attraverso un sistema di rate parziali (SAL) ma non ci è mai stata data risposta».
Una decisione difficile
Nelle prossime settimane, alcuni abitanti delle zone più colpite potrebbero dover affrontare una nuova scelta: restare, col rischio di allagarsi di nuovo, o abbandonare per sempre le loro case. La Regione sta lavorando a un decreto sulle delocalizzazioni: chi deciderà volontariamente di lasciare casa riceverà un rimborso. Ma chi rifiuterà, non potrà più chiedere indennizzi in caso di nuovi allagamenti. Nella prima bozza del decreto, già compilata ai tempi del commissario Figliuolo, si parlava di 1800 euro a metro quadrato, cifra giudicata del tutto insufficiente. Ora si tratta col governo per aumentarla, ma non è chiaro chi potrà accedere al provvedimento.
Il presidente De Pascale ha spiegato che, almeno in una prima fase, il decreto riguarderà solo le situazioni più critiche: zone collinari ad altissimo rischio frane e abitazioni costruite nelle golene dei fiumi, come alcune case di Traversara, allagate tre volte dal Lamone nel giro di un anno e mezzo. Anche in questo caso, tuttavia, tutto resta incerto finché il decreto non sarà pubblicato.
Rincorrere l’emergenza
Pulizia dei corsi d’acqua, rinforzo degli argini, casse di espansione e delocalizzazioni nelle aree più a rischio: sono queste, in sintesi, le risposte parzialmente messe in campo finora. Ma tutte condividono lo stesso limite: affrontano le conseguenze, non le cause profonde. In Emilia-Romagna si è costruito troppo, ovunque. Il terreno, coperto da strati di cemento e asfalto, non riesce più ad assorbire l’acqua, soprattutto durante i violenti temporali sempre più frequenti e intensi a causa del cambiamento climatico.
«L’attuale modello ha sfruttato il suolo, costretto i fiumi e costruito edifici in maniera eccessiva – spiega il meteorologo di ARPAE Emilia-Romagna, Federico Grazzini – bisognerebbe fare l’esatto contrario: fermare l’urbanizzazione». Non esiste una bacchetta magica per tornare indietro, ma serve una visione coraggiosa, a lungo termine, che cambi radicalmente il rapporto con il territorio. Purtroppo, però, di quella visione oggi non c’è traccia. Anzi, nonostante una legge urbanistica regionale che dovrebbe teoricamente limitare il consumo di suolo, nel 2023 l’Emilia-Romagna è stata ancora una volta la seconda regione d’Italia dove si è costruito di più. Ed è così che si continua a rincorrere l’emergenza, tampone dopo tampone, mentre la terra sotto i piedi – e sotto le case – continua a cedere. Perché il vero problema non è la pioggia che cade, ma ciò che l’aspetta quando tocca terra.
Degli uomini armati hanno lanciato un attacco nello Stato sudorientale di Imo, in Nigeria, uccidendo almeno 30 persone. L’attacco è stato condotto su un’autostrada, dove gli aggressori avrebbero dato alle fiamme oltre 20 veicoli. Da quanto ha dichiarato il portavoce della polizia di Imo, Henry Okoye, all’agenzia di stampa Reuters, gli attentatori operavano in tre gruppi e avrebbero bloccato l’autostrada per poi iniziare a sparare sui veicoli prima di incendiarli. I sospetti ricadono sul gruppo separatista dei Popoli Indigeni del Biafra.
Il governo ha impugnato davanti alla Corte Costituzionale la legge toscana sul suicidio assistito. Non è ancora noto cosa il governo contesti alla legge. La regione era stata la prima in Italia ad approvare una legge in materia. Approvata lo scorso 11 febbraio, la legge toscana sul suicidio assistito si fonda sulla sentenza della Corte Costituzionale del 2019 e garantisce l’eventuale accesso alla pratica in meno di due mesi.
Una serie di terremoti insolitamente profondi ha spinto un team di ricercatori a riesaminare le fondamenta geologiche della Sierra Nevada, in California, portando a una scoperta sorprendente: la crosta terrestre sotto questa catena montuosa sta lentamente sprofondando nel mantello sottostante. È quanto emerge dal lavoro di due scienziate che hanno confrontato le loro analisi scoprendo risultati comuni e coerenti, poi dettagliati in un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Geophysical Research Letters. Secondo i dati analizzati, terremoti a profondità eccezionali e immagini del sottosuolo ottenute tramite onde sismiche dimostrerebbero che un fenomeno chiamato “sprofondamento litosferico” sarebbe già avvenuto nella zona meridionale e attualmente in corso nella zona centrale della Sierra Nevada. Si tratta di un processo che, secondo le autrici, potrebbe fornire indizi preziosi persino su come si sono formati i continenti e su cosa accade ancora oggi sotto la crosta terrestre.
La Sierra Nevada è una lunga catena montuosa che attraversa la California da nord a sud, separando la Great Valley dalle regioni interne degli Stati Uniti occidentali. È costituita in gran parte da rocce granitiche ed è una struttura geologicamente antica, formatasi da un arco vulcanico continentale ormai estinto. Da anni, è nota per infiammare il dibattito dei geologi, che discutono sulle anomalie osservate nel mantello sotto la Sierra e in particolare sotto la Great Valley: alcuni ritengono che fossero i resti di una placca oceanica in subduzione, mentre altri ipotizzano un processo di sprofondamento della litosfera, ovvero la parte più rigida ed esterna della Terra. Secondo lo studio recentemente pubblicato, vi sarebbero nuove prove a favore della seconda ipotesi. Le ricercatrici hanno combinato le analisi dei terremoti registrati negli ultimi decenni con una tecnica chiamata “funzione del ricevitore” – la quale consente di ricostruire la struttura interna della Terra osservando come le onde sismiche si rifrangono e si riflettono attraversando i diversi strati – ottenendo risultati tutt’altro che indifferenti.
In particolare, nella parte meridionale della catena montuosa il processo di sprofondamento sarebbe già terminato da milioni di anni, mentre nella regione centrale – in particolare sotto le colline occidentali della Sierra – sarebbe ancora in atto. Analizzando le onde sismiche e la loro diffusione, è stato rivelato uno strato distintivo sotto il confine tra crosta e mantello, con segni evidenti di deformazione verso ovest. Nella stessa zona, però, è stata registrata una sismicità eccezionalmente profonda, caratterizzata da eventi tra i 40 e i 45 chilometri, ovvero molto più bassi rispetto alla profondità tipica dei terremoti crostali in California. Il tutto, secondo gli esperti, sarebbe da considerare un comportamento coerente con il fatto che rocce dense e fredde stiano scivolando verso il basso, trascinate nel mantello sottostante. «Abbiamo scoperto che i miei segnali sismici e i suoi terremoti profondi si verificavano nella stessa area. Così abbiamo deciso di approfondire l’argomento e abbiamo scoperto tutta questa storia», ha commentato la coautrice Vera Schulte-Pelkum, aggiungendo che il fatto che a nord non si siano osservate tracce di deformazione sarebbe segno che il processo non è ancora iniziato. «Dobbiamo la nostra esistenza sulla Terra a questi processi in atto. Se la Terra non avesse creato i continenti, saremmo creature molto diverse… Ci siamo evoluti perché il pianeta si è evoluto in quel modo. Quindi, anche solo comprendere l’intero sistema di cui si fa parte, credo, abbia un valore, al di là del semplice minor danno economico e del minore impatto umano durante, ad esempio, un terremoto», ha concluso.
Nella Cisgiordania occupata la pulizia etnica portata avanti da Tel Aviv continua. Mentre Israele ha annunciato il suo piano di invasione totale di Gaza, qui la guerra silenziosa portata avanti da Tel Aviv si traduce in arresti, raids, espulsioni forzate e migliaia di demolizioni. Una piccola Nakba, condotta nel silenzio totale e assordante dei media e delle istituzioni internazionali. «Siamo al 103° giorno di invasione dei campi profughi di Tulkarem» dice A. K., abitante e attivista per i diritti umani della città del nord della Cisgiordania a L’Indipendente, che riferisce come «Il 1° maggio Israele ha annunciato la demolizione di altre 106 case. Ad oggi sono quasi 400 le case distrutte nei due campi cittadini. Con oltre 20 mila persone sfollate e altre 2500 case parzialmente demolite».
A. è impegnato da tutta la vita per la causa palestinese: vive a poche centinaia di metri dai due campi profughi, stretti in un assedio da ormai oltre tre mesi, ed è attivo nel sostegno alle migliaia di persone che sono state costrette a lasciare le proprie case recentemente.
«Le forze di occupazione stanno demolendo 58 strutture nel campo profughi di Tulkarem e 48 case in quello di Nur Shams», dice ancora. «I militari avevano detto che i residenti sarebbero potuti tornare a prendere le loro cose ma nemmeno questo è stato concesso a molti di loro. Vogliono distruggere i campi profughi, smantellando la loro composizione demografica, rendendoli quartieri residenziali sotto sorveglianza costante, presidi militari e checkpoints. Questa è l’offensiva più grossa che stiamo subendo dalla Seconda Intifada del 2002».
Non solo nel nord del Paese. «Le demolizioni sono continue in tutta la Cisgiordania», ricorda A. «A Betlemme, Al Khalil, Nablus… specialmente a Massafer Yatta [terra del film No other land, ndr], dove un intero villaggio beduino è stato demolito 3 giorni fa dalle forze di occupazione israeliana.» F. ha una cinquantina di anni. Al campo profughi di Tulkarem ci è nata e cresciuta, dopo che la sua famiglia era stata mandata via nel 1948 da un paesino intorno ad Haifa. F. la storia se la ricorda: ricorda da dove viene e perché si trova a vivere in un campo profughi da tutta la vita. Dalla quale ora sarebbe costretta ad andarsene. Ha perso 7 membri della sua famiglia dal 7 ottobre 2023, tutti uccisi dai militari d’Israele nelle continue aggressioni a Tulkarem Camp.
F. è rimasta tra le pochissime a vivere in casa sua, nascosta in silenzio tra quelle mura per paura di essere mandata via dai militari. «Pochi minuti fa varie persone hanno cercato di tornare alle loro case per recuperare le loro cose prima che venissero demolite», dice ieri per telefono a L’Indipendente. «I soldati hanno sparato. Tutti hanno iniziato a correre via. La situazione qui è così brutta…» la sua voce è rotta dalla tristezza. «Io vivo ancora nel campo. La mia casa è sempre chiusa… è buio, anche di giorno. Di notte non posso accendere la luce, stiamo in silenzio. Non possiamo accendere la televisione, nemmeno durante il giorno, perché ci sentono… fa paura, tutto… i militari possono arrivare e dire: questa non è casa tua. Vai fuori. È facile per loro!! e noi non abbiamo niente. Non abbiamo la nostra casa. Non abbiamo la nostra macchina. Non abbiamo i nostri bambini… in questa terra non abbiamo più niente. E in ogni momento possiamo perdere tutto, per la parola di un soldato… è sufficiente che arrivino qui e mi dicano “esci”. Siamo come criminali, perché vogliamo stare a casa nostra! Ci sparano perché torniamo alle nostre case. Ci sparano se camminiamo per strada. Sono tre mesi che le persone del campo non possono tornare a casa loro. Molti non hanno più nemmeno una casa dove tornare.» Sono almeno 13 le persone del campo uccise dall’inizio dell’assedio, tra cui due donne e un bambino. Centinaia gli arresti e i feriti.
«Ho molta paura. E non posso fare niente. La mia casa, il mio letto, non sono sicuri. Non c’è sicurezza, da nessuna parte… stiamo tutti soffrendo. Hanno preso tutto. Hanno preso la vita. Hanno preso i bambini, portati in prigione senza ragione… ora vanno per le strade e prendono chiunque… i campi profughi sono diventati basi militari per gli israeliani, dove portano le persone per interrogarle e torturarle! Non hanno bisogno di ragioni per fare quello che fanno. Distruggono le case, stanno facendo una strada demolendo le abitazioni. Questa è la situazione qui. Nessuno li sta fermando. Siamo soli qua.»
I comitati popolari, le istituzioni e i gruppi comunitari dei campi di Tulkarem e Nur Shams hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui esortano il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, le Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali per i diritti umani “ad agire e a fare pressione sulle autorità di occupazione israeliane affinché fermino immediatamente l’aggressione”. Ma, per ora, nessuna risposta.
Intanto l’aggressione continua anche a Jenin, la città forse più colpita dalla violenza militare israeliana. Oltre 600 le abitazioni completamente distrutte in questi 3 mesi di Operazione “Muro di Ferro”, con centinaia di arresti, 22 mila sfollati, e decine di morti.
Mentre gli occhi di tutti sono – giustamente – puntati su Gaza, il governo di Tel Aviv rafforza la sua politica espansionista e di occupazione permanente dei territori della West Bank. Cominciando proprio dai campi profughi del nord, le “piccole Gaza” della Cisgiordania.
L’Italia ha un serio problema di contaminazione del suolo, certificato per ultimo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che ha condannato il nostro Paese per non aver tutelato la salute degli abitanti della Terra dei Fuochi. Ma la Campania non è sola, accompagnata anzi da Sicilia, Lazio e Lombardia che risultano le regioni più colpite. Al momento si contano 41 siti di interesse nazionale (SIN) che coprono circa 149mila ettari di suolo contaminato. Nonostante le promesse fatte negli anni dall’intero spettro politico, soltanto il 6% di quest’area inquinata è stato bonificato. A denunciarlo è il rapporto “Le bonifiche in stallo” presentato da ACLI, AGESCI, ARCI, Azione Cattolica Italiana, Legambiente e Libera, le quali propongono una strategia in 12 punti per avviare una seria stagione di bonifica, capace di unire tutela della salute e creazione di nuovi posti di lavoro.
«In Italia manca una strategia nazionale per le bonifiche che metta a sistema il risanamento ambientale delle aree e la tutela della salute delle persone in una visione di riconversione industriale dei siti», scrivono le associazioni che tra le varie cose propongono il rafforzamento della collaborazione tra le diverse autorità coinvolte nel processo di bonifica; la semplificazione delle procedure; l’aumento dei fondi, pubblici e privati, e l’ammodernamento delle tecniche di bonifica, verso attività più sostenibili ed efficaci di quelle tradizionalmente svolte. Ad oggi il processo resta al palo: solo il 5% delle aree perimetrate (6.188 ettari su 148.598) ha il progetto di bonifica o di messa in sicurezza approvato e solo il 6% dei suoli (7.972 ettari su 148.598) ha raggiunto il traguardo della bonifica completa. La situazione non migliora se si considerano le acque sotterranee: soltanto il 2% di quelle contaminate ha visto un risanamento totale.
Nonostante ciò, intorno al risanamento ambientale ruota un giro d’affari da miliardi di euro, che si perdono tra ritardi burocratici e reati di omessa bonifica, con il risultato di continuare a esporre milioni di cittadini a gravi rischi per la salute. «Manca giustizia ambientale e sociale, serve un cambio passo affinché salute, lavoro e diritto allo sviluppo e all’occupazione, non restino parole vuote» – scrivono le sei associazioni della società civile, lanciando «un appello a Governo e istituzioni affinché si definisca una strategia nazionale per le bonifiche e contemporaneamente per la reindustralizzazione nell’ottica della transizione ecologica». Una via che in Italia stanno cercando di percorrere i lavoratori ex GKN senza un adeguato sostegno delle istituzioni.
La procura di Taranto ha disposto un sequestro probatorio senza facoltà d’uso per l’altoforno 1 dello stabilimento tarantino di Acciaierie d’Italia, ex ILVA. Il sequestro è stato ordinato all’indomani di un incendio che ha coinvolto lo stabilimento. L’indagine che ha portato al sequestro dell’altoforno 1 contesta i reati di omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro e getto pericoloso di cose. Lo stabilimento rimarrà chiuso per il tempo necessario alle indagini. L’azienda ha dichiarato che l’incendio sarebbe stato causato da «un’anomalia improvvisa» che avrebbe colpito il sistema di raffreddamento. Con il sequestro dell’altoforno 1, l’unico altoforno attualmente attivo rimane il numero 4.
Si è svolta questa mattina sulla Piazza Rossa di Mosca l’ormai tradizionale parata militare per commemorare l’80° anniversario della vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania nazista nella Seconda Guerra mondiale. Si tratta della festa non religiosa più importante in Russia: attesa da settimane, in un contesto in cui la guerra in Ucraina è lontana da un cessate il fuoco, non sono mancate le polemiche e le minacce circa la partecipazione di alcuni capi di Stato europei all’evento, cosa che ha confermato l’ostilità dell’Ue verso Mosca. Il capo della politica estera europea Kaja Kallas ha affermato, infatti, che la partecipazione di Stati membri dell’UE o di paesi candidati all’adesione all’UE alle celebrazioni del Giorno della Vittoria a Mosca «non sarà presa alla leggera», mentre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky giorni fa aveva detto in un video che i russi avevano ragione ad essere preoccupati per eventuali attacchi durante la parata. La Lituania ha addirittura deciso di chiudere il suo spazio aereo ai voli che avrebbero trasportato i capi di Slovacchia e Serbia a Mosca per assistere alla celebrazione.
Nonostante il sabotaggio dell’Ue, all’evento hanno partecipato oltre venti capi di Stato, tra cui quello cinese Xi Jinping, il presidente serbo Aleksandar Vucic e il primo ministro slovacco Robert Fico, il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva, il presidente della Bielorussia Alexander Lukashenko, il presidente cubano Miguel Diaz-Canel, il segretario generale del Partito comunista del Vietnam To Lam, il presidente egiziano Abdel Fattah El-Sisi, il presidente palestinese Mahmoud Abbas, il presidente venezuelano Nicolas Maduro, il presidente etiope Taye Atske Selassie, il presidente della Guinea-Bissau Umaro Sissoco Embalo e altri dignitari stranieri. Un’ampia partecipazione che ha dato modo alla Russia di dimostrare di essere tutt’altro che isolata. Il presidente russo non ha perso occasione per ribadire come tutta la Russia sostenga l’offensiva in Ucraina e, durante la manifestazione, si è seduto accanto al presidente cinese Xi Jinping, con cui ha tenuto ieri importanti colloqui.
Sulla Piazza Rossa, accanto alle truppe russe, hanno sfilato quelle di altre 13 Paesi, comprendenti i contingenti di Azerbaigian, Vietnam, Bielorussia, Egitto, Kazakistan, Cina, Kirghizistan, Laos, Mongolia, Myanmar, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. L’unità cinese ha rappresentato il contingente militare straniero più numeroso della parata. Quest’ultima è iniziata con la marcia del gruppo stendardi della Guardia d’Onore del Reggimento Preobraženskij, che portava la bandiera nazionale russa e la leggendaria Bandiera della Vittoria, quella issata sul Reichstag tedesco dai soldati della 150ª Divisione Fucilieri Idritskaja nel maggio 1945. Sugli 11.500 soldati che hanno marciato alla manifestazione, circa 1500 hanno combattuto in Ucraina e per la prima volta il Cremlino ha esibito i droni da combattimento utilizzati dalle sue forze armate nella guerra in Ucraina, in quella che la televisione di Stato ha definito una novità. Presenti anche i leggendari carri armati T-34 della Seconda Guerra Mondiale, uno dei principali simboli della Vittoria, che hanno sfilato tradizionalmente in testa alla colonna meccanizzata.
La vittoria nella Grande Guerra patriottica è una celebrazione dall’alto significato simbolico e, non a caso, è considerata in Russia la festa più importante tra quelle non religiose. Ciò si spiega col fatto che la Nazione eurasiatica ha avuto uno dei più alti numeri di caduti durante la guerra contro il nazifascismo: si stima, infatti, che l’Unione Sovietica perse 27 milioni di persone durante la guerra, tra cui molti milioni in Ucraina. Proprio per questo, il tentativo di boicottare il sacrificio russo da parte dei Paesi occidentali appare non solo ingiusto, ma politicamente fallimentare, in quanto conferma l’utilizzo di doppi standard da parte del cosiddetto “mondo libero”: se, da una parte, quest’ultimo tace sulle proprie malefatte (tra cui la guerra in Libia e l’invasione dell’Iraq con il pretesto menzognero della armi di distruzione di massa presenti negli arsenali di Saddam Hussein) e su quelle dei propri alleati, a partire dall’assedio di Gaza e lo sterminio dei palestinesi da parte del governo Netanyahu, dall’altra, non esita a colpire duramente i propri avversari geopolitici. Un modus operandi che l’Occidente porta avanti almeno fin dal 2015, in seguito all’annessione della Crimea da parte di Mosca. Tutto ciò non fa altro che compattare ancora di più il popolo russo, mentre Putin utilizza le suggestioni della Guerra Patriottica proprio per unire la popolazione nella guerra contro l’Ucraina.
In questo contesto, il presidente russo non ha criticato i Paesi liberal-democratici, ma al contrario ha riconosciuto il ruolo svolto dagli alleati occidentali nella vittoria contro il nazifascismo: «Apprezziamo profondamente il contributo dei soldati degli eserciti alleati, dei membri della resistenza, del coraggioso popolo cinese e di tutti coloro che hanno combattuto per un futuro di pace nella nostra lotta comune», ha affermato. Nel frattempo, la guerra in Ucraina procede e il capo del Cremlino ha implicitamente collocato su un piano di continuità la vittoria contro il nazifascismo e la guerra contro Kiev, affermando che «La Russia è stata e sarà un ostacolo invalicabile al nazismo, alla russofobia e all’antisemitismo e combatterà contro le atrocità commesse dai seguaci di queste convinzioni aggressive e distruttive. La verità e la giustizia sono dalla nostra parte».
Il Parlamento europeo ha approvato la modifica dello status di protezione dei lupi da “strettamente protetti” a “protetti”. Con 371 voti a favore, 162 contrari e 37 astensioni, l’Eurocamera ha sostenuto la modifica della direttiva Habitat proposta della Commissione, che ora attende il via libera del Consiglio per l’approvazione definitiva. Il cambio di status permetterà agli Stati membri di avere «una maggiore flessibilità nella gestione delle popolazioni di lupi al fine di migliorare la coesistenza con gli esseri umani e ridurre al minimo l’impatto della crescente popolazione di lupi in Europa», come si legge sul sito del Parlamento europeo. In poche parole, gli Stati membri potranno procedere con meno restrizioni all’abbattimento dei lupi, con l’unico vincolo di «continuare a garantire uno stato di conservazione soddisfacente» dell’animale – la cui popolazione è oggi stimata in 20mila esemplari in tutta Europa. Una mossa che ha presto suscitato l’indignazione delle associazioni ambientaliste.
Il declassamento dello status di protezione del lupo «potrebbe portare a un aumento degli abbattimenti legali e illegali, con conseguenze devastanti per la popolazione di lupi in Europa», ha dichiarato il Forum Ambientalista Puglia, una delle oltre trecento tra associazioni e organismi tecnico-scientifici contrari alla riduzione della protezione dei lupi. «Inoltre – rincalza l’organizzazione ambientalista – gli studi scientifici hanno dimostrato che la caccia al lupo non risolve il problema delle predazioni sul bestiame e può addirittura peggiorarlo». Proprio i conflitti con le attività umane, in particolare per quanto riguarda il bestiame, sono stati individuati dalla Commissione come la giustificazione principale del declassamento, nonostante le evidenze scientifiche contrastanti. Ad ogni modo, se la modifica dovesse diventare realtà con l’approvazione del Consiglio, I Paesi UE potranno scegliere di mantenere lo status di specie strettamente protetta nella legislazione nazionale, nonché applicare misure più rigorose per la sua tutela.
Persa dunque la partita a Bruxelles, gli sforzi delle associazioni ambientaliste si concentreranno sul campo nazionale. Per quanto riguarda l’Italia, la sfida non si prospetta facile con l’attuale maggioranza al governo. La Lega, come rivendicato dall’europarlamentare Paolo Borchia, è sempre stata in prima linea nella richiesta di una revisione dello status del lupo. Esulta anche Fratelli d’Italia, con la senatrice Annamaria Fallucchi che ha salutato con entusiasmo la modifica.
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